CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS



La bellezza dell'universo
Poemetto

Del pensiero di Dio candida figlia,
Prima d'Amor germana, e di Natura
Amabile compagna e maraviglia;

Madre di dolci affetti, e dolce cura
Dell'uom, che varca pellegrino errante
Questa valle d'esilio e di sciagura,

Vuoi tu, diva Bellezza, un risonante
Udir inno di lode, e nel mio petto
Un raggio tramandar del tuo sembiante?

Senza la luce tua l'egro intelletto
Langue oscurato, e i miei pensier sen vanno
Smarriti in faccia al nobile subbietto.

Ma qual principio al canto, o Dea, daranno
Le Muse? e dove mai degne parole
Dell'origine tua trovar potranno?

Stavasi ancora la terrestre mole
Del Caos sepolta nell'abisso informe,
E sepolti con lei la Luna e il Sole,

E tu del sommo Facitor su l'orme
Spaziando, con esso preparavi
Di questo Mondo l'ordine e le forme.



V'era l'eterna Sapienza, e i gravi
Suoi pensier ti venìa manifestando
Stretta in santi d'amor nodi soavi.

Teco scorrea per l'Infinito; e quando
Dalle cupe del Nulla ombre ritrose
L'onnipossente creator comando

Sbucar fe' tutte le mondane cose,
E al guerreggiar degli elementi infesti
Silenzio e calma inaspettata impose,

Tu con essa alla grande opra scendesti,
E con possente man del furibondo
Caos le tenebre indietro respingesti,

Chè con muggito orribile e profondo
Là del Creato su le rive estreme
S'odon le mura flagellar del Mondo;

Simili a un mar che per burrasca freme,
E, sdegnando il confine, le bollenti
Onde solleva, e il lido assorbe e preme.

Poi ministra di luce e di portenti
Del ciel volando pei deserti campi
Seminasti di stelle i firmamenti:

Tu coronasti di sereni lampi
Al Sol la fronte; e per te avvien che il crine
Delle comete rubiconde avvampi;

Che agli occhi di quaggiù, spogliate alfine
Del reo presagio di feral fortuna,
Invìan fiamme innocenti e porporine.

Di tante faci alla silente e bruna
Notte trapunse la tua mano il lembo,
E un don le fèsti della bianca Luna;

E di rose all'Aurora empiesti il grembo,
Che poi sovra i sopiti egri mortali
Piovon di perle rugiadose un nembo.

Quindi alla terra indirizzasti l'ali,
Ed ebber dal poter de' tuoi splendori
Vita le cose inanimate e frali.

Tumide allor di nutritivi umori
Si fecondar le glebe, e si fèr manto
Di molli erbette e d'olezzanti fiori.

Allor, degli occhi lusinghiero incanto,
Crebber le chiome ai boschi; e gli arbuscelli
Grato stillar dalle cortecce il pianto;

Allor dal monte corsero i ruscelli
Mormorando, e la florida riviera
Lambir freschi e scherzosi i venticelli.

Tutta del suo bel manto Primavera
Copria la terra: ma la vasta idea
Del gran Fabbro compita ancor non era.


Vincenzo Monti   -   LIRICHE - CANTI E ALTRO



Di sua vaghezza inutile parea
Lagnarsi il suolo; e con più bel desiro
Sguardo e amor di viventi alme attendea.

Tu allor dipinta d'un sorriso, in giro
Dei quattro venti su le penne tese
L'aura mandasti del divin Sopiro.

La terra in sen l'accolse, e la comprese,
E un dolce movimento, un brividio
Serpeggiar per le viscere s'intese;

Onde un fremito diede, e concepio;
E il suol, che tutto già s'ingrossa, e figlia
La brulicante superficie, aprio.

Dalle gravide glebe, oh maraviglia!
Fuori allor si lanciò scherzante e presta
La vaga delle belve ampia famiglia.

Ecco dal suolo liberar la testa,
Scuoter le giubbe, e tutto uscir d'un salto
Il biondo imperator della foresta:

Ecco la tigre, e il leopardo in alto
Spiccarsi fuora della rotta bica,
E fuggir nelle selve a salto a salto:

Vedi sotto la zolla, che l'implica,
Divincolarsi il bue, che pigro e lento
Isviluppa le gran membra a fatica:

Vedi pien di magnanimo ardimento
Sovra i piedi balzar ritto il destriero,
E nitrendo sfidar nel corso il vento;

Indi il cervo ramoso, ed il leggiero
Daino fugace, e mille altri animanti,
Qual mansueto, e qual ritroso e fiero.

Altri per valli e per campagne erranti,
Altri di tane abitator crudeli,
Altri dell'uomo difensori e amanti.

E lor di macchia differente i peli
Tu di tua mano dipingesti, o Diva,
Con quella mano, che dipinse i cieli.

Poi de' color più vaghi, onde l'estiva
Stagion delle campagne orna l'aspetto,
E de' freschi ruscei smalta la riva,

L'ale spruzzasti al vagabondo insetto,
E le lubriche anella serpentine
Del più caduco vermicciuol negletto.

Nè qui ponesti all'opra tua confine;
Ma vie più innanzi la mirabil traccia
Stender ti piacque dell'idee divine.

Cinta adunque di calma e di bonaccia
Delle marine interminabil onde
Lanciasti un guardo su l'azzurra faccia.

Penetrò nelle cupe acque profonde
Quel guardo, e con bollor grato Natura
Intiepidille, e diventar feconde;

E tosto varj d'indole e figura
Guizzaro i pesci, e fin dall'ime arene
Tutta increspar la liquida pianura:

I delfin snelli colle curve schiene
Uscir danzando; e mezzo il mar copriro
Col vastissimo ventre orche e balene.

Fin gli scogli e le sirti allor sentìro
Il vigor di quel guardo e la dolcezza,
E di coralli e d'erbe si vestìro.

Ma che? Non son, non sono alma Bellezza,
Il mar, le belve, le campagne, i fonti
Il sol teatro della tua grandezza.

Anche sul dorso dei petrosi monti
Talor t'assidi maestosa, e rendi
Belle dell'alpi le nevose fronti:

Talor sul giogo abbrustolato ascendi
Del fumante Etna, e nell'orribil veste
Delle sue fiamme ti ravvolgi e splendi.

Tu del nero aquilon su le funeste
Ale per l'aria alteramente vieni,
E passeggi sul dorso alle tempeste:




Ivi spesso d'orror gli occhi sereni
Ti copri, e mille intorno al capo accenso
Rugghiano i tuoni, e strisciano i baleni.

Ma sotto il vel di tenebror sì denso
Non ti scorge del vulgo il debil lume,
Che si confonde nell'error del senso.

Sol ti ravvisa di Sofia l'acume,
Che nelle sedi di Natura ascose
Ardita spinge del pensier le piume:

Nel danzar delle stelle armoniose
Ella ti vede, e nell'occulto amore,
Che informa, e attragge le create cose:

Te ricerca con occhio indagatore
Di botaniche armato acute lenti
Nelle fibre or d'un'erba ed or d'un fiore:

Te dei corpi mirar negli elementi
Sogliono al gorgoglio d'acre vasello
I Chimici curvati e pazienti:

Ma più le tracce del divin tuo bello
Discopre la sparuta Anatomia
Allorchè armata di sottil coltello

I cadaveri incide, e l'armonia
Delle membra rivela, e il penetrale
Di nostra vita attentamente spia.

O uomo, o del divin dito immortale
Ineffabil lavor, forma, e ricetto
Di spirto e polve moribonda e frale,

Chi può cantar le tue bellezze? Al petto
Manca la lena, e il verso non ascende,
Tanto, che arrivi all'alto mio concetto.

Fronte, che guarda il cielo, e al cielo tende;
Chioma, che sopra gli omeri cadente
Or bionda, or bruna il capo orna, e difende;

Occhio, dell'alma interprete eloquente,
Senza cui non avria dardi e faretra
Amor, nè l'ali, nè la face ardente;

Bocca, dond'esce il riso, che penetra
Dentro i cuori, e l'accento si disserra,
Ch'or severo comanda, or dolce impetra;

Mano, che tutto sente, e tutto afferra,
E nell'arti incallisce, e ardita e pronta
Cittadi innalza, e opposti monti atterra;

Piede, su cui l'uman tronco si porta,
E parte e riede, e or ratto ed or restio
Varca pianure, e gioghi aspri sormonta;

E tutta la persona entro il cuor mio
La maraviglia piove, e mi favella
Di quell'alto Saper che la compio.

Taccion d'amor rapiti intorno ad ella
La terra, il cielo: ed io son io, v'è sculto,
Delle create cose la più bella.

Ma qual nuovo d'idee dolce tumulto!
Qual raggio amico delle membra or viene
A rischiararmi il laberinto occulto?

Veggo muscoli ed ossa, e nervi e vene,
Veggo il sangue e le fibre, onde s'alterna
Quel moto, che la vita urta e mantiene;

Ma nei legami della salma interna,
Ammiranda prigion! cerco, e non veggio
Lo spirto, che la move e la governa.

Pur sento io ben che quivi ha stanza e seggio,
E dalla luce di ragion guidato
In tutte parti il trovo, e lo vagheggio.

O spirto, o immago dell'Eterno, e fiato
Di quelle labbra, alla cui voce il seno
Si squarciò dell'abisso fecondato,

Dove andar l'innocenza, ed il sereno
Della pura beltà, di cui vestito
Discendesti nel carcere terreno?

Ahi, misero! t'han guasto e scolorito
Lascivia, ambizion, ira ed orgoglio,
Che alla colpa ti fero il turpe invito!




La tua ragione trabalzar dal soglio,
E lacero, deluso ed abbattuto
T'abbandonar nell'onta e nel cordoglio,

Siccome incauto pellegrin caduto
Nella man de' ladroni, allorchè dorme
Il mondo stanco e d'ogni luce muto.

Eppur sul volto le reliquie e l'orme,
Fra il turbo degli affetti e la rapina,
Serbi pur anco dell'antiche forme:

Ancor dell'alta origine divina
I sacri segni riconosco; ancora
Sei bello e grande nella tua rovina.

Qual ardua antica mole, a cui talora
La folgore del cielo il fianco scuota,
Od il tempo, che tutto urta e divora,

Piena di solchi, ma pur salda e immota
Stassi, e d'offese e d'anni carca aspetta
Un nemico maggior, che la percota.

Fra l'eccidio e l'orror della soggetta
Colpevole Natura, ove l'immerse
Stolta lusinga e una fatal vendetta,

Più bella intanto la Virtude emerse,
Qual astro, che splendor nell'ombre acquista,
E in riso i pianti di quaggiù converse.

Per lei gioconda, e lusinghiera in vista
S'appresenta la morte, e l'amarezza
D'ogni sventura col suo dolce è mista:

Lei guarda il Ciel dalla superna altezza
Con amanti pupille; e per lei sola
S'apparenta dell'uomo alla bassezza.

Ma dove, o Diva del mio canto, vola
L'audace immaginar? dove il pensiero
Del tuo Vate guidasti e la parola?

Torna, amabile Dea, torna al primiero
Cammin terrestro, nè mostrarti schiva
Di minor vanto, e di minore impero.

Torna: e se cerchi errante e fuggitiva
Devoti per l'Europa animi ligi,
E tempio degno di sì bella Diva,

Non t'aggirar del morbido Parigi
Cotanto per le vie, nè sulle sponde
Della Neva, dell'Istro e del Tamigi.

Volgi il guardo d'Italia alle gioconde
Alme contrade, e per miglior cagione
Del fiume Tiberin fermati all'onde.

Non è straniero il loco, e la magione.
Qui fu dove dal Cigno Venosino
Vagheggiar ti lasciasti, e da Marone;

E qui reggesti del Pittor d'Urbino
I sovrani pennelli, e di quel d'Arno
"Michel più che mortale Angel divino".

Ferve d'alme sì grandi, e non indarno,
Il genio redivivo. Al suol Romano
D'Augusto i tempi e di Leon tornarno.

Vedrai stender giulive a te la mano
Grandezza e Maestà, tue suore antiche
Che ti chiaman da lungi in Vaticano.

T'infioreranno le bell'Arti amiche
La via dovunque volgerai le piante,
Te propizia invocando alle fatiche:

Per te all'occhio divien viva e parlante
La tela e il masso; ed il pensiero è in forsi
Di crederlo insensato o palpitante:

Per te di marmi i duri alpestri dorsi
Spoglian le balze tiburtine, e il monte,
Che Circe empieva di leoni e d'orsi;

Onde poi mani architettrici e pronte
Di moli aggravan la latina arena
D'eterni fianchi, e di superba fronte:

Per te risuona la notturna scena
Di possente armonia, che l'alme bea,
E gli affetti lusinga ed incatena;




E questa Selva, che la selva Ascrea
Imita, e suona di Febeo concento,
Tutta è spirante del tuo nume, o Dea:

E questi lauri, che tremar fa il vento,
E queste che premiam tenere erbette
Sono d'un tuo sorriso opra e portento;

E tue pur son le dolci canzonette,
Che ad Imeneo cantar dianzi s'intese
L'Arcade schiera su le corde elette.

Stettero al grato suon l'aure sospese,
E il bel Parrasio a replicar fra nui
di Luigi, e Costanza il nome apprese.

Ambo cari a te sono, e ad ambidui
Su l'amabil sembiante un feritore
Raggio imprimesti de' begli occhi tui;

Raggio, che prese poi la via del core,
E di virtù congiunto all'aurea face
Fe' nell'alme avvampar quella d'Amore.

Vien dunque, amica Diva. Il Tempo edace
Fatal nemico, colla man rugosa
Ti combatte, ti vince, e ti disface.

Egli il color del giglio e della rosa
Toglie alle gote più ridenti, e stende
Dappertutto la falce ruinosa.

Ma se teco virtù s'arma, e discende
Nel cuor dell'uomo ad abitar sicura,
Passa il veglio rapace, e non t'offende;

E solo, allorché fia che di Natura
Ei franga la catena, e urtate e rotte
Dell'Universo cadano le mura,

E spalancando le voraci grotte
L'assorba il Nulla, e tutto lo sommerga
Nel muto orror della seconda notte.

Al fracassato Mondo allor le terga
Darai fuggendo, e su l'eterea sede,
Ove non fia che Tempo ti disperga,

Stabile fermerai l'eburneo piede.

La visione di Ezechiello
In lode dell'abate Francesco Giannotti predicatore in Ferrara. Al cardinale Scipione Borghese legato a latere di Ferrara.

Eminent.mo e Rever.mo Principe.
Le opere insigni non han bisogno di appoggio. Basta il nome di chi le scrisse o il pregio de' libri per interessare l'attenzione di chiunque. Ma uno scherzo poetico, che nè dal merito della poesia nè dalla età dell'autore e neppur dalla mole può lusingarsi di richiamare a sè l'altrui sguardo, uop'è che porti in fronte l'augusto nome d'un rispettabile Mecenate. Soglion così talvolta gli avveduti architetti negli sconci ed irregolari edifizi ornar più che mai l'esterno aspetto, per interessare con la speciosità almeno della nobil facciata l'occhio del passeggero. Il solo nome d'un graziosissimo principe, che è la delizia di questa città e che rende assai più belle co' personali suoi pregi le ferme glorie dell'illustre sua famiglia, saprà conciliare a' miei versi quella benevolenza, che altronde sperano invano. Che se mai questo stesso rende più colpevole la mia arditezza ch'io presenti a V.E. un sì meschino parto de' miei scarsi talenti; ricordatevi, principe eminentissimo, che i vostri pari non sono mai più gloriosi,





che quando sono benefici. Tal che se non basta per mia difesa il nome del chiarissimo oratore che è l'oggetto di questi versi, compiacetevi almeno di voi medesimo che con quell'aria di placidissima serenità che vi brilla sul viso, tacitamente mi faceste coraggio, perchè soddisfacessi un antico mio desiderio di riprotestarmi dinanzi al pubblico tutto col più rispettoso e profondo ossequio.

Di Vostra Eminenza,
Ferrara, il 7 aprile 1776,
Umil.mo Dev.mo Obb.mo servo.
Vincenzo Monti.

Et dimisit me in medio campi, qui erat plenus ossibus
(Ezech. XXXVII, 1).

Colà dove il real padre Eridàno
Dai campi ocnei scendendo urta con fiero
Corno la riva alla dritta mano,
A respirar d'un venticel leggiero
I molli fiati che venían dal monte
Mi trassi in compagnia del mio pensiero.
Del chiaro sole mi fería la fronte
Il raggio mattutin, tal che più schietto
Non comparve giammai su l'orizzonte.
Vista sì dolce all'affannato petto
Di mie cure togliea l'aspro tormento,


Insolito spirando almo diletto:
Quando mugghiar dall'aquilone io sento
E repente appressarsi un procelloso
Turbo, forier di notte e di spavento.
Celossi il dì sereno; e al minaccioso
Passar del nembo l'onda risospinta
Si sollevò dall'imo gorgo ascoso.
E quindi in giro strascinata e spinta
Dal vorticoso vento ecco scagliarsi
Nube di lampi incoronata e tinta,
E tutta a me dintorno avvilupparsi,
E in un baleno colle gravi some
Dell'oppresse mie membra alto levarsi.
A quel trabalzo per terror le chiome
Mi si arricciaro: ed io da tergo intanto
Voce sentii, che mi chiamò per nome.
— Scrivi, gridò, quel che tu vedi. — Al santo
Suon di queste parole un terso vetro
Si fe tosto la nube in ogni canto.
Guardai davanti, e mi rivolsi indietro:
E campo d'insepolte inaridite
Ossa m'apparve abbominoso e tetro.
O voi che sani d'intelletto udite
Gli alti portenti e il favellare arcano,
Quel ch'io già scrivo nel pensier scolpite.
Vidi. In aspetto spaventoso e strano
Di scheletri facea l'orrida massa
Funesto ingombro al desolato piano.
L'altere ciglia in riguardarli abbassa


Il fasto umano, e baldanzosa in atto
Morte col piede li calpesta e passa.
Io timido mi stava e stupefatto
All'oggetto feral: quando spiccossi
Un lampo, e corse per l'immenso tratto.
Tremò del ciel la porta, e spalancossi:
S'incurvâr rispettosi i firmamenti:
E dalle sfere un cherubin calossi.
Volò su le robuste ale de' venti.
Carche di foco e fumo avea le spalle
E un cerchio in fronte di carboni ardenti.
Venìa rotando per l'etereo calle
Di baleni una pioggia; e ritto alfine
Fermossi in mezzo alla tremenda valle.
Ne misurò col guardo ogni confine;
Fe poscia un cenno colla destra: e innante
Uom gli comparve di canuto crine.
Era placido e grave il suo sembiante;
E lunga a lui dagli omeri una vesta
Sacerdotal scendea fino alle piante.
Chinò la faccia riverente onesta
Quell'ignoto ministro. E il cherubino
La mano gli posò sopra la testa;
Poi staccossi dal capo aureo divino
Un acceso carbon diffonditore
Di spirito possente e pellegrino,
E i labbri gli toccò. L'igneo calore
Avvampò su le guance, e via discese
Più violento a ribollir nel core.




E dopo, il portentoso angelo prese
Di mele un favo; e su la bocca intero
Del buon servo lo sciolse e lo distese:
-Parla, quindi gli disse in tuon severo,
Parla a quest'ossa algenti: e riverito
Fia di tua voce il sacrosanto impero. -
Ed egli, ubbidiente alzando il dito,
Gridò: -Sorgete, aridi teschi, or ch'io
E membra e polpe a rivestir v'invito.
Tacque: e tosto un bisbiglio un brulichìo
Ed un cozzar di crani e di mascelle
E di logore tibie allor s'udìo.
Già tu le vedi frettolose e snelle
Ricercarsi a vicenda, e insiem legarne
Le congiunture, e vincolarsi in quelle.
Vedi su l'ossa risalir la carne,
Intumidirsi il ventre, e il corpo tutto
Di liscia pelle ricoperto andarne.
Ma giacea questo ancor vôto ed asciutto
Del vivo spirto, che dal colle eterno
Un dì si trasse a passeggiar sul flutto.
- Che fai, lento? esclamò l'angel superno.
Lo spirto eccitator d'aure viventi
Di queste salme omai chiama al governo.-
Le inspirate di Dio voci possenti
Sciolse l'altro dal labbro: e tosto venne
Quello spirto dai quattro opposti venti.
Sì dolcemente dibattea le penne,
Che soffiando nei corpi a poco a poco

Fe rizzarli su i piedi e li sostenne.
Svegliò nel petto della vita il foco,
Scosse le fibre, ed agitò le vene:
Ed ogni caldo umor corse al suo loco.
Dispensatrice di novella spene
Allor rifulse un'iride tranquilla
Su le vôlte del cielo ampie e serene.
La mia nube d'incontro arde e sfavilla
Di pacifica luce, e mi percuote
D'ineffabili raggi la pupilla.
Più forte intanto s'infiammar le gote
Di lui, che fu dal cherubin prescritto
Operator di sì bell'opre ignote:
E a quelli che, ascoltando il santo editto
Della divina inimitabil voce,
Fatto da morte a vita avean tragitto,
Piantò in faccia un feral tronco di croce;
E nel sembiante scintillò di zelo
Divorator che l'alma investe e cuoce.
Piegossi allor per riverenza il cielo
All'arbore adorato, e curvo agli occhi
Si fe coll'ale il cherubino un velo.
Al grand'esempio inteneriti e tocchi
Di penitenza i figli umilemente
Abbassaro la fronte ed i ginocchi:
E un cupo pianto udissi ed un frequente
Picchiar di petti e un sospirar, che ai numi
Come fumo ascendea d'incenso ardente.

Quindi alzò l'uom di Dio tre volte i lumi,
E favellò. Dal labbro amico e dolce
Gli uscìan soavi d'eloquenza i fiumi;
Qual mattutino venticel che molce
La fresca erbetta, e in margine al ruscello
Lambisce i fiori, li lusinga e folce.
Egli parlò d'un mansueto agnello:
E fu sì mite il suo parlar, che il core
Mi sentii tutto innamorar per quello.
Parlò della pietà del mio signore:
E fu sì caro il suo parlar, che in viso
Spirommi il fiato dell'eterno amore.
Parlò della bontà del paradiso:
E fu sì vago il suo parlar, che attenti
L'udiro i cieli e lampeggiar d'un riso.
D'una madre narrò gli aspri tormenti:
E fu sì mesto il suo narrar, che i monti
Squarciaro il fianco ai dolorosi accenti.
Poscia degli empi a sgomentar le fronti
Le parole vibrò qual furibondo
Torrente che rovescia argini e ponti.
Tuonò sul fuoco del tartareo fondo:
E fu sì forte quel tuonar, che spinto
Mi credetti all'abisso imo e profondo.
D'ira nel volto e di squallor dipinto
Tuonò nunzio di stragi e di procelle:
E Libano si scosse e Terebinto.
Tuonò sul giorno in cui verran le agnelle



Critica


Proprio nei decenni in cui il sentimento romantico si diffondeva in Europa, cioè dal finire del secolo XVIII al Congresso di Vienna, dominò nell'arte e nella letteratura italiana, negli arredamenti e nelle consuetudini della vita civile, il neoclassicismo,cioè il costume di ispirarsi alla civiltà e al mondo dei classicì. La civiltà antica, prima di cedere il passo alle passioni del Nord, risplendeva di un'ultima luce, in genere un po' fredda e preziosa, compassata, geometrica.
Ma il neoclassicismo costituiva ad un tempo un preludio della sensibilità romantica, anzi la prima veste con cui il Romanticismo penetrava nei paesi latini. Nel Romanticismo era infatti tormento e inquietudine, e perciò anche aspirazione insoddisfatta alla bellezza compiuta, ad una plaga di ideale serenità e perfezione. Questa plaga irraggiungibile, foggiata dagli animi a placamento della malattia del secolo, fu simboleggiata dai neoclassici nella Grecia dell'età classica, o Ellade, come allora fu detto. Questo mito dell'Ellade fu l'aspetto intimamente romantico del neoclassicismo: il mito del mondo antico non più come serena contemplazione ma come isola sognata e perduta, terra d'approdo della bellezza, perseguita senza speranza dagli uomini.
In effetti quasi tutti gli scrittori di questo periodo rivelano all'indagine critica una sensibilità romantica; non soltanto il Foscolo, che è uno dei poeti europei più nuovi e più grandi, ma il Monti stesso, che pure appare del neoclassicismo l'autore più congeniale.
Alle soglie del Romanticismo VINCENZO MONTI raccolse in un centone armonioso la poesia della tradizione; e la raccomandò ai giovani, la consegnò al nuovo secolo con magnifica e decorosa vena poetica. Per il carattere della sua poesia, tutta volta al decoro esteriore, e per le mutevoli e facili simpatie politiche, fu spesso considerato un esempio di superficialità e di incoerenza; e fu invece un'anima candida, legata come poche altre ad un suo intangibile amore per le belle forme, per le immagini elaborate e consacrate dai classici, sempre fedele, in ultima analisi, al partito della mitologia, minacciata di morte e rovina dalla nuova scuola poetica. Facile alle emozioni, il Monti subisce ed accoglie con impulsivo entusiasmo le vicende fortunose e straordinarie dei suoi tempi. Ogni avvenimento fa derivare dalla sua fantasia un'onda sonora di endecasillabi, ma la vicenda si disperde sin dai primi versi nel mito, si dispoglia di ogni contingenza ed aspetto terreno, appena fornita l'occasione prima al poetare. C'era in effetti nel Monti un duplice aspetto, quello apparente, del poeta d'occasione, celebratore ufficiale delle glorie politiche, e quello sostanziale, del sognatore puro, appartato in una sua musica interna, in una sua meraviglia di suoni e di colori. La mitologia non era un artificio imposto al Monti dalla tradizione letteraria, ma la sostanza stessa della sua fantasia, una fantasia che di per sé viveva in una sorta di cosmo primitivo, immersa in una plaga di apparizioni remote, in un mondo che serbava ancora la freschezza delle prime rugiade.
Due momenti essenziali la critica riconosce oggi nello svolgimento lirico del Monti: quello del primo Monti, più scenografico, più appariscente, ricco di sonorità improvvise, di immagini folgoranti, sostanzialmente più vistoso che poetico: il Monti insomma della Bellezza dell'Universo, avanti l'incontro col gran fiume omerico; e quello del secondo Monti, capace di un ritmo più equilibrato e disteso, dotato di un abbandono più docile dell'animo, di una facilità e castità del linguaggio che persuadono anche il lettore più moderno e scaltrito; il Monti insomma della Feroniade, di quella rievocazione mitologica immersa in una sorta di pallore. Tra l'uno e l'altro aspetto si colloca la versione dell'Iliade, che valse ad attenuare la prepotenza delle immagini, ad immergere la versificazione montiana in un fiume pieno ed uguale. Versione, come suol dirsi; in realtà opera senza dubbio originale, anzi tra le più originali delle nostre lettere, tanto più libera innanzi al testo di Omero quanto minore era nel Monti la conoscenza effettiva della lingua greca. Non ad Omero egli obbediva infatti parola per parola, ma alla propria musica interna, a quella nostalgia per l'antico, per le fantasie cosmiche primigenie, in cui la critica riconosce la natura romantica del poeta, seppure del tutto inconsapevole.










Dai capretti divise, e al suon di tromba
Vedransi in cielo vacillar le stelle:
E parve un fiero turbine che romba
Tempestoso per l'aria, e alfin su i campi
Impauriti si trabalza e piomba.
Ma in questo mezzo per gli eccelsi ed ampi
Spazi d'olimpo il cherubino un nembo
Sciolse di tanti e sì focosi lampi,
Che smorto io caddi e abbarbagliato in grembo
Della mia nube che al di sotto aprissi:
E sprigionato da quel denso lembo,
Giacqui su l'erba; e quel che vidi io scrissi.

Sulla morte di Giuda
I
Gittò l'infame prezzo, e disperato
L'albero ascese il venditor di Cristo;
Strinse il laccio, e col corpo abbandonato
Dall'irto ramo penzolar fu visto.
Cigolava lo spirito serrato
Dentro la strozza in suon rabbioso e tristo,
E Gesù bestemmiava e il suo peccato
che'empiea l'Averno di cotanto acquisto.
Sboccò dal varco alfin con un ruggito.
Allor Giustizia l'afferrò, e sul monte
Nel sangue di Gesù tingendo il dito,
Scrisse con quello al maladetto in fronte
Sentenza d'immortal pianto infinito,
E lo piombò sdegnosa in Acheronte.

II
Piombò quell'alma all'infernal riviera,
E si fe' gran tremuoto in quel momento.
Balzava il monte, ed ondeggiava al vento
La salma in alto strangolata e nera.
Gli angeli, dal Calvario in su la sera
Partendo a volo taciturno e lento,
La videro da lunge; e per pavento
Si fèr dell'ale agli occhi una visiera.
I demoni frattanto all'aer tetro
Calàr l'appeso, e l'infocate spalle
All'esecrato incarco eran ferètro


Così, ululando e schiamazzando, il calle
Preser di Stige; e al vagabondo spetro
Resero il corpo nella morta valle.

III
Poichè ripresa avea l'alma digiuna
L'antica gravità di polpe ed ossa,
La gran sentenza su la fronte bruna
In riga apparve trasparente e rossa.
A quella vista di terror percossa
Va la gente perduta: altri s'aduna
Dietro le piante che Cocito ingrossa,
altri si tuffa nella rea laguna.
Vergognoso egli pur del suo delitto
Fuggìa quel crudo; e stretta la mascella
Forte graffiava con la man lo scritto.
Ma più terso il rendea l'anima fella;
Dio tra le tempie glie l'avea confitto,
Nè sillaba di Dio mai si cancella

IV
Uno strepito intanto si sentia,
Che Dite introna in suon profondo e rotto;
era Gesù, che in suo poter condotto
D'Averno i regni a debellar venìa.
Il bieco peccator per quella via
Lo scontrò, lo guatò senza far motto:
Pianse alfine, e da' cavi occhi dirotto
Come lava di foco il pianto uscìa.


Folgoreggiò sul nero corpo osceno
L'eterna luce, e d'infernal rugida
Fumarono le membra a quel baleno.
Tra il fumo allor la rubiconda spada
interpose Giustizia: e il Nazareno
Volse lo sguardo, e seguitò la strada.



Sopra il Santo Natale

Sei tu quel Dio che in suo furor cammina
Per mezzo ai sette candelabri ardenti?
Che manda un guardo, e l'ultima ruina
Paventano crollando i firmamenti?

Dove sono le frecce alla fucina
Del Ciel temprate, e i fulmini roventi?
Dove il tuon? dove il turbo? e la divina
Ira, che scende a sgomentar le genti?

Amor (risponde), Amor le punte acute
Mi spezzò degli strali, e dalle stelle
Dio di pace or mi tragge in sua virtute.

Ei dalla man le folgori mi svelle.
Amor non viene a dispensar salute
Con lo spirto di nembi e di procelle.

Al signor di Montgolfier

Quando Giason dal Pelio
Spinse nel mar gli abeti,
E primo corse a fendere
Co' remi il seno a Teti;
Su l'alta poppa intrepido
Col fior del sangue acheo
Vide la Grecia ascendere
Il giovinetto Orfeo.
Stendea le dita eburnee
Sulla materna lira;
E al tracio suon chetavasi
De' venti il fischio e l'ira.
Meravigliando accorsero
Di Doride le figlie,
Nettuno ai verdi alipedi
Lasciò cader le briglie.
Cantava il Vate odrisio
D'Argo la gloria intanto,
E dolce errar sentivasi
Sull'alme greche il canto.
O della Senna, ascoltami,
Novello Tifi invitto:
Vinse i portenti argolici
L'aereo tuo tragitto.
Tentar del mare i vortici
Forse è sì gran pensiero,
Come occupar de' fulmini


L'inviolato impero?
Deh! perché al nostro secolo
Non diè propizio il Fato
D'un altro Orfeo la cetera,
Se Montgolfier n'ha dato?
Maggior del prode Esonide
Surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
Al volator naviglio.
Non mai Natura, all'ordine
Delle sue leggi intesa,
Dalla potenza chimica
Soffrì più bella offesa.
Mirabil arte, ond'alzasi
Di Sthallio e Black la fama,
Pèra lo stolto cinico
Che frenesia ti chiama!
De' corpi entro le viscere
Tu l'acre sguardo avventi,
E invan celarsi tentano
Gl'indocili elementi.
Dalle tenaci tenebre
La verità traesti,
E delle rauche ipotesi
Tregua al furor ponesti.
Brillò Sofia più fulgida
Del tuo splendor vestita,
E le sorgenti apparvero,
Onde il creato ha vita.


L'igneo terribil aere,
Che dentro il suol profondo
Pasce i tremuoti, e i cardini
Fa vacillar del mondo,
Reso innocente or vedilo
Da' marzii corpi uscire,
E già domato ed utile
Al domator servire.
Per lui del pondo immemore,
Mirabil cosa! in alto
Va la materia, e insolito
Porta alle nubi assalto.
Il gran prodigio immobili
I riguardanti lassa,
E di terrore un palpito
In ogni cor trapassa.
Tace la terra, e suonano
Del ciel le vie deserte:
Stan mille volti pallidi,
E mille bocche aperte.
Sorge il diletto e l'estasi
In mezzo allo spavento,
E i piè mal fermi agognano
Ir dietro al guardo attento.
Pace e silenzio, o turbini:
Deh! non vi prenda sdegno
Se umane salme varcano
Delle tempeste il regno.
Rattien la neve, o Borea,


Che giù dal crin ti cola;
L'etra sereno e libero
Cedi a Robert che vola.
Non egli vien d'Orizia
A insidiar le voglie:
Costa rimorsi e lagrime
Tentar d'un Dio la moglie.
Mise Teséo nei talami
Dell'atro Dite il piede:
Punillo il Fato, e in Erebo
Fra ceppi eterni or siede.
Ma già di Francia il Dedalo
Nel mar dell'aure è lunge:
Lieve lo porta Zeffiro,
El'occhio appena il giunge.
Fosco di là profondasi
Il suol fuggente ai lumi,
E come larve appaiono
Città, foreste e fiumi.
Certo la vista orribile
L'alme agghiacciar dovria;
Ma di Robert nell'anima
Chiusa è al terror la via.
E già l'audace esempio
I più ritrosi acquista;
Già cento globi ascendono
Del cielo alla conquista.
Umano ardir, pacifica
Filosofia sicura,


Qual forza mai, qual limite
Il tuo poter misura?
Rapisti al ciel le folgori,
Che debellate innante
Con tronche ali ti caddero,
E ti lambîr le piante.
Frenò guidato il calcolo
Dal tuo pensiero ardito
Degli astri il moto e l'orbite,
L'olimpo e l'infinito.
Svelaro il volto incognito
Le più rimote stelle,
Ed appressâr le timide
Lor vergini fiammelle.
Del Sole i rai dividere,
Pesar quest'aria òsasti;
La terra, il foco, il pelago,
Le fere e l'uom domasti.
Oggi a calcar le nuvole
Giunse la tua virtute,
E di natura stettero
Le leggi inerti e mute.
Che più ti resta? Infrangere
Anche alla morte il tèlo,
E della vita il nèttare
Libar con Giove in cielo.










Al Principe Don Sigismondo Chigi

Dunque fu di natura ordine e fato,
che di là donde il bene ne deriva
del mal pur anco scaturir dovesse
la torbida sorgente? Oh saggio, oh solo
a me rimasto negli avversi casi
consolator, che non torcesti mai
dalle pene d'altrui lungi lo sguardo,
e scarso di parole e largo d'opre
co' benefizi al mio dolor soccorri,
Gismondo; e qual di gioie e di martíri
portentosa mistura è il cuor dell'uomo!
Questa parte di me che sente e vede,
questo di vita fuggitivo spirto
che mi scalda le membra e le penètra,
con quale ardor, con qual diletto un tempo
scorrea pe' campi di natura, e tutte
a me dintorno rabbellía le cose!
Or s'è cangiato in mio tiranno, in crudo
carnefice, che il frale onde son cinto
romper minaccia, e le corporee forze,
qual tarlo roditor, logora e strugge.
Giorni beati che in solingo asilo
senza nube passai, chi vi disperse?
Ratti qual lampo, che la buia notte
segna talor di momentaneo solco,
e su gli occhi le tenebre raddoppia
al pellegrin che si sgomenta e guata,

qual mio fallo v'estinse? e tanto amara
or mi rende di voi la rimembranza,
che pria sí dolce mi scendea sul core?
Allorché il sole (io lo rammento spesso)
d'orïente sul balzo compariva
a risvegliar dal suo silenzio il mondo,
e agli oggetti rendea più vivi e freschi
i color che rapiti avea la sera;
dall'umile mio letto anch'io sorgendo,
a salutarlo m'affrettava, e fiso
tenea l'occhio a mirar come nascoso
di là del colle ancora ei fea da lunge
degli alti gioghi biondeggiar le cime;
poi, come lenta in giú scorrea la luce
il dosso imporporando e i fianchi alpestri,
e dilatata a me venía d'incontro
che a' piedi l'attendea della montagna.
Dall'umido suo sen la terra allora
su le penne dell'aure mattutine
grata innalzava di profumi un nembo;
e altero di sé stesso e sorridente
su i benefizi suoi l'aureo pianeta
nel vapor che odoroso ergeasi in alto
gía rinfrescando le divine chiome,
e fra il concento degli augelli e il plauso
delle create cose egli sublime
per l'azzurro del ciel spingea le rote.
Allor sul fresco margine d'un rivo
m'adagiava tranquillo in su l'erbetta,

che lunga e folta mi sorgea dintorno
e tutto quasi mi copriva: ed ora
supino mi giacea, fosche mirando
pender le selve dall'opposta balza,
e fumar le colline, e tutta in faccia
di sparsi armenti biancheggiar la rupe;
or rivolto col fianco al ruscelletto,
io mi fermava a riguardar le nubi
che tremolando si vedean riflesse
nel puro trapassar specchio dell'onda:
poi, del gentil spettacolo già sazio,
tra i cespi, che mi fean corona e letto,
si fissava il mio sguardo, e attento e cheto
il picciol mondo a contemplar poneami
che tra gli steli brulica dell'erbe,
e il vago e vario degli insetti ammanto
e l'indole diversa e la natura.
Altri a torma e fuggenti in lunga fila
vengono e van per via carchi di preda;
altri sta solitario, altri l'amico
in suo cammino arresta, e con lui sembra
gran cose conferir: questi d'un fiore
l'ambrosia sugge e la rugiada, e quello
al suo rival ne disputa l'impero;
e venir tosto a lite, ed azzuffarsi,
e avviticchiati insieme ambo repente
giú dalla foglia sdrucciolar li vedi.
Né valor manca in quegli angusti petti
previdenza, consiglio, odio ed amore.
Quindi alcuni tra lor miti e pietosi
prestansi aita ne' bisogni; assai
migliori in ciò dell'uom, che al suo fratello
fin nella stessa povertà fa guerra:
ed altri poscia, da vorace istinto
alla strage chiamati ed agl'inganni,
della morte d'altrui vivono; e sempre
del piú gagliardo, come avvien tra noi,
o del più scaltro la ragion prevale.
Questi gli oggetti e questi erano un tempo
gli eloquenti maestri che di pura
filosofia m'empían la mente e il petto;
mentre soave mi sentía sul volto
spiar del nume onnipossente il soffio,
quel soffio che le viscere serpendo
dell'ampia terra, e ventilando il chiuso
elementar foco di vita, e tutta
la materia agitando e le seguaci
forme che inerti le giaceano in grembo,
l'une contro dell'altre in bel conflitto
arma le forze di natura, e tragge
da tanta guerra l'armonia del mondo.
Scorreami quindi per le calde vene
un torrente di gioia; e discendea
questo vasto universo entro mia mente,
or come grave sasso che nel mezzo
piomba d'un lago, e l'agita e sconvolge
e lo fa tutto ribollir dal fondo;
or come immago di leggiadra amante,

che di grato tumulto i sensi ingombra
e serena sul cor brilla e riposa.
Ma piú quell'io non son. Cangiaro i tempi,
cangiar le cose. Della gioia estremo
regnò sull'alma il sentimento: estremi
or vi regnano ancora i miei martíri.
E come stenderò su le ferite
l'ardita mano, e toglieronne il velo?
Una fulgida chioma al vento sparsa,
un dolce sguardo ed un piú dolce accento,
un sorriso, un sospir dunque potero
non preveduto suscitarmi in seno
tanto incendio d'affetti e tanta guerra?
E non son questi i fior, queste le valli,
che già parver sí belle agli occhi miei?
Chi di fosco le tinse? e chi sul ciglio
mi calò questa benda? Oimè! l'orrore
che sgorga di mia mente e il cor m'allaga,
di natura si sparse anche sul volto
e l'abbuiò. Me misero! non veggo
che lugubri deserti; altro non odo
che urlar torrenti e mugolar tempeste.
Dovunque il passo e la pupilla movo,
escono d'ogni parte ombre e paure,
e muta stammi e scolorita innanzi
qual deforme cadavere la terra.
Tutto è spento per me. Sol vive eterno
il mio dolor, né mi riman conforto
che alzar le luci al cielo e sciormi in pianto.

Ah che mai vagheggiarti io non dovea
fatal beltade! Senza te venuto
questo non fòra orribil cangiamento.
Girar tranquilli sul mio capo avrei
visto i pianeti, e piú tranquilla ancora
la mia polve tornar donde fu tolta.
Ma in que' vergini labbri, in que' begli occhi
aver quest'occhi inebrïati, e dolce
sentirmi ancor nell'anima rapita
scorrere il suono delle tue parole;
amar te sola, e rïamato amante
non essere felice; e veder quindi
contra me, contra te, contra le voci
di natura e del ciel sorger crudeli
gli uomini, i pregiudizi e la fortuna;
perder la speme di donarti un giorno
nome piú sacro che d'amante, e caro
peso vederti dal mio collo pendere,
e d'un bacio pregarmi e d'un sorriso
con angelico vezzo; abbandonarti...
Obblïarti, e per sempre... Ah lungi, lungi
feroce idea; tu mi spaventi, e cangi
tutta in furor la tenerezza mia.
Allor requie non trovo. Io m'alzo, e corro
forsennato pe' campi, e di lamenti
le caverne riempio, che dintorno
risponder sento con pietade. Allora
per dirupi m'è dolce inerpicarmi,
e a traverso di folte irte boscaglie

aprir la via col petto, e del mio sangue
lasciarmi dietro rosseggianti i dumi.
La rabbia che per entro mi divora,
di fuor trabocca. Infiammansi le membra,
l'anelito s'addoppia, e piove a rivi
il sudor della fronte rabbuffata.
Piú scaltrezza al sentir, piú forza al piede,
piú ristoro al mio cor; finché smarrito
di balza in balza valicando, all'orlo
d'un abisso mi spingo. A riguardarlo
si rizzano le chiome, e il piè s'arretra.
A poco a poco quel terror poi cede,
e un pensiero sottentra ed un desío,
disperato e desío. Ritto su i piedi
stommi, ed allargo le tremanti braccia
inclinandomi verso la vorago.
L'occhio guarda laggiuso, e il cor respira;
e immaginando nel piacer mi perdo
di gittarmi là dentro, onde a' miei mali
por termine, e nei vortici travolto
romoreggiar del profondo torrente.
Codardo! ancora non osai dall'alto
staccar l'incerto piede, e coraggioso
in giú col capo rovesciarmi. Ancora
al suo fin non è giunta la mia polve,
e un altro istante mi condanna il fato
di questo sole a contemplar l'aspetto
Oh! perché non poss'io la mia deporre

d'uom tutta dignitade, e andar confuso
col turbine che passa, e su le penne
correr del vento a lacerar le nubi,
o su i campi a destar dell'ampio mare
gli addormentati nembi e le procelle!
Prigioniero mortal! dunque non fia
questo diletto un dí, questo destino
parte di nostra eredità? Qualunque
mi serbi il ciel condizïon si spirto,
perché, Gismondo, prolungar cotanto
questo lampo di luce? Un sol potea,
un sol oggetto lusingarmi: il cielo
al mio desire invidïollo, e l'odio
mi lasciò della vita e di me stesso.
Tu di Sofia cultor felice, e speglio
di candor, d'amistade e cortesia,
tu per me vivi, e su l'acerbo caso
una stilla talor spargi di pianto,
o generoso degli afflitti amico.
Allorché d'un bel giorno in su la sera
l'erta del monte ascenderai soletto,
di me ti risovvenga, e sul quel sasso,
che lagrimando del mio nome incisi,
su quel sasso fedel siedi e sospira.
Volgi il guardo di là verso la valle,
e ti ferma a veder come da lunge
su la mia tomba invia l'ultimo raggio
il sol pietoso, e dolcemente il vento
fa l'erba tremolar che la ricopre.
Prosopopea di Pericle

ALLA SANTITÀ DI PIO VI

Io de’ forti Cecropidi
Nell’inclita famiglia
D’Atene un dì non ultimo
Splendor e maraviglia,
A riveder io Pericle
Ritorno il ciel latino,
Trïonfator de’ barbari,
Del tempo e del destino.
In grembo al suol di Catilo
(Funesta rimembranza!)
Mi seppellì del Vandalo
La rabbia e l’ignoranza.
Ne ricercaro i posteri
Gelosi il loco e l’orme,
E il fato incerto piansero
Di mie perdute forme.
Roma di me sollecita
Se ’n dolse, e a’ figli sui
Narrò l’infando eccidio
Ove ravvolto io fui.
Carca d’alto rammarico
Se ’n dolse l’infelice
Del marmo freddo e ruvido
Bell’arte animatrice;
E d’Adrïano e Cassio,





Sparsa le belle chiome,
Fra gl’insepolti ruderi
M’andò chiamando a nome.
Ma invan; ché occulto e memore
Del già sofferto scorno,
Temei novella ingiuria,
Ed ebbi orror del giorno.
Ed aspettai benefica
Etade in cui sicuro
Levar la fronte, e l’etere
Fruir tranquillo e puro.
Al mio desir propizia
L’età bramata uscío,
E tu sul sacro Tevere
La conducesti, o Pio.
Per lei già l’altre caddero
Men luminose e conte,
Perchè di Pio non ebbero
L’augusto nome in fronte.
Per lei di greco artefice
Le belle opre felici
Van del furor de’ secoli
E dell’obblio vittrici.
Vedi dal suolo emergere
Ancor parlanti e vive
Di Perïandro e Antistene
Le sculte forme argive.
Da rotte glebe incognite
Qua mira uscir Biante,


Ed ostentar l’intrepido
Disprezzator sembiante:
Là sollevarsi d’Eschine
La testa ardita e balda,
Che col rival Demostene
Alla tenzon si scalda.
Forse restar doveami
Fra tanti io sol celato,
E miglior tempo attendere
Dall’ordine del fato?
Io che d’età sì fulgida
Più ch’altri assai son degno?
Io della man di Fidia
Lavoro e dell’ingegno?
Qui la fedele Aspasia
Consorte a me diletta,
Donna del cor di Pericle,
Al fianco suo m’aspetta.
Fra mille volti argolici
Dimessa ella qui siede,
E par che afflitta lagnisi,
Che il volto mio non vede.
Ma ben vedrallo: immemore
Non son del prisco ardore:
Amor lo desta, e serbalo
Dopo la tomba Amore.
Dunque a colei ritornano
I Fati ad accoppiarmi,
Per cui di Samo e Carnia



Ruppi l’orgoglio e l’armi?
Dunque spiranti e lucide
Mi scorgerò dintorno
Di tanti eroi le immagini
Che furo ellèni un giorno?
Tardi nepoti e secoli,
Che dopo Pio verrete,
Quando lo sguardo attonito
Indietro volgerete,
O come fia che ignobile
allor vi sembri e mesta
La bella età di Pericle
Al paragon di questa!
Eppur d’Atene i portici,
I templi e l’ardue mura
Non mai più belli apparvero
Che quando io l’ebbi in cura.
Per me nitenti e morbidi
Sotto la man de’ fabri
Volto e vigor prendevano
I massi informi e scabri:
Ubbidïente e docile
Il bronzo ricevea
I capei crespi e tremoli
Di qualche ninfa o dea.
Al cenno mio le parie
Montagne i fianchi apriro,
E dalle rotte viscere
Le gran colonne usciro.





Si lamentaro i tessali
Alpestri gioghi anch’essi
Impoveriti e vedovi
Di pini e di cipressi.
Il fragor dell’incudini,
De’ carri il cigolío,
De’ marmi offesi il gemere
Per tutto allor s’udío.
Il cielo arrise: Industria
Corse le vie d’Atene,
E n’ebbe Sparta invidia
Dalle propinque arene.
Ma che giovò? Dimentici
Della mia patria i Numi,
Di Roma alfin prescelsero
Gli altari ed i costumi.
Grecia fu vinta, e videsi
Di Grecia la ruina
Render superba e splendida
La povertà latina.
Pianser deserte e squallide
Allor le spiagge achive,
E le bell’arti corsero
Del Tebro su le rive.
Qui poser franche e libere
Il fuggitivo piede,
E accolte si compiacquero
Della cangiata sede.
Ed or fastose obbliano


L’onta del goto orrore,
Or che il gran Pio le vendica
Del vilipeso onore.
Vivi, o signor. Tardissimo
Al mondo il Ciel ti furi,
E con l’amor de’ popoli
Il viver tuo misuri.
Spirto profan, dell’Erebo
All’ombre avvezzo io sono;
Ma i voti miei non temono
La luce del tuo trono.
Anche del greco Elisio
Nel disprezzato regno
V’è qualche illustre spirito,
Che d’adorarti è degno.

Pagina a cura di Nino Fiorillo  ===  e-mail:dlfmessina@dlf.it  ===  Associazione DLF - Messina