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Giacomo Leopardi - LA GUERRA DEI TOPI E DELLE RANE  (1815)














La guerra dei topi e delle rane





sconosciuto, la troviamo interessante e degna di osservazione, siamo tosto spinti dalla curiosità a ricercarne lo scrittore. Avendone rilevato il carattere dall'opera stessa, bramiamo avere un nome a cui applicarlo. Ci duole d'ignorar quello di una persona che c'interessa, e di dover lodare e stimare un Essere anonimo e sconosciuto. Forse il suo nome non ce lo farebbe conoscere più di quello che può fare l'opera stessa, ma noi crediamo di essere abbastanza informati intorno ad uno scrittore, quando ne sappiamo il nome. Riguardo alle opere antiche, questa curiosità va ancora più avanti. La difficoltà di conoscere l'autore di qualcuna di esse, non fa che aumentarla. Pochi sperano di acquistar gloria collo scuoprire l'autore di uno scritto moderno, ma ogni scoperta fatta nei campi dell'antichità è creduta interessare tutta la Repubblica dei Letterati. Il solo aver tentata un'impresa di questo genere senza mancare di qualche successo, basta talvolta a render famoso il nome di uno scrittore. Intelligenza di antichi linguaggi, esame di vecchi libri, acutezza di critica, finezza di giudizio, tutto si pone in opera per ottenere l'intento desiderato, o per persuadere ai lettori d'averlo ottenuto. Una scoperta difficile è sempre bella, se non per la sua utilità, certamente per la sua difficoltà, poichè l'ingegno fu sempre stimato più della sodezza, e lo strepito più della riflessione.
La Batracomiomachia però, ossia la Guerra dei topi e delle rane, può veramente dirsi un'opera interessante. La bassezza dell'argomento non può farle perdere nulla del suo pregio. Il Genio si manifesta dappertutto, e tutto è prezioso ciò che è consacrato dal Genio. Boileau non è meno famoso per il Lutrin che per l'Arte Poetica; la Dunciade e il Riccio Rapito sono parti dei traduttore dell'Iliade e dell'autore del Saggio sopra l'uomo; e l'Ariosto contrasta ancora al Tasso il primato del Parnaso Epico Italiano. Famosa è la proposizione di Iacopo Gaddi. "Voglio", scrisse egli, "pronunziare un paradosso, benchè abbia alquanto paura dei censori nasuti e dei motteggiatori. La Batracomiomachia mi par più nobile e più vicina alla perfezione che l'Odissea e l'Iliade, anzi superiore ad ambedue nel giudizio, nell'ingegno e nella bellezza della tessitura che la rendono un poema giocoso affatto eccellente". Martino Crusio analizzò la Batracomiomachia con tutte le regole della critica, e la trovò Poema Eroi-Comico esattamente corrispondente a tutte le leggi dell'arte poetica, e perfetto in tutte le sue parti. E già senza il voto del Gaddi e l'analisi del Crusio, il disegno, l'invenzione e la condotta del poema, la felicità e lepidezza dei ritrovati, e quell'acconcia mescolanza di cose basse e volgari con parole, e cose grandi e sublimi, dalla quale nasce il ridicolo, fanno conoscere ad ogni uomo di gusto che la Batracomiomachia non è parto di un poeta mediocre.
Si desta quindi in noi il desiderio di sapere il nome di questo poeta. Già da molti secoli il poema porta quello di Omero, a cui espressamente lo attribuì Marziale, che scrisse sopra la Batracomiomachia quell'epigramma.
Perlege Mænio cantatas carmine ranas,
Et frontem nugis solvere disce meis.
Così anche Fulgenzio
Quod Mænius ranarum
Cachinnavit proelio.
Stazio volendo mostrare che i maggiori poeti, prima di esercitarsi in oggetti grandi, aveano preso a cantare cose basse e pedestri, citò la Zanzara di Virgilio e la Batracomiomachia , con che diè a vedere che riguardava questo poema come opera di Omero, il quale solo potea citarsi al fianco di Virgilio. L'autor greco della Vita di Omero attribuita ad Erodoto, dice che quel poeta compose la Batracomiomachia, dopo l'Iliade, e prima dell'Odissea, nella terra chiamata Bolisso, vicino alla città di Chio, in casa del padrone del pastore Glauco. È inutile rammentare gli autori greci più moderni che attribuirono ad Omero la Batracomiomachia, come Tzetze citato dal Bentley, che annovera la Battaglia dei topi fra le tredici opere lasciate, a suo dire, da Omero; ed Apostolio, di cui ricorda il Labbè alcuni versi politici in lode della Batracomiomachia. Fra quelli che hanno scritto nelle lingue volgari, moltissimi hanno riguardato quel poema come parto veramente di Omero, e il Lavagnoli in una lunga prefazione premessa alla Batracomiomachia da lui tradotta, ha sostenuta con tutte le sue forze questa opinione. "Non potrebbe esser questo per avventura", dic'egli parlando di Omero, "un primo parto della sua mente? un esperimento che volle egli fare di sè medesimo in mira delle maggiori cose che divisava di scrivere?" Maittaire e Francesco Redi nell'Avvertimento premesso alla Guerra dei Topi e dei Ranocchi di Andrea del Sarto, giudicano la Batracomiomachia, produzione degna di Omero, e Pope dice che un grande autore può qualche volta ricrearsi col comporre uno scritto giocoso, che generalmente gli spiriti più sublimi non sono nemici dello scherzo, e che il talento per la burla accompagna d'ordinario una bella immaginazione, ed è nei grandi ingegni, come sono spesso le vene di mercurio nelle miniere d'oro.
Ciò è verissimo, ma prova solo che Omero potè scrivere un poema giocoso, non che egli è in effetto l'autore della Batracomiomachia. Sarebbe un pazzo chi negasse la prima proposizione, non però certamente chi negasse la seconda, la quale ha avuti in realtà moltissimi oppositori. Proclo parla della Batracomiomachia come di opera attribuita ad Omero solamente da alcuni. "Scrisse", dic'egli di Omero, «due poemi: l'Iliade e l'Odissea. Alcuni gli attribuiscono ancora dei poemi giocosi, cioè il Margite, la Batracomiomachia, l'Entepazzio, la Capra, e i Cercopi vani.» Così anche Eustazio. Il primo dei due autori anonimi delle Vite di Omero, pubblicate dall'Allacci, sembra rigettare espressamente la Batracomiomachia come supposta e di autore differente da Omero, poichè dice di questo poeta: «Nulla gli si deve attribuire, fuorchè l'Iliade e l'Odissea. Gli Inni e gli altri poemi che gli si ascrivono, si hanno a tenere per opere di altri autori, a cagione della differenza, sì del carattere che della bellezza degli scritti. Alcuni gli vogliono attribuire anche due opere che vanno intorno coi titoli di Batracomiomachia e di Margite. Quanto ai poemi che veramente gli appartengono, essi si cantavano un tempo qua e là spartitamente, e furono riordinati da Pisistrato l'Ateniese.» E certamente, leggendo gli antichi scritti, si trova che l'antichità era in dubbio intorno all'autenticità della Batracomiomachia, forse niente meno di quello che lo siamo noi al presente. Gli Scoliasti di Sofocle e di Euripide citano la Batracomiomachia senza nominarne l'autore, con che sembrano dare a vedere di essere incerti intorno ad esso. Apollonio Discolo riporta un luogo della Batracomiomachia senza indicare nè l'autore, nè il poema: ma da ciò non si può cavare alcuna conseguenza, poichè egli cita più volte nella stessa guisa dei passi di Omero e di altri autori. Suida, parlando di Omero, annovera la Miobatracomachia, così detta da lui, tra le sue opere dubbie, ed altrove di Pigrete Alicarnasseo, fratello della famosa Artemisia moglie di Mausolo, dice che compose il Margite e la Batracomiomachia. E di questa lo stesso Pigrete è fatto autore da Plutarco, il quale scrive di Erodoto «Finalmente narra che a Platea i Greci, sedendo oziosamente, ignorarono sino al fine la battaglia; appunto come Pigrete fratello di Artemisia disse essere accaduto nel combattimento dei topi e delle rane, che egli per giuoco descrisse in versi; aggiungendo che gli Spartani a bella posta combatterono in silenzio, perchè gli altri non avessero contezza della pugna.» Enrico Stefano dice di aver veduto un esemplare della Batracomiomachia, in cui questa attribuivasi a Pigrete di Caria. Di simiglianti esemplari fanno pur menzione il Labbè ed il Nunnes, presso cui, dice il Fabricio, per errore di stampa si legge: Tigreti, in luogo di Pigreti. Ma in verità questo errore è dei Codici, non della stampa, e in un manoscritto Naniano si trova la Batracomiomachia con questo titolo: }Omhérou Batracomuomaciéa e\n deé tisi Tiégretov tou% Karoèv «Batracomiomachia di Omero, o come si legge in alcuni esemplari di Tigrete di Caria».
Fra i moderni, Daniele Heinsio, Giovanni le Clerc, e molti altri contrastarono ad Omero la Batracomiomachia. Madama Dacier dicendo che i migliori critici riconoscono quel poema per falsamente attribuito ad Omero, mostra di non pensare essa stessa in diversa guisa. Stefano Bergler conta fino ad otto parole della Batracomiomachia, che non sembrano essere state in uso al tempo di Omero, il quale non se ne serví mai nell'Iliade e nell'Odissea, benchè spesse volte avesse occasione di farlo; e rileva alcuni modi di dire usati nello stesso poema che non paiono propri di Omero. Fa rimarcare che i Grammatici, per testimonianza di Eustazio, osservarono non essersi quel poeta servito della voce h$liov che una sola volta, cioè nel libro ottavo dell'Odissea, e che nondimeno quella voce s'incontra nel penultimo verso della Batracomiomachia. Trova che presso Omero la lettera a del verbo i"caénw, e dei casi formati dallo stesso è sempre lunga, e la u dell'aoristo secondo, e futuro secondo del verbo feuégo è sempre breve, mentre nella Batracomiomachia si ha i"caénen colla sillaba ca breve, ed a\èpeéfugen colla sillaba fu lunga. Finalmente sospetta che l'autore della Batracomiomachia abbia tratto dalle Nubi d'Aristofane il pensiero delle zanzare, che colle loro trombe danno alle armate dei topi e delle rane il segnale della battaglia. Cesarotti osserva che la descrizione dei Granchi fatta con parole composte e strane quanto i mostri che si vogliono descrivere, non sente per nulla il tempo e lo stile di Omero. Questa descrizione è compresa in cinque versi, che egli traduce così:
Venne la razza
Ossosa, incudischiena, incurvibraccia,
Guercia, forbicibocca, ostricopelle,
Marciaindietro, ampiospalla e gambistorta,
Manispasa, occhiterga, impettosguarda,
Ottipede, bicipite, intrattabile.
L'uso di queste bizzarre parole sembra esser venuto molto più tardi, e se ne hanno esempi presso Plauto, Ateneo , S. Basilio, Suida, e nell'Antologia. Michele Neandro, Lo Scaligero, l'Huet ed altri composero Epigrammi con parole di tal fatta. Tale è quello di Egesandro contro i Sofisti, che Giuseppe Scaligero recò in versi latini in questa guisa:
Silonicaperones, vibrissasperomenti,
Manticobarbicolæ, extenebropatinæ.
Obsuffarcinamicti, planilucernituentes,
Noctilatentivori, noctidolostudii.
Pullipremoplagii, sutelocaptiotricæ,
Rumigeraucupidæ, nugicanoricrepi.
A tutte queste osservazioni fatte già dagli eruditi, ne aggiungerò io una, che non credo fatta ancora da alcuno. La descrizione delle angosce e dei diversi atti del topo che naviga sul dorso di Gonfiagote, mi sembra imitazione affettata di quella che fa Mosco degli atti di Europa trasportata per mare dal suo toro. L'autore della Batracomiomachia dice che Rubabriciole vedendosi bagnare dall'acqua, tremava e piangeva, invocava gli Dei, si stringeva al corpo di Gonfiagote, e lasciata andare la coda in acqua, tiravasela dietro come un remo, e che finalmente prese a parlare. Mosco dice di Europa che vistasi all'improvviso trasportare in mare, si turbò, e che seguendo il toro il suo cammino, essa con una mano ne stringea un corno, e coll'altra traeva in su la sua veste perchè non si bagnasse, e che finalmente non vedendo più che acqua e cielo, parlò al toro, e chiamò Nettuno in suo soccorso. La similitudine di Europa, che nella Batracomiomachia si pone in bocca al sorcio, sembra dare qualche peso al mio sospetto. Io non so se l'accaduto a me possa confermare in alcun modo questa opinione. Io non avea mai letta la Batracomiomachia. Leggendola attentamente, e giunto al luogo in cui si descrivono le angustie del topo navigatore, credei subito trovarvi molta conformità con quello di Mosco, che ho accennato. Io non avea ancora veduta la similitudine di Europa, ma seguendo a leggere, e incontratala, mi confermai fortemente nel mio parere, giudicando verisimilissimo che l'autore della Batracomiomachia avesse tolta quella similitudine appunto dall'Idillio che avea sotto gli occhi, e che avea imitato nei versi precedenti; e mi persuasi tosto la Batracomiomachia non esser di Omero, ma di autore posteriore ai tempi di Mosco, vale a dire a quelli di Teocrito, poichè, come dimostrasi con buone ragioni, questi due poeti furono contemporanei. Forse anche altri leggendo la Batracomiomachia colle disposizioni in cui io mi trovava, potrebbono concepire lo stesso sospetto, ed essi sarebbono i più favorevoli alla mia opinione, poichè un'intima persuasione originata dal caso ha spesse volte più forza sul nostro animo che qualunque prova ricercata e studiata.
Può adunque supporsi che l'autore della Batracomiomachia non sia anteriore al secolo terzo avanti l'Era Cristiana, e certamente non si trova fatta menzione del suo poema presso alcuno scrittore più antico di quel secolo. Quanto all'autore della Vita di Omero attribuita ad Erodoto, quasi tutti i critici si accordano nell'asserire che esso è ben differente dallo Storico, di cui la sua opera porta il nome, nè v'ha, che io sappia, alcuna ragione che impedisca di crederlo posteriore al secolo già nominato. Io non so quanta osservazione meriti il pensamento di Pietro la Seine, che crede aver Plauto avuto riguardo alla Batracomiomachia allorchè fe' dire al suo Crisalo:
Si tibi est machæra, et nobis veruina est domi,
Qua quidem te faciam, si tu me irritaveris,
Confossiorem soricina nenia.
Ma, ad ogni modo, Plauto non fiorì più di due secoli circa avanti la nostra Era. Andrebbe a terra la mia opinione se fosse certo ciò che suppone il Fabricio, cioè, che alla battaglia dei topi e delle rane descritta nella Batracomiomachia alludesse Alessandro il Grande, allorchè avuta nuova del combattimento seguìto fra le truppe di Antipatro e di Agide re di Sparta, disse, al riferire di Plutarco: "Pare, miei amici, che mentre noi qui sconfiggevamo Dario, sia seguìta in Arcadia certa zuffa di sorci". Ma il senso di questo detto s'intende molto bene senza ricorrere all'allusione, e il disprezzo che Alessandro volea manifestare per quella battaglia, è abbastanza espresso dal paragonare che egli fa i combattenti a dei topi, onde non è necessario supporre che egli avesse in vista il combattimento di questi animali cantato dall'autore della Batracomiomachia.
Nell'antico bassorilievo rappresentante l'apoteosi di Omero, opera di Archelao di Priene figlio di Apollonio, trovato nel territorio di Marino, Feudo della casa Colonna, lungo la predella, che il poeta ha sotto i piedi, si vedono due topi. Alcuni hanno creduto che essi indicassero la Batracomiomachia, ma madama Dacier ha stimato più verisimile che lo scultore volesse rappresentare con quei topi i cani di Parnaso, detrattori di Omero, e nemici impotenti della sua gloria. "Si Batrachomyomachia innueretur", dice Gronovio parlando di quei topi, "cur ranæ quoque non conspiciuntur? Subest aliud: et sive mures sunt, sive glires, per eos licet colligere captam Trojam præbuisse occasionem divinis illis operibus: ad quam explicationem faciunt, quæ viri
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CANTO PRIMO

Grande impresa disegno, arduo lavoro:
O Muse, voi dall'Eliconie cime
A me scendete, il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia dei topi e delle rane.
Sulle ginocchia ho le mie carte, or fate
Che nota a ogni mortal sia l'opra mia,
Che alla piú lenta, alla piú tarda etate
Salva pur giunga, e che di quanto fia
Che sulle carte a voi sacrate io scriva,
La fama sempre e la memoria viva.
I nati già dal suol vasti giganti,
Di que' topi imitò la razza audace,
Da nobil fuoco accesi, ira spiranti
Vennero al campo, e se non è mendace
Il grido che tuttor va per la terra,
Questa l'origin fu di quella guerra.
Un topo un dí, fra' topi il piú ben fatto,
Venne d'un lago alla fangosa sponda:
Scampato egli era allor da un tristo gatto,
E calmava il timor colla fresc'onda:
Mentre beveva, un garrulo ranocchio
Dalla palude a lui rivolse l'occhio.
Se gli fece dappresso, e a dirgli prese:
A che venisti? donde qua? straniero,
Di qual nazione sei, di qual paese?
Qual è l'origin tua? narrami il vero;
Che se dabben ritroverotti e umano,
Valicar ti farò questo pantano.
Io guida ti sarò, meco verrai
Alle mie terre ed al palazzo mio;
Quivi ospitali e ricchi doni avrai,
Che Gonfiagote, il gran Signor son io;
Ho sullo stagno autorità sovrana,
E mi rispetta e venera ogni rana.

La Donna già mi partorí dell'acque,
Che, per amor, dell'Eridano in riva
Con Fango il mio gran padre un dí si giacque:
Ma bel corpo hai tu pur, faccia giuliva,
Sembri possente Re, prode guerriero;
Su via dimmi chi sei, parla sincero.
Rispose il topo: Amico, e che mai brami?
Non v'ha Dio che m'ignori, augello, o uomo,
E pur tu vuoi saper come mi chiami?
Or bene, Rubabriciole io mi nomo;
Il mio buon padre Rodipan si appella,
Topo di raro cor, d'anima bella.
Mia madre è Leccamacine, la figlia
Del rinomato Re Mangiaprosciutti.
Con gioia universal della famiglia
Mi partorí dentro una buca, e tutti
I piú squisiti cibi, e noci, e fichi
Furo il mio pasto in que' bei giorni antichi.
Ma come vuoi che amico tuo diventi,
Se di noi sí diversa è la natura?
Tu di vagar per l'acqua ti contenti;
D'ogni vivanda io fo mia nutritura,
Di quanto mangia l'uom gustare ho in uso,
Luogo non avvi, ove non ficchi il muso.
Rodo il piú bianco pane e il piú ben cotto,
Che dal suo cesto la mia fame invita,
Buoni bocconi di focaccia inghiotto
Di granelli di sesamo condita,
E fette di prosciutto e fegatelli
Con bianca veste ingrassanmi i budelli.
Appena fu compresso il dolce latte,
Assaggio il cacio fabbricato appena;
Frugo cucine e visito pignatte,
E quanto all'uomo apprestasi per cena.
È mio qualunque cibo inzuccherato,
Che Giove stesso invidia al mio palato.
Non temo delle pugne il fiero aspetto,
Ma mi fo innanzi, e al ferro mi presento.

Spesso dell'uomo insinuomi nel letto:
Benché sí grande, ei non mi dà spavento.
Del piè rodergli un dito ho fin l'ardire,
Ed ei nol sente, e seguita a dormire.
Due cose io temo, lo sparvier maligno,
E il gatto, ch'è per noi sempre in agguato.
Misero è ben chi cade in quell'ordigno,
Che trappola si chiama; egli è spacciato:
Ma il gatto piú che mai mi fa paura,
Da cui buca non v'ha che sia sicura.
Non mangio ravanelli, o zucche, o biete;
Questi cibi non son per il mio dente:
E pur nell'acqua voi null'altro avete:
Ben volentieri ve ne fo presente.
Rise la rana, e disse: Hai molta boria,
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.
Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose
E negli stagni loro e fuor dell'onde.
Ciascun di noi sopra le sponde erbose
Scherza a sua posta, o nel pantan s'asconde,
Ch'alle ranocchie mie dal ciel fu dato
Viver nell'acqua e saltellar nel prato.
Se vuoi vedere or quanto il nuoto piaccia,
Montami sulla schiena, abbi giudizio,
Sta saldo, e al collo gettami le braccia,
Onde a cader non abbi a precipizio;
Cosí senz'alcun rischio a casa mia
Meco verrai per quest'ignota via.
Sí disse, e tosto gli omeri gli porse;
Saltovvi il topo, e colle mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che via sen corse,
E sulle spalle seco trasportollo.
Ridea dapprima il sorcio malaccorto,
Che si vedeva ancor vicino al porto.
Ma poi che in mezzo del pantan trovossi,
E che la riva omai vide lontana,
Conobbe il rischio, si pentí, turbossi.
Forte co' piè stringevasi alla rana,

Col pianto si dolea, svelleva i crini,
Il suo fallo accusava ed i destini.
Pregava i Numi, e in suo soccorso il cielo
Chiamava, e già credevasi all'estremo,
Tremava tutto, ed avea molle il pelo;
Stese la coda in acqua, e come un remo
Dietro se la traea, girando l'occhio
Ora alla riva opposta, ora al ranocchio.
Pallido disse alfin: Che reo cammino,
Che strada è questa mai! quando alla meta,
Deh quando arriverem! quel bue divino
No cosí non condusse Europa in Creta,
Portandola per mar sopra la schiena,
Come ora a casa sua questi mi mena.
Dicea: quand'ecco fuor della sua tana
Con alto collo un serpe uscir sull'onda.
Il topo inorridí, gelò la rana;
Ma questa giú nell'acque si profonda,
Fugge il periglio, e il topo sventurato
Vittima lascia al suo funesto fato.
Cade sull'acqua, e vòlto sottosopra
Il miserel teneramente stride,
Col corpo e colle zampe invan s'adopra
Per sostenersi a galla; or poi che vide
Ch'era già molle, e che il suo proprio pondo
Del lago già lo strascinava al fondo:
Co' calci la fatale onda spingendo,
Disse con fioca voce: alfin sei pago,
Barbaro Gonfiagote, intendo, intendo
I tradimenti tuoi; su questo lago
Mi traesti per vincermi sui flutti,
Che vano era affrontarmi a piedi asciutti.
Tu mi cedevi in lotta e al corso, e m'hai
Qua condotto a morir per nera invidia,
Ma dagli Dei giusta mercede avrai,
I topi puniran la tua perfidia;
Veggo le schiere, veggo l'armi e l'ira,
Vendicato sarò. Sí dice, e spira.

CANTO SECONDO

Leccapiatti, che allor sedea sul lido,
Fu testimonio dell'orrenda scena:
Raccapricciò, mise in vederla un grido,
Corse a recar la trista nuova, e appena
Udito ei fu, che di furor, di sdegno
Tutto quanto avvampò de' topi il regno.
Banditori n'andàr per ogni parte,
Che chiamàr tutti a general consiglio.
Concorde si levò grido di Marte,
Mentre di Rodipan l'estinto figlio
Nel mezzo del pantan giacea supino,
Né per anco alla ripa era vicino.
Ognun nel giorno appresso di buon'ora
Levossi, e a casa andò di Rodipane.
Tutti sedean: rizzossi quegli allora,
E cosí prese a dire: Ahi triste rane,
Che a me recaro atroce, immenso affanno,
A voi tutti però comune è il danno.
Infelice ch'io son! tre figli miei
Nel piú bel mi rapí morte immatura;
Per il ribaldo gatto un ne perdei,
Che il rubò mentre uscia da una fessura:
La trappola, invenzion dell'uomo scaltro,
Che strage fa di noi, men tolse un altro.
Restava il terzo, quel sí accorto e vago,
A me sí caro ed alla moglie mia.
Da Gonfiagote a naufragar nel lago
Questi fu tratto. E che si tarda? or via
Usciam contro le rane, armiamci in fretta,
Peran tutte, ché giusta è la vendetta.
Poiché si tacque il venerando topo,
Fecer plauso gli astanti al suo discorso:
Ognuno corse all'armi, e al grande scopo
Marte contribuí col suo soccorso,
E la persona a render piú sicura,
Tutti i topi provvide d'armatura.

Con cortecce di fave aperte e rotte
Si fero in un momento i stivaletti,
Che rose già le avean la scorsa notte:
Di canne si formaro i corsaletti;
Colla pelle le unirono di un gatto
Che scorticato avean da lungo tratto.
Gli scudi fur di quelle ardite schiere
Unti coperchi di lucerne antiche:
Gusci di noci furo elmi e visiere:
Aghi fur lance. Alfin d'aste e loriche
Fornita, e d'elmi, e scudi, e ben montata,
In campo uscí la spaventosa armata.
Delle ranocchie il popolo si scosse,
Poiché n'ebbe novella, e venne in terra.
S'uní sul lido, onde cercar qual fosse
Pei topi la cagion di quella guerra;
Quand'ecco vien Montapignatte il saggio,
Figliuolo del guerrier Scavaformaggio.
Fermossi tra la folla, e la cagione
Di sua venuta espose in questi accenti:
Rane, da parte della mia nazione,
De' topi miei magnanimi e possenti,
Qua ne vengo, ove lor piacque inviarmi
Nunzio di guerra ad invitarvi all'armi.
Rubabriciole vider coi lor occhi
In mezzo al lago, ove lo trasse a morte
Gonfiagote il Re vostro. Or tra i ranocchi
Chi ha piú gagliardo cor, braccio piú forte,
S'armi tosto, e a pugnar venga con noi:
Sí disse il topo, e fe' ritorno ai suoi.
Fra i ranocchi un tumulto allor si desta,
Di Gonfiagote il Rege ognun si duole,
Palpita e trema ognun per la sua testa,
Niun la sfida de' topi accettar vuole:
Ma della funestissima novella
Per consolarli il Re cosí favella:
Calmate, rane mie, questi timori,
Ch'io, come tutti voi, sono innocente;

Non date fede ai topi mentitori:
Ben so che certo sorcio impertinente,
Il navigar di noi d'imitar vago,
Gittossi in acqua, e s'affogò nel lago.
Ma nol vidi però quando annegossi,
Né la cagione io fui della sua morte.
Or se da' topi contro noi levossi
Sí numeroso esercito e sí forte,
Armiamoci noi pur; del loro ardire
Fra poco in campo li farem pentire.
Udite attentamente il pensier mio.
Ben armati porremci sulla riva
Tutti là dove ertissimo è il pendío:
Aspetteremo i topi, e quando arriva
La loro armata, tutti lor dall'alto
Costringerem nell'acqua a fare un salto.
Cosí senz'alcun rischio in un sol giorno
Distruggerem l'esercito nemico,
Che dal pantan piú non farà ritorno.
Orsú dunque badate a quel ch'io dico;
L'armi indossiamo, e stiamo allegramente,
Che or or ci sbrigherem di quella gente.
Ubbidiscono tutti, e colle foglie
Delle malve si fanno le gambiere,
Bieta per far corazze ognun raccoglie,
Col cavolo ciascun fassi il brocchiere,
Con chiocciole ricuopresi la testa,
E per servir di lancia un giunco appresta.
Mentre vestita già con fiero volto
Sta l'armata sul lido, e i topi attende,
Giove allo stuol de' numi in ciel raccolto
Le opposte squadre addita, e a parlar prende:
Vedete là quei tanti armati e tanti,
Emuli de' Centauri e de' Giganti?
Verran presto alle mani. Or chi di voi
Per i topi sarà, chi per le rane?
Giuro, o Palla, che i topi aiutar vuoi,
Che corsi all'are tue dalle lor tane,

Usano ai sacrifizi esser presenti,
E col naso v'assistono e co' denti.
Rispose Palla: O padre mio, t'inganni:
Perano i topi pur nella tenzone,
Mai li soccorrerò, che mille danni
Fan ne' miei tempii e guastan le corone
Che i devoti consacrano al mio nume,
E suggon l'olio, onde si spegne il lume.
Ma ciò che piú mi duole, e che giammai
Saprò dimenticare, è che persino
Mi rosero il mio manto; io ne filai
La sottil trama; egli era bello e fino
Ch'io pur l'avea tessuto, ed or mel trovo
Inutile e forato, benché nuovo.
Il peggio è poi che ognor mi sta d'intorno
Il cucitor, che vuol la sua mercede.
Pagar non posso, ed egli tutto il giorno
Mi viene appresso, e il suo denar mi chiede.
La trama, che già fecimi prestare,
Ora né render posso, né pagare.
Ma i lor difetti hanno le rane ancora,
E con pena una sera io lo provai.
Venia dal campo, e tarda era già l'ora:
Stanca per riposar mi coricai,
Ma non potei dormir né chiuder gli occhi,
Pel gracidar continuo de' ranocchi.
Vegliar dovei con fiero duol di testa
Fino a quel tempo, in cui spunta la luce,
Allor che il gallo svegliasi e fa festa.
Orsú, nessun di noi si faccia duce
De' combattenti che a pugnar sen vanno,
Abbiasi chicchessia vittoria, o danno.
Ferito esser potria da quelle schiere
Un nume ancor, se fossevi presente.
Meglio è fuggire il rischio, ed a sedere
Porci a veder la pugna allegramente.
Disse Palla: agli Dei piacque il consiglio,
E al campo ognun di lor rivolse il ciglio.

CANTO TERZO

Eran le schiere una dell'altra a fronte,
E de' guerrieri gridi udiasi il suono:
Giove fe' rimbombar la valle e il monte
Con un lungo, improvviso, immenso tuono,
E colle trombe lor mille zanzare
Della pugna il segnal vennero a dare.
Strillaforte primier fattosi avanti,
Ferí nel ventre Leccaluom coll'asta.
Non muor, ma sulle gambe vacillanti
Il miserello a reggersi non basta:
Cade, e a Fanghigno Sbucatore intanto
Passa il ventre dall'uno all'altro canto.
Si volge quegli tra la polve e muore:
Ma Bietolaio tosto colla lancia
Trafigge al buon Montapignatte il core.
Mangiapan Moltivoce nella pancia
Ferisce, e a terra il fa cader supino,
Manda uno strido, e poi spira il meschino.
Godipalude allor d'ira s'accende,
Giura farne vendetta, e un sasso toglie,
Lo lancia, e Sbucator nel collo prende.
Ma di nascosto subito lo coglie
Leccaluomo coll'asta per di sotto,
E al suolo il fa precipitar di botto.
Vuol fuggir Mangiacavoli lontano
Dalla battaglia, e sdrucciola nell'onda,
Ma seco nel cader dentro il pantano
Leccaluomo pur trae giú dalla sponda:
Sangue e budella sparse sopra l'acque,
E senza vita presso al lido ei giacque.
Paludano ammazzò Scavaformaggio,
Ma vedendo venir Foraprosciutti,
Giacincanne perdessi di coraggio,
Gettò lo scudo e si salvò nei flutti.
Intanto Godilacqua un colpo assesta
Al Re Mangiaprosciutti nella testa.

Lo colse con un sasso, e a lui pel naso
Stillò il cervello e il suol di sangue intrise.
Leccapiatti in veder l'orrendo caso,
Giacinelfango colla lancia uccise:
Ma Mangiaporri trae, tosto che il vede,
Cercalodordarrosto per un piede.
Dall'alto il fa precipitar nel lago,
E seco vi si getta, e il tien pel collo,
Finché nol vede morto non è pago.
Ma Rubamiche a un tratto vendicollo,
Corse a Fangoso, in mezzo al ventre il prese
Colla sua lancia, e al suol morto lo stese.
Si china il prode Vapelfango, e coglie
Del loto, e a Rubamiche il getta in faccia
Cosí ben, che il veder quasi gli toglie;
Arde questi di sdegno, urla e minaccia,
E con un gran macigno al buon ranocchio
Schiaccia la destra gamba ed il ginocchio.
Gracidante s'avanza allor pian piano,
Ed al topo nel ventre un colpo tira;
Ei cade, e sotto la nemica mano
Il sangue sparge e gl'intestini, e spira.
Vedutol Mangiagran pien di paura
Cerca di porsi in parte più sicura.
Zoppo e ferito con dolore e stento
Saltellon si ritragge dalla riva:
Lungi di quivi avviasi lento lento,
E alfin per buona sorte a un fosso arriva;
Nella mischia frattanto a Gonfiagote
Del piè la cima Rodipan percuote.
Ma zoppicando quel ranocchio accorto
Fugge, e d'un salto piomba nel pantano.
Il topo allor, che lo credea già morto,
Stupisce, arrabbia, e l'inseguia, ma invano;
Ché bentosto in aiuto al suo signore
Galoppando arrivò Porricolore.
Avventò questi un colpo a Rodipane,
Ma la lancia s'infisse nel brocchiero.

Gían cosí combattendo e topi e rane,
E faceasi il conflitto ognor piú fiero,
Allorquando un eroe vago di gloria
Fra' topi il grido alzò della vittoria.

CANTO QUARTO

Era nel campo il Prence Rubatocchi,
Giovine di gran cor, d'alto lignaggio,
Già capital nemico de' ranocchi,
Caro figliuol d'Insidiapane il saggio,
Il piú forte fra' topi ed il piú vago
Che di Marte parea la vera immago.
Questi sul lido in rilevato loco
Si pone, e a' topi suoi grida e schiamazza,
Le schiere aduna, e giura che fra poco
Delle ranocchie struggerà la razza,
E lo faria davver, ma il Padre Giove
Già delle rane a compassion si move.
Ahimè, dice agli Dei, che vedo in terra!
Rubatocchi il figliuol d'Insidiapane
Distrugger vuol con ostinata guerra
Tutta quanta la schiatta delle rane;
E forze avria per farlo ancorché solo,
Ma Palla e Marte manderem sul suolo.
E che pensasti mai? Marte rispose,
Con tal sorte di gente io non mi mesco,
Per me, Padre, non sono queste cose,
E se le voglio far, non ci riesco:
Né Pallade pur lei dal ciel discesa
Meglio riuscirebbe in quest'impresa.
Tutti piuttosto discendiamo insieme.
Ma certo i dardi tuoi saran bastanti:
Il fulmin tuo, che tutto il mondo teme,
Che Encelado sconfisse e i suoi Giganti,
Scaglia sui topi, e spergersi ogni schiera
Vedrai tosto e fuggir l'armata intiera.
Disse, e Giove il seconda, e un dardo afferra,

Prima col tuono fa che il ciel si scuota,
E traballi da' cardini la terra,
Poscia tremendamente il fulmin ruota,
Lo scaglia, ed ecco il campo in un momento
Pieno di confusione e di spavento.
Presto i topi però, rotto ogni freno,
Le rane ad inseguir tornano, e tosto
Cedon le rane all'urto e vengon meno:
Ma Giove le vuol salve ad ogni costo,
E a confortar la fuggitiva armata,
Al campo arrivar fa truppa alleata.
Venner certi animali orrendi e strani
Con otto piè, due capi e bocca dura;
Gli occhi nel petto avean, fibre per mani,
Le spalle risplendenti per natura,
Obliquo camminare, e largo dosso,
Le lor branche e la pelle eran sol osso.
Granchi detti son essi, e alla battaglia
Il lor feroce stuolo appena è giunto,
Che a pugnar prende, e mena colpi, e taglia
E faccia alla tenzon cangia in un punto.
De' topi le speranze omai son vane,
Già piú liete a pugnar tornan le rane.
Quei code e piè tagliavano col morso,
E fer tremenda strage innanzi sera,
Rompendo ogni arma ostil solo col dorso.
Cadeva il Sol: de' topi alfin la schiera
Confusa si ritrasse e intimorita,
E fu la guerra in un sol dí compita.



uando, dopo aver letta qualche opera di autore
Q
Giacomo Leopardi - LA GUERRA DEI TOPI E DELLE RANE  (1822)













CANTO PRIMO

Mentre a novo m'accingo arduo lavoro,
O Muse, voi da l'Eliconie cime
Scendete a me ch'il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia de' topi e de le rane.
Su le ginocchia ho le mie carte; or fate
Che nota a ogni mortal sia l'opra mia,
Che salva giunga alla piú tarda etate
Per vostro dono, e che di quanto fia
che su le carte a voi sacrate io scriva
La fama sempre e la memoria viva.
I nati già dal suol vasti giganti
Di que' topi imitò la razza audace:
Di nobil foco accesi, ira spiranti
Vennero al campo; e se non è mendace
Il grido ch'oggi ancor va per la terra,
Questo l'origin fu di quella guerra.
Un topo un dí, fra' topi il piú leggiadro,
Venne d'un lago a la fangosa sponda:
Campato allor d'un gatto astuto e ladro,
Acchetava il timor con la fresch'onda:
Mentre beveva, un garrulo ranocchio
Dal pigro stagno a lui rivolse l'occhio.
Se gli fece vicino e a dirgli prese:
« A che venisti e d'onde o forestiero?
Di che gente sei tu, di che paese?
Che famiglia è la tua? narrami il vero;
Ché se da ben conoscerotti e umano,
Valicar ti farò questo pantano.
Io guida ti sarò, meco verrai
A le mie terre ed al palazzo mio;
Quivi ospitali e ricchi doni avrai,
Ché Gonfiagote il principe son io;
Ho ne lo stagno autorità sovrana,
E m'obbedisce e venera ogni rana.

La Donna già mi partoria de l'acque
Che, per amor, col mio gran padre Limo
Un giorno in riva a l'Eridan si giacque:
Ma vago sei tu pur: s'io bene estimo,
Qualche rara virtude in te si cela.
Schietto ragiona, e l'esser tuo mi svela. »
« Amico, » disse il topo, « e che mai brami?
Non è Dio che m'ignori, augello o uomo;
E tu dunque non sai come mi chiami?
Or bene, Rubabriciole io mi nomo;
Il mio buon padre Rodipan s'appella,
Topo di fino pel, d'anima bella.
Mia madre è Leccamacine, la figlia
Del rinomato re Mangiaprosciutti.
Con gioia universal de la famiglia
Mi partorí dentro una buca, e tutti
I piú squisiti cibi, e noci e fichi
Furo il mio pasto a que' bei giorni antichi.
Ma come vuoi che amico tuo diventi,
Se di noi sí diversa è la natura?
Tu di sguazzar ne l'acqua ti contenti;
Ogni miglior vivanda è mia pastura;
Di quanto mangia l'uom gustare ho in uso,
E non è parte ov'io non ficchi il muso.
Rodo il piú bianco pane e il meglio cotto,
Che dal suo cesto la mia fame invita,
Buoni bocconi di focaccia inghiotto
Di granella di sesamo condita,
E fette di prosciutto e fegatelli
Con bianca veste ingrassanmi i budelli.
Non si tosto è premuto il dolce latte,
Ch'assaggio il cacio fabbricato appena;
Frugo cucine e visito pignatte
E quanto a l'uomo apprestasi da cena:
È mio qualunque cibo inzuccherato,
Che Giove stesso invidia al mio palato.
Non pavento di Marte il fiero aspetto,
E se pugnar si dee non fuggo o tremo.

De l'uomo anco talor balzo nel letto,
De l'uom ch'è sí membruto, e pur nol temo;
Anzi pian pian gli vo rodendo il piede,
E quei segue a dormir, né se n'avvede.
Due cose io temo; lo sparvier maligno
E il gatto ch'è per noi sempre in agguato.
S'avvien che il topo cada in quell'ordigno
Che trappola si chiama, egli è spacciato;
Ma piú che mai del gatto abbiam paura:
Arte non val con lui, non val fessura.
Non mangio ravanelli o zucche o biete;
Questi cibi non fan per lo mio dente.
E pur ne l'acqua voi null'altro avete:
Ben volentieri ve ne fo presente. »
Rise la rana e disse: « Hai molta boria,
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.
Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose
E ne gli stagni loro e fuor de l'onde.
Ciascun di noi sopra le rive erbose
Scherza a suo grado, o nel pantan s'asconde,
Perch'a la razza mia dal ciel fu dato
Notar ne l'acqua e saltellar nel prato.
Saper vuoi se 'l notar piaccia o non piaccia?
Montami su la schiena: abbi giudizio,
Sta saldo, e al collo gettami le braccia,
Che non t'abbi a cadere in precipizio:
Cosí verrai per quest'ignota via
Senza rischio nessuno a casa mia. »
Cosí dicendo gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio e con le mani il collo
Del ranocchio abbracciò che via sen corse,
E sopra il tergo seco trasportollo.
Ridea da prima il topo, malaccorto,
Che si vedeva ancor vicino al porto.
Ma poi che in mezzo del pantan trovossi
E che la ripa omai vide lontana,
Conobbe il rischio, si pentí, turbossi,
Forte co' piè stringevasi a la rana,

Piangendo si dolea, svelleva i crini,
Il suo fallo accusava ed i destini.
Voti a Giove facea, pregava il cielo
Che soccorso gli desse in quell'estremo,
Sudava tutto, e ne gocciava il pelo;
Stese la coda in acqua, e, come un remo,
Dietro se la traea, girando l'occhio
Ora alla riva opposta ora al ranocchio.
Pallido alfin gridò: « Che reo cammino,
Che strada è questa mai! quando a la meta,
Deh quando arriverem? Quel bue divino
Cosí non conduceva Europa in Creta
Portandola per mar sopra la schiena,
Com'ora a casa sua questi mi mena. »
Dicea, quand'ecco fuor de la sua tana
Con alto collo un serpe esce a fior d'onda:
Il topo inorridí, gelò la rana;
Ma questa giú ne l'acqua si profonda,
Fugge il periglio, e il topo sventurato
Lascia al talento de l'avverso fato.
Disteso ondeggia, e vòlto sottosopra
Il meschinel teneramente stride;
Col corpo e co le zampe invan s'adopra
Di sostenersi a galla: or quando vide
Ch'era già molle, e che il suo proprio pondo
Del lago già lo trascinava al fondo,
Co' calci la mortale onda spingendo,
Disse con fioca voce: « Alfin sei pago,
Barbaro Gonfiagote. Intendo, intendo
I tradimenti tuoi: su questo lago
Mi traesti per vincermi ne i flutti,
Ché vano era assalirmi a piedi asciutti.
Tu mi cedevi in lotta e al corso, e m'hai
Qua condotto a morir per nera invidia:
Ma da gli Dei giusta mercede avrai;
I topi puniran la tua perfidia;
Veggio le schiere, veggio l'armi e l'ira;
Vendicato sarò. » Sí dice, e spira.

CANTO SECONDO

Leccapiatti, che allor sedea sul lido,
Fu spettator de l'infelice evento;
S'accapricciò, mise in vederlo un grido,
Corse a recar la nova, e in un momento
Di corruccio magnanimo e di sdegno
Tutto quanto avvampò de' topi il regno.
Banditori n'andàr per ogni parte
Chiamando i sorci a general consiglio.
Concorde si levò grido di Marte,
Mentre di Rodipan l'estinto figlio
Nel mezzo del pantan giacea supino,
Né per anco a la ripa era vicino.
Tutti quel giorno appresso di buon'ora
Levarsi e a casa andàr di Rodipane.
Gli sedevano intorno, e quegli allora
alzossi e prese a dire: « Ahi triste rane
Che a me recaro atroce, immenso affanno,
A voi tutti però comune è il danno.
Sciagurato ch'io son! tre figli miei
Sul piú bello involò morte immatura:
Per lo ribaldo gatto un ne perdei;
Lo si aggraffò ch'uscia d'una fessura:
La trappola, con cui feroce e scaltro
L'uom fa strage di noi, men tolse un altro.
Restava il terzo, quel sí prode e vago,
A me sí caro ed a la moglie mia.
Da Gonfiagote a naufragar nel lago
Questi fu tratto. E che badiamo? Or via
Usciam contro le rane, armiamci in fretta.
Peran tutte, ché giusta è la vendetta. »
Taciuto ch'ebbe il venerando topo,
Fecer plauso gli astanti al suo discorso;
« Armi, » gridaro, « a l'armi »; e pronto a l'uopo
Venne di Marte il solito soccorso,
Che le persone a far via piú sicure
L'esercito forní de l'armature.

Di cortecce di fava aperte e rotte
In un punto si fer gli stivaletti
(Rosa giusto l'avean quell'altra notte);
Di canne s'aiutàr pe' corsaletti,
Di cuoio per legarle, e fu d'un gatto
Che scorticato avean da lungo tratto.
Gli scudi fur di quelle audaci schiere
Unti coperchi di lucerne antiche;
Gusci di noce furo elmi e visiere;
Aghi fur lance. Alfin d'aste e loriche
E d'elmi e di tutt'altro apparecchiata,
In campo uscí la poderosa armata.
De le ranocchie il popolo si scosse
A la triste novella. Usciro in terra;
E mentre consultavano qual fosse
L'improvvisa cagion di quella guerra,
Ecco venir Montapignatte il saggio,
Figlio del semideo Scavaformaggio.
Piantossi fra la turba, e la cagione
Di sua venuta espose in questi accenti:
« Uditori, l'eccelsa nazïone
De' topi splendidissimi e potenti
Nunzio di guerra a le ranocchie invia
E le disfida per la bocca mia.
Rubabriciole vider co i lor occhi
In mezzo al lago, ove lo trasse a morte
Gonfiagote il re vostro. Or de' ranocchi
Quale ha piú saldo cor, braccio piú forte,
S'armi tosto e a pugnar venga con noi. »
E detto questo fe' ritorno a i suoi.
Ne' ranocchi un tumulto allor si desta,
Di Gonfiagote il rege ognun si dole,
Trema e palpita ognun per la sua testa,
Né l'amara disfida accettar vuole:
Ma de la funestissima novella
Per consolargli il re cosí favella.
« Cacciate, rane mie, questi timori,
Ch'io, come tutti voi, sono innocente;

Non date fede a i topi mentitori.
Ben so che certo sorcio impertinente;
Del notar che voi fate emulo e vago,
Si mise a l'acqua e s'affogò nel lago.
Nol vidi tuttavia quando annegossi,
Né la cagione io fui de la sua morte.
Ma di color che a nocervi son mossi
Non è la razza vostra assai piú forte?
Corriamo a l'arme, e de lo sciocco ardire
Ne la battaglia avrannosi a pentire.
Udite attentamente il pensier mio.
Ben armati porremci su la riva
Tutti là dov'ertissimo è il pendio.
Aspetteremo i topi, e quando arriva
La loro armata, tutti lor da l'alto
Costringeremo a far ne l'acqua un salto.
Cosí fuor d'ogni rischio in un sol giorno
Distruggerem l'esercito nemico,
Né fia chi dal pantan faccia ritorno.
Date orecchio pertanto a quel che dico:
In assetto poniamci allegramente,
Ché sbrigheremci or or di quella gente. »
Ubbidiscono a gara e con le foglie
De le malve si fanno gli schinieri;
Bieta da far corazze ognun raccoglie,
Cavoli ognun disveste a far brocchieri,
Di chiocciole ricopresi la testa,
E a far da mezza picca un giunco appresta.
Mentre vestita già con fiero volto
Sta l'armata sul lido, e i topi attende,
Giove allo stuol de' numi in cielo accolto
Le due falangi addita, e a parlar prende:
« Vedete colaggiú quei tanti e tanti,
Emuli de' centauri e de' giganti?
Verran presto a le botte. Or chi di voi
Per li topi starà, chi per le rane?
Giuro, o Palla, che i topi aiutar vuoi,
Che presso a l'are tue si fan le tane,

Usano a i sacrifizi esser presenti,
E col naso t'onorano e co' denti. »
Rispose quella: « O padre assai t'inganni:
S'andasser tutti a casa di Plutone,
Per me non fiaterei, ché mille danni
Fanno a' miei templi e guastan le corone
Che i devoti consacrano al mio nume,
E suggon l'olio, che si spegne il lume.
Ma quel che piú mi scotta, e quel che mai
Non m'uscirà di mente, è che persino
Mi rosero il mio velo. Io ne filai
La sottil trama. Era gentile e fino;
Ch'io l'avea pur tessuto: e già mel trovo
Tutto forato e guasto, ancor che novo.
Il peggio è poi ch'ognor mi sta dintorno
Il cucitor, che vuol la sua mercede.
Pagar non posso, e quegli tutto il giorno
Mi viene appresso, e la mercè mi chiede.
La trama, che già fecimi prestare,
Oggi né render posso né pagare.
Ma i lor difetti hanno le rane ancora,
E pur troppo una sera io lo provai.
Ritornata dal campo a la tard'ora,
Stanchissima a posar mi collocai;
Ma dormir non potei né chiuder gli occhi
Dal gracidare eterno de' ranocchi.
Vegliar dovei con fiero duol di testa
Fin quando spunta la diurna luce,
Allor che il gallo svegliasi e fa festa.
Orsú verun di noi schermo né duce
Si faccia di costor che in guerra vanno:
Abbiasi chicchessia vittoria o danno.
Ferito esser potria da quelle schiere
Un nume ancor se fosse ivi presente.
Meglio è fuggire il rischio, ed a sedere
Star mirando la pugna allegramente. »
Disse Palla: e a gli Dei piacque il consiglio.
Cosí piegaro a la gran lite il ciglio.

CANTO TERZO

Eran le squadre avverse a fronte a fronte,
E de le grida bellicose il suono
Per la valle eccheggiava e per lo monte;
Rotava il Padre un lungo immenso tuono,
E con le trombe lor mille zanzare
De la pugna il segnal vennero a dare.
Strillaforte primier fattosi avanti
Leccaluomo feria d'un colpo d'asta.
Non muor, ma su le zampe tremolanti
Lo sfortunato a reggersi non basta:
Cade, e a Fangoso Sbucatore intanto
Passa il corpo da l'uno a l'altro canto.
Quei tra la polve si ravvolge, e more;
Ma Bietolaio co l'acerba lancia
Trafigge al buon Montapignatte il core.
Mangiapan Moltivoce ne la pancia
Percosse e a terra lo mandò supino.
Mette uno strido e poi spira il meschino.
Godipalude allor d'ira s'accende,
Vendicarlo promette e un sasso toglie,
L'avventa, e Sbucator nel collo prende,
Ma per di sotto Leccaluomo il coglie
Improvviso con l'asta, e per la milza
(Spettacol miserando) te l'infilza.
Vuol fuggir Mangiacavoli lontano
De la baruffa, e sdrucciola ne l'onda;
Poco danno per lui, ma nel pantano
Leccaluomo traea da l'alta sponda,
Che rotto, insanguinato, e sopra l'acque
Spargendo le budella, estinto giacque.
Paludano ammazzò Scavaformaggio;
Ma vedendo venir Foraprosciutti
Giacincanne perdessi di coraggio,
Lasciò lo scudo e si lancio' ne i flutti.
Intanto Godilacqua un colpo assesta
Al re Mangiaprosciutti ne la testa.

Lo coglie con un sasso, e a lui pel naso
Stilla il cervello e il suol di sangue intride.
Leccapiatti in veder l'orrendo caso
Giacinelfango d'una botta uccide.
Ma Rodiporro che di ciò s'avvede
Tira Fiutacucine per un piede.
Da l'erto lo precipita nel lago,
Seco si getta e gli si stringe al collo;
Finché nol vede morto non è pago:
Se non che Rubamiche vendicollo.
Corse a Fanghin, d'una lanciata il prese
A mezza la ventresca, e lo distese.
Vaperlofango un po' di fango coglie,
E a Rubamiche lo saetta in faccia
Di modo ch'il veder quasi gli toglie.
Crepa il sorcio di stizza, urla e minaccia,
E con un gran macigno al buon ranocchio
Spezza la destra gamba ed il ginocchio.
Gracidante s'accosta allor pian piano,
E al vincitor ne l'epa un colpo tira.
Ei cade, e sotto la nemica mano
Versa gli entragni insanguinati e spira.
Ciò visto Mangiagran, da la paura
Lascia la pugna, e di fuggir procura.
Ferito e zoppo, a gran dolore e stento,
Saltando si ritragge da la riva,
Dilungasi di cheto, e lento e lento
Per buona sorte a un fossatello arriva.
Ne la zampa fra tanto a Gonfiagote
Rodipan vibra un colpo, e la percote.
Ma zoppicando il ranocchione accorto
Fugge, e d'un salto piomba nel pantano.
Il topo che l'avea creduto morto,
Stupisce, arrabbia, e gli sta sopra invano,
Ché del piagato re fatto avveduto
Correa Porricolore a dargli aiuto.
Avventa questi un colpo a Rodipane,
Ma non gli passa manco la rotella.

Cosí fra' topi indomiti e le rane
La zuffa tuttavia si rinnovella,
Quando improvviso un fulmine di guerra
Su le triste ranocchie si disserra.
Giunse a la mischia il prence Rubatocchi,
Giovane d'alto cor, d'alto legnaggio,
Particolar nemico de' ranocchi,
Degno figliuol d'Insidiapane il saggio,
Il piú forte de' topi ed il piú vago,
Che di Marte parea la viva imago.
Questi sul lido in rilevato loco
Si pone, e a' topi suoi grida e schiamazza;
Aduna i forti, e giura che fra poco
De le ranocchie estinguerà la razza.
E lo faria da ver: ma il padre Giove
A pietà de le misere si move.
« Oimè, » dice a gli Dei, « che veggio in terra?
Rubatocchi il figliuol d'Insidiapane
Distrugger vuol con ostinata guerra
Tutta quanta la specie de le rane;
E forze avria da farlo ancor che solo;
Ma Palla e Marte spediremo a volo. »
« E che pensiero è il tuo? » Marte rispose:
« Con gente di tal sorta io non mi mesco.
Per me, padre, non fanno queste cose,
E s'anco vo' provar, non ci riesco;
Né la sorella mia dal ciel discesa
Faria miglior effetto in quest'impresa.
Tutti piuttosto discendiamo insieme:
Ma certo basteranno i dardi tuoi.
I dardi tuoi che tutto il mondo teme,
Ch'Encelado atterraro e i mostri suoi,
Scaglia de' topi ne l'ardita schiera,
E a gambe la darà l'armata intera. »
Disse, e Giove acconsente e un dardo afferra;
Avventa prima il tuon ch'assordi e scota
Da' piú robusti cardini la terra;
Indi lo strale orribilmente rota,

Lo scaglia, e fu quel campo in un momento
Pien di confusione e di spavento.
Ma il topo che non ha legge né freno,
Poco da poi torna da capo, e tosto
Vanno in rotta i nemici e vengon meno.
Ma Giove che salvargli ad ogni costo
Deliberato avea, truppa alleata
A rincorar mandò la vinta armata.
Venner certi animali orrendi e strani
Di specie sopra ogni altra ossosa e dura;
Gli occhi nel petto avean, fibre per mani,
Il tergo risplendente per natura,
Curve branche, otto piè, doppia la testa,
Obliquo il camminar, d'osso la vesta.
Granchi, detti son essi, e a la battaglia
Lo scontraffatto stuolo appena è giunto
Che si mette fra' topi, abbranca, taglia,
Rompe, straccia, calpesta. Ecco in un punto
Sconfitto il vincitor, la rana il caccia,
E quel che la seguia fuga e minaccia.
Quei code e piè troncavano col morso,
E fecero un macello innanzi sera,
Fiaccando ogni arma ostil con l'aspro dorso,
E già cadeva il Sol, quando la schiera
De' topi si ritrasse afflitta e muta;
E fu la guerra in un sol dí compiuta.

Giacomo Leopardi - LA GUERRA DEI TOPI E DELLE RANE  (1826)













CANTO PRIMO

Sul cominciar del mio novello canto,
Voi che tenete l'eliconie cime
Prego, vergini Dee, concilio santo,
Che 'l mio stil conduciate e le mie rime:
Di topi e rane i casi acerbi e l'ire,
Segno insolito a i carmi, io prendo a dire.
La cetra ho in man, le carte in grembo: or date
Voi principio e voi fine a l'opra mia:
Per virtù vostra a la più tarda etate
Suoni, o Dive, il mio carme; e quanto fia
Che in questi fogli a voi sacrati io scriva,
In chiara fama eternamente viva.
I terrigeni eroi, vasti Giganti,
Di que' topi imitò la schiatta audace:
Di dolor, di furor caldi, spumanti
Vennero in campo: e se non è fallace
La memoria e 'l romor ch'oggi ne resta,
La cagion de la collera fu questa.
Un topo, de le membra il più ben fatto,
Venne d'un lago in su la sponda un giorno.
Campato poco innanzi era da un gatto
Ch'inseguito l'avea per quel dintorno:
Stanco, faceasi a ber, quando un ranocchio,
Passando da vicin, gli pose l'occhio.
E fatto innanzi, con parlar cortese,
« Che fai », disse, « che cerchi o forestiero?
Di che nome sei tu, di che paese?
Onde vieni, ove vai? Narrami il vero:
Ché se buono e leal fia ch'i' ti veggia,
Albergo ti darò ne la mia reggia.
Io guida ti sarò; meco verrai
Per quest'umido calle al tetto mio:
Ivi ospitali egregi doni avrai;
Ché Gonfiagote il principe son io;
Ho ne lo stagno autorità sovrana,
E m'obbedisce e venera ogni rana.

Ché de l'acque la Dea mi partoriva,
Poscia ch'un giorno il mio gran padre Limo
Le giacque in braccio a l'Eridano in riva.
E tu m'hai del ben nato: a quel ch'io stimo,
Qualche rara virtude in te si cela:
Però favella, e l'esser tuo mi svela. »
E 'l topo a lui: « Quel che saper tu brami
Il san gl'iddii, sallo ogni fera, ogni uomo.
Ma poi che chiedi pur com'io mi chiami,
Dico che Rubabriciole mi nomo:
Il padre mio, signor d'anima bella,
Cor grande e pronto, Rodipan s'appella.
Mia madre è Leccamacine, la figlia
Del rinomato re Mangiaprosciutti.
Con letizia comun de la famiglia,
Mi partorì dentro una buca; e tutti
I più squisiti cibi, e noci e fichi,
Furo il mio pasto a que' bei giorni antichi.
Che d'ospizio consorte io ti diventi,
Esser non può: diversa è la natura.
Tu di sguazzar ne l'acqua ti contenti;
Ogni miglior vivanda è mia pastura;
Frugar per tutto, a tutto porre il muso,
E viver d'uman vitto abbiamo in uso.
Rodo il più bianco pan, ch'appena cotto,
Dal suo cesto, fumando, a sé m'invita;
Or la tortella, or la focaccia inghiotto
Di granelli di sesamo condita;
Or la polenta ingrassami i budelli,
Or fette di prosciutto, or fegatelli.
Ridotto in burro addento il dolce latte,
Assaggio il cacio fabbricato appena;
Cerco cucine, visito pignatte
E quanto a l'uomo apprestasi da cena;
Ed or questo or quel cibo inzuccherato
Cred'io che Giove invidii al mio palato.
Né pavento di Marte il fiero aspetto,
E se pugnar si dee, non fuggo o tremo.

De l'uomo anco talor balzo nel letto,
De l'uom ch'è sì membruto, ed io nol temo;
Anzi pian pian gli vo rodendo il piede,
E quei segue a dormir, né se n'avvede.
Due cose io temo: lo sparvier maligno,
E 'l gatto, contra noi sempre svegliato.
S'avvien che 'l topo incorra in quell'ordigno
Che trappola si chiama, egli è spacciato;
Ma più che mai del gatto abbiam paura:
Arte non val con lui, non val fessura.
Non mangiam ravanelli o zucche o biete:
Questi cibi non fan pel nostro dente.
A voi, che di null'altro vi pascete,
Di cor gli lascio e ve ne fo presente. »
Rise la rana e disse: « Hai molta boria;
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.
Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose
E ne gli stagni loro e fuor de l'onde:
Ciascun di noi su per le rive erbose
Scherza a sua posta o nel pantan s'asconde;
Però ch'al gener mio dal Ciel fu dato
Notar ne l'acqua e saltellar nel prato.
Saper vuoi se 'l notar piaccia o non piaccia?
Montami in su le spalle: abbi giudizio;
Sta' saldo; al collo stringimi le braccia,
Per non cader ne l'acqua a precipizio:
Così verrai per questa ignota via
Senza rischio nessuno a casa mia. »
Così dicendo, gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio, e con le mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che ratto corse
Via da la riva, e seco trasportollo.
Rideva il topo, e rise il malaccorto
Finché si vide ancor vicino al porto.
Ma quando in mezzo al lago ritrovossi
E videsi la ripa assai lontana,
Conobbe il rischio, si pentì, turbossi;
Fortemente stringevasi a la rana;

Sospirava, piangea, svelleva i crini
Or se stesso accusando, ora i destini.
Voti a Giove facea, pregava il Cielo
Che soccorso gli desse in quell'estremo,
Tutto bagnato di sudore il pelo.
Stese la coda in acqua, e come un remo
Dietro la si traea, girando l'occhio
Or a i lidi, or a l'onde, or al ranocchio.
E diceva tra sé: « Che reo cammino,
Misero, è questo mai! quando a la meta,
Deh quando arriverem? Quel bue divino
A vie minor periglio Europa in Creta
Portò per mezzo il torbido oceano,
Che mi porti costui per un pantano. »
E qui dal suo covil, con larghe rote,
Ecco un serpe acquaiuolo esce a fior d'onda.
Irrigidisce il sorcio; e Gonfiagote
Là dove la palude è più profonda
Fugge a celarsi, e 'l topo sventurato
Abbandona fuggendo a l'empio fato.
Disteso a galla, e volto sottosopra,
Il miserel teneramente stride.
Fe' con la vita e con le zampe ogni opra
Per sostenersi; e poi, quando s'avvide
Ch'era già molle e che 'l suo proprio pondo
Forzatamente lo premeva al fondo;
Co' piedi la mortale onda spingendo
Disse in languidi accenti: « Or se' tu pago,
Barbaro Gonfiagote. Intendo intendo
L'arti e gl'inganni tuoi: su questo lago,
Vincermi non potendo a piedi asciutti,
Mi traesti per vincermi ne i flutti.
In lotta, al corso io t'avanzava; e m'hai
Tu condotto a morir per nera invidia.
Ma degno al fatto il guiderdone avrai;
Non senza pena andrà la tua perfidia.
Veggo le schiere, veggo l'armi e l'ira:
Vendicato sarò. » Sì dice, e spira.

CANTO SECONDO

Leccapiatti, ch'allor sedea sul lido,
Fu spettator de l'infelice evento.
S'accapricciò, mise in vederlo un grido,
Corse, ridisse il caso; e in un momento,
Di corruccio magnanimo e di sdegno
Tutto quanto avvampò de' topi il regno.
Banditori correan per ogni parte
Chiamando i sorci a general consiglio.
Già concorde s'udia grido di Marte
Pria che di Rodipan l'estinto figlio,
Ch'in mezzo del pantan giacea supino,
Cacciasser l'onde a i margini vicino.
Il giorno appresso, tutti di buon'ora
A casa si adunar di Rodipane.
Stavano intenti, ad udir presti. Allora
Rizzossi il vecchio e disse: « Ahi triste rane,
Che siete causa a me d'immenso affanno,
A noi tutti in comun, d'onta e di danno!
Ahi sfortunato me! tre figli miei
Sul più bello involò morte immatura.
Per gli artigli del gatto un ne perdei:
Lo si aggraffò ch'uscia d'una fessura.
Quel mal ordigno onde crudele e scaltro
L'uom fa strage di noi, men tolse un altro.
Restava il terzo, quel sì prode e vago,
A me sì caro ed a la moglie mia.
Questo le rane ad affogar nel lago
M'han tratto. Amici, orsù: prego: non sia
Tanta frode impunita: armiamci in fretta:
Peran tutte, ché giusta è la vendetta. »
Taciuto ch'ebbe il venerando topo,
Fer plauso i circostanti al suo discorso;
« Armi », gridaro, « a l'armi »: e pronto a l'uopo
Venne di Marte il solito soccorso,
Che le persone a far vie più sicure
L'esercito fornì de l'armature.

Di cortecce di fava aperte e rotte
Prestamente si fer gli stivaletti
(Rósa appunto l'avean quell'altra notte);
Di canne s'aiutar pe' corsaletti,
Di pelle per legarle, e fu d'un gatto
Che scorticato avean da lungo tratto.
Gli scudi fur de le novelle schiere
Unti coperchi di lucerne antiche;
Gusci di noce furo elmi e visiere;
Aghi fur lance. Alfin d'aste e loriche
E d'elmi e di tutt'altro apparecchiata,
In campo uscì la poderosa armata.
A l'udir la novella, si riscosse
Il popol de' ranocchi. Usciro in terra;
E mentre consultavano qual fosse
L'occasion de l'improvvisa guerra,
Ecco apparir Montapignatte il saggio,
Figlio del semideo Scavaformaggio.
Piantossi infra la calca, e la cagione
Di sua venuta espose in questi accenti:
« Uditori, l'eccelsa nazione
De' topi splendidissimi e potenti
Nunzio di guerra a le ranocchie invia,
E le disfida per la bocca mia.
Rubabriciole han visto co i lor occhi
Giacer sul lago, ove l'ha tratto a morte
Gonfiagote il re vostro. Or de' ranocchi
Quale ha più saldo cor, braccio più forte,
Armisi e venga a battagliar con noi. »
Disse, si volse e ritornò tra' suoi.
Qui ne' ranocchi un murmure si desta,
Un garbuglio, un romor. Questo si dole
Di Gonfiagote e trema per la testa,
Quello a la sfida acconsentir non vuole.
Ma de la molestissima novella
Per consolargli il re così favella:
« Zitto, ranocchie mie, non più romori:
Io, come tutti voi, sono innocente.

Non date fede a i topi mentitori:
So ben che certo sorcio impertinente,
Navigar presumendo al vostro modo,
Altro gli riuscì ch'andar nel brodo.
Né per questo il vid'io quando annegossi,
Non ch'i' sia la cagion de la sua morte.
Ma di color ch'a nocerci son mossi
Non è la schiatta nostra assai più forte?
Corriamo a l'armi; e di suo cieco ardire
Vi so dir che 'l nemico hassi a pentire.
Udite attentamente il pensier mio.
Ben armati porremci su la riva
Là, dove ripidissimo è 'l pendio:
Aspetteremo i topi; e quando arriva
Quella marmaglia, la farem da l'alto
Far giù ne l'acqua allegramente un salto.
Così, fuor d'ogni rischio, in poca d'ora
Tutto quanto l'esercito nemico
Manderem senza sangue a la malora.
Date orecchio per tanto a quel ch'io dico,
Fornitevi a la pugna, e fate core,
Ché non siam per averne altro che onore. »
Rendonsi a questi detti; e con le foglie
De le malve si fanno gli schinieri;
Bieta da far corazze ognun raccoglie,
Cavoli ognun disveste a far brocchieri;
Di chiocciola ciascun s'arma la testa,
E a far da mezza picca un giunco appresta.
Già tutta armata, e minacciosa in volto
Sta la gente in sul lido, e i topi attende;
Quando al coro de' numi in cielo accolto
Giove in questa sentenza a parlar prende:
« Vedete colaggiù quei tanti e tanti
Guerrieri, anzi Centauri, anzi Giganti?
Verran presto a le botte. Or chi di voi
Per li topi sarà? chi per le rane?
Palla, tu stai da' topi: e' son de' tuoi;
Ché presso a l'are tue si fan le tane,

Usano a i sacrifizi esser presenti
E col naso t'onorano e co' denti. »
Rispose quella: « O padre, assai t'inganni:
Vadan, per conto mio, tutti a Plutone;
Ché ne' miei tempii fanno mille danni,
Si mangian l'orzo, guastan le corone,
Mi succian l'olio, onde m'è spento il lume;
Talor anco lordato hanno il mio nume.
Ma quel che più mi scotta (e per insino
Che non me l'han pagata io non la inghiotto)
È che il vestito bianco, quel più fino,
Ch'io stessa avea tessuto, me l'han rotto,
Rotto e guasto così, che mel ritrovo
Trasformato in un cencio; ed era novo.
Il peggio è poi che mi sta sempre attorno
Il sarto pel di più de la mercede:
Ben sa ch'io non ho soldi; e tutto il giorno
Mi s'arruota a le coste e me ne chiede.
La trama, ch'una tal m'avea prestata,
Non ho renduto ancor né l'ho pagata.
Ma non resta perciò ch'anco le rane
Non abbian vizi e pecche pur assai.
Una sera di queste settimane
Pur troppo a le mie spese io lo provai.
Sudato s'era in campo tra le botte
Dal far del giorno insino a tarda notte.
Postami per dormire un pocolino,
Ecco un crocchiare eterno di ranocchi
M'introna in guisa tal, ch'era il mattino
Già chiaro quando prima io chiusi gli occhi.
Or quanto a questa guerra, il mio parere
È lasciar fare e starcela a vedere.
Non saria fuor di rischio in quella stretta
Un nume ancor. Credete a me: la gente
Quand'è stizzita e calda, non rispetta
Più noi ch'un becco, un can che sia presente. »
Disse Palla: a gli Dei piacque il consiglio.
Così piegaro a la gran lite il ciglio.

CANTO TERZO

Eran le squadre avverse a fronte a fronte,
E de le grida bellicose il suono
Per la valle eccheggiava e per lo monte;
Rotava il Padre un lungo inmmenso tuono,
E con le trombe lor mille zanzare
De la pugna il segnal vennero a dare.
Strillaforte primier fattosi avanti,
Leccaluom percotea d'un colpo d'asta.
Non muor, ma su le zampe tremolanti
Il poverino a reggersi non basta:
Cade; e a Fangoso Sbucatore intanto
Passa il corpo da l'uno a l'altro canto.
Volgesi il tristo infra la polve, e more:
Ma Bietolaio con l'acerba lancia
Trapassa al buon Montapignatte il core.
Mangiapan Moltivoce per la pancia
Trafora e lo conficca in sul terreno:
Mette il ranocchio un grido, e poi vien meno.
Godipalude allor d'ira s'accende,
Vendicarlo promette, e un sasso toglie,
L'avventa, e Sbucator nel collo prende:
Ma per di sotto Leccaluomo il coglie
Improvviso con l'asta, e ne la milza
(Spettacol miserando) te l'infilza.
Vuol fuggir Mangiacavoli lontano
Da la baruffa, e sdrucciola ne l'onda;
Poco danno per lui, ma nel pantano
Leccaluomo e' traea giù de la sponda,
Che rotto, insanguinato, e sopra l'acque
Spargendo le budella, orrido giacque.
Paludano ammazzò Scavaformaggio:
Ma vedendo venir Foraprosciutti,
Giacincanne perdessi di coraggio;
Lasciò lo scudo e si lanciò ne i flutti.
Intanto Godilacqua un colpo assesta
Al buon Mangiaprosciutti ne la testa.

Lo coglie con un sasso; e per lo naso
A lui stilla il cervello, e l'erba intride.
Leccapiatti al veder l'orrendo caso,
Giacinelfango d'una botta uccide;
Ma Rodiporro, che di ciò s'avvede,
Tira Fiutacucine per un piede.
Da l'erta lo precipita nel lago;
Seco si getta, e gli si stringe al collo;
Finché nol vede morto, non è pago.
Se non che Rubamiche vendicollo:
Corse a Fanghin, d'una lanciata il prese
A mezzo la ventresca e lo distese.
Vaperlofango un po' di fango coglie,
E a Rubamiche lo saetta in faccia
Per modo che 'l veder quasi gli toglie.
Crepa il sorcio di stizza, urla e minaccia;
E con un gran macigno al buon ranocchio
Spezza due gambe e stritola un ginocchio.
Gracidante s'accosta allor pian piano,
E al vincitor ne l'epa un colpo tira.
Quel cade, e sotto la nemica mano
Versa gli entragni insanguinati e spira.
Ciò visto Mangiagran, da la paura
Lascia la pugna, e di fuggir procura.
Ferito e zoppo, a gran dolore e stento,
Saltando, si ritragge da la riva;
Dilungasi di cheto e lento lento,
Finché per sorte a un fossatello arriva.
Intanto Rodipane a Gonfiagote
Vibra una punta, e l'anca gli percote.
Ma zoppicando il ranocchione accorto
Fugge, e d'un salto piomba nel pantano.
Il topo, che l'avea creduto morto,
Stupisce, arrabbia, e gli sta sopra invano,
Ché del piagato re fatto avveduto,
Correa Colordiporro a dargli aiuto.
Avventa questi un colpo a Rodipane,
Ma non gli passa più che la rotella.

Così fra' topi indomiti e le rane
La zuffa tuttavia si rinnovella:
Quando improvviso un fulmine di guerra
Su le triste ranocchie si disserra.
Giunse a la mischia il prence Rubatocchi,
Giovane di gran cor, d'alto legnaggio;
Particolar nemico de' ranocchi;
Degno figliuol d'Insidiapane il saggio;
Il più forte de' topi ed il più vago,
Che di Marte parea la viva imago.
Questi sul lido in rilevato loco
Postosi, a' topi suoi grida e schiamazza;
Aduna i forti, e giura che fra poco
De le ranocchie estinguerà la razza.
E da ver lo faria; ma il padre Giove
A pietà de le misere si move.
« Oimè », dice agli Dei, « qui non si ciancia:
Rubatocchi, il figliuol d'Insidiapane,
Si dispon di mandare a spada e lancia
Tutta quanta la specie de le rane;
E 'l potria veramente ancor che solo:
Ma Palla e Marte spediremo a volo. »
« Or che pensiero è il tuo? » Marte rispose:
« Con gente così fatta io non mi mesco.
Per me, padre, non fanno queste cose,
E s'anco vo' provar, non ci riesco:
Né la sorella mia, dal ciel discesa,
Faria miglior effetto in quest'impresa.
Tutti piuttosto discendiamo insieme.
Ma basteranno, io penso, i dardi tuoi.
I dardi tuoi che tutto il mondo teme,
Ch'Encelado atterraro e i mostri suoi,
Scaglia de' topi ne l'ardita schiera;
E a gambe la darà l'armata intera. »
Disse; e Giove acconsente, e un dardo afferra:
Avventa prima il tuon, ch'assordi e scota
E trabalzi da' cardini la terra;
Indi lo strale orribilmente rota;

Lo scaglia; e fu quel campo in un momento
Pien di confusione e di spavento.
Ma il topo, che non ha legge né freno,
Poco da poi torna da capo, e tosto
Vanno in rotta i nemici e vengon meno.
Ma Giove, che salvarli ad ogni costo
Deliberato avea, gente alleata
A ristorar mandò la vinta armata.
Venner certi animali orrendi e strani,
Di razza sopra ogni altra ossosa e dura:
Gli occhi nel petto avean, fibre per mani,
Il tergo risplendente per natura,
Curve branche, otto piè, doppia la testa,
Obliquo il camminar, d'osso la vesta.
Granchi son detti: e quivi a la battaglia
Lo scontraffatto stuol non prima è giunto
Che si mette fra' sorci, abbranca, taglia,
Rompe, straccia, calpesta. Ecco in un punto
Sconfitto il vincitor; la rana il caccia,
E quelli onde fuggia, fuga e minaccia.
A' granchi ogni arme si fiaccava in dorso:
Fero un guasto, un macello innanzi sera,
Mozzando or coda or zampa ad ogni morso.
E già cadeva il Sol, quando la schiera
De' topi si ritrasse afflitta e muta:
E fu la guerra in un sol dì compiuta.

docti protulerunt de Smintho et Apolline Smintheo". Sminto, a dire del Pseudo-Didimo, era un luogo della Troade, in cui trovavasi il tempio di Apolline Smintio. Smiénjov vale topo, e a Crisa nel tempio di Apolline Smintio vedevasi, al riferir di Strabone, la statua di quella Divinità con un topo ai piedi. Certo nel marmo, di cui parlo, sotto le figure corrispondenti si legge: ILIAS - Iliade, ODUSSEIA - Odissea, ma in niun luogo si trova scritto: BATRACOMUOMXIA - Batracomiomachia.
La proposizione di Cesarotti, il quale sospetta che la Batracomiomachia appartenga al secolo di Luciano, parmi avanzata senza riflessione. Come infatti avrebbe potuto quel poema rendersi in un momento così celebre presso i Greci ed i Latini, e il suo autore divenire ad un tratto sì sconosciuto, che Stazio e Marziale alquanto più antichi di Luciano attribuissero la Batracomiomachia ad Omero, e Plutarco quasi suo contemporaneo la citasse sotto il nome di Pigrete, scrittore quattro secoli più antico di lui? è dunque necessario supporre che l'autore della Batracomiomachia abbia vissuto molti anni avanti Stazio, Marziale e Plutarco; ma nel tempo stesso può credersi che egli abbia fiorito dopo Teocrito e Mosco. Ecco quanto con congetture e argomenti può stabilirsi intorno allo scrittore del nostro poema.
Quanto allo scopo che egli si prefisse nel comporlo, noi lasceremo ai Conti e ai Gebelin il seguire la opinione di Filippo Melantone, che si persuase aver voluto il poeta con quello scherzo ispirare ai giovinetti l'odio delle sedizioni e delle risse, e col far vincere le rane insegnare che sul capo degli autori delle contese ricade il danno che essi volevano recare altrui. Più ingegnoso è il pensamento di Pietro la Seine. Egli crede che il poeta voglia insinuare ai giovani la temperanza nel vitto, sicuramente perchè resta inferiore nel combattimento la ghiottissima armata dei topi, avvezza a guerreggiare nelle dispense e nelle cucine, e rimane vittorioso l'esercito delle rane che si contenta di bever acqua, e non ama che cibi pitagorici. Daniele Heinsio dice che la Batracomiomachia fu composta per uso ed esercizio della gioventù, affinchè fosse letta prima dei gravi poemi di Omero, e servisse come d'introduzione ai medesimi. Giovanni le Clerc è di opinione ben diversa. Egli pensa che la Batracomiomachia non sia che una perpetua beffa e una parodia dell'Iliade. Infatti è evidente che quel poema è scritto ad imitazione di Omero e col suo stile, e che vi si volgono in ridicolo molti pensieri e molte espressioni che Omero applica alle cose più serie. Gonfiagote è il Paride, e Rodipane il Menelao della Batracomiomachia. La descrizione delle armature dei topi e delle rane è un'imitazione caricata delle tante di questo genere che si trovano nell'Iliade. Giove, che vedendo prepararsi la battaglia, aduna gli Dei, è appunto il Giove di Omero vestito con abiti da commedia, e le parlate dei Numi contraffanno manifestamente quelle che Omero pone in bocca ai suoi Dei. Nella Iliade, al cominciar della battaglia fra i Troiani, ed i Greci condotti da Achille, Giove tuona, e Nettuno scuote la terra; e nella Batracomiomachia, dando gli araldi e le zanzare il segnale del combattimento, Giove risponde col tuono. La minuta descrizione dei diversi modi, coi quali i topi e le rane si feriscono e si uccidono, è evidentemente tolta da Omero, che è stato lodato da alcuni per la sua fecondità nell'immaginare infinite maniere di far ferire e uccidere i suoi Eroi. Gonfiagote nella Batracomiomachia fugge da Rodipane, come Paride da Menelao nell'Iliade. Rubatocchi è l'Achille della Batracomiomachia. Egli è giovine e principe come il protagonista di Omero. Le armate dei topi e delle rane combattono ambedue con egual successo: ma comparisce Rubatocchi, e le rane son ridotte all'estremo. Così nel decimottavo dell'Iliade comparisce Achille, e i Troiani si danno alla fuga. Giove nella Batracomiomachia lancia la folgore nel campo per salvare le rane, come nell'ottavo dell'Iliade la lancia per salvare i Troiani. È evidente che questo Giove e gli Eroi della Batracomiomachia sono quelli dell'Iliade volti in ridicolo, e Le Clerc sospetta che l'autore del nostro poema vi abbia posto esso stesso per istrazio il nome di Omero, come per indicare che la guerra di Troia cantata da lui non era più importante, nè più degna dell'intervento degli Dei che quella dei topi e delle rane. Forse i Grammatici poco maliziosi, o i posteri poco informati, vedendo in fronte alla Batracomiomachia il nome di Omero, e non trovando quel componimento indegno di lui, non pensarono più oltre, e lo crederono suo parto legittimo. Tutto ciò, oltre che è proprio a farci abbandonare la comune opinione che riguarda Omero come l'autore della Batracomiomachia, può anche mostrare che essa non è nemmeno di Pigrete, scrittore più antico di Mosco; poichè egli, al dir di Suida, raddoppiò l'Iliade, aggiungendo a ciascun verso di questa un suo pentametro, dal che apparisce che egli era pieno di venerazione per quel poema, e ben lontano dallo schernirlo empiamente e contraffarlo.
Come però il far dei bei poemi non fu privilegio esclusivo di Omero, e il non appartenergli non scema un apice del pregio vero di un'opera, la Batracomiomachia, tuttochè probabilmente di altro autore, è bellissima, e tutte le età si sono accordate nell'ammirarla e nel vantarne le prerogative. Molti poeti si sono anche studiati d'imitarla; e noi abbiamo in greco una Galeomiomachia, ossia battaglia dei topi e di un gatto, che dopo aver combattuto per qualche tempo, finalmente rimane ucciso da una trave che gli cade sopra. Elisio Calenzio, poeta del secolo decimoquinto, nativo del Regno di Napoli, molto stimato dal Pontano e dal Sannazaro, scrisse in versi latini tre libri della guerra dei topi e delle rane. Teofilo Folengo tanto conosciuto sotto il nome di Merlino Coccai, compose in verso elegiaco Maccheronico la Moschea, ossia la guerra delle mosche e delle formiche che rimangono vittoriose. Così pure Giovanni Possel, Gabriele Rollenhagen, e molti altri imitarono la Batracomiomachia, tra i quali il Pozzi che arricchì del grazioso episodio della guerra fra le donnole e gli scoiattoli il suo canto quarto del Bertoldo. È visibile che dalla Batracomiomachia fu tolto in parte il pensiero di quell'antica favola che presso il Burman nell'Appendice alle Favole di Fedro si legge così:
Mus, quo transire posset flumen facilius,
Auxilium ranae petit. Haec muris adligat
Lino priorem crus ad posterius pedem.
Amnem natantes vix medium devenerant,
Cum rana subito fundum fluminis petens,
Se mergit, muri ut vitam eriperet perfide.
Qui dum, ne mergeretur, tendit validius;
Praedam conspexit milvius propter volans,
Muremque fluctuantem rapuit unguibus,
Simulque ranam colligatam sustulit.
Sic saepe intereunt aliis meditantes necem.
Suida annovera tra le opere dubbie di Omero l'Aracnomachia, ossia la Guerra de' ragni; la Psaromachia, ossia la Guerra degli stornelli e la Geranomachia, ossia la Guerra delle gru, probabilmente coi pigmei. Se questi poemi ci fossero pervenuti, potremmo giudicare se essi fossero veramente di Omero, o fatti ad imitazione della Batracomiomachia, o se questa piuttosto sia un'imitazione di quelli.
Dicesi che Eustazio commentasse oltre l'Iliade e l'Odissea, anche la Batracomiomachia, ma il suo Commento sopra quest'ultima non si è mai trovato. Demetrio Zeno di Zacinto, vissuto nel secolo decimosesto, trasportò la Batracomiomachia in versi politici greco-barbari. La sua versione fu pubblicata dal Crusio.
È tempo omai di parlare della mia traduzione. La Batracomiomachia era stata già più volte recata in versi italiani. Le traduzioni di Giorgio Summariva di Carlo Marsupini, di Lodovico Dolce, di Federico Malipiero, del Salvini, di Angelo Maria Ricci, dell'Ab. Antonio Lavagnoli, di Antonio Migliarese, e di Marcantonio Pindemonte sono impresse. Quella di Giovanni da Falgano esiste inedita in Firenze nella Magliabechiana. La Guerra dei topi e dei ranocchi, poema in ottava rima, diviso in sei canti, e recitato in sei sere consecutive nel 1519 all'Accademia del Paiuolo in Firenze dal famoso pittore Andrea del Sarto, pubblicata per la prima volta in Firenze nel 1788 con previo avvertimento di Francesco Redi, e con prefazione ed utili e dotte note dell'editore sì all'avvertimento che al poema, non può in alcun modo dirsi traduzione della Batracomiomachia, come la chiama l'editore. Esso non è che la Guerra dei topi e delle rane cantata sulle tracce del poeta greco.
Il Rubbi diede sopra tutte le traduzioni italiane della Batracomiomachia la preferenza a quella del Lavagnoli. Ma questa, a dir vero, non è che una fredda e quasi letterale interpretazione del testo greco, fatta coll'originale e col Rimario alla mano, in versi poco eleganti, e con rime stentate e spiacevoli. Leggendone il primo verso senza saper nulla del titolo, si conosce tosto che esso appartiene ad una traduzione, tanto questa è lontana dall'aver l'aria di un componimento originale. Insomma la traduzione del Lavagnoli, che pure, a giudizio del Rubbi, è migliore di tutte le versioni italiane dello stesso poema, e che questo scrittore chiama bellissima, a me par quasi al di sotto del mediocre. Giudicando dunque che una nuova traduzione della Batracomiomachia potesse non essere inutile all'Italia, e risoluto di provarmi io stesso a lavorarla, cominciai dallo scegliere il metro. Il Marsupini avea adoprato il verso esametro italiano, forse perchè il maggior ridicolo del poema consistesse nel metro; il Ricci le sestine anacreontiche, quasi la Batracomiomachia fosse un'ode, o una canzone; il Summariva e il Lavagnoli le terzine, che danno alla Batracomiomachia l'aspetto di un Capitolo del Fagiuoli, o del Berni. Il Dolce e Giovanni da Falgano si servirono dell'ottava rima, ma per le difficoltà che porta seco questo metro, le quali probabilmente mi avrebbono obbligato a comporre piuttosto che tradurre, o a servirmi di rime stiracchiate che io abborro come nemiche capitali della bellezza della poesia, e del piacere dei lettori, lo abbandonai, e scelsi le sestine endecasillabe, dei vantaggi delle quali, dopo l'uso felicissimo che hanno fatto di loro parecchi poeti, e singolarmente l'Ab. Casti, non può più dubitarsi. Tradussi non letteralmente, come il Lavagnoli, ma pur tradussi, e fui ben lontano dal fare un nuovo poema, come Andrea del Sarto. Cercai d'investirmi dei pensieri del poeta greco, di rendermeli propri, e di dar così una traduzione che avesse qualche aspetto di opera originale, e non obbligasse il lettore a ricordarsi ad ogni tratto che il poema, che leggea, era stato scritto in greco molti secoli prima. Volli che le espressioni del mio autore, prima di passare dall'originale nelle mie carte, si fermassero alquanto nella mia mente, e conservando tutto il sapor greco, ricevessero l'andamento italiano, e fossero poste in versi non duri e in rime che potessero sembrare spontanee. Finalmente divisi la mia traduzione in quattro canti, non perchè di questa divisione si trovi o possa trovarsi alcun vestigio nell'originale, ma solo perchè essa mi parve acconcia a distinguere e fare osservare le principali parti dei poema. Nel primo canto si narra la cagione della guerra, nel secondo se ne descrivono i preparativi, il terzo comprende il cominciamento, e gran parte della battaglia, il quarto la catastrofe e il fine della guerra. Chi non approvasse questa divisione potrà unire insieme e leggere tutti seguitamente i quattro Canti, senza essere obbligato a fare alla traduzione il più piccolo cangiamento.



Edizione di riferimento:
Giacomo Leopardi, Poesie e prose, vol. I: Poesie, a cura di Mario Andrea Rigoni, con un saggio di Andrea Galimberti, Collana i Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1987