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Gabriele D'Annunzio
VERSI D'AMORE

















































































D'Annunzio
La poetica






avvertì i limiti e la crisi del naturalismo e del Positivismo di fine secolo. Tutti e due hanno infatti in comune la sfiducia nella ragione e nella scienza, rivelatesi incapaci, nonostante la conclamata onnipotenza, di dare una spiegazione sicura e definitiva della vita e del mondo.
«L’esperimento è compiuto - scriveva D’Annunzio nel 1893 - La scienza è incapace di ripopolare il «deserto cielo, di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace... Non vogliamo più la «verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo, se non nelle ombre dell’ignoto».
Circa negli stessi anni Giovanni Pascoli scriveva un pensiero analogo: «La scienza ha perfezionato, oltre ogni aspettativa, la tecnica, ma non ha saputo, né saprà mai liberare gli uomini dal dolore e dalla morte, e solo ha tolto le illusioni della fede, che lo compensavano del male del vivere, dell’atrocità del morire».
Dalla comune sfiducia nella ragione i due poeti derivarono il senso della solitudine dell’uomo; ma da questo momento il loro pensiero diverge e approda a due diverse concezioni della vita, muovendosi il Pascoli nell’ambito del vittimismo romantico con sgomenti e ansie decadenti, il D’Annunzio nell’ambito dell’estetismo e del superomismo nicciano.
Il Pascoli, di temperamento sensitivo e fragile, ha una percezione ombrosa e trepida della solitudine, che lo spinge a cercare e a predicare la solidarietà con gli altri, perché gli uomini, se si uniscono, possono meglio sopportare il loro destino di dolore.
Il D’Annunzio ha invece un temperamento sensuale, e perciò ha una percezione egoistica, orgogliosa e arrogante della solitudine, derivata dalla consapevolezza della eccezionalità della propria persona, che lo spinge ad affermare la propria supremazia sugli altri, a conquistare il dominio del mondo. O mondo, sei mio! / Ti coglierò come un pomo, / ti spremerò alla mia sete / alla mia sete perenne (Maia).

La poesia del D’Annunzio rispecchia la sensualità del suo temperamento, intesa come abbandono gioioso alla vita dei sensi e dell’istinto, per scoprire l’essenza profonda e segreta dell’io (che è poi quella stessa della natura).
Si rinnova così nel D’Annunzio il dramma romantico della ricerca dell’assoluto. Ma mentre i romantici cercavano di raggiungerlo con l’estasi dello spirito davanti all’infinito, il D’Annunzio, invece, lo cerca con l’estasi panica, cioè con l’immergersi nella natura delle cose, fino a sentire in bocca il sapore del mondo, come egli dice.
Nel sensualismo e nel naturalismo panico è l’espressione più genuina e più valida della poesia del D’Annunzio. Tutte le volte che egli forza la sua natura di poeta visivo e sensuale, rivestendola di elementi dottrinali e intellettualistici - come l’estetismo, il superomismo, o il profetismo del poeta-vate - cade nell’artificio e nella retorica; una retorica fastosa, opulenta e abbacinante, che fa di lui un Marino o un Monti redivivo, ancora più sbrigliato e imaginifico.
Perciò anche la poesia del D’Annunzio è, come quella del Pascoli, senza svolgimento e progressivo arricchimento. Le successive aggregazioni di motivi hanno solo il potere di deformare e fuorviare la vera natura di poeta della laus vitae, intesa come gioia dei sensi, come godimento oblioso dei "frutti terrestri".
La poesia autentica del D’Annunzio pertanto ha carattere frammentario, antologico; raggiunge il suo culmine in alcuni capolavori dell’Alcyone, come La sera fiesolana, La tenzone, La pioggia nel pineto, L’onda, Undulna, Le stirpi canore, I pastori, e nella prosa asciutta e intima del Notturno. Non a caso, per giudizio concorde della critica, è proprio il D’Annunzio «alcionio» e «notturno» quello che resterà nella storia della poesia: il resto della sua vasta produzione letteraria di novelliere di romanziere e di drammaturgo, di poeta civile e patriottico, interessa solo la storia della cultura, non quella della poesia.

Per concludere, D’Annunzio non ebbe una poetica ben definita, perché, data la sua straordinaria abilità a captare i gusti e le tendenze delle letterature europee contemporanee, ne riecheggiò i motivi e le forme mutando continuamente la poetica.
Il Binni ha individuato i diversi aspetti della poetica dannunziana: ora - egli dice - è poetica dell’orafo, cioè dell’eleganza e della raffinatezza parnassiana, nell’Isotteo e nella Chimera; ora è poetica del convalescente, cioè si sente estenuato e deluso dalla vita dei sensi e aspira alla purezza e alla bontà, nel Poema paradisiaco; ora è poetica del superuomo nei romanzi e nelle tragedie; ora è poetica della profezia del poeta-vate, nelle Canzoni delle gesta oltremare; ora è poetica naturalistica nell’Alcyone.
Di tutte queste la più congeniale, come abbiamo detto, è la poetica naturalistica dell’Alcyone, il III libro delle Laudi, che contiene le poesie più suggestive del D’Annunzio.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
VERSI D'AMORE - parte I

CANTO NUOVO (1882)

AD E.Z.

O strana bimba da li occhioni erranti,
misteriosi e fondi come il mare,
bella bimba, ne' miei poveri canti
il tuo sorriso no 'l potei fermare!

Pur le strofe d'amore susurranti
con un lene susurro d'alveare
passando a frotte il cerchio degl'incanti,
bianca maga, ti fanno addormentare.

mentre guardi sfumar ne' tôni fini
d'un vespro malinconico la vetta
de 'l colle: nembi d'effluvi marini

par ti giungano, e sogni una goletta
entrante in porto a' venti mattutini
fra li opàli de l'acqua violetta.

15 Aprile 1882

                                               PRELUDIO

Ignudo le membra agilissime a 'l sole ed a l'acqua
       liberamente, come un bianco cefalo.

nuota, fiutando ne l'aure lascivia di muschio
       che da' salci a onde spargon le ceràmbici.

D'intorno rotti con strani misterii di suoni
       i diamanti liquidi scintillano,

galleggian d'intorno lunghissime foglie rotonde
       simili ad attoniti occhi di grandi carpe,


simili a morte rane galleggiano mandre di lemne,
       si snodano quali bisce le vive alighe...

Nuota il giovine ignudo fra' pioppi che guardano in riga
       come cinerei boa su le code eretti,

fra le canne alte ove spersi fischiano i merli
       e le selvatiche folaghe starnazzano.

I tronchi de' vetrici somiglian najadi rosse
       prese a la chioma, pendule sovra l'acque;

i nenufàri schiudono i nivei calici aulenti,
       balzano a 'l passaggio le vallisnerie in fiore.

Nuota il giovine ignudo pe 'l fiume torpido a 'l mare
       fra gl'incantesimi tuoi, maga invisibile;

nuota, fra l'invido ghignar de le najadi rosse,
       liberamente, come un bianco cefalo...

LIBRO PRIMO

I.

Ecco, e la glauca marina destasi
fresca a' freschissimi grecali; palpita:
       ella sente ne 'l grembo
       li amor' verdi de l'alighe.

Sente: la sfiorano a torme i queruli
gabbiani, simili da lunge passano
       le paranzelle arance
       pe 'l gran sole cullandosi;

e in ampia cerchia ne l'acqua i floridi
poggi specchiantisi miraggi paiono
       di piramidi vinte
       da 'l trionfo de l'edere.


Thàlatta! thàlatta! Volino, balzino
su su da 'l giovine core, zampillino
       i tuoi brevi pirrichi,
       o divino Asclepiade!

O mare, o gloria, forza d'Ausonide,
alfin da' liberi tuoi flutti a l'aure
       come un acciar temprata
       a giovinezza sfolgori!

II.

       Un corno d'oro pallido
ne l' ciel verdognolo brilla; sospirano
       i flutti: - è il novilunio;
amate, o giovini baldi, le vergini

       oceanine! - Soffiano
a tratti li umidi venti, sospirano
       l'acque: - o giovini, o vergini,
è il novilunio di maggio; amatevi! -

       Un semicerchio argenteo
pende su' ceruli monti che paiono
       proni atleti cadaveri;
dicono i petali ne 'l sonno: - oh zefiri

       blandi, pregni di pollini,
freschi! oh freschissime rugiade! oh fervido
       amor d'una libellula! -
ne ‘l sonno i petali chini pispigliano.

       Un diadema fulvido
da 'l cielo irradia l'acque di gemmee
       faville; a 'l fondo le alighe
destate anelano un raggio. Un pallido

       raggio a lor giunge; guardano
le malinconiche su per lo speglio.
       Venti - l'alighe pregano -

coorti! addio, gentile esercito
       di libri ne l'algide notti
       popolanti di larve la stanza!

Giocondamente auspice Orazio
con noi vegliava; ma non un'anfora
       di cecubo vecchio ne infuse
       vigor novo di dattili a 'l verso,

Spandeva il moka fumanti effluvii
su da la tazza: le strofi saffiche
       in murmure grave ed eguale
       oscillavano per la penombra,

di sonni e sogni a la stanca anima
suaditrici... Oh come Lilia
       marmorea splendea ne la fredda
       purità de' grandi occhi smaltati!

come da un freddo serto di lauri
la fronte china sentiami attorcere!
       Chi venne, o volumi, chi venne
       a turbarci que' torpidi amori?

Venne una bianca figlia di Fiesole,
alta e sottile, da l'occhio d'aquila
       raggiante splendor di topazzo
       ne 'l sorriso, raggiante il pensiere.

Venne, e di strani legami d'edera
ella, de' lunghi capelli avvinsemi;
       tremando la bocca mi porse
       ove bevvi un licore fatale

che ora per ogni vena mi circola,
per ogni vena da 'l cuore a 'l cérebro
       da 'l cérebro a 'l cuor come un filtro,
       onde chieggo: - Non dunque è una maga?

non dunque io mai prima sentíane

ne le mie lunghe veglie lo spirito
       d'intorno aliante, la voce
       tra 'l cantar de' poeti soave? -

Chieggo; e da 'l sangue mi rigermogliano
impazienti le strofe. Oh giovini
       selvatici idillî slanciati
       fra l'odor de le macchie, ne 'l sole!...

Dolci per l'albe fresche gemeano
le ballatette, dolci; i fantasimi
       di Frate Giovanni e di Mino
       lampeggiavan ne' vesperi biondi.

E noi passammo per man tenendoci
su l'erba nova, fra 'l novo popolo
       de' fiori...Cipressi maligni
       di Montughi, che mai brontolaste?

Quali promesse ne' vostri murmuri
erano, o pioppi, a me su 'l rapido
       convoglio fuggente ad occaso
       il verdissimo pian di Toscana?

E quando, glauchi titani, arridere
quando vedrete tra 'l vel cinereo
       de 'l fumo il bel volto di lei
       viaggiante a 'l mio cielo sannite?

Allor con ala più salda e libera
le strofi, erotte su da' precordii,
       allor co' gabbiani selvaggi
       voleranno pe 'l mare pe 'l mare.

IV.

Ora a me il ritmo sereno d'Albio Tibullo, ove ride
       l'immensa pace de la campagna in fiore,

ove ridon li azzurri de 'l cielo latino ed i soli
       
       flavi e le nugole come in un terso rio!

Chiedon l'esametro lungo salente i fantasmi
       che su da 'l core baldi mi fioriscono,

e l'onda armonica a 'l breve pentametro spira
       in un pispiglio languido di dattili.

Oh fresca surgente da 'l grembo divino de l'acque
       alba di maggio tra' salsi odor de l'alghe,

io veleggio pe 'l golfo sí come un buon nauta sannite
       tra' delfini scherzanti, greggia a le muse cara;

io veleggio, e seduto a la prora ti guardo pensando
       li amor d'una iddia con un mortale, a l'imo.

Corono per selve di rossi coralli le nozze,
       via per le vive selve corre la primavera;

corre... Oh trionfi d'attinïe su per le rocce,
       sembianti a petali d'una novella flora!

prati fioriti d'astrée, di madrépore! chiome
       fuggenti di meduse con gorgoglio lïeve!

fuor cantan li uccelli, fuor cantano a l'aura le fronde,
       ma queste mute nozze valgono un inno: amate!...

Dilegui, bell'alba? t'incalza co' fúlguri il sole,
       alba a me di placidi sogni suaditrice?

Dilegui. Addio! - Bagliori vermigli d'incendio
       su per i cieli concavi divampano,

ecco, e trionfa il sol... O fremiti freschi de l'acque
       riscintillanti d'ambre e di topazii!

fremiti novi de li alberi su le colline
       a l'alitare largo de 'l maestral, vi sento


       di Cintia alunna, fortissima amatrice,

rompi da 'l cortice, nuda le membra mortali:
       agile io sono, è forte la giovinezza mia!

Rompi da l' cortice; e tutto, com'ellera umana,
       tutto, ecco, suggimi di giovinezza il fiore!

VI.

A te libo, o fedele, di porpore cinto, che guardi
       su 'l mar di viola, su la fiorente selva,

come occhio di ciclope nuotante ne 'l sonno e ne 'l vino
       fra l'ondeggiare lento de' papaveri!

A te libo. Mi brilla ne 'l calice nitido il sangue
       che già a 'l tuo bacio ne' gemmanti grappoli

fervea su' colli de 'l Sannio felici... Non tale,
       di', ne' precordii l'inno de' tuoi poeti?

non tale a Flacco l'alcaica strofe ondulante
       quando a l'alban vermiglia la tonda faccia arrise?

Dava murmuri freschi il Digenza tra' pioppi, e Vacuna
       perdeasi lenta ne' vapori occidui...

Ma tu, mare, altri murmuri dài, altri canti, voi, colli,
       divinamente naufragate! E náufraghi

anche siam noi: ci spingono i venti grecali
       pregni di sale e di profumi d'alighe

ne 'l pelago de' sogni; piú lento di molli spondei
       fluisce il verso fuor de le labbra, o maggio,

o maggio fiorente, che ridi a le case lontane
       de la fanciulla nostra, susciti il van desio!


VII.

Languidi i venti cantano per la freschissima selva
       dormente ne la vasta luce plenilunare,

dormente su l'onda che mormora dolce e a la notte
       nembi d'effluvi manda, conscia di stranî amori.

Cantano i venti: - O voi cui viva pe' tronchi la linfa,
       qual per le vene il sangue vivo a li umani, sale;

voi, verdi atleti, protesi le braccia a l'azzurro
       giú ne l'altrice terra umida immersi il piede,

accogliete il messaggio! Lontano una vergine torma
       su l' monte, a la luna, sogna divini amori. -

Cantano. Ecco, e deste le foglie sogguardan sdegnose
       con un pispiglio fievole di pecchie.

- Chi va pe 'l chiarore turbando il silenzio sacro?
       Non anche rise l'alba su 'l paonazzo mare;

non anche il sole squillò sovra l'acque frementi
       l'inno de la luce. tonda è la luna a i cieli.

Deh, perché ci destate? venite in su l'alba a le nozze:
       è cosí dolce il sonno, o venticelli, ancora;

è cosí dolce il sonno! - Languisce il pispiglio ne' rami...
       Passano a torme candide le nugole

sí come portanti ne 'l grembo un amplesso di numi,
       voluttuosamente dileguandosi.

VIII.

Oh bella frenante la foga de' lombi stupendi
       tra le prunaie rosse giú per la china audace.

alta, schiusa le nari ferine a l'odor de la selva,
       
       violata da 'l sole, bella stornellatrice!

S'arresta ne l'ombra: vien alito su di scirocco
       pe' filari d'ulivi, languido su da 'l mare;

splendidamente azzurro s'affaccia il gran mar tra li ulivi
       cinerei, argentei... Fiuta ella odor di sale?

Non giunge odor salso; ma acri da l'erbe selvagge
       effluvî a buffi pungono il sangue vivo.

Entra fra le acacie de 'l clivïo ella ridendo,
       ed ei la persegue via fra le acacie basse.

Come due serpi in caldo si piegan tra 'l verde; da' rami
       troncati un profumo inebriante sprizza,

si spande de 'l sole. Non sente giú giú pe' ginocchi,
       per le reni languida la voluttà fluire?

non sente in bocca un nuovo licor da versare ne' baci
       la vergine, piú bella di un'amadriade antica?

O pantera flessibile da li occhi ove brucia il desio,
       ei t'avvinghî pe' fianchi, là, come un gladiatore;

e su l'erba t'inchiodi. Plaudite plaudite plaudite,
       come un popolo a 'l circo, piante, colline, mare!

IX.

E' il pomeriggio tacito; l'acqua de 'l fiume fedele
       specchia la gialla creta, specchia le verdi canne.

Squilla di fra le canne una nota d'argento, infantile.
       oscilla ne l'aria, palpita stanca, e muore...

Mi strappa da 'l core un sogno felice d'amore
       quella nota d'argento ne la verdura muta,


io passo correndo, alenando, sí come un giaguaro
       famelico via sotto la jungla in caccia;

io passo. M'arrestano i rovi, le viti selvagge
       su per la ripa, stretti in congiura, audaci;

si spezzan ne l'impeto i giovini tronchi, i rampolli
       di linfa gravidi, con scricchiolio di vive

ossa: l'acredine sprizza, mi punge le nari;
       mi straziano i vepri; dentro li occhi ho spasimi

di luce, vertigini... Ma io salgo, io salgo: ne' lombi
       io una invitta forza séntomi, sento in cuore

il disio de la vetta che gialla superba ne 'l sole
       sta. - E vi giungo! - Oh mare glauco ondeggiante a
       'l vento,

mare d'alberi immani, diritto su 'l vertice io grido
       liberamente, come un sannite antico.

Riarsa la faccia, stillanti le temepia, sentendo
       giú per le vene a caldi fiotti esultar la vita,

ricinto le chiome di bacche scarlatte, io vi sfreno
       strofe gagliarde: via! via con i falchi a volo!

Diritto su 'l monte io t'invoco t'invoco e ti canto,
       o Natura, o immensa sfinge, mio folle amore!

XI.

Da l'argentina volta de' nugoli
obliqui sprazzi di sole illustrano
       i culmini de la Majella
       i colli in cerchia gradanti a 'l mare;

un crepitio fresco propagasi
ne la campagna: rabbrividiscono
       i tronchi da l'ime radici
       
       sotto la pioggia primaverile,

ecco, e le punte de 'l gran con trepida
gioia da' solchi vigile adergono
       la speme d'ariste flaventi
       com'oro a' raggi canicolari

quando ne l'onda ricca le stipule
proteggeranno cortesi, a vespero
       o ad alba, la insidia d'amore
       contro le belle stornellatrici.

XII.

Oh come splendide di sole passano
le vele a coppia lunge e si perdono,
       diomedée fuggenti
       pe 'l mar di lapislàzuli!

Come ne' limpidi tuoi occhi nàufraga
l'amore a l'alito salso de l'aure
       o bruna maggiaiola
       da le forme scultorie!

Giú a 'l pian le giovini messi in verdissima
tempesta ondeggiano, li ulivi accennano:
       è il piano un altro mare
       di murmuri e di brividi.

Verdi e cerulei flutti!... Deh fermati,
libera figlia de 'l colle, oreade
       nova, di maggiorane
       redimita le tempie!

Non baci io chieggoti: a me ne l'anima
i desiderii de l'arte ridono
       sereni. A me sereni
       detti Asclepiade i numeri,


e la tua classica forma ne l'agile
sua strofe palpiti come ne 'l pario
       bassorilievo antico
       una indocile menade.

XIII.

Ma ancora ancor mi tentan le spire volubili tue,
       o alata strofe, coppia di serpentelli alati

cui domava ad Ovidio con aurei freni un fanciullo
       di Venere prole, bello feroce nume.

Lottavan essi: ferivali il tristo co' dardi;
       caldo sprizzava il sangue da le ferite fuora;

rideane il piccolo arciero scegliendo altre punte
       con un maligno tintinnir, ma - Docili!

- pregava il poeta - Perché con un dio tanta guerra?
       Egli è de' Parti alunno... Docili, o figli miei! -

Non io son Ovidio, non temo io il pargolo armato,
       non a te fido vili pianti o lascivi amori,

strofe diletta. Balzami libero vivo ne 'l seno
       il cuore, a 'l gran maggio, a 'l gran selvaggio canto

che palpita a 'l bosco, che palpita a 'l mare, che sale
       su da la verde messe, su da la vigna in fiore,

che immenso ondeggia pe' glauchi cieli diffusi,
       nembo d'effluvii, turbine di pollini,

ne 'l sole ne 'l sole ne 'l sole, esultante, squillante,
       tonante, arcana voce di mille iddii!...

E non il dio è in me? non rinfrangesi il palpito eterno
       de la materia ne' miei nervi, e vibrane


LIBRO SECONDO

I.

A 'l mare, a 'l mare Lalla, a 'l mio libero
tristo fragrante verde Adriatico,
       a 'l mar de' poeti, a 'l presente
       dio che mi tempra nervi e canzoni!

Da i diamanti ecco, freschissime
l'albe di giugno surgono: brividi
       e fremiti increspano l'acque;
       cantano a 'l vento le selve in fiore,

cantano a 'l vento epitalamii,
Lalla, non odi?; di sotto a i còrtici
       per tutte le fibre salire
       senton la linfa conquistatrice;

senton da l'ime gemme prorompere
viva la forza de' rami, l'anima
       de' pollini senton ne gl'imi
       ovuli scendere da le antère,

ecco, e felici di tutti i gaudii
de 'l verde nembi d'effluvi spargono
       a l'albe... Non altre canzoni
       voluttuose tu rendi, o mare?

non tu con tese braccia li augurii,
o Lalla, mentre timide porgono
       da laghi di opàl le colline
       i violetti culmini a 'l sole?

- Arridi, o sole! Noi anche il numine
tuo sacro invase per ogni arteria;
       noi siamo due vergini tronchi
       da le conserte floride rame


Arridi, o mare patrïo, arridimi
tu con l'amore, tu con la gloria,
       con estri tu forti e sereni,
       ché un'adorante nova io ti reco!

II.

Vuoi tu mia vergine, che sotto l'aurea
punta le doriche tue forme splendano
       ne l'alabastro rosa
       di un sonetto purissime?

o che ne 'l distico s'odano fremere
vivi a te i liberi capelli e odórino
       le macchie ove mi segui
       snella come un'antilope?

Vuoi tu ch'io minii la man diafana
cui trame d'èsili vene ti rigano,
       Lalla, di un madrigale
       sovra il nitido avorio?

o che l'alcaica rompa da l'anima
con un anelito a 'l mare, ed agile
       i tuoi sogni persegua
       la strofe d'Asclepiade?

III.

Quale, se i giovini raggi tripudii
ne l'acque torpide aurei accendono,
       la vallisneria a l'imo
       sente il dio con un fremito;

e i fior feminei avidi emergono
su le volubili spirali, a i pollini
       a l'aure a 'l sol porgendo
       lussurïosi i calici:


le nozze arridono, liberi cantano
lungo il selvatico stagno i favonii,
       ma i fiori maschi a 'l sole
       intristiti galleggiano;

tale de l'anima, Lalla, ne 'l gemmeo
fulgor de le iridi tue, con un impeto
       di giovinezza nuova
       mi sale il desiderio;

e a 'l tuo flessibile fianco di dàina,
Lalla, io le braccia, e a la tua trepida
       bocca alenando amore
       tendo io la bocca trepida:

i baci scoccano, corrono brividi
lunghi per l'intime vene, ma rigide
       a' tuoi piedi le strofe
       con ali mozze cadono!

IV.

Alta ne 'l peplo tu: s'ànimi a 'l bacio
fresco de 'l vento la castànea chioma:
bianca ne 'l peplo su l'azzurro cupo,
                                       fuor de la roccia.

Curvo a 'l tuo piede, come un tigre dòmo
stringa lo schiavo etïope il lunato
arco d'argento, e ne 'l felino avvampi
                                       occhio un desío.

L'onde pe 'l sole come serpi immani
verdi s'incalzino a la spiaggia... Ridi?
Ne l'insueto saffico un'antica
                                       larva mi tenta.


       le sirene danzano a la luna;

danzano, Lalla, e il canto - O giovini
a cui ne 'l vivo cuor, ne le arterie
       tripudiano i giugni odorosi,
       prono è il mar, la notte è bella: amate! -

susurra. Bianche le nubi perdonsi
via pe' silenzî, migrano placidi
       gli sciami de' sogni. Non senti,
       o Lalla, il divino odor de 'l mare?

VII.

Per te germogli l'ecloga a li ozii
de 'l pomeriggio, tra la salsedine
       de' venti marini, fra i trilli,
       in un chïosco d'aranci in fiore;

per te le frutta auree occhieggino
tra 'l verde cupo, ne l'Adriatico
       lontano si perda uno sciame
       di vele rosse, tacciano i lidi,

Lalla, ed io vegga su le tue pallide
gote improvviso aprire i calici
       il rosëo fior de 'l disío,
       ne li occhi fulvi ridere il sole,

schiuderti io vegga la bocca simile
a melagrana... Ch'io senta fremerti
       la bocca odorosa di arancia,
       fresca, vermiglia, ne 'l bacio mio!

VIII.

O voi ne 'l meriggio tranquille verdissime linfe
       tra le schiance, tra' giunchi, tra le fiorenti canne,

deflue; sfavillanti in tremule linee di argento
       
       lunge, da presso come smeraldi, a 'l sole,

date a 'l mio distico il mite fruscio e la pace
       de 'l verde! voi 'l riflesso de' pioppi bianchi date!...

Sta su 'l vertice fulvo de 'l monte il castello diruto
       e, bieco falco, guarda ne la convalle;

mira de la spietata aridezza de 'l vertice questi
       d'aria di piante d'acque giulivi amori.

Che la bufera ti strappi, o albergo maligno di gufi,
       vana minaccia, spettro di medioevo!

A te, ecco, io mostro i miei bianchi sanissimi denti
       giocondamente in risa, io golïardo novo,

io che qui sotto l'ombre de' salci, sommerso ne l'erba,
       fantastico di Lalla bianca tra la verdura,

fantastico di greggi lascive pe' i pascoli, quali
       vedeva a' fonti scendere Teocrito,

mentre la mia musa mollissimamente si culla
       su un letto di foglie tenere in mezzo a 'l fiume.

Ozi d'Arcadia. Pispigliano l'erbe d'intorno
       con ondeggiare vasto a l'aure, e li alberi.

Io sento a pena fluire le gelide linfe
       e dileguare languido l'esametro

teocriteo ne 'l cielo di perla, ché a li occhi si fonde
       il paesaggio, verde ne 'l sonno sfuma...

IX.

Teneami il sonno. Le carezzevoli
tue dita, o Lalla, io non sentiami
       per entro a' capelli, ne' dolce
       io su pe 'l volto, Lalla, il tuo fiato.


Ma ben sentiva per tutto l'essere
la dea presente: ne 'l sonno i giovini
       capelli fiorivanmi come
       un cespuglietto selvaggio a 'l sole.

Aggrovigliarsi per tutti i muscoli
sentiva i nervi che si faceano
       radici, fibrille succhianti
       avide il sangue da ogni vena;

e su da 'l core giovine, túbere
de 'l vegetale novo, con impeto
       la tepida linfa vermiglia,
       ecco, toccare l'ultime cime.

Allor ne 'l sole fuor da le vergini
gemme proruppe subita a l'aure
       l'infanzia gentil de le rame;
       e da le rame le foglie, i fiori

a cento a cento, Lalla, proruppero,
le foglie grasse, rossastre, simili
       a lembi di carne, chiazzati
       i fiori, o Lalla, di sangue umano,

con lunghi stami gialli, proruppero
a cento a cento. Metteva l'albero
       solingo ne l'aria una strana
       voce chiedendo pòllini, amore.

E tu d'accanto eri, o novissima
dea. D'improvviso rabbrividirono
       i rami pervasi da 'l soffio
       rinnovellante la prima vita;

quali in amore groppi di vipere
rosse, con mille nodi si attorsero:
       poi l'albero sparve... Non queste
       son le verdi acque de la Pescara?


A te ne 'l cerchio fulvo de l'iride
una gentile vendetta sfolgora
       Minacci? ed in vano ed in vano,
       povera antilope prigioniera!

XII.

Agile scivola su questo incendio
d'acque ne 'l vespero la Dáina, cefala
       da le grandi ali gialle,
       di rame i fianchi lucida.

Schiusi le fauci avide a bevere
l'odor de l'alighe, ritti, noi giovini,
       noi felici, noi forti,
       noi tutti a te con l'anima

dati e co' muscoli, ecco Adriatico
sacro, e le libere vele, ecco, a i brividi
       a li aneliti a i fischi
       tutte date de l'aura,

noi sotto l'ultime folgori occidue
passiam, fra li áuguri stormi di rondini:
       amore amore amore
       d'intorno l'onde cantano.

XIII.

Come gioconde l'ombre si allungano
giú da i ciliegi! - Dinanzi, l'arida
       giallezza de' liti e il fiammante
       a 'l sol di giugno tacito mare;

lungi, su 'l cielo chiaro, la sagoma
di Francavilla, netta, agilissima,
       tra 'l verde; più lungi sfumate
       molli caligini di viola.


Noi qui, ne l'ombra, noi ne l'idillio,
su l'altalena pendula: trillano
       i nidi per l'alto ed a buffi
       salgon li effluvî da l'erba in fiore;

li effluvî aspiri tu con un fremito
d'onza in amore, ed io l'acrissima
       fragranza di vivo che emana
       da' tuoi disciolti capelli aspiro,

avidamente bevo, ecco, io li aliti
tuoi caldi e l'aure marine. Chinansi
       le rame a gli slanci oscillando
       con crepitii di fibre rotte;

ma tu con nude le braccia a li omeri
miei forti avvinta, di fra la grandine
       vermiglia ed il nimbo de' raggi,
       onza gentile, ma tu non tremi.

Tu ridi, ridi: sotto la giovine
forza dei denti, Lalla, ti sprizzano
       infrante le turgide frutta,
       e l'umidore voluttuoso

io, Lalla, e il sano odor selvatico,
ecco, io ne' baci sento...Oh lascivia
       di labbra che succhiano rossi
       ácini e labbra piú rosse ancora!

oh giovinezza de' rami carichi
di cocciniglie serrate a grappoli,
       rompente la gloria serena
       de 'l ciel di perla con squilli audaci!

fiotti di sangue ricco d'ossigeno
rifermentanti antro le arterie
       sí come la linfa pe' nodi
       aspri de' tronchi, Lalla, ora a 'l sole!


XIV.

Si frangono l'acque odorose
con fievole musica a 'l lido;
scintillano l'Orse ne 'l cielo profondo:
un filo di luna su 'l mar tramontò.

A tratti da l'aie lontane
mi giungono i canti co 'l vento;
io veglio: da 'l cuore germoglia la strofe,
ma bianca dinanzi la pagina sta.

Ed ecco, supine le membra
distendo a 'l richiamo de' sogni...
Oh, vienmi su 'l petto, gentile vampiro;
ti dono il mio sangue, la mia gioventú.

XV.

       Diafane la lucida
riga d'avorii le dita sfiorano,
       le tue dita agilissime,
Lalla, risvegliano ne li alvei le anime

       de' suoni...A volo surgono
elle per l'aura molli de li alvei
       quali ronzando sciamano
l'api a l'effluvio novo de' calici.

       Palpitan ne' pulviscoli
aurei de 'l vespero le note, spirano
       fra li opali e i topazii
de 'l mare. Si animan, Lalla, di teneri

       lampeggi ambrati le iridi
tue grandi, l'umide labbra d'aneliti;
       e in core a' ritmi egizii
il loto glauco de' sogni crescemi.


       Pe' i sicomòri argentee
l'acque fluiscono; ne 'l plenilunio
       umido l'aure esalano
olezzi spiriti d'esseri incogniti.

       Trepide ne l'insonnia
d'amor le vergini òdon le antilopi
       in riva a 'l fiume scendere;
e il lambire avido de le lingue odono.

       ... Oh profili agilissimi
di moschee naufraghe per entro a oceani
       di nebbie! oh violacei
fulvidi oceani donde i pinnacoli

       de' minareti emergono
gittando a l'aura nembi d'aneliti
       umani tra li effluvii
freschi, tra' fremiti de l'alba liberi!

       Una riga lunghissima,
nerastra, mobile, perduta in aridi
       mari di sole e sabbia:
non piú palmizii verdi, non cupole

       che il ciel di smalto squarcino;
ma solitudine sempre, silenzio,
       Lalla, dove non germina
loto, ove cantico d'amor non palpita!

XVI.

Freschi i vènti mattutini ne la selva
entran: brividi pispigli con li odori
       salsi via per l'ampia calma
       vàn de l'interlunio;

là su ‘l lembo estremo un dolce chiaror d'ambra
si diffonde, brillan d'occhi vivi l'onde...
       Ella è lungi. A l'amor mio,
       
       ridi, alba? a' sogni ultimi?

Ridi. I sogni che da 'l cuore mi fiorían
come triste come triste dileguare,
       alba, io veggo a 'l mar, flottiglie
       candide di náutili!

Come in vano io mi contorco ne l'angoscia
che mi avvinghia qui a la gola, che mi sugge
       con le sue mille ventose
       viscide di polipo!

LIBRO TERZO

I.

Mi ronzano pe 'l capo sonnolente
in quest'arsura immensa i versi a sciame
senza pietà, qual turbine lucente
di scarabei da putrido carcame.

Io cerco a bocca aperta, avidamente,
un po' di rezzo qui sotto le rame:
dinanzi, l'Adriatico silente
ha barbagli terribili di lame.

Via ne 'l maligno immobile splendore
de l'aria si dileguano i gabbiani,
senza uno strido, in lunghe righe bianche;

e or sí or no per entro a 'l salso odore,
come voci di naufraghi lontani,
palpitan ali di canzona stanche.

II.

Stagna l'azzurra caldura: stendonsi
incendïate da 'l sole, a perdita
       di vista, le sabbie; deserto,
       
       triste, metallico bolle il mare.

Vien per la spiaggia lento il funereo
corteo seguendo croce e cadavere:
       sol qualche risucchio di fiotto,
       qualche singhiozzo di strozza umana

a tratti a tratti rompe il silenzio
greve; ne 'l cielo non una nuvola,
       non alberi a 'l piano, non vele
       spezzano il fascino de l'azzurro...

Dietro la croce, dietro il cadavere,
con litanie lunghe, allontanasi,
       va va va la pia caravana
       sotto la tragica luce immensa.

III.

Era un fanciullo da' neri selvaggi capelli,
       da' grandi occhi sognanti, pregni di verdemare;

ignudo ne l'ombra d'accanto a la tenda guardava
       i poledri pascenti tra le gramigne. Muta

l'afa incombeva su 'l campo; la brulla pianura
       perdeasi tutta gialla ne 'l solleone;

cantavan le cicale su una quercia intristita, i ramarri
       strisciavan ratti via sotto i caprifichi.

Guardava i poledri, gli zingani proni ne 'l sonno
       il fanciullo co' tristi occhi, e sognava. I lidi

sognava deserti, ed i venti ubriachi di sale;
       i bruni scogli ricamati d'alighe,

le paranzelle vermiglie, fiammanti d'arancio,
       bianche, fuggiasche per il cobalto cupo


e su da 'l musco putrido spietati
nugoli di vampiri ésili caccia.

Toto segue co 'l grigio occhio selvaggio
tristamente pe 'l ciel meridionale
un triangolo d'anatre in viaggio...

Oh, chi gli rende il fresco de 'l grecale
su 'l fiotto crespo e i vesperi di maggio
tra li acri odor' de l'aliga e de 'l sale?

Vien da lungi per l'aure sonnolente
una canzone di malinconía:
c'è dentro il grido d'un'angoscia ardente,
c'é dentro il pianto de la nostalgìa,

c'è il freddo viscidume de 'l serpente
che fra le canne attortigliato spia
e il ribrezzo febrile che a 'l morente
striscia pe' nervi, come un serpe, via!

Toto ascolta alenante; indi reclina
la grossa testa, si fa bianco bianco;
si sente il sangue a la gola salire...

Oh una boccata di brezza marina
che rinfreschi il polmone arido e stanco,
una boccata sola, e poi morire!

VI.

E' mezzogiorno. La strada allungasi
diritta innanzi, larga, bianchissima;
       da' lati le stoppie bruciate,
       non una pianta là ne 'l giallore.

Non una voce turba l'inerzia
de l'afa; ardente come un incendio
       sta l'afa. Silenzio. Ai cavalli
       pende la lingua ne 'l trotto stanco.


Ma là ne 'l campo curvi stan uomini
a sudar sangue, a farsi cuocere
       il cranio da 'l sole spietato,
       senza una sola gocciola d'acqua,

senza una mica di pane! Affondano
i disperati ne le glebe aride
       il ferro, si guardano in volto
       con occhi spenti. Non fan querele:

per come un nume reo li perseguiti
sempre, li danni a quel martirio
       di vita in eterno: la nuca
       piegan su 'l solco, non fan querele.

E' mezzogiorno, l'ora de' lauti
pasti e de' sonni molli. Essi affondano
       il lucido ferro. Vangate,
       vangate, figli; non c'è riposo.

Vangate, figli: misericordia
non c'è; vangate fin che si schiantino
       le braccia a la furia de 'l tifo.
       Vangate, figli; non c'è riposo!

VII.

Era un bastardo. Ne l'occhio maligno
gli ardeano fiamme d'odio disperato
come sprazzi di vespero sanguigno
in fondo a l'acqua gialla d'un fossato:

pallido, magro: un ciúffolo rossigno
gli stava ritto su 'l capo sformato,
ed il corpo in un pezzo di macigno
con la scure d'acciar parea tagliato.

Ma chi sapeva gl'impeti d'amore,
chi sapeva le lagrime cocenti
che affaticavan quel povero core,


quando a bordo giungevano su' venti
ne' plenilunî vasti onde di odore
e non s'udia che il russo de i dormienti?

Nessuno. Ella passava stornellante,
cinta di sol, pe 'l fulvo litorale,
data a l'amore il petto esuberante,
data i capelli a 'l largo maestrale.

Folle di gioventù, l'occhio natante
azzurro come il cielo tropicale
le s'empiea di fantasmi, e inebriante
un inno le salía da 'l mar d'opale.

Egli fremendo ed anelando in vano,
accovacciato a 'l fondo de 'l barcone,
si premeva le tempia con la mano...

- Via alle reti! - urlavagli il padrone
con un calcio ne 'l ventre. E di lontano
oscillava gioconda la canzone.

Diceva la canzon: - Alga marina!
in fondo all'acqua verde c'é le fate,
c'é un orto di coralli e una casina
fatta per le ragazze innamorate.

Diceva la canzon: - Fiore di spina!
c'é una grotta di pietre colorate,
là giú ne 'l fondo dell'acqua turchina,
fatta per le ragazze fidanzate.

E Rossaccio pensava: Io sono un cane;
per me non c'é né anche una carezza,
non c'é ne' anche un bacio! Io sono un cane.

Su, tirate, tirate la cavezza:
ecco tutto il mio sangue per un pane...
Ma se un bel giorno la corda si spezza?


Monta la falce sbiancata ne 'l ciel di berillo;
       le rive nere gittano i pioppi in acqua.

Ne 'l mezzo de l'acqua una macchia d'argento scintilla
       simile a 'l cocchio di un'antica naiade;

e Montecorno sfuma in un dubbio color paonazzo
       ne 'l fondo: languidi giungono i canti ancora.

IX.

Van li effluvi de le rose da i verzieri,
de le corde van le note de l'amore,
       lungi van per l'alta notte
       piena d'incantesimi.

L'aspro vin di giovinezza brilla ed arde
ne le arterie umane: reca l'aura a tratti
       un tepor voluttuoso
       d'aliti feminei.

Spiran l'acque a i solitari lidi; vanno,
van li effluvî de le rose da i verzieri,
       van le note de l'amore
       lungi e le meteore.

X.

In faccia a la vecchia scrostata rossiccia muraglia
       batte ferocemente il sol meridiano;

fuor de la muraglia su l'indaco chiaro de 'l cielo
       canta la nota verde un bel limone in fiore.

Un porco biancastro chiazzato di bruno-viola
       grufola lí accanto ne 'l trogoletto; ignudo

un bimbo colore di rame con li occhi assonnati
       traguarda una paranza gialla di sole in mare,


e i sogni lo tentano. I buffi de 'l greco-levante
       chi sa che pispigliano entro il limone in fiore!

XI.

Il mare canta una canzon d'amore
ne 'l plenilunio bianco a la pineta:
filtra giú per le cupole il chiarore
animando la vasta ombra segreta,

e giunge su 'l grecal fresco l'odore
de l'alghe da gli scogli d'Impruneta
mentre stanco intristiscemi ne 'l core
un desiderio folle di poeta...

Ma piú giocondi il gran mare d'argento
leva gl'inni d'amor; ma via tra i pini
un dolce nome gli risponde il vento;

ma dileguando pe' diamantini
spazi un fantasma a vol tacito e lento
mi sorride da i grandi occhi divini.

XII.

Come fusi ne 'l bronzo, come avvolti in polvere d'oro
       su 'l caldo cielo arancio s'alzano a file i pioppi,

s'allungan senza tremiti i cupi riflessi de' pioppi
       giú ne le diafane acque de la Pescara

che eguale fluisce di sotto il gran ferreo ponte
       silenziosamente a l'Adriatico,

che a voi empie le anfore larghe di rame polito,
       o belle popolane da' bianchi aguzzi denti,

acquaiole gioconde da 'l rosso da 'l nero corpetto
       vezzeggiate da 'l sole, folli stornellatrici!



Io passo vogando ne 'l fiume: d'intorno percosse
       da' remi l'acque languide gorgogliano;

balzano da l'acque fuor le memorie e i richiami
       come a 'l sol novo schiusi calici di ninfea,

balzano... Oh rugiade da l'argine verde bevute
       un giorno! oh eserciti d'alberi in tutto fiore!

Fuggiva ella dinanzi: tra i giovini rami l'amore
       giovine e i canti di gioventú recammo:

strappava ella a i rovi le more mature, a la bocca
       sua di freschezze aspre odorante i baci

avido io strappava, e andavam con i canti, e da' nidi
       pe' frutici bassi eran saluti, e i pioppi

saluti davan chini a 'l passaggio, ed in cuore il disio
       ardeane, e il giugno ampio ne ardeva in torno.

O giugno, languiron ne l'afa maligna i germogli
       tuoi verdi, caddero li augurïanti soli!

Or vo triste io remando pe 'l fiume: da' lati sfiorate
       con man debole l'acque languide gorgogliano.

Dicono l'acque: - Oblia. - Le braccia mi pendono inerti,
       fuor de la barca, ne' topazî liquidi,

ecco, e la barca per entro e 'l vapor de l'occaso
       discende il corso fluviale placida.

Io navighi, io navighi a 'l mare; ne' taciti abissi
       placidamente navighi a sommergermi!

Tu a l'imo, in una selva gentil di coralli vermigli
       quali trame di umane vene impietrate, arridi

tu bianca, da 'l magico fiore de li occhi m'arridi,
       schiudimi il cerchio de le braccia magico,


       o Lalla, a 'l divino ricordo
       de' tuoi divini baci s'avviva,

ed ha mollezze ancora, ha fremiti,
ancor rinserra fiero la immagine
       rubella per te ne la spira,
       unica musa, Lalla, tu a lui.

XV.

Quando spossato da le pugne amare
d'una veglia febrile ed infeconda,
sto co 'l capo su' fogli ad ascoltare
il mar che mugghia ne la notte fonda,

e mi si sperde a 'l vento aquilonare
ogni piú bella fantasia gioconda,
ogni piú bella immagine scompare,
e il dubbio e il freddo e il vuoto mi circonda,

io penso spesso a un gran vascel perduto
in lontananza, con la chiglia rotta,
solo, tra mare e ciel, ne la bufera;

penso ai naufraghi, là, senza un aiuto,
senza uno scampo, ne l'ultima lotta
avviticchiati all'ultima bandiera.

Ancora ancor su l'ultima bandiera
come un enorme grappolo vivente
i naufraghi per entro a la bufera
gittan le grida disperatamente.

E in vano. Scenderà la nave nera,
orrida bara, in grembo a la muggente
profondità de l'acque: una brughiera
d'alghe l'aspetta altissima e silente.

I polpi guateran con li affamati
occhi da la giallastra iride immane

quel tragico viluppo d'annegati;

poi li, in un gioco di penombre strane,
come serpi staranno aggrovigliati
tentacoli di polpi a membra umane.

XVI.

       Torpon l'onde con freddi riflessi di bisce sopite
sí come onde di nafta, tra i biechi basalti; e su questa
morta natura, o Dante, qual funebre cappa di piombo
grava il cielo tuo perso. Traversa un cinereo nastro

di gabbïani ad austro il deserto con rapido volo
e per entro a i silenzî infiniti de 'l mare si perde.
Giú giú, ne 'l crepuscolo incerto, un sanguigno bagliore,
qual d'incendio velato tra 'l fumo, protende il riflesso;

svegliasi l'onda gelida arrisa da 'l torbido lume
ed ha guizzi novelli. Torme altre stridenti, furenti
di gabbïani volan giú dietro a la trista bufera,
volano a pasti ignoti, ad ignoti cadaveri, lungi...

       O voi tra i viscidi polipi e l'alghe sommersi,
ostie immolate a 'l nume, scuotete il gran sonno, drizzate
su su da l'acque maligne le livide fronti,
su, empite di grida la scena lugúbre: v'invoco!

LIBRO QUARTO

I.

Sta la sua nave ne 'l chiarore smorto,
come un nero cetacëo dormente,
e arrugginiscon l'àncore ne 'l porto
giú in fondo all'acque ignave e sonnolente;

ma ei nuota pe 'l mar de lo sconforto,
naufrago invitto, disperatamente,
co' i fantasmi che gli hanno il core attorto

come viscide spire di serpente.

Ei nuota a voi, o candide sirene
da i verdissimi e grandi occhi spietati,
ei nuota a voi, o flessuose jene;

ché ne gli stanchi novilunî arcati
gli fioriscono ancor dentro le vene
i dolcissimi baci avvelenati.

II.

Violacee l'onde ne 'l vespero fosco d'autunno
       irrompono mugghiando per le deserte rive,

irrompon con feroce sguizzare di dorsi e di code,
       simili ad immenso nembo d'alligatori.

Vanisce il Gran Sasso da lungi, titan soffocato
       entro il torpore de la fumèa sanguigna;

per le solitudini de 'l piano s'internano in fila,
       qual caravana di dromedari, i colli;

surgono li alberi qua e là, morituri, a cui pugna
       ancor la vita ne le supreme cime,

surgono: con sibili lunghi il vapor li saluta
       fuggendo e tacito io ne la triste fuga

guardo...Oh immemori scheletri d'alberi, un giorno
       pugnaci a l'aura come virenti atleti!

oh malvage acque, di sole e d'azzurro esultanti
       un giorno, di canti larghe ad amori umani!

Ma per questo tedio angoscioso d'autunno, me porta
       lungi da 'l mare, lungi da la patria,

il mostro: su 'l volto io l'estrema carezza, l'estremo
       bacio sentomi tepido di lacrime,


non gl'inni valeano il sí de la bocca tua, d'onde
       fluiva limpida la melodia di Cino.

Bella bella bella veniva ella giú pe' declivi,
       sotto la gloria de le fiorite estive;

dinanzi, l'Adriatico glauco apriva occhi d'oro
       a miriadi tremuli su le selvagge rive;

ed ella protesa le braccia, pe' gli omeri il crine,
       sí come una iddia giovine, - O mare, o mare! -

invocava scendendo: tingeanle il candido viso,
       tripudiando, que' miei piú fieri soli...

Addio, mare! Tu li ultimi ululi a 'l convoglio fuggiasco
       dài; a te io tutte do le mie strofe. Andate,

andate, figlie de l'anima, simili a torma
       di procellarie ne la burrasca, andate!

Me attende una torva battaglia, me forte recluta
       un fratel ritto sovra gli spaldi chiama:

ode ei cupi rantoli di strozze fameliche, a 'l fondo
       come un brulichío turpe di vermi umani;

ode ei singulti di laceri petti, infantili
       gemiti, aneliti, misere bestemmie...

non piú sogni, non ozii. L'azza sfavilli ne 'l pugno
       salda; guardi l'occhio vigile a l'avvenire.

III.

E ancor li idilli dolci fiorirono
sotto le perle de 'l ciel tuo, Fiesole?
       ancor rampollarono i baci
       su la mia bocca, le strofe in cuore?

Pur non vibrava sotto l'augurio

de 'l sole, come quel giorno, un palpito
       di canti, d'amplessi, di nozze
       per la campagna lussurïosa;

non sotto i consci tigli destavasi
la ballatella di Guido, il languido
       sonetto di Cino, o tra' pioppi
       l'ottava larga de 'l Poliziano...

Silenzïose l'acque de l'Africo
tra l'erba corta scorreano: i vetrici
       chiazzati di musco, rossastri,
       senza una voce tremuli, in fila;

senza una voce in fila tremuli
i pioppi dentro l'azzurro ergeano
       in su come verghe di argento
       lucide a 'l sole le nude rame.

Ma da' tuoi occhi, ma da 'l topazio
de li occhi tuoi larghi, da l'anima
       de li occhi tuoi fondi scoccava,
       o Lalla, un inno di luce e amore,

un inno ch'io bevea sentendone
tutte le vene gonfie, le arterie
       invase...Oh, per l'erta de 'l colle
       in contro a 'l vento scoppî di risa!

oh brevi soste là tra' cinerei
olivi, e a 'l piano slanci di cupole
       su 'l cielo e da lungi nevate
       le prime vette de 'l Casentino!

Lalla, ricordi? Ricordi i rauchi
abbaiamenti di Selma, le iridi
       sue brune cerchiate di giallo,
       da 'l guardo umano, fitte su noi?

E a te sgorgava puro freschissimo

via da le fresche labbra l'eloquio
       natío quale a maggio pe' mirti,
       Lalla, da' fonti linfa decline.

E a me le tosche rime spuntavano
da l'imo core quali da l'umido
       de' solchi le cime de 'l grano
       verdi a quel mite raggio brumale...

Dove n'andaste, rime, novissime
rime? fantasmi via pe 'l ceruleo
       immenso fuggevoli, oh dove
       dove n'andaste senza un addio?

Qui ne la notte tristo io le barbare
strofe torturo; ma non un palpito,
       ma non un barlume di vita,
       ma non un lampo le scuote mai.

E pure io v'amo, pure un'angoscia
d'amor perduto mi stringe l'anima
       su voi mentre chino la fronte,
       povere strofe dilaniate!

IV.

Là, come uno spettro, inchiodato ne l'angolo buio
       de 'l vico, a notte, Lazzaro ascolta il vento.

Spietatamente gelida e pura la notte d'inverno
       sta su le case, sta su le vie deserte,

sogni dona a i felici covanti ne' tepidi letti,
       a la canaglia lividi e bestemmie.

Bestemmie e lividi a Lazzaro, o notte. Egli ascolta.
       A tratti a tratti giungon su la raffica

larghe onde di balli, folate di suoni. Egli ascolta;
       dolci le note narrano ebrezze a lui:


Triste era l'ombra, triste era il tedio
sotto la greve coltre; batteami
       la febbre ne' polsi ed un'aspra
       tosse ne 'l petto estenuato...

Chi da la morte dunque protessemi
il capo? L'erba di un incantesimo?
       il filtro de la giovinezza
       che mi fluiva per ogni vena?

Pur dolce, penso, era, ne l'umida
terra sommerso, da la putredine
       acre de le carni un rampollo
       di quercia viva sentir verdire!

Volan tra' rami fini de' mandorli
ora le strofe, candide tortore;
       non aspre e selvatiche quali
       un giorno, bruni falchi, a le nubi.

Volan tra' rami: fresche zampillano
ne la verzura le fonti; rapide,
       io sento, gorgogliano e rosse
       le scaturigini de la vita.

VI.

Batte la luna su i cristalli tersi
da 'l seren di germile, e pe 'l chiarore
va pispigliando un nugolo di versi
come su pe 'l roseto api in amore.

Li inseguo io folle, e' volano dispersi;
pur sei ne infiggo qui: su da 'l mio core
a 'l sole de' ricordi e' sono emersi
come da l'acque nenufari in fiore.

- Oh vie larghe tra' fossi, biancheggianti,
ove ascoltavo i grilli ed i ranocchi,
solo, a cavallo, ne l'albor lunare!


Lunghe selvagge cantilene erranti
con odor di carrube a gli scirocchi
là su 'l malvagio mio fatato mare!

VII.

Candido è il sol di marzo. Benigna pupilla di nume
       guarda su' campi, desta le vite nuove,

desta la gioia alata de gl'inni per li umidi solchi,
       inni d'amore, dove fiorisce il lino.

Oh come azzurri i fiori de 'l lino agitati da 'l vento
       ampi susurri muovono d'arnie, a 'l sole!

Come l'ondata bassa de 'l grano risponde, ed il verde
       tenero strappa gialli riflessi a 'l sole!

Ne l'oltremar de 'l cielo biancheggiano i peschi fiorenti:
       sognan la fulva prole ne 'l fruttidoro.

Segue il villan con li occhi una candida nube per l'alto:
       fiuta le piogge de l'imminente aprile.

E, mentre passa un reduce stormo di rondini a volo,
       fausti li augúri canta il poeta a lui:

- Surgan per lui le ariste foltissime gravide bionde
       da l'umidore, sacre a la curva falce;

pendano da le rame oscillanti, si tingano i pomi
       giocondamente sotto piú fieri soli.

LIBRO QUINTO

I.

Per li stellanti azzurri de l'amore
dietro una bianca larva fuggitiva
ei si librò con ala di condore,
pien di speranze, ad una ignota riva;


e a lui ne la cilestre iride il fiore
di giovinezza magico si apriva,
e gentilmente a lui da l'imo cuore
balzava come un fior la strofe viva...

O sogni tutti a 'l vento abbandonati,
splendidissimo stuol di cavalieri,
in van seguenti Angelica fuggiasca!

Poveri sogni d'un tratto sbandati
come branco selvaggio di sparvieri
a notte fonda in mezzo a la burrasca!

II.

Ei li guardò disperdersi lontano
pe' chiarori de l'ultimo orizzonte,
e contro il folgorío de l'uragano
sollevò quella sua pallida fronte:

un alenare, un sospirare umano
ne 'l buio gli giungea su per il monte,
un rotolar di corpi morti a 'l piano
giú per le rocce, fra le strida e l'onte.

Non piú ne 'l folto de le chiome un lene
ravvïamento di materne dita,
non il sorriso de' grandi occhi tersi;

non per l'arsura trista de le vene,
allor che la fatica era fornita,
il placido narcotico de' versi.

III.

Eran le calme notti de 'l fiorile
vive di stelle, e su da 'l mar dormente
per le vetrate aperte una gentile
aura saliva. Impetuosamente


nche il D’Annunzio come il Pascoli,
A
E a la canzon selvaggia de' marosi
ne 'l fantastico albor crepuscolare
quell'anima dovea per luminosi
cerchi di sogni immergersi e nuotare.

Chi sa! Forse giungevanle gli ardenti
aneliti de l'alghe moribonde,
aneliti a la luce ed ai colori.

O sognava gagliardi abbracciamenti
e ignote voluttà tra le profonde
selve vive di fosforo e d'amori?

VI.

L'affascinò l'abisso; ed a 'l mortale
avido abbraccio de 'l mar con l'ebrezza
di un amante ei si diede. Era d'opale
splendido il mare ed ei di giovinezza!

Io nuotavagli a fianco: il maestrale
ci alitava su 'l volto una freschezza
aspra d'effluvî, in dietro il litorale
si stendea ne la sua gialla aridezza...

Ah, perché mi stancai? - Avanti, avanti
ei rompea con indomito vigore
anelando a i silenzi sognati.

Poi non lo vidi più, tra gli spumanti
fiotti piú non lo vidi, ed il terrore
mi strozzò in gola gli urli disperati.

VII.

Ma il mar ti rifiutò. Là ne' selvaggi
clivi densi di mirti e di scopeti,
ove imperano a 'l sol liberi i maggi
e li usignoli fanno da poeti,


ora su da 'l tuo core umido, a i raggi
novi, stípule e fior' balzano lieti,
e al fin de la Natura odi i linguaggi
sacri e ne frangi i palpiti segreti.

Or te esanime, te docile a 'l Fato
eterno, te piú non travaglia il senso
spasmodico de l'odio o de l'amore;

e t'inviluppi, germe inviolato,
monade paura, ne 'l riflusso immenso
de la materia che giammai non muore.

VIII.

Io mi affretto a le pugne. Cavaliero
ignoto in arme brunita cavalco
per la campagna scabra ma un pensiero
superbo m'arde ne l'occhio di falco.

Guardan le turbe; e - Chi è questo altiero
fanciul che passai? - elle ghignano. Io valco
senza tema i roveti, ed un pensiero
superbo m'arde ne l'occhio di falco.

A tratti a tratti diritto in arcioni
io sto in ascolto con feroce angoscia
se rechi il vento clamor di battaglia,

ed a 'l cavallo pianto gli speroni
senza pietà giù ne' fianchi, e a la coscia
provo la punta de la mia zagaglia.

INTERMEZZO DI RIME (1883-84)

I. SONETTI DI PRIMAVERA

I.

Come da la putredine le vite
nuove crescono in denso brulicame
e strane piante balzano nutrite
da li umori corrotti d'un carname:

sgorgano i grandi fior' quali ferite
fresche di sangue con un giallo stame
e crisalidi enormi seppellite
stanno tra la pelurie de 'l fogliame:

cosí dentro il mio cuore una maligna
flora di versi gonfiasi; le foglie
vanno esalando un triste odore umano.

Attratta da 'l fulgor de la sanguigna
tinta la inconsapevole ne coglie;
e il tossico le morde acre la mano.

II.

A questo di salute alito enorme
che da 'l sen de la terra umida emana
mentre amata da 'l sol la terra dorme
ne la tranquillità meridiana,

io ne 'l fondo de l'essere un informe
viluppo sento che si schiude. Strana
un'angoscia mi tenta: or quali forme
partorirà la stanca pianta umana?

E l'angoscia m'incalza. E l'infinita
vista de i piani, ed il profumo occulto
che si eleva da i piani, e lo splendore


denti sotto a' cui morsi acri mi arrendo,
bocche sanguigne piú di una ferita,
pur m'é dolce per voi cosí sfiorire.

V.

O nave che a 'l mio bel mare selvaggio
davi il fianco lucente di catrame
quando abbracciato da 'l gran sol di maggio
il mio mar si spezzava in mille lame,

ed io folle di gloria e di coraggio
gridavo eretto su la prua di rame
dirizzando il timone a l'arrembaggio,
tra 'l fischiare de 'l vento ne 'l cordame;

e la giovine madre da la riva,
gittandomi su 'l vento un augurale
inno, tendea le braccia colorite;

e ne i riposi pallida veniva
a lavarmi con l'acque aspre di sale
su 'l petto e su la faccia le ferite!

VI.

Tu, madre, che da i tristi occhi preganti
mi vigilavi pallida ne 'l viso
e per l'onda felice de' miei canti
abbandonata rifiorivi a 'l riso;

tu che le angosce mie tumultuanti,
s'io ne 'l silenzio ti guardava fiso,
indovinavi, e le braccia tremanti
a 'l collo mi gettavi d'improvviso;

tu che per me in segreto avevi sparse
tante lacrime e ròsa lentamente
senza di me languivi di desío:


tu non questo credevi! Tu, con arse
le pupille, quel dí, ma pur fidente
ne 'l mio destino, mi gridasti addio.

VII.

Le barbariche strofe io, ne le prime
armi, scagliavo in alto a la ventura
ed elle, come falchi da le cime,
seguitavano a vol senza paura.

Ne lo stridulo gioco de le rime
or crudelmente io cerco una tortura
ed i versi sottili come lime
odo segarmi i nervi aspri in misura.

A lo spasimo rido io con un roco
riso, stringendo i denti, impallidendo
qual sotto il taglio un milite ferito.

Ma ne la prova di quel chiuso foco
mi si tempra il sonetto; ed io lo rendo
come un pezzo d'acciar terso e brunito.

VIII.

Quando io mi adagio, tristo e sonnolente,
poi che piú nulla al fine ora m'illude,
a marcir come un sughero cadente
ne la melmosità de la palude,

una forma di donna lentamente
da la fredda ombra come un fior si schiude,
e sorge a l'alto; ed il gran fior vivente
mi raggia il lume de le membra ignude.

Io sollevo la fronte: ne 'l torpore
un insensato d'odio impeto immane
mi soffoca, d'infranger quella muta


forma, quella pietosa erma d'amore
che solitaria a contemplar rimane
la selva de' miei venti anni abbattuta.

II. STUDII DI NUDO

I.

Ed ancora de l'arte amo i tormenti.
Ma un'angoscia mi punge irrequieta
se non meglio che i versi evanescenti
domato avrei co 'l pollice la creta.

Questi lunghi esercizi pazïenti
sopra fragili pagine di seta
mi sembran vili. Muoiono su i venti
i suoni co' i fantasmi de 'l poeta.

Oh come in vece nitide e sicure
ne la materia imprimonsi le forme
a l'ostinata pugna de 'l lavoro!

E come a 'l vivo de la fiamma pure
balzano poi da 'l minerale informe
quelle divine nudità che adoro!

II.

Quando a 'l vinto d'amor lenta si niega
e con perfido invito ella si abbatte,
e l'iride ne 'l bianco le si annega
simile a un fiore gläuco ne 'l latte,

e ne 'l disío la faccia le si piega
in dietro balenando, e le scarlatte
labbra feroci mostrano una sega
di denti acuti a lui che in van combatte,


e cosí maculata ella a 'l lunare
abbraccio si distende su lo strame
de l'alghe, e resta immota, resupina;

non dunque su 'l nerastro fondo appare
ella una grande statüa di rame
corrosa da l'acredine marina?

III. PECCATO DI MAGGIO

I.

Or cosí fu; pe 'l bosco andavamo. Sottile
ella era e tutta bionda; su la nuca infantile
due ciocche avean que' caldi luccicori vermigli
che han le vergini antiche di Tadema; tra i cigli
lunghi li occhi avean l'iride verdognola, raggiante
di fini àcini d'oro. Da l'alta erba odorante
ella sorgeva eretta, come un vivente stelo.
Noi andavam pe 'l bosco. Sopra un fondo di cielo
aranciato i grandi alberi, dinanzi, ne 'l fogliame
prendean tinte metalliche, toni intensi di rame;
parean fusi ne 'l bronzo i tronchi, ma di sotto
a le scorze, passando, sentivamo interrotto
noi ascendere il brivido pugnante de le linfe
e il romper de le gemme noi sentivamo.
                                                       - O ninfe
amadrïadi, occulte ne le estreme radici,
non voi dunque cantaste su 'l passaggio li auspicî
a l'amore? -
                       Io guardavo Yella, muto: le acerbe
risa di lei, tra 'l vasto fluttuare de l'erbe
e 'l vento, sotto i dômi alti de la verdura,
squillavano. Ed a 'l riso le si schiudea la pura
chiostra de i denti, a 'l riso l'arco de la gengiva
quasi ferinamente rosso le si scopriva.
Io guardavo, fiutando voluttuosamente;
poi che il corpo di lei esalava un ardente

profumo, qual di frutto maturo; ed un'alena
tepida palpitava ne 'l bosco; e in ogni vena
a me correva l'aspro vin de la giovinezza...
Oh freschissime risa tintinnanti a la brezza
de 'l vespro, salutanti da 'l bel grembo selvaggio
di un bosco il morituro sol di calendimaggio!

II.

Noi andavamo. - Ah, senti, senti i merli fischiare -
ella disse, fermandosi. Da 'l ciel crepuscolare
discendeva su i rami la nebbia violetta;
lentamente. D'un tratto, dietro l'ultima vetta
scomparve, in fondo a 'l lago de le nuvole, il sole.
Allora fu una molle cascata di viole
ne l'aria: un solco d'oro s'apriva basso; rotto
il bagliore su i culmini indugiava; di sotto
a i culmini illustrati, già ne l'assopimento
grave i tronchi annegavano; ne lo scoloramento
de la sera le cose perdevano le forme.
Le viole cadevano; era una pioggia enorme.
Tutto il bosco, un istante, parve a la mia vista
una maravigliosa foresta di ametista
che risplendeva; e Yella parve la maga. Eretta
fra l'erba, ella sentiva la nebbia violetta
avvolgerla; ed a l'ultima luce crepuscolare
ella diede li addii, con un alto cantare.

Ella cantava stretta a 'l mio fianco. Una ciocca
de' suoi capelli a tratti mi sfiorava la bocca;
e allor come un profumo strano di cosa viva
m'irritava le nari avide, mi saliva
pe 'l capo. Io le guardai la gola palpitante
a 'l ritmo de le note, bianca bianca.
                                                   Le piante
curve a 'l passaggio udivano?
                                       Io le guardai la gola.
Or venivan d'in torno le nebbie di viola

ne l'aria; una penombra dolce velava l'aria,
e su da la foresta profonda e solitaria
sorgevano le voci de le cose, li odori
de le cose. Pareva, non so, come da i fiori,
da le foglie, da l'erbe un sogno vegetale
salisse e si spandesse, grande e soave; quale,
non so, da le dormenti acque a l'alba un vapore,
insensibile: un sogno di foresta in amore
ch'io respirava.
                       O Yella - susurrai. Mi sentivo
languire; ed il suo braccio seminudo, il suo vivo
braccio di marmo, avvinto a 'l mio, m'insinuava
come un vellicamento fievole. Ma cantava
ella; ma ne 'l suo corpo di vergine non anche
fluiva il dolce tossico de 'l disío; ma le bianche
virginità de 'l petto non avevano pure
un anelito.

III.

               Tacque; poi che su le pianure
a l'orizzonte il disco de 'l plenilunio sorse,
improvviso. Pe 'l bosco addormentato corse
allora un lungo brivido. Il benigno rossore
lentamente vinceva la notte; da 'l pallore
de 'l cielo il disco enorme brillò, come un divino
scudo, classicamente.

                           - O, Vergilio latino,
o tu che da la curva lira d'avorio i canti
sacri derivi, m'odi! Se mai le riluttanti
ciglia a notte domai su 'l tuo poema e i dolci
sonni immolai su l'ara, mite Vergilio, molci
or le mie corde e l'ali concedimi a 'l linguaggio,
dà gl'inni a 'l plenilunio reo di calendimaggio! -


                                                       Oh come
si scoperse la gola tra l'onda de le chiome
e le iridi si persero, fiori ne 'l latte, in fondo
a 'l cerchio de le pàlpebre! Oh come il sen rotondo
sgorgò fuor de la tunica!
                                Io mi sentii su li occhi
scendere un denso velo; e le caddi a' ginocchi
e con avide mani su pe 'l suo torso ascesi,
e tremar come un'arpa viva il suo torso intesi.
Atterrita a que' subiti vibramenti d'ignote
fibre, ella con aneliti, gemiti, con immote
le pupille e la bocca dilatata, pendeva
su me. Ne le sue giovini carni il peccato d'Eva
squillava a gran martello, come sopra sonore
làmine di metallo: E' l'ora de l'amore!

Cosí, vinta, si stese. Un irrigidimento
di piacere le prese il corpo; semispento
l'occhio le naufragava ne l'onda de 'l piacere.
Chino a lei su la bocca io tutto, come a bere
da un calice, fremendo di conquista, sentivo
le punte de 'l suo petto dirizzarsi, a 'l lascivo
tentar de le mie dita, quali carnosi fiori...
O bei fiori vermigli, che avevate sapori
di mandorla, di latte, freschi sapori umani,
o bei teneri fiori, io mi sento su i vani
versi, a 'l ricordo, ancora impallidir la faccia,
ed ancora le reni, come allora, mi ghiaccia
un brivido!

VI.

                Su i vani versi per voi fatico
io stanotte, Madonna, a fermar questo antico
ricordo. E da 'l mio sangue rigermoglia l'amore
furtivamente. Yella, in fondo a 'l vostro cuore,
piú non canta, o Madonna, come un dí, pe 'l selvaggio
bosco, ne 'l plenilunio reo di calendimaggio?

IV. VECCHI PASTELLI

I.

Vagan le foglie su 'l rincrespamento
lieve de l'acqua, come piastre d'oro,
si ripiegano in cerchia i giunchi a 'l vento
scorsi da un lungo brivido sonoro,

e per l'alto a l'immane ondeggiamento
ne 'l turchino de 'l ciel risponde un coro
bianco di pioppe. Làmine d'argento
sfiorano l'acqua a 'l sol di fruttidoro:

tra sole ed acqua una stornellatrice
ritta ne 'l mezzo canta e pesca anguille,
a gambre nude. Ella non guarda in torno;

ella canta cosí, tutta felice.
E le note s'allungano tranquille
ne la tranquillità de 'l mezzogiorno.

II.

Liberamente giú da le oscillanti
rame ad agosto cariche di frutti,
quali da 'l cocco scimmie schiamazzanti,
pendon mobili grappoli di putti.

Figure seminude di baccanti,
a cui la giovinezza aspra da tutti
i pori vibra, a 'l mar levano i canti
tra la calda salsedine de' flutti.

Larghi aliti di vento sciroccale
muovono: resupino, a 'l sole in faccia,
con strappi di chitarra un maschio imberbe


guida que' canti. E a 'l sole è un baccanale
di torsi vivi, di gambe, di braccia,
sotto la pioggia de le frutta acerbe.

III.

Ardon pallide fiaccole a le prore
de' navigli filanti; e su la vetta
de li alberi maestri pe 'l chiarore
tepido i mozzi stanno a la vedetta.

L'estremo arco lunar su l'onda in fiore
perle di luce, vezzi ésili getta,
e ne l'umidità monta l'odore
de la pesca e il sospir de la maretta.

Fiutano i mozzi, a tratti fra 'l sartiame
sguizzando come gatti, illuminati
fugacemente da i riflessi gialli

de le fiaccole; e a 'l grande arco di rame
s'alzano i canti de li innamorati
che parlano d'amore e di coralli.

IV.

Ondeggian bianche ne la pallidezza
verdognola de 'l cielo marzolino
le fiorite de' mandorli: a 'l salino
alito de' grecali è una freschezza

d'ombre d'odori di pispigli. Il lino
ondeggia basso. In questa gran lietezza
di vita nuova, in faccia a 'l mar turchino,
ella sente cantar la giovinezza

ne 'l sen materno. La canzone rude
fuor de la gola pullula come onda
vergine da la vena. E mentre il figlio


d'iride, in mezzo a i toni opachi d'oro,
su 'l molle raso ov'è trapunto il gallo...

Impetuosamente io su i fermagli
de l'ultima terzina ancor lavoro;
e mi stride ne l'impeto il metallo.

II.

Non mai vi vidi io dunque ilare, a 'l fresco,
ne i rossi novilunî di Siviglia,
urtare il marmo d'un cortil moresco
co 'l piè gentile, a suon di seghidiglia?

Ne i circoli de l'agile arabesco
ondeggiava fremendo la mantiglia;
e s'apriva per l'ansia, come un fresco
fiore, l'anel de la bocca vermiglia.

Stanca sedeste, ove il raggio lunare
sotto l'arco moriva, a 'l dolce invito
aprendo con le fini unghie un'arancia:

quand'io chino su voi, senza parlare,
entro il fumo e l'odor de 'l papelito
arditamente vi baciai la guancia.

III.

S'io fossi mai, crudele Marchesana,
un poeta pittore e mandarino
da 'l lungo obliquo mite occhio vetrino
animante un candor di porcellana,

vedreste su 'l ventaglio in una strana
primavera fiorir sotto il mio fino
pennello, come a li orti di Pekino,
rami di thè, d'aglaja e di banana.

Passano in vece per la nera seta

oh, date palpiti a 'l mare! dàtene!...

       Una falce di platino
sta su 'l purissimo turchino: languide
       cantan ne la penisola
le rame tènere, cantano: - un popolo

       noi siam che vive, i fremiti
d'amor per l’intime fibre ne corrono;
       sogniamo bionde aureole
di sole - cantano le rame tènere.

       Una biscia azzurrognola
ricurva luccica ne 'l violaceo
       lembo de 'l cielo; cantici
umani vengono stanchi per l'aure.

       O pescatore ammàina!
- dicon que' cantici - E' il novilunio;
       di sirene un esercito
sott'acqua insidie prepara: ammàina!

       Un grande arco amazonio
di rame folgora tra lievi nugole
       ferme la barca ha l'àncore
ne 'l fondo; immobile a poppa io vigilo!

       non anche il pesce morsemi
l'esca, ma assiduo il desiderio
       l'aspettante cuor mordemi,
o fata, o candida mia fata. E vigilo!

III.

Addio! Il sole di maggio, il classico
sole, barbagli aurei di làmine
       su l'acre verdezza de l'acque
       gitta, a me desiderî ne 'l cuore:

addio, di libri varie lunghissime

ne 'l cuor palpitante, ne i nervi, ne 'l sangue, e una strofe
       è ogni fremito, una divina strofe

che vola a l'immenso poema di tutte le cose.
       Io - grida entro una voce - non son io dunque un nume?

V.

Sta il gran meriggio su questa di flutti e di piante
       verde-azzurrina conca solitaria;

ed io, come un agile pardo a l'agguato, m'ascondo,
       platano sacro, qui fra le chiome tue.

Sotto brillano l'acque infinite perdentisi via,
       ne 'l cupo cobalto, lunge a 'l perlato cielo.

Pénetra il sole tra i densi chïoschi in oblique
       strisce, in ricami onduleggianti a 'l greco;

pénetra...Oh pioggia lucente di schegge e di squame
       sovra il mio capo, sovra l'erbette in fiore!

Oh vipere bianche, cerulee bisce lascive
       scherzanti con freschi strepiti su le ghiaie!...

Vanno le brune a coppia paranze veliere ne 'l sole
       meridiano come alati cèfali;

van come i sogni de 'l core mio belle ne 'l sole,
       ne 'l sol come i canti de la mia musa liete.

Chi dunque sí dolci rimormora canti lontano
       rïecheggianti per le verdi cupole?

Firse ripalpitan vive le driadi antiche
       ne' tronchi e una driade or fra le braccia io serro?

- O bella driade, o cara a Vergilio, o bionda
       
e va e va il sogno pe 'l sol, per l'azzurro, va lungi
       portato da 'l desio, va il sogno a batter l'ala

su la pergola verde ove siede una bianca fanciulla
       cui fioriscon le tele sotto l'industre mano.

Filtrano i raggi d'oro pe 'l fresco fogliame, e le brillan
       su' nei capelli, bacianle il mento ovale;

due tortore tubano un gentil madrigale da l'alto:
       ella pensa e ne' grandi occhi un disio le trema.

X.

Ecco, e le strofe distiche, vipere alate in amore,
       armoniche vipere, balzino a 'l sol di maggio;

volin alte pe 'l sole squillanti, sonanti tra il verde,
       ne la giovine selva, giú per le rosse fratte

volino... O canzone virente che sali da' rami
       ampia, solenne, coro di numi, ai cieli,

virente canzon, ch'io ti strappi una nota soltanto,
       ch'io fermi un accento solo ne 'l verso, e muoia!

Ma Natura non ode. Dileguano lungi le griga
       per la boscaglia fluttuante a li aliti

larghi de l'aure, scintillano l'acque de 'l fiume
       di tra le canne curve: gorghi, candide

spume, murmuri, strepiti. E un molle polviglio d'argento
       su fino ai salici, a le acacie, a li ardui

pioppi turbina, ricade, s'irradia, vanisce,
       s'addensa... O freschissime piogge tripudianti

su le mie chiome! nebbie sottili, rugiade, ricami
       d'iridi pendule da la ramaglia in fiore!


il cérebro, vibrane il sangue, fin l'ima fibrilla
       ne vibra, zampillane forte una vita nova?

Ecco, io distendo ne 'l concavo schifo le membra,
       do a' baci de 'l sole questo mio petto e il viso.

Tu cullami, o mare, su l'onda tua fresca d'effluvi;
       voi guizzatemi intorno, sí come pesci, o strofe.

Guizzate. Da me inconscio rampollino erbe e virgulti...
       Navigherà per l'acque un'isoletta a sera.

XIV.

       Nuotano pe' chiarori
verdi de 'l tuo crepuscolo nubi di madreperla,
       o maggio, e l'onde a riva
molli s'allaccian simili a naje innamorate.

       Non una vela in fondo:
traversano le rondini gaie con le canzoni
       a lunghissime righe:
acuto vien per l'aure fresche odor di catrame.

       E i fanciulli cui primo
arrise il sol, riarsero gli scirocchi maligni,
       via per le arene in corsa
strilli e cachinni mescono come stuol di gabbiani.

       O vespero di maggio
estremo, in cor mi ronzano dolci rime, com'api.
       A te, vespro, io le sacro:
tu m'aggioga la saffica strofe che balza e freme.

       Aggioga! E voi, de 'l mare
brune figlie bellissime da le bocche fatate,
       - surge l'arco lunare
sovra i monti de 'l Sannio - voi cantate, cantate!

V.

Oh bella tra' larghi cachinni su 'l mare adagiata.
       penisoletta verde e solitaria,

come in lago un enorme caimàn da 'l gran dorso fiorente,
       a galla, immobile, lungo sopito a 'l sole!

Si slanciano l'erbe d'intorno in altissimi ciuffi
       ove un popol d'insetti brulica ne l'amore,

ove striscia il ramarro agilissimo e guata in ascolto
       a 'l susurrare vasto de le roveri.

Blandi susurri. Non questa, o Catullo, è la gaia
       tua scoppiettante folleggiante musica

di corïambi? non questa?... Deh, segui. Voi m'avvinghiate,
       candide braccia, tenacissime ellere,

voi m'avvinghiate! rompetemi il dattilo in bocca,
       fervidi baci de la fanciulla mia!

VI.

Dormono l'acque ne 'l plenilunio
di giugno; ritte su da la darsena
       le antenne stan come sottili
       fantasimi a 'l nivëo chiarore.

Via co 'l grecale tacito navigan
le nubi a fiocchi, migrano placidi
       gli sciami de' sogni Non senti,
       o Lalla, il divino odor de 'l mare?

Non odi? le acque destate un fremito
recano lungo; su 'l vento palpita
       un'ala di canto. Stanotte
       
non questi i salci che ne 'l silenzio
meridiano, Lalla, mesceano
       per l'aure odorose il tuo nome
       ai freschi idilli siracusani?

X.

O falce di luna calante
che brilli su l'acque deserte,
o falce d'argento, qual messe di sogni
ondeggia a 'l tuo mite chiarore qua giù!

Aneliti brevi di foglie
di fiori di flutti da 'l bosco
esalano a 'l mare: non canto, non grido
non suono pe 'l vasto silenzïo va.

Oppresso d'amor, di piacere
il popol de' vivi s'addorme...
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia a 'l tuo mite chiarore qua giú!

XI.

Tra le spietate fratte ed i frutici
di caprifogli densi, di luppoli,
       tu bella, o de' nespoli in fiore
       candida antilope prigioniera!

D'intorno gialle vive ti sguizzano
bisce di sole: s'increspa a un tremito
       gentil la narice da' succhi
       evaporanti aspri ferita.

Ed io ti guardo schernendo: - Oh pungiti,
pungiti dunque ad un aculeo
       ché sugger da l'ésile piaga
       il tuo gentile sangue disío. -


       Le caravane candide
de' sogni migrano per solitudini
       immerse ne 'l misterio
migrano ai datteri, migrano a l'òasi

       de l'amore...Oh palmizii
giganti, carichi di fulvi grappoli,
       diritti fra le porpore
de 'l ciel, fra cantici d'arabe vergini!

       E i cantici agonizzano
entro il silenzio sacro, e da 'l culmine
       de' minareti a 'l vespero
le malinconiche voci ripetono:

       - Allah è grande! - Ma turgide
le umane arterie di desío pulsano,
       i coccodrilli s'amano
fra 'l limo, odorano le ombre, il Nilo àugura.

       Ne 'l turbine de' balsami
fumidi un turbine vivo di femmine,
       come un groppo di crotali,
di naje, s'agita striscia contorcesi

       guizza sotto gli spasimi
de la lascivia: s'impregna l'aria
       d'un odore salvatico
di carne: cupide le nari fiutano...

       Férmati, alméa! Le braccia
ignude bronzee gonfie di arterie
       protesa in alto a l'auspice
luna, tu bévine co' tondi glauchi

       felini occhi da l'orbita
riarsa i placidi raggi, distenditi:
       voluttuosi brividi
di sonno corrono tra l'acque e li alberi.


sognava; l'acqua verde in cui diguazzò ne' meriggi,
       la', come un giovine cefalo innamorato.

Batteva il libeccio maligno di tra i caprifichi;
       ed il fanciullo a l'ombra ne 'l gran silenzio ardente

accarezzava la vecchia chitarra scordata
       cantando a voce bassa una canzon di mare.

IV.

Sta seminudo sopra lo scoglio
un pescatore: contempla il sughero
       fluttuante su l'acqua verdastra;
       gialla è la canna ne 'l ciel turchino.

Curva ha la grossa testa, gli pendono
i magri stinchi su l'acqua; immobile
       a 'l sole feroce di agosto
       ei pare fuso ne 'l bronzo antico.

Ecco, e due barche d'accanto passano
bianche di ombrelli, passan gittandogli
       in faccia una ondata di risa:
       paion li ombrelli ninfee immani.

Il pescatore guarda, e ne' torbidi
occhi di bruto ha un lampo; scricchiola
       la povera canna serrata
       entro il convulso pugno d'acciaro.

V.

Stanno in cerchio a ‘l padule di Treccati
alberi gobbi da le tronche braccia,
che sembrano fantasimi piantati
là su' ranocchi in atto di minaccia.

Il sole tra' vapori insanguinati
dà scintille maligne a l'acqua diaccia

S'inerpicava su per la scogliera
l'omicida, sbiancato ed affannoso,
ne l'ampio solleon, come una fiera;
e stringeva il coltello sanguinoso.

Lo salutarono i gabbiani a schiera
pe' massi alzando il volo fragoroso:
ei gittò il grido a una barca veliera
precipitando in grembo ad un maroso.

Alto sonava de l'uman lavoro
il fulvo litoral; triste, interrotto
venía per l'aure de le donne il coro;

e supino un cadavere su 'l fiotto
di smeraldo rigato a zone d'oro
mostrava in faccia a 'l sole il petto rotto.

VIII.

La luna nova ne 'l tenero ciel d'ametista
       pende su Montecorno, come una falce d'oro.

La Dea s'addorme in un molle vapore azzurrino
       che da le membra immani par saliente; a lei

son talamo i colli felici che tendono a 'l mare,
       vitiferi colli, grati a l'eterno sole;

tede li adtri arridenti qua e là pe 'l profondo zaffiro...
       Invida la Majella guarda; verdastro il fiume

passa tra i pioppi; giungono canti d'amore su 'l vento
       da l'aie a 'l ritmo de le trebbie. - O vergini

brune, o giovini, piú fiera ne 'l sangue la vita
       vi palpita, piú calda la giovinezza in cuore.

se le canzoni natie da la bocca sí dolci
       v'escon, si dolci; sotto la luna nova? -


infiltrami il tossico dunque ne' baci, o Medusa!
       Ch'io senta vivo da' tuoi labbri suggermi

l'anima e il sangue: i polipi avidi con mille ventose
       indi a 'l cadavere vacuo si avvinghino.

XIII.

Tu forse dormi. Ne la grotta oscura
de 'l sonno ti appariscan scintillanti
le strofe mie, vivente fioritura
d'attinie in mare, ed ogni strofa canti;

sprizzi una fonte in mezzo a la verdura
qual colonna sottil di diamanti:
fuori vasta biancheggi la pianura
e il silenzio lunar l'émpia d'incanti...

Io qui con le narici avide a l'aria,
teso l'orecchio, come una tigre in caccia
se le antílopi saltan fra le rame,

io vo pe 'l lido ne la solitaria
notte a 'l risucchio egual de la bonaccia,
fiutando odor di asfalto e di catrame.

XIV.

Ne l'acquitrino verdastro accendono
scintille d'oro caldo i crepuscoli
       d'autunno: son note squillanti
       in quella mesta tinta fiamminga,

son come un riso ultimo; tremule
di fra li acuti giunchi ed i cárici,
       risvegliano un mondo di morti
       su su da 'l triste cor de' poeti.

Tale il mio pigro verso colorasi,
o Lalla, a i raggi de le memorie;
       
e i materni aneliti; ancora ne l'anima suonan
       le rotte voci ch'ella mettea piangendo,

ancor l'immagine cara protendere io veggo
       le braccia in ultimo impeto disperato.

O madre, mi chiama un intenso desio di battaglie
       a genti ignote, lungi, ad ignoto cielo!

Pur, dolce l'incanto de' tuoi sereni occhi e il consiglio
       dolce m'era; una pace nova fluir pe 'l sangue

io sentivami quando, riarso la faccia, sfinito
       le membra a le corse folli, ai galoppi, a 'l nuoto,

su le ginocchia il capo selvaggio posavati e lene
       la tua man scorreami entro le calde chiome.

Entravan ne le chiome libere i venti ed il petto
       ai venti libero gl'inni di gioia dava.

Oh inni squillanti da 'l petto per l'ima boscaglia
       tra l'alenare di mille verdi vite,

belli inni sonanti, ne l'albe di maggio, a 'l galoppo
       de 'l mio poledro, lungo le fratte in fiore!

Sotto la coscia serrata il palpito de' fianchi
       tiepidi io sentiva, ne le narici l'aspro

effluvio de' crini: tendeansi i muscoli, i nervi
       de 'l garretto sí come archi di acciaio; e, tutte

date le briglie, andavam tra la polve... - Salute,
       dicean cortesi li alberi - o centauro!

Salute! - dicean frementi a la guazza li atleti,
       tutti di germini vivi a l'amor de 'l sole.

Ma non gl'inni, ma non gl'inni valeano un tuo sguardo,
       o Lalla, o candida suora di Beatrice;


- Noi veniam da le stanze tepenti lucenti fragranti
       ove l'amor sorride, ove il piacere impera,

noi veniamo da un vortice gaio di seriche vesti,
       da un barbaglio di gemme, da una follia di fiori! -

- A me picchia ne 'l ventre la fame da piú di due giorni:
       ho addosso la febbre, m'è morto già un figliolo;

a me il vento mi sferza la faccia, ho qui l'unghie gelate,
       sento giú ne la gola grume di sangue e fiele...

Ecco, sento che muoio; ma a casa, perdio, non ci torno:
       noi si muore a la strada, peggio che cani, noi! -

risponde il pezzente; e stramazza. Ma il gelido vento,
       disceso a valle da la montagna, bieco

urla: - Godete, godetevi i balli e le cene,
       o felici; sognate entro a' ben caldi letti!

Fuori, ne le strade fangose, ne' sozzi angiporti,
       ne le soffitte, ne le stamberghe, a 'l buio,

là dov'è fame, dov'è freddo; là dove si muore,
       a notte un sordo fremito propagasi.

V.

E alfine, o mite sole, a te l'anima
s'apre! La fronte data a la gloria
       de' raggi, o bel nume, sorrido
       convalescente languido ancora.

Tu guardi, o sole: per tutto l'essere
un tepor novo spargesi; rapide,
       io sento, gorgogliano e rosse
       le scaturigini de la vita.


ei co 'l fino de l'arte agile stile
tormentava la strofe; io come ardente
cuspide il verso libero e virile
di Lucrezio sentía ferir la mente.

Ridea l'alba su l'acque; alto a la brezza
in un lungo d'amor tremito immane
cantavan l'acque il mattutin giocondo,

mentre ei pallido d'ira e di stanchezza,
fiaccati i nervi a la battaglia inane,
reclinava su 'l foglio il capo biondo.

IV.

E pure questo eroe, quando piú fiere
sentia le fitte, i languidi snervanti
oblii non chiese a l'orlo de 'l bicchiere,
non a la verde maliarda incanti

chiese e torridi filtri e primavere
false da le selvagge attossicanti
flore dove in un nembo di piacere
spasima tutto un popolo d'amanti,

tutto un popolo folle d'assetati
arsi da un desiderio che non langue,
da un desiderio tragico e fatale

irresistibilmente trascinati,
valanga viva di carne e di sangue,
in corsa eterna, a 'l sole tropicale.

V.

Assenzio no. Ma ne' tramonti afosi
d'estate quante volte in riva a 'l mare
l'han veduto fisar que' suoi pensosi
occhi ne l'acqua e starsi ad ascoltare!


de l'aria, e queste immense onde di vita
che su 'l capo mi passano in tumulto,
or mi dànno, io non so, quasi terrore.

III.

Non piú dentro le grige iridi smorte
lampo di giovinezza or mi sorride:
la giovinezza mia barbara e forte
in braccio de le femmine si uccide.

Alto gridando in van la mia coorte,
in van me chiama a l'armi e a le disfide:
io qui ne li ozî la mia bella sorte
oblío tra voluttà pazze ed infide.

Quasi un tossico lene ora mi sale
ogni arteria, un languor lungo mi snerva;
ed io virtù non ho piú di lottare,

come allor che su 'l vento maestrale
mi balzava la strofa ebbra e proterva
squillando innanzi: O mare, o mare, o mare!

IV.

O bei corpi di femmine attorcenti
con le anella di un serpe agile e bianco,
pure io non so da' vostri allacciamenti
ancora sazio liberare il fianco.

Bei seni da la punta erta fiorenti,
su cui mi cade a l'alba il capo stanco
allor che ne' supremi abbattimenti
de 'l piacere io m'irrigidisco e manco;

reni feline pe' cui solchi ascendo
lascivamente in ritmo con le dita
come su nervi di falcate lire;


nulla è piú bello che quel serpentino
allungarsi e restare irrigidita
con un supremo riso entro ne li occhi,

se l'uom, livido in faccia, a capo chino,
ebbro d'ira, tenendola a la vita,
su 'l collo i baci aridi a 'l fin le scocchi.

III.

Quando prona, co 'l ventre ne l'arena,
nuda si lascia a 'l conquistare lento
de le maree, non dunque a luna piena
ella è una grande statüa di argento?

Venere Callipige in una oscena
posa. Scolpiti ne 'l tondeggiamento
de' lombi stan due solchi; ampia la schiena
piegasi ad un profondo incavamento.

Cresce il flutto e la bagna. Ella si scuote
a 'l senso di quel gelido contatto
e di piacer le vibrano le terga.

Il flutto su la faccia la percuote;
ma rimane godendo ella in quell'atto
fin che l'alta marea non la sommerga.

IV.

Quando risorta da quel bagno, tutta
grondante, chiusa ne le chiome scure,
fremendo preme ne l'arena asciutta
ella i contorni de le membra pure;

e strette ne la man tiene le frutta
de 'l seno, urgendo le due punte dure;
e si striscia, e l'arena aspra le brutta
stranamente la pelle di figure;


IV.

Quando il grande letargo de 'l bosco ne i chiarori
lunari si sommerse, crescevano li odori
su da 'l bosco profondo in marea fresca; e il vento
carico de li odori per quel biancheggiamento
mettea soffi, recando come lunghi bramiti
di cervi in lontananza. Or le cerve da i miti
occhi umani ascoltavano ebre di desiderio
que' richiami d'amore, trepide ne 'l misterio
de l'ombre vigilando se non già tra 'l fogliame
d'in torno luccicassero li occhi ardenti di rame
d'un amante. Passava il vento: i secolari
tronchi di quercia ergevano a li incanti lunari
le membra, come atleti che chiedessero abbracci,
ansando ed anelando, non piú paghi de i lacci
de l'edera. Parevano rettili alti in agguato
certi alberi; mettevano su 'l candore perlato
de la luna, certi alberi, come una efflorescenza
rigida di dïaspro; e ne la evanescenza
de la luna era come una selva lontana
di cupole e di aguglie, era come una strana
città che si perdeva in fughe di viventi
colonne, pe 'l vapore. Ma li odori crescenti
attossicavan l'aria; ma da quel gran letargo
vegetale esalava un respirare, un largo
respirare di belva; ma come voci rotte
di piacere animavano il bosco, ne la notte.

V.

Noi ci fermammo. A noi sovra il capo il fulgore
piovea placido e fresco; ne le carni un languore
novo metteane, quasi penetrasse la cute
ammollendo le vene. Ora un disío di acute
voluttà mi pungeva, innanzi a quella bianca
vergine inconsapevole. - Io sono tanto stanca -
ella disse, piegando ne la persona...

avido cerca tra le poppe ignude,
balza da 'l labbro la canzon gioconda
e il latte da 'l capezzolo vermiglio.

V.

Rabbrividisce il mare sonnolento
a l'alba. Si dileguan ne la mite
alba le dune in un biancheggiamento
smorto, come una landa selenite.

Ferma è la barca: un alitare lento
ne l'aria muove da le stanche vite,
e s'agita il fanale semispento
riflesso ancor ne le acque scolorite.

Vigila un uomo a poppa, fra le nasse
umide e i cesti carichi di pesca
fischiando ne 'l silenzio interlunare.

E che tristezza in quelle note basse
a ritmo di ribeba zingaresca
modulate su i sonni almi de 'l mare!

V.  I MADRIGALI

I.

Le làmine de 'l verso aurëe batto
io faticosamente co 'l martello,
e per voi, musa da li occhi di gatto,
ogni làmina d'or piego ad anello.

Tacito, su la vana opera, in atto
di artefice chinato su 'l gioiello,
per voi, madonna, vigilando, io tratto
ogni làmina a punta di cesello.

Le gemmee rime sprizzano barbagli

 
Fonte:
www.istituti.vivoscuola.it
le rondini d'argento a vol disperso,
(lungi son le moschee) con la fortuna...

Ma pure a me, barbarico poeta
ne la prosa domato, ancora il verso
per voi fiorisce, o Marchesana bruna.

IV.

Ella intreccia da 'l curvo ago li stami
fra le onici de l'unghie scintillanti
e in sen le scende per virtú d'incanti
una vergine pioggia di fiorami.

Si destano i miei sogni anche a i richiami
de 'l desiderio, vergini; ed avanti
le piovono in fulgor di diamanti
anche de' sogni i floridi velami.

Dorme la stanza immersa in un chiarore
d'alba plenilunar, che si diffonde
per l'alto da la sfera cristallina.

E ne 'l silenzio l'anima in odore
esalano le rose moribonde
fuor da li antichi vasi de la China.

V.

Quando ampio s'apre il plenilunio ardente
su i verdi sonni de li stagni a 'l piano,
ne la pagoda i rulli cupamente
de 'l gran tamburo echeggiano lontano.

Su 'l popolo de' bonzi, erto e fulgente
guarda Fo muto iddio da l'occhio umano
e tra gl'idoli d'oro e i mostri in lente
onde li aromi sfumano pe 'l vano...

Ma la sacra bevanda con un riso

voi ne la fine tazza di yué
mi versate fra i nembi de 'l vapore;

mentre a voi su 'l tappeto io prostro il viso,
in poeta fanatico del thè
con Khian-Loung celeste imperatore.

VI.

Un antico rondò di Cimarosa
da la spinetta al fin li echi sopiti
risveglia fra le tende alte di rosa,
ne i fondi de li arazzi scoloriti.

Vibra il sol la sua lama radiosa
d'oro su quel languor di tinte miti,
e par che rida in ogni morta cosa
un'anima di fiore, a quelli inviti.

Madonna è china, a la spinetta: sale
ogni mio verso in ritmo de l'adagio
per la sua nuca a 'l limbo de' capelli.

E mentre io le susurro il madrigale
rompe ella in un suo bel riso malvagio,
passando a una gavotta di Jommelli.

VII.

Su 'l divano di scarlatto
tutto a grappoli d'argento
il bel capo sonnolento
ferma un tono d'oro matto.

Ne' suoi tondi occhi di gatto
il bagliore è semispento,
su 'l divano di scarlatto
tutto a grappoli d'argento.

Co 'l piacer fine de 'l tatto

a la gola io l'addormento:
spira un fievole lamento
ella, e resta in quel dolce atto
su 'l divano di scarlatto.

VI. VENERE D'ACQUA DOLCE

I.

Ancora io t'odo su la riva, o Nara,
tra le selve de' giunchi e de' canneti
chiamar con le canzoni agile a gara
le cicale de' pioppi, ne' quieti
mezzogiorni di giugno! La Pescara
gorgogliava freschissima pe' i greti:
cantando, il piede breve e la rotonda
gamba tenevi tu, Nara, ne l'onda.

O selvativo bosco di Fusilli
pieno d'erbe aromatiche e di more,
ove di quella voce alta a li squilli
si destavan le capre da 'l sopore
e guatavan co' lunghi occhi tranquilli
in atto di pigrizia e di stupore,
o bosco, ed or tu dammi ne le ottave
l'aura de la tua verde ombra soave!

In questa siccità di mezzogiorno
un disío de la dolce acqua nativa
mi prende. Ora verdeggia ampia d'in torno
Villa Borghese; ed io su l'erba estiva
mi distendo supino, ed un ritorno
naturale di versi mi ravviva
le memorie; e non mai cosí da prima
larga, sonante mi fluí la rima.

Tu, Nara, dove sei, florida bionda
da la pelle bronzina di mulatta,
che avevi grigia l'iride profonda

e una stupenda agilità di gatta?
Tu non piú ritta in piedi su la sponda
vedi a l'alba passar me su la chiatta
in mezzo a 'l fiume, tra 'l rabbrividire
de le canne tendenti a rifiorire!

Te non piú camminante, tra un fogliame
di cocomeri e zucche aspro ed enorme,
io vedo, con un'anfora di rame
su 'l capo, ne 'l terreno imprimer l'orme
de 'l nudo pié! Tra i fumi de 'l letame
piú non vedo venire le tue forme,
o te diritta emerger fra le piante
de i girasoli, come un fior gigante!

II.

Tale prima io la scorsi. Era un'oscura
conca d'acque in un braccio solitario
de 'l fiume ove traverso la frescura
filtrava il sole a tratti agile e vario;
di sotto a una spalliera di verdura
tenera qualche tronco centenario
di salcio da le radiche scontorte
pareva un gruppo di vipere morte.

Io disteso ne 'l fieno, poi che a l'esca
non un sol pesce accorse, udivo il lento
mareggiare de 'l fieno a l'aria fresca
e de li alberi il gran frascheggiamento.
Trasalii; ché tra l'erba gigantesca
parve d'un tratto mi recasse il vento
un sentore di carne: il corpo eretto
di Nara, seminudo, a mezzo il petto,

sorgea fuori de l'erba. Ella con mite
fruscío tendea, strisciando, a la riviera:
le mazze sorde intorno le fiorite
spighe ergevano a lei. Come levriera

ella fiutava il vento, alta: ferite
da la provocatrice primavera
le sue nari vibravano; su 'l dorso
i suoi capelli ribellati a 'l morso

de 'l pettine cadevano. Un antico
di menade frammento era il suo busto
eretto, in quell'inconscio atto impudico.
Giunse a 'l limite: l'acqua ne l'angusto
cerchio stagnava, e fino a l'ombelico
la bagnò frescamente. A l'acre gusto
di quel fresco increspavasi la pelle
e dure si drizzavan le mammelle.

Io spiava tra l'erba. Ella, le braccia
protesa a un ramo, tutta sopra il saldo
fianco ondeggiò, levando alto la faccia
e la gola carnosa ove oro caldo
le si accendea. Poi, come serpe in caccia,
da 'l ramo si lanciò ne lo smeraldo
de l'acqua che in tempesta ampia si mosse
rifiorendo di schiume a le percosse.

Le nudità pieghevoli guizzanti,
ne 'l mister de la conca fluviale,
tra una greggia di foglie galleggianti
metteano un solco; e dietro il solco l'ale
il desiderio mio tratto a li incanti
de la carne battea rapido, quale
a 'l bosco richiamato da l'odore
de la preda selvaggia un avoltore.

Ma quando il corpo ella adagiò deterso
a fior de l'acqua e simili a scarlatte
bacche le cime de 'l suo sen riverso
galleggiarono, e il ventre suo di latte
palpitò di stanchezza, e de l'emerso
monte tra la peluria fina attratte
scintillaron le gocce, e ne la grigia

iride scintillò la cupidigia

de 'l piacere, io che in quel riarso letto
d'erbe in silenzio mi torcea, ferito
da un intenso desío, tale da 'l petto
per non piú soffocar misi un bramito,
che con rapido moto ella in sospetto
si volse. Poi, qual cerva che a l'invito
de l'amore fiutando erge la testa
se oda il maschio passar ne la foresta,

la giovine guatò, senza paura,
in attesa di pugna... Oh come, oh come
a l'agguato de 'l sol la sua figura
tutta ne la ricchezza de le chiome
si porse e in van pugnante a la congiura
dei virgulti e di me rese le dome
braccia!... - Cantavan alto biancheggiando
consapevoli i pioppi in linea, quando

a 'l ritorno vogai. Su la Pescara
lontanava de' pioppi il colonnato,
e fra li intercolunnii, ne la chiara
serenità, moriva il sol tuffato
in caldi fiumi. Una fragranza amara
di succhi co 'l sentor de 'l fien falciato
da quell'ammasso vegetale, a 'l lento
naufragare de 'l sole, urgea ne 'l vento.

III.

E cosí tante volte io sovra il letto
de l'erbe amai quella superba e rude
Venere fluvïale, ne 'l conspetto
de' pioppi. Ed entro il cerchio de le ignude
braccia, a 'l profumo de l'ignudo petto
il mio vigore lentamente in crude
lascivie illanguidiva. Era una morte
oblïosa, un incanto ove la forte


adolescenza si perdeva; in quella
primavera de 'l fiume, in quel felice
risveglio de la patria. Una novella
onda di umore su da la radice
prendea le cime, qual da una mammella
di femmina gigante, irrigatrice
di vite, il latte; ed una sonnolenza
quasi di parto ad ora ad or l'ardenza

addolciva de l'aria; e da 'l lavoro
augusto de le vite rinnovate,
ne 'l silenzio de l'aria, come un coro
naturale saliva; e de l'estate
l'alito già saliva; e a messidoro
i canti, ne le vigne soleggiate,
tra i solchi de 'l fromento, pe' i lontani
culmini già salíano, i canti umani!

Noi portammo una viva ecloga in fiore
a traverso i tumulti. In ogni nervo
io sentiva fuggirsene il vigore;
ma tenuto a quel corpo io, come un servo
a 'l suo ferro, non grido altro d'amore
avea per Nara che il bramir de 'l cervo
in disío. Quando muta ella tra i fusti
appariva de' pioppi, su i robusti

fianchi ondeggiante, ne 'l novilunare
auspicio, e le sue chiome ardue di rame
si tingeano e la voglia entro le chiare
iridi ardeva in folgori di lame,
io mi sentiva i muscoli tremare
di febbre. Ella venía, bella ed infame,
a sazïarsi. Ed io non la tenea
per conquista: ella a me, come una dea

a la gente mortale, il godimento
de le membra concesse. Alta, su 'l fieno,
senza pietà, me ne l'abbattimento

lasciava; con quel grande occhio sereno
riguardandomi, lungi a passo lento
perdevasi ne l'ombre. Ma il veleno
de le lussurie sue ne le mie carni
s'insinuava a rodermi li scarni

fianchi; ma de la sua pelle i tenaci
effluvi una prurigine lasciva
dàvanmi a 'l sangue; ma de' lunghi baci
mi restava il sapor ne la saliva,
quando a provar carezze meglio audaci
con la sua lingua su la mia gengiva
ella scorreva e tra la molle bava
le labbra con i denti mi segnava.

IV.

Era Venere nova, dea presente:
ne 'l suo nudo di marmo il sol di maggio
avea diffuso un alito di ardente
oro. Parea che tutta a 'l suo passaggio
la gran riva sentisse inconscïente
la presenza di un nume, in un selvaggio
anelito, e da l'erbe alte i cachinni
de' fauni uscissero e di Pane gl'inni.

V.

Poi disparve; qual dea. Sotto i discreti
pioppi io l'attesi, vigilando in vano
se tra i fochi de 'l vespro pe' i canneti,
come un giorno, scendesse di lontano.
Ebbero altri amatori, altri poeti
il profumo d'amor di quell'umano
fiore? O il fior de le membra ne le spume
misteriose de 'l nativo fiume

si disciolse? - Io non so. Ma la verdura
dove io primo l'amai, dove sommessa

ella si diede a me tutta, la pura
forma de i lombi e de le reni impressa
ritenne, come se per avventura
una statua di bronzo tra la spessa
erba abbattuta già da tempo antico
fosse rimasta. Ed in quell'impudico

segno d'amore e di piacere io steso,
quale un corpo di morto in una bara,
sentii crescere ancor sotto il mio peso
i fili d'erba, udii ne la Pescara
correre l'acqua; e da 'l mio sangue acceso
rifiorivano i baci acri di Nara,
come oggi, in molli versi che per l'aria
si perdevan ne l'ora solitaria.

FINE

Il pittore Michetti ritrae l'amico Gabriele D'Annunzio a Francavilla al Mare