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Giovan Domenico Campanella  nacque  a Stilo,  attualmente  in  provincia  di Reggio Calabria,  il 5 settembre 1568, come egli stesso  più volte afferma  nei  suoi scritti e come  dichiarò il 23 novembre 1599 nel carcere di Castel Nuovo a Napoli, al giudice Antonio Peri: «son di una terra chiamata Stilo in Calabria ultra, mio padre si domanda Geronimo Campanella e mia madre Caterina Basile». Fino al 1806 si conservava anche l'atto di battesimo nella parrocchia di San Biagio, borgo di Stilo, così redatto: «A dì 12 settembre 1568, battezzato Giovan Domenico Campanella figlio di Geronimo e Catarinella Martello, nato il giorno 5, da me D. Terentio Romano, parroco di S. Biaggio [sic] nel Borgo» Il padre era un ciabattino povero e analfabeta che non poteva permettersi di mandare i figli a scuola e Giovan Domenico ascoltava dalla finestra le lezioni del maestro del paese, segno precoce di quella voglia di conoscenza che non l’abbandonò per tutta la vita.
Nel 1581 la famiglia si trasferì nella vicina Stignano e nella primavera del 1582 il padre pensò di mandare il figlio presso un fratello, a Napoli, perché vi studiasse diritto, ma il giovane Campanella, per il desiderio di seguire corsi regolari di studi e abbandonare un destino di miseria, più che per una reale vocazione religiosa, decise di entrare nell'Ordine domenicano. Novizio nel convento della vicina Placanica, vi fece i primi studi e pronunciò i voti a quindici anni nel convento di San Giorgio Morgeto, assumendo il nome di Tommaso (in onore di san Tommaso d'Aquino, continuando gli studi superiori a Nicastro dal 1585 al 1587 e poi, a vent’anni, a Cosenza, dove affrontò lo studio della teologia.
L'istruzione ricevuta dai domenicani non lo soddisfa e non gli è sufficiente: «essendo inquieto, perché mi sembrava una verità non sincera, o piuttosto falsità in luogo della verità rimanere nel Peripato, esaminai tutti i commentatori d'Aristotele, i greci, i latini e gli arabi; e cominciai a dubitare ancor più dei loro dogmi, e perciò volli indagare se le cose ch'essi dicevano fossero nella natura, che io avevo imparato dalle dottrine dei sapienti essere il vero codice di Dio. E poiché i miei maestri non potevano rispondere alle miei obiezioni contro i loro insegnamenti, decisi di leggere da me tutti i libri di Platone, di Plinio, di Galeno, degli stoici, dei seguaci di Democrito e principalmente i Telesiani, e metterli a confronto con il primo codice del mondo per sapere, attraverso l'originale e autografo, quanto le copie contenessero di vero o di falso»
Fu in particolare il De rerum natura iuxta propria principia di Bernardino Telesio una rivelazione e una liberazione insieme: scoprì che non esisteva soltanto la filosofia scolastica e che la natura poteva essere osservata per quello che è, e poteva e doveva essere indagata con i mezzi concreti posseduti dall’uomo, con i sensi e con la ragione, prima osservando e poi ragionando, senza schemi precostituiti e senza mandare a memoria quanto altri credevano di aver già scoperto e di conoscere su di essa. Era il 1588 e Telesio, che da anni era tornato a vivere nella nativa Cosenza, vi moriva ottantenne proprio in quei giorni. Il neofita frate entusiasta non poté sottrarsi a deporre sulla bara, nel duomo, versi latini di ringraziamento devoto.
Quelle che dai suoi superiori furono considerate intemperanze gli costarono il trasferimento nel piccolo convento di Altomonte dove tuttavia il Campanella non rimase inattivo: la segnalazione di alcuni amici, che gli mostrarono il libro di un certo Jacopo Antonio Marta, napoletano, scritto contro l'amato Telesio, lo spinse a replicare e nell'agosto del 1589 concluse quella che è la sua prima opera, la Philosophia sensibus demonstrata, pubblicata a Napoli due anni dopo.
In essa Campanella ribadisce la sua adesione al naturalismo di Telesio, inquadrato però in una cornice neoplatonica, di derivazione ficiniana, per la quale le leggi della natura non mantengono più la loro autonomia, come in Telesio, ma sono spiegate dall'azione creatrice di Dio, dal quale deriva anche l'ordine provvidenziale che governa l'universo: «chi regola la natura è quel glorioso Iddio, sapientissimo artefice, che ha provveduto in modo da non reprimere le forze della natura, nella quale tuttavia agisce con misura».
Campanella non poteva rimanere a lungo ad Altomonte: alla fine del 1589 abbandona il convento calabrese e se ne va a Napoli, ospite dei marchesi del Tufo. Nella capitale del viceregno, pur non abbandonando l'abito di frate, è tutto inteso ad approfondire i suoi interessi neoplatonici e scientifici, che allora erano connessi strettamente con gli studi alchemici e magici: «scrissi due opere, l'una del senso, l'altra della investigazione delle cose. A scrivere il libro De sensu rerum mi spinse una disputa avuta prima in pubblico, poi in privato con Giovanni Battista Della Porta, lo stesso che scrisse la Fisiognomica, il quale sosteneva che della simpatia e dell'antipatia non si può rendere ragione; disputa con lui avuta appunto quando esaminavamo insieme il suo libro già stampato. Scrissi poi il De investigatione rerum, perché mi pareva che i peripatetici ed i platonici portassero i giovani per una via larga ma non diritta alla ricerca della verità».
Il De sensu rerum et magia, iniziato a scrivere in latino nel 1590, fu completato e dedicato al granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici nel 1592; sequestratogli il manoscritto a Bologna dal Sant'Uffizio, fu riscritto in italiano nel 1604, tradotto in latino nel 1609 e pubblicato finalmente nel 1620 a Francoforte. Campanella vi persegue una sintesi di naturalismo telesiano e di platonismo: a Democrito e ai materialisti rimprovera di voler far derivare l'ordine del mondo all'azione degli atomi, che non hanno sensibilità, e agli aristotelici la mancata iniziativa di Dio nella costituzione della natura. D'altra parte egli non intende nemmeno sacrificare l'autonomia delle forze che agiscono nella natura, pur se la spiegazione ultima delle cose va ricercata nella primitiva azione divina.
Secondo Campanella, i tre principi, materia, caldo e freddo, di cui è composta la natura, sono frutto della creazione divina: «Dio prima fece lo spazio, composto pure di Potenza, Sapienza e Amore [...] e dentro a quello pose la materia, che è la mole corporea [...] Nella materia poi Dio seminò due principi maschi, cioè attivi, il caldo e il freddo, perché la materia e lo spazio sono femmine, principi passivi. E questi maschi, da codesta materia divisa, combattendo, formano due elementi, cielo e terra, che combattendo tra loro, dalla loro virtù fatta languida nascono i secondi enti, avendo per guida della generazione le tre influenze, la Necessità, il Fato e lArmonia, che portano lIdea».
Le tre primalità (primalitates) - che corrispondono alle tre nature divine - costituiscono il triplice carattere di ogni essere: Dio «ha dato a tutte le cose potenza di vivere, sapienza e amore quanto basti alla loro conservazione [...] Dunque il calore può, sente e ama essere, e così ogni cosa, e desidera eternarsi come Dio e attraverso Dio nessuna cosa muore ma si muta soltanto, anche se ogni cosa pare morta all'altra e in verità è morta, così come il fuoco pare cattivo al freddo ed è veramente cattivo per lui, ma per Dio ogni cosa è viva e buona». Se si considera ogni cosa nel tutto ci si rende conto che nulla muore veramente: «muore il pane e si fa chilo, questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervi, ossa, spirito, seme e patisce varie morti e vite, dolori e piaceri».
Dalla Potenza le cose sono solo perché possono essere e hanno una determinata natura, Dio attraverso questa potenza dona la Necessità alle cose, la Sapienza permette alle cose di conoscere il Fato, ossia il saper vedere la successione di causa-effetto nei processi naturali e infine l'Amore permette l'Armonia fra gli esseri, perché questi amano essere così e non diversamente: «tutti gli enti si compongono di Potenza, Sapienza e Amore e ognuno è perché può essere, sa essere e ama essere, combatte contro il non essere e, quando gli manca il potere o il sapere o l'amore dell'essere, muore e si trasmuta in chi ne ha di più».
Tutte le cose hanno sensibilità: «Tanta sciocchezza è negare il senso alle cose perché non hanno occhi, né bocca, né orecchie, quanto è negare il moto al vento perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha denti, e il vedere a chi sta in campagna perché non ha finestre da cui affacciarsi e all'aquila perché non ha occhiali. La medesima sciocchezza indusse altri a credere che Dio abbia certo corpo e occhi e mani».
Inoltre Campanella ci parla anche delle primalità del non-essere, presenti inevitabilmente nel mondo finito, che sono l’Impotenza l’Insipienza e l’Odio: solo in Dio, che è infinito, le primalità dell'essere non sono contrastate dalle primalità del non-essere. A queste tre primalità si contrappongono le potenze negative, che possono variamente combinarsi alle primalità nell'ambito delle varie forme della magia, che è l'insieme delle regole che vanno osservate per intervenire nella natura. Il mago è il sapiente che scopre le relazioni esistenti tra le cose: «beato chi legge nel libro della natura, e impara quello che le cose sono, da esso e non dal proprio capriccio, e impara così l'arte e il governo divino, facendosi di conseguenza, con la magia naturale, simile e unanime a Dio».
La magia si manifesta attraverso le sensazioni, che possono essere negative o positive: sensazioni che l’uomo coglie, e che gli fanno capire di essere parte integrante di un ordine universale; tuttavia, nonostante sia parte di questo ordine, può opporsi a tale ordine, e se si oppone all’ordine universale la magia è negativa, se invece si armonizza, ovvero cerca di seguire l’ordine universale, allora la magia è positiva.

- Il primo processo

La pubblicazione della Philosophia sensibus demonstrata provoca scandalo nel convento di San Domenico: un domenicano che non frequenta il convento e che rifiuta Aristotele e San Tommaso per Telesio non può essere un buon cattolico. Anche se nessuna affermazione eretica è contenuta nel libro, in un giorno imprecisato del 1591 Campanella è arrestato dalle guardie del nunzio apostolico con l'accusa di pratiche demoniache. Non si conoscono gli atti del processo ma è conservato il testo della sentenza, emessa in San Domenico il 28 agosto 1592, contro «frater Thomas Campanella de Stilo provinciae Calabriae» dal padre provinciale di Napoli, fra Erasmo Tizzano e da altri giudici domenicani. L'accusa di praticare con il demonio e di aver pronunciato una frase irriverente contro l'uso delle scomuniche vengono a cadere, ma resta quella di essere un telesiano, di non tener conto dell'ortodossia filosofica di Tommaso d'Aquino e di essere stato per mesi «in domibus saecolarium extra religionem»: dopo quasi un anno di carcere già scontato, è allora sufficiente che reciti dei salmi e torni, entro otto giorni, nel suo convento di Altomonte.
Naturalmente, Campanella si guardò bene dall'ubbidire all'ordine del tribunale, che lo avrebbe costretto a rinunciare, a soli 24 anni, a un mondo di cultura nel quale egli era convinto di poter offrire un contributo fondamentale. Così, munito di una lusinghiera lettera di presentazione al granduca di Toscana, rilasciatagli dall'amico ed estimatore, il padre provinciale di Calabria fra Giovanni Battista da Polistena, il 5 settembre 1592 fra Tommaso partiva da Napoli alla volta di Firenze, con il suo carico di libri e manoscritti, contando su di un posto di insegnante a Pisa o a Siena.
La prudente diffidenza di Ferdinando I, che non mancò di chiedere informazioni sul suo conto al cardinale Del Monte, ottenendo una risposta negativa, spinse il 16 ottobre Campanella a lasciare Firenze per Bologna, dove l'Inquisizione, che lo sorveglia, per mezzo di due falsi frati gli ruba gli scritti che si porta appresso, per poterli esaminare in cerca di prove a suo danno.

- Il secondo e il terzo processo

Ai primi del 1593 Campanella è a Padova, ospite del convento di Sant'Agostino. Qui, tre giorni dopo il suo arrivo, il Padre generale del convento viene notte tempo sodomizzato da alcuni frati, senza che egli possa identificarli, e perciò, fra i tanti sospettati del grave abuso, anche il Campanella è messo sotto inchiesta. Non si sa se dall'inchiesta si passò a un processo che abbia visto imputato, tra gli altri frati, anche Campanella: in ogni caso egli ne uscì innocente.
Rimase a Padova, probabilmente con la speranza di trovarvi lavoro, vi incontrò Galileo e conobbe il medico e filosofo veneziano Andrea Chiocco. Ma il lo teneva ormai sotto osservazione: alla fine del 1593 o all'inizio del 1594 fu nuovamente arrestato. Fu accusato di:

- aver scritto l'opuscolo De tribus impostoribus - Mosè, Gesù e Maometto - diretto contro le tre religioni monoteiste, un libro della cui esistenza allora si
    favoleggiava, ma che nessuno aveva mai letto;
- sostenere le opinioni atee di Democrito, evidentemente un'accusa tratta dall'esame del suo scritto De sensu rerum et magia, rubatogli a Bologna;
- essere oppositore della dottrina e dell'istituzione della Chiesa;
- essere eretico;
- aver disputato su questioni di fede con un giudaizzante, forse condividendone le tesi, e di non averlo comunque denunciato;
- aver scritto un sonetto contro Cristo, il cui autore sarebbe stato però, secondo Campanella, Pietro Aretino;
- possedere un libro di geomanzia, che in effetti gli fu sequestrato al momento dell'arresto.

A Padova, in un primo tempo gli furono contestate solo le ultime tre accuse: per estorcere le confessioni, Campanella e due imputati presunti «giudaizzanti», Ottavio Longo, originario di Barletta, e Giovanni Battista Clario, di Udine, medico dell'arciduca Carlo d'Asburgo, furono sottoposti a tortura. Nel frattempo, dall'esame del suo De sensu rerum, fatto a Roma, dovettero trarsi nuove imputazioni che richiesero lo spostamento del processo da Padova a Roma, dove infatti Campanella fu condotto e rinchiuso nel carcere dell'Inquisizione l'11 ottobre 1594.
Per difendersi dalle nuove accuse di essere oppositore della Chiesa, Campanella scrisse già nel carcere padovano un De monarchia Christianorum, perduto, e il De regimine ecclesiae, ai quali fece seguito, nel 1595, per contestare l'accusa di intelligenza con i protestanti, il Dialogum contra haereticos nostri temporis et cuisque saeculi e, a difesa dell'ortodossia di Telesio e dei suoi seguaci, la Defensio Telesianorum ad Sanctum Officium. La tortura cui fu sottopposto nell'aprile del 1595 segnò la pratica conclusione del processo: il 16 maggio Campanella abiurava nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva e veniva confinato nel convento domenicano di Santa Sabina, sul colle Aventino.

- Il quarto processo

Le disavventure giudiziarie di Campanella non finirono però qui. Il 31 dicembre 1596 era stato liberato dal confino di Santa Sabina e assegnato al convento di Santa Maria sopra Minerva; intanto, a Napoli, un concittadino di Campanella, condannato a morte per reati comuni, Scipione Prestinace, prima di essere giustiziato il 17 febbraio 1597, forse per ritardare l'esecuzione, denunciava diversi suoi conterranei e il Campanella in particolare, accusandolo di essere eretico: così, il 5 marzo, Campanella fu nuovamente arrestato.
Non si conoscono i precisi contenuti della deposizione del Prestinace né i dettagli del nuovo processo, che si concluse il 17 dicembre 1597: nella sentenza, Campanella è assolto dalle imputazioni e, diffidato dallo scrivere, liberato «sub cautione iuratoria de se representando toties quoties», finché, consegnato ai suoi superiori, questi lo confinino in qualche convento «senza pericolo e scandalo».
In tutto questo periodo di tempo, il Campanella non era certamente rimasto inoperoso nemmeno sotto l'aspetto della produzione speculativa e letteraria: oltre agli scritti difensivi del De monarchia, del Dialogo contro Luterani e del De regimine, e ai Discorsi ai prìncipi d'Italia, che è un tentativo di captatio benevolentiae all'indirizzo della Spagna, giustificato dalla difficile situazione giudiziaria, scrisse l' Epilogo magno, destinato a essere integrato nella successiva Philosophia realis, il Prodromus philosophiae instaurandae, pubblicato nel 1617, l' Arte metrica, dedicata al compagno di sventura Giovan Battista Clario, la Poetica, dedicata al cardinale Cinzio Aldobrandini, e i perduti Consultazione della repubblica Veneta, Syntagma de rei equestris praestantia, De modo sciendi e Physiologia.

- Il quinto processo

Ai primi del 1598 Campanella prese la via di Napoli, dove si fermò diversi mesi, dando lezioni di geografia, scrivendo le perdute Cosmographia e Encyclopaedia facilis, e terminando l' Epilogo Magno. In luglio s'imbarcò per la Calabria: sbarcato a Sant'Eufemia, raggiunse Nicastro e di qui, il 15 agosto, Stilo, ospite del convento domenicano di Santa Maria di Gesù.
Per poco tempo il Campanella rimase tranquillo in convento, dove scrisse il piccolo trattato De predestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae, nel quale afferma la dottrina cattolica del libero arbitrio. In un abbozzo dei suoi Articuli prophetales, appare già l’attesa del nuovo secolo che gli sembra annunciato da fenomeni straordinari: inondazioni del Po e del Tevere, allagamenti e terremoti in Calabria, il passaggio di una cometa, profezie e coincidenze astrologiche. Un nuovo mondo sembra alle porte, a sostituire il vecchio che in Calabria, ma non solo, vedeva «i soprusi dei nobili, la depravazione del clero, le violenze d'ogni specie [...] la Santa Sede [...] sanciva i soprusi e proteggeva i prepotenti. Il clero minore, corrottissimo nei costumi, abusava ogni giorno più delle immunità ecclesiastiche, e profanava in ogni modo il suo ufficio. Fazioni avverse contendevano talvolta aspramente tra loro, e non poche lotte erano coronate da omicidi e delitti d'ogni specie. Gruppi di frati si davano alla campagna, e, forniti di comitive armate, agivano come banditi, senza che il governo riuscisse a colpirli [...] I nobili e le famiglie private, dilaniate da inimicizie ereditarie, tenevano agitato il paese con combattimenti incessanti tra fazioni [...] l'estrema severità delle leggi, che comminavano la pena di morte per moltissimi delitti anche minimi [...] la frequenza delle liti e delle contese, aumentavano in maniera preoccupante il numero dei banditi».
In tale situazione di degrado e nell'illusione di un rivolgimento già scritto nelle stelle, Campanella progettò, senza preoccuparsi di valutare realisticamente le possibilità di realizzazione, la costituzione in Calabria di una repubblica ideale, comunistica e insieme teocratica. Era necessario per questo cacciare gli Spagnoli, ricorrendo anche all'aiuto dei Turchi: cominciò a predicare dai primi mesi del 1599 l'imminente ed epocale rivolgimento, intessendo nell'estate una fitta trama di contatti con le poche decine di congiurati che aderirono a quella fantastica impresa. Le autorità ebbero ben presto sentore del tentativo di insurrezione e in agosto truppe spagnole intervennero a rafforzare i presidi. Il 17 agosto Campanella fuggì dal convento di Stilo nascondendosi prima a Stignano, poi nel convento di Santa Maria di Titi, infine, nascosto in casa di un amico, progettò di imbarcarsi da Roccella ma venne tradito e consegnato il 6 settembre agli spagnoli. Incarcerato a Castelvetere, il 10 settembre firmò una confessione nella quale fece i nomi dei principali congiurati, negando ogni sua partecipazione all'impresa. Ma le testimonianze dei suoi complici erano concordi nell'indicarlo come capo della cospirazione.
Trasferito a Napoli insieme ai suoi compagni di avventura, Campanella fu rinchiuso in Castel Nuovo. Il 23 novembre 1599 avvenne il riconoscimento formale dell'accusato, descritto come «giovane con barba nera, vestito di abiti civili, con cappello nero, casacca nera, calzoni di cuoio e mantello di lana». Il Santo Uffizio non ottenne dall'autorità spagnola che i religiosi imputati - Campanella e altri sette frati domenicani - fossero trasferiti a Roma e Papa Clemente VIII, l'11 gennaio 1600, nominò il nunzio a Napoli, Jacopo Aldobrandini e don Pedro de Vera, che fu fatto ecclesiastico per l'occasione, giudici nel processo che si sarebbe tenuto a Napoli. Ad essi venne aggiunto il 19 aprile il domenicano Alberto Tragagliolo, vescovo di Termoli, già consultore nel primo processo, scelto dal papa per trattare in modo favorevole Campanella, poiché Clemente VIII era, anche se prudentemente, antispagnolo.
Campanella era passato sotto la giurisdizione del Sant'Uffizio che nessun tribunale statale poteva violare, nemmeno nei casi di lesa maestà. Ciò permise di ritardare la prevedibile condanna a morte del frate. Durante il processo presieduto dal vescovo Benedetto Mandina, Campanella, sotto tortura, riconobbe le proprie eresie e, in quanto relapso, diventava passibile della pena capitale. La sua strategia di difesa, disperata e rischiosissima, fu quella di fingersi pazzo poiché un eretico insano di mente non poteva essere messo a morte dal Sant'Uffizio.
I giudici, dubbiosi, lo sottoposero il 18 luglio, per un'ora, al supplizio della corda per fargli confessare la simulazione ma egli resistette, rispondendo alle domande cantando o dicendo cose senza senso. L'accettazione da parte dei giudici della pazzia avvenne il 4 e 5 giugno 1601, durante una terribile seduta di tortura denominata "la veglia" che consistette in 40 ore di corda alternata al cavalletto, con tre brevi interruzioni. La resistenza morale e fisica di Campanella gli permisero di superare la prova anche se rimase poi tra la vita e la morte per sei mesi.
Trascorse 27 anni in prigione a Napoli. Durante la prigionia scrisse le sue opere più importanti: La Monarchia di Spagna (1600), Aforismi Politici (1601), Atheismus triumphatus (1605-1607), Quod reminiscetur (1606?), Metaphysica (1609-1623), Theologia (1613-1624), e la sua opera più famosa, La città del Sole (1602), in cui vagheggiava l'instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di giustizia naturale. Egli addirittura intervenne nel primo processo contro Galileo Galilei con la sua coraggiosa Apologia di Galileo (1616).
Fu infine scarcerato nel 1626, grazie a Maffeo Barberini, arcivescovo di Nazaret a Barletta, poi papa col nome di Papa Urbano VIII, che personalmente intercedette presso Filippo IV di Spagna. Campanella fu portato a Roma e tenuto per qualche tempo presso il Sant'Uffizio, e fu liberato definitivamente nel 1629. Visse per cinque anni a Roma, dove fu il consigliere di Urbano VIII per le questioni astrologiche.
Nel 1634 però, una nuova cospirazione in Calabria, portata avanti da uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi problemi. Con l'aiuto del cardinale Barberini e dell'ambasciatore francese de Noailles, fuggì in Francia, dove fu benevolmente ricevuto alla corte di Luigi XIII. Protetto dal cardinale Richelieu, e finanziato dal Re, passò il resto dei suoi giorni al convento parigino di Saint-Honoré. Il suo ultimo lavoro fu un poema che celebrava la nascita del futuro Luigi XIV (Ecloga in portentosam Delphini nativitatem).
Gli è stato dedicato un asteroide, 4653 Tommaso.


Opere principali



Tommaso Campanella  al secolo Giovan Domenico Campanella
Stilo, 5 settembre 1568 – Parigi, 21 maggio 1639
TOMMASO CAMPANELLA
Tommaso Campanella
in un dipinto di Francesco Cozza

1590 - De sensu rerum et
          magia

1598 - Monarchia di Spagna

1602 - La Città del Sole

1604 - Il senso delle cose e la
          magia 

1604-09 - Epilogo magno

1606-14 - Philosophia rationalis

1613-24 - Theologia

1619 - Philosophia realis

1621 - Poesie Filosofiche

1623 - Apologia pro Galileo

1623 -38 -  Metaphisica

1631 - Atheismus triumphatus

1636 - Monarchia di Francia