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Alessandro Manzoni - IL CONTE DI CARMAGNOLA















































































IL CONTE DI CARMAGNOLA





è preceduta da “Notizie storiche” sul protagonista e sugli avvenimenti che fanno da soggetto della tragedia.
Francesco Bussone nacque intorno al 1390 da un contadino e da bambino fu avviato a pascolare le pecore. Un soldato di ventura si imbatté in lui per puro caso e, rimasto colpito "dall'aria fiera del suo volto", gli propose di seguirlo al servizio del celebre condottiero mercenario Facino Cane. Il giovinetto acconsentì e ben presto si mise in luce per coraggio e determinazione, tanto da fare una rapida carriera militare. Si segnalò soprattutto al servizio di Filippo Maria Visconti, della cui potenza fu il principale artefice, sicché il duca lo nominò condottiero del suo esercito, gli conferì il titolo di Conte di Castelnuovo, gli consentì le nozze con Antonietta Visconti e gli permise di costruirsi un palazzo in Milano. La crescente potenza anche politica del Bussone venne però in sospetto del duca che tentò -a ciò spinto anche da non pochi cortigiani gelosi dell'ascesa del Carmagnola- di liberarsi di lui mandandolo governatore disarmato a Genova. Il Conte accettò l'incarico ma si rifiutò di rinunziare al comando delle milizie, ben prevedendo che quello sarebbe stato l'inizio d'una sua totale emarginazione dalla vita del ducato. Tentò di far desistere Filippo, ma visto inutile ogni tentativo, decise di abbandonarlo e di offrire il suo servizio prima al Duca Amedeo di Savoia e poi alla Repubblica di Venezia, tradizionali nemici dei Visconti. Fu Venezia ad accettarlo anche perché era allora in discussione un'alleanza coi Fiorentini per far guerra ai Visconti. Forse la guerra fu decisa proprio perché i Veneziani nutrivano grosse speranze di successo sull'abilità di condottiero del Carmagnola e sull'odio che questi aveva accumulato contro il suo vecchio signore. Ma nella battaglia di Maclodio, vittoriosa per il Carmagnola, questi mandò liberi, com'era usanza dei capitani di ventura, tutti i prigionieri, facendo sorgere il sospetto di essere ancora sentimentalmente legato ai vecchi compagni d'arme. Alcuni successivi insuccessi di lieve entità alimentarono i sospetti circa un qualche suo disegno di riconciliazione col Visconti a tutto danno della Repubblica e perciò i Veneziani decisero di intervenire senza mezzi termini e stroncare sul nascere l'eventuale tentativo di diserzione: invitato il Conte a lasciare temporaneamente l'esercito e venire a Venezia per discutere circa una eventuale pace da proporre al Visconti, lo catturarono di sorpresa, lo accusarono di tradimento e lo condannarono alla decapitazione. Gli storici non dispongono di documenti certi per giudicare le reali intenzioni del Carmagnola e dovendo procedere, per così dire, ad un'istruttoria indiziaria, si sono naturalmente divisi in colpevolisti ed innocentisti. Il Manzoni si è schierato dalla parte di questi ultimi ed ha tratteggiato il suo personaggio come la vittima di una infamante calunnia.
Il primo atto della tragedia ci porta nella sala delle riunioni del Senato di Venezia, ove il doge Francesco Foscari mette in discussione se accettare l’alleanza proposta dai Fiorentini, se è conveniente dichiarare la guerra ai Milanesi e se è opportuno affidarne il comando al Carmagnola.
Uno dei capi del Consiglio dei Dieci, Marino, diffida apertamente della lealtà del Conte e scongiura di non affidare a lui la difesa della Repubblica, ma il doge è di avviso contrario anche in considerazione dell’attentato alla vita del Conte ordito dal Visconti e fortunosamente sventato, ed ottiene il voto favorevole dei senatori su tutti e tre i quesiti proposti. La scena si sposta poi in casa del Carmagnola ove un senatore si reca per informare il Conte delle decisioni adottate e per avvertirlo della presenza di nemici occulti.
Nel secondo atto, la prima parte si svolge nel campo dei Milanesi, ove i capi militari sono divisi sulla opportunità di attaccare il nemico o attendere una migliore occasione: vince il partito dei più giovani che vogliono lo scontro immediato. Nella seconda parte si passa nel campo dei Veneziani, ove il Carmagnola, con estrema calma e convinta certezza di vittoria, mette a punto il piano di battaglia e dà le ultime istruzioni ai suoi ufficiali.
A questo punto si inserisce il Coro che consente al Poeta di esprimere il suo giudizio morale su quella vicenda. La battaglia è iniziata e si fa presto assai violenta. Qual nemico straniero è venuto ad insanguinare le nostre belle contrade? - si domanda il Poeta -. Ma non sono stranieri! Gli uni e gli altri parlano lo stesso linguaggio e sono figli della stessa Terra. Ma se sono fratelli, chi per primo osò trarre il sacrilego brando? “Del conflitto esecrando / la cagione esecranda qual è?”. Il colmo della sventura è che quei contendenti non hanno motivo di odiarsi e la cagione di quella guerra neppure la sanno: “a dar morte, a morire / qui senz'ira ognun d'essi è venuto; / E venduto ad un duce venduto, / con lui pugna, e non chiede il perché”. E quando la battaglia volge al termine e si profila con chiarezza la vittoria d’uno dei due eserciti, un corriere monta a cavallo per recare la lieta notizia. Ma come può mai esser lieta codesta notizia se deve pur dire: “i fratelli hanno ucciso i fratelli”? E intanto lo straniero si affaccia dai monti e con sguardo sinistro di gioia conta compiaciuto le migliaia di morti e calcola quand’è che può scendere senza rischi a conquistare l’Italia. Il commento morale del Manzoni alle vicende della tragedia è troppo evidente per dover essere spiegato, ma ci preme ugualmente di sottolineare come, anche in questo Coro, il cuore e la mente del Manzoni superino la vicenda nazionale e considerino invece il problema della guerra e della sopraffazione in rapporto all’intera umanità:
Tutti fatti a sembianza d'un solo,
figli tutti d'un solo Riscatto,
in qual ora, in qual parte del suolo,
trascorriamo quest'aura vital,
siam fratelli; siam stretti ad un patto:
maledetto colui che l'infrange,
che s'innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal!
Il terzo atto si svolge tutto nella tenda del Carmagnola, ma è anch’esso da dividere in due parti: nella prima ci si compiace della vittoria ottenuta sui Milanesi, mentre nella seconda si assiste ad uno scontro verbale fra il Carmagnola ed i Commissari preposti alla vigilanza dell’esercito per conto del governo veneziano: questi ultimi manifestano il loro disappunto per il rilascio dei prigionieri e pretendono che il condottiero dia l’ordine di inseguire il nemico fino a Milano; il Carmagnola risponde che il rilascio dei prigionieri rientra nelle consuetudini di guerra e che non è prudente inseguire il nemico senza essersi prima garantita la sicurezza alle spalle; e poi taglia corto, dicendo che gli lascino fare il suo mestiere di soldato in pace e che gli revochino pure l’incarico se nutrono sospetti sulla sua lealtà o sulle sue capacità.
Nel quarto atto il Gran Consiglio, dopo aver deciso di attirare con un tranello il Conte a Venezia per processarlo di tradimento, mette sotto accusa il senatore Marco per aver parlato in difesa del Carmagnola, suo amico. Marco è costretto a sottoscrivere un giuramento che gli impone di non svelare al Conte i piani del Consiglio e riceve l’ordine di allontanarsi da Venezia e di recarsi a Tessalonica in missione. Prima di partire, medita dolorosamente su quella che ritiene una viltà nei confronti dell’amico, ma anche sui suoi doveri di senatore che gli impongono di custodire i segreti di stato senza cedere ai sentimenti personali. Il soliloquio di Marco è forse la pagina più bella di tutta la tragedia. La scena si sposta poi nella tenda del Conte che, ricevuto l’invito a recarsi a Venezia, l’accetta di buon grado nonostante le diffidenze e i timori manifestatigli dal fedele Gonzaga.
Anche il quinto ed ultimo atto si divide in tre parti: nella prima il Conte è ricevuto dal Gran Consiglio che, dopo aver discusso la pace per saggiare l’animo del condottiero, lo accusa di tradimento e lo dichiara in arresto; nella seconda il Gonzaga si reca in casa del Carmagnola per dare la triste notizia alla moglie ed alla figlia dello sventurato condottiero; nella terza il Conte riceve nella sua cella l’ultima visita delle due donne, che cerca di confortare, dando prova di estrema fierezza nell’accettare un supplizio che non lo scalfisce minimamente nell’intimo, avendo egli conservata intatta e pura la propria coscienza.
«Il nucleo vitale della tragedia - afferma il Flora - è lo svolgi­mento della vicenda che conduce il Carmagnola ad una accettazione religiosa della morte, già tante volte sfidata sui campi di battaglia per una sfida mondana: il trapasso da un sentimento guerriero a un sentimento di suprema pace. Su questo dramma si leva il Coro in cui il poeta esprime la tragedia italiana dei popoli fratricidi, riconducendo anche quella alla contemplazione ultima della morte, al giudizio di Dio... La più intima verità poetica di questa tragedia s'è veduta nello svolgimento del protagonista e nel coro che sovrasta a tutte le scene come un cielo in presagio di tempesta. Non la gelida parte del Doge o magari l'eloquenza di Marino, primo a diffidare del conte: non l'insidia per la quale la Repubblica trae il Carmagnola a morte hanno vera virtù di contrasto drammatico: sono soltanto i modi accennati attraverso i quali il Carmagnola svolgerà la sua dura esperienza e risentirà il richiamo di Dio. E qui il poeta trova il suo limpido tono».

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Personaggi

Personaggi storici
Il Conte di Carmagnola
Antonietta Visconti, sua moglie.
Una loro figlia, a cui nella tragedia si è attribuito il nome di Matilde.
Francesco Foscari, Doge di Venezia.
Condottieri al soldo dei Veneziani
Giovanni Francesco Gonzaga.
Paolo Francesco Orsini.
Nicolò da Tolentino.

Condottieri al soldo del Duca di Milano
Carlo Malatesti.
Angelo della Pergola.
Guido Torello.
Nicolò da Piccinino, a cui nella tragedia si è attribuito il cognome di Fortebraccio.
Francesco Sforza.
Pergola, figlio

Personaggi ideali
Marco, Senatore veneziano.
Marino, uno dei Capi del Consiglio dei Dieci.
Primo commissario veneto nel campo.
Secondo commissario.
Un soldato del Conte.
Un soldato progioniero.
Senatori, Condottieri, Soldati, Prigioni, Guardie.

Atto primo

Scena prima
Sala del Senato, in Venezia.
Il Doge e Senatori seduti.

Il Doge:
È giunto il fin de' lunghi dubbi, è giunto,
Nobil'uomini, il dì che statuito
Fu a risolver da voi. Su questa lega
A cui Firenze con sì caldi preghi
Incontro il Duca di Milan c'invita,
Oggi il partito si porrà. Ma pria,
Se alcuno è qui cui non sia noto ancora
Che vile opra di tenebre e di sangue
Sugli occhi nostri fu tentata, in questa
Stessa Venezia, inviolato asilo
Di giustizia e di pace, odami: al nostro
Deliberar rileva assai che alcuno
Qui non l'ignori. Un fuoruscito al Conte
Di Carmagnola insidiò la vita
Fallito è il colpo, e l'assassino è in ceppi.
Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo
Ei l'ha nomato, ed è... quel Duca istesso
Di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora
A chieder pace, a cui più nulla preme
Che la nostra amistà. Tale arra intanto
Ei ci dà della sua. Taccio la vile
Perfidia della trama, e l'onta aperta
Che in un nostro soldato a noi vien fatta.
Due sole cose avverto: egli odia dunque
Veracemente il Conte, ella è fra loro
Chiusa ogni via di pace, il sangue ha stretto
Fra lor d'eterna inimicizia un patto.
L'odia - e lo teme: ei sa che il può dal trono
Quella mano sbalzar che in trono il pose,
E disperando che più a lungo in questa
Inonorata, improvida, tradita

Pace restar noi consentiamo, ei sente
Che sia per noi quest'uom; questo fra i primi
Guerrier d'Italia il primo, e quel che monta
Forse ancor più, delle sue forze istrutto
Come dell'arti sue; questi che il lato
Saprà tosto trovargli ove più certa
E più mortal fia la ferita. Ei volle
Spezzar quest'arme in nostra mano; e noi
Adoperiamla, e tosto. - Onde possiamo
Un più fedele e saggio avviso in questo
Che dal Conte aspettarci? Io l'invitai:
Piacevi udirlo?
(segni di adesione)
S'introduca il Conte.

Scena seconda
Il Conte, e detti.

Il Doge:
Conte di Carmagnola, oggi la prima
Occasïon s'affaccia in che di voi
Si valga la Repubblica, e vi mostri
In che conto vi tiene: in grave affare
Grave consiglio ci abbisogna. Intanto
Tutto per bocca mia questo Senato
Si rallegra con voi da sì nefando
Periglio uscito; e protestiam che a noi
Fatta è l'offesa, e che sul vostro capo
Or più che mai fia steso il nostro scudo,
Scudo di vigilanza e di vendetta.

Il Conte:
Serenissimo Doge, ancor null'altro
Io per questa ospital terra, che ardisco
Nomar mia patria, potei far che voti.
Oh! mi sia dato alfin questa mia vita,
Pur or sottratta al macchinar dei vili,
Questa che nulla or fa che giorno a giorno

Aggiungere in silenzio e che guardarsi
Tristamente, tirarla in luce ancora
E spenderla per voi, ma di tal modo,
Che dir si possa un dì, che in loco indegno
Vostr'alta cortesia posta non era.

Il Doge:
Certo gran cose, ove il bisogno il chiegga,
Ci promettiam da voi. Per or ci giovi
Soltanto il vostro senno. In suo soccorso
Contro il Visconte l'armi nostre implora
Già da lungo Firenze. Il vostro avviso
Nella bilancia che teniam librata
Non farà picciol peso.

Il Conte:
E senno e braccio
E quanto io sono è cosa vostra: e certo
Se mai fu caso in cui sperar m'attenti
Che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo.
E lo darò: ma pria mi sia concesso
Di me parlarvi in breve, e un cuore aprirvi,
Un cuor che agogna sol d'esser ben noto.

Il Doge:
Dite: a questa adunanza indifferente
Cosa che a cor vi stia giunger non puote.

Il Conte:
Serenissimo Doge, Senatori;
Io sono al punto in cui non posso a voi
Esser grato e fedel, s'io non divengo
Nemico all'uom che mio Signor fu un tempo.
S'io credessi che ad esso il più sottile
Vincolo di dover mi leghi ancora,
L'ombra onorata delle vostre insegne
Fuggir vorrei, viver nell'ozio oscuro
Vorrei, prima che romperlo e me stesso
Far vile agli occhi miei. Dubbio veruno

Sul partito che scelsi in cor non sento,
Perch'egli è giusto ed onorato: il solo
Timor mi pesa del giudizio altrui.
Oh! beato colui, cui la fortuna
Così distinte in suo cammin presenta
Le vie del biasmo e dell'onor, ch'ei puote
Correr certo del plauso, e non dar mai
Passo ove trovi a malignar l'intento
Sguardo del suo nemico. Un altro campo
Correr degg'io, dove in periglio sono
Di riportar - forza è pur dirlo - il brutto
Nome d'ingrato, l'insoffribil nome
Di traditor. So che dei Grandi è l'uso
Valersi d'opra ch'essi stiman rea,
E profondere a quei che l'ha compita
Premj e disprezzo, il so; ma io non sono
Nato a questo; e il maggior premio ch'io bramo,
Il solo, egli è la vostra stima, e quella
D'ogni cortese; e, arditamente il dico,
Sento di meritarla. Attesto il vostro
Sapiente giudicio, o Senatori,
Che d'ogni obbligo sciolto inverso il Duca
Mi tengo, e il sono. Se volesse alcuno
Dei benefici che fra noi son corsi
Pareggiar le ragioni, è noto al mondo
Qual rimarrebbe il debitor dei due.
Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca
Fin ch'io fui seco, e nol lasciai che quando
Ei mi v'astrinse. Ei mi cacciò del grado
Col mio sangue acquistato: invan tentai
Al mio Signor lagnarmi. I miei nemici
Fatto avean siepe intorno al trono: allora
M'accorsi alfin che la mia vita anch'essa
Stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.
Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo,
Per nobil causa, e con onor, non preso
Nella rete dei vili. Io lo lasciai
E a voi chiesi un asilo; e in questo ancora

Ei mi tese un agguato. Ora a costui
Più nulla io deggio; di nemico aperto
Nemico aperto io sono. All'util vostro
Io servirò, ma franco e in mio proposto
Deliberato, come quei ch'è certo
Che giusta cosa imprende.
Il Doge: E tal vi tiene
Questo Senato: già fra il Duca e voi
Ha giudicato irrevocabilmente
Italia tutta. Egli la vostra fede
Ha liberata, a voi l'ha resa intatta,
Qual gliela deste il primo giorno. È nostra
Or questa fede; e noi saprem tenerne
Ben altro conto. Or d'essa un primo pegno
Il vostro schietto consigliar ci sia.
Il Conte: Lieto son'io che un tal consiglio io possa
Darvi senza esitanza. Io tengo al tutto
Necessaria la guerra, e della guerra,
Se oltre il presente è mai concesso all'uomo
Cosa certa veder, certo l'evento;
Tanto più, quanto fien gl'indugi meno.
A che partito è il Duca? A mezzo è vinta
Da lui Firenze; ma ferito e stanco
Il vincitor: vòti gli erari: oppressi
Dal terror, dai tributi i cittadini
Pregan dal ciel su l'armi loro istesse
Le sconfitte e le fughe. Io li conosco,
E conoscer li deggio: a molti in mente
Dura il pensier del glorïoso, antico
Viver civile; e tostamente un guardo
Rivolgon di desio là dove appena
D'un qualunque avvenir si mostri un raggio,
Frementi del presente e vergognosi.
Ei conosce il periglio; indi l'udite
Mansueto parlarvi; indi vi chiede
Tempo soltanto da sbranar la preda
Che già tiensi fra l'ugne, e divorarla.
Fingiam che glielo diate: ecco mutata

La faccia delle cose: egli soggioga
Senza dubbio Firenze; ecco satolle
Le costui schiere col tesor dei vinti,
E più folte e anelanti a nuove imprese.
Qual Prence allor dell'alleanza sua
Far rifiuto oseria? Beato il primo
Ch'ei chiamerebbe amico! Egli sicuro
Consulterebbe e come e quando a voi
Mover la guerra, a voi rimasti soli.
L'ira che addoppia l'ardimento al prode
Che si sente percosso, ei non la trova
Che nei prosperi casi: impazïente
D'ogni dimora ove il guadagno è certo;
Ma nei perigli irresoluto: ai suoi
Soldati ascoso, del pugnar non vuole
Fuor che le prede. Ei nella rocca intanto,
O nelle ville rintanato attende
A novellar di cacce e di banchetti,
A interrogar tremando un indovino.
Ora è il tempo di vincerlo: cogliete
Questo momento: ardir prudenza or fia.

Il Doge:
Conte, su questo fedel vostro avviso
Tosto il Senato prenderà partito;
Ma il segua, o no, vi è grato; e vede in esso,
Non men che il senno, il vostro amor per noi.
(parte il Conte)

Scena terza
Il Doge e Senatori.

Il Doge:
Dissimil certo da sì nobil voto
Nessun s'aspetta il mio. Quando il consiglio
Più generoso è il più sicuro, in forse
Chi potria rimaner? Porgiam la mano
Al fratello che implora: un sacro nodo

Stringe i liberi Stati: hanno comuni
Fra lor rischi e speranze; e treman tutti
Dai fondamenti al rovinar d'un solo.
Provocator dei deboli, nemico
D'ognun che schiavo non gli sia, la pace
Con tanta istanza a che ci chiede il Duca?
Perché il momento della guerra ei vuole
Sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.
Il nostro egli è, se non ci falla il senno,
Né l'animo. - Ei ci vuole ad uno ad uno;
Andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa
La prima volta che il Leon giacesse
Al suon delle lusinghe addormentato.
No; fia tentato invan. Pongo il partito
Che si stringa la lega, e che la guerra
Tosto al Duca s'intimi, e delle nostre
Genti da terra abbia il comando il Conte.

Marino:
Contro sì giusta e necessaria guerra
Io non sorgo a parlar; questo sol chieggio,
Che il buon successo ad accertar si pensi.
La metà dell'impresa è nella scelta
Del capitano. Io so che vanta il Conte
Molti amici fra noi: ma d'una cosa
Mi rendo certo, che nessun di questi
L'ama più della patria; e per me, quando
Di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.
Io dico e duolmi che di fronte io deggia,
Serenissimo Doge, oppormi a voi,
Non è il duce costui quale il richiede
La gravità, l'onor di questo Stato.
Non cercherò perché lasciasse il Duca.
Ei fu l'offeso; e sia pur ver, l'offesa
È tal che accordo non può darsi; e questo
Consento: io giuro nelle sue parole.
Ma queste sue parole importa assai
Considerarle, perché tutto in esse

Ei s'è dipinto; e governar sì ombroso,
Sì delicato e vïolento orgoglio,
O Senatori, non mi par che sia
Minor pensiero della guerra istessa.
Finor fu nostra cura il mantenerci
La riverenza dei soggetti; or altro
Studio far si dovria, come costui
Riverir degnamente. E quando egli abbia
La man nell'elsa della nostra spada,
Potrem noi dir d'aver creato un servo
Dovrà por cura di piacergli ognuno
Di noi? Se nasce un disparer, fia degno
Che nell'arti di guerra il voler nostro
A quel d'un tanto condottier prevalga?
S'egli erra, e nostra è dell'error la pena,
Ché invincibil nol credo, io vi domando
Se fia concesso il farne lagno e dove
Si riscotan per questo onte e dispregi,
Che far? Soffrirli? Non v'aggrada, io stimo,
Questo partito; risentirsi? E dargli
Occasion che in mezzo all'opra, e nelle
Più difficili strette ei ci abbandoni
Sdegnato, e al primo altro Signor che il voglia,
Forse al nemico offra il suo braccio, e sveli
Quanto di noi pur sa, magnificando
La nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?

Il Doge:
Il Conte un Prence abbandonò; ma quale?
Un che da lui tenea lo Stato, e a cui
Quindi ei minor non potea mai stimarsi;
Un da pochi aggirato, e questi vili;
Timido e stolto, che non seppe almeno
Il buon consiglio tor della paura,
Nasconderla nel core, e starsi all'erta;
Ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:
Tale è il Signor che inimicossi il Conte.
Ma lode al ciel, nulla in Venezia io veggio

Che gli somigli. Se destrier, correndo,
Scosse una volta un furibondo e stolto
Fuor dell'arcione, e lo gittò nel fango;
Non fia per questo che salirlo ancora
Un cauto e franco cavalier non voglia.

Marino:
Poiché sì certo è di quest'uomo il Doge,
Più non m'oppongo; e questo a lui sol chieggio:
Vuolsi egli far mallevador del Conte?

Il Doge:
A sì preciso interrogar, preciso
Risponderò: mallevador pel Conte?
Né per altr'uom che sia, certo, io non entro;
Dell'opre mie, de' miei consigli il sono:
Quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto
Che guardia al Conte non si faccia, e a lui
Si dia l'arbitrio dello Stato in mano
Ei diritto anderà; tale io diviso.
Ma s'ei si volge al rio sentier, ci manca
Occhio che tosto ce ne faccia accorti,
E braccio che invisibile il raggiunga?

Marco:
Perché i princìpi di sì bella impresa
Contristar con sospetti? E far disegni
Di terrori e di pene, ove null'altro
Che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio
Che all'util suo sola una via gli è schiusa;
Lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa
Dee sovra ogni altra far per lui fidanza
La gloria ond'egli è già coperto, e quella
A cui pur anco aspira, il generoso
Il fiero animo suo: che un giorno ci voglia
Dall'altezza calar de' suoi pensieri,
E riporsi fra i vili, esser non puote.
Or, se prudenza il vuol, vegli pur l'occhio;
Ma dorma il cor nella fiducia. E poi

Che in così giusta e grave causa, un tanto
Dono ci manda Iddio; con quella fronte,
E con quel cor che si riceve un dono,
Sia da noi ricevuto.

Molti senatori:
Ai voti, ai voti!

Il Doge:
Si raccolgano i voti; e ognun rammenti
Quanto rilevi che di qui non esca
Motto di tal deliberar, né cenno
Che presumer lo faccia. In questo Stato
Pochi il segreto hanno tradito, e nullo
Fu tra quei pochi che impunito andasse.

Scena quarta
Casa del Conte.

Il Conte:
Profugo - o condottiero. - O come il vecchio
Guerrier nell'ozio i giorni trar, vivendo
Della gloria passata, in atto sempre
Di render grazie e di pregar, protetto
Dal braccio altrui che un dì potria stancarsi
E abbandonarmi, o ritornar sul campo,
Sentir la vita, salutar di nuovo
La mia fortuna, delle trombe al suono
Destarmi, comandar. Questo è il momento
Che ne decide. Eh! se Venezia in pace
Riman, degg'io chiuso e celato ancora
In questo asilo rimaner, siccome
L'omicida nel tempio? E chi d'un regno
Fece il destin, non potrà farsi il suo?
Non troverò fra tanti Prenci, in questa
Divisa Italia, un sol che la corona,
Onde il vil capo di Filippo splende,
Ardisca invidiar? Che si ricordi,
Ch'io l'acquistai, che dalle man di dieci

Tiranni io la strappai, ch'io la riposi
Su quella fronte, ed or null'altro agogno
Che ritorla all'ingrato, e farne un dono
A chi saprà del braccio mio valersi?

Scena quinta
Marco, e il Conte.

Il Conte:
O dolce amico; ebben che nunzio arrechi?

Marco:
La guerra è risoluta, e tu sei duce.

Il Conte:
Marco, ad impresa io non m'accinsi mai
Con maggior cor che a questa: una gran fede
Poneste in me: ne sarò degno, il giuro.
Il giorno è questo che del viver mio
Ferma il destin; poi che quest'alma terra
M'ha nel suo glorioso antico grembo
Accolto, e dato di suo figlio il nome,
Esserlo io vo' per sempre: e questo brando
Io consacro per sempre alla difesa
E alla grandezza sua.

Marco:
Dolce disegno!
Non soffra il ciel che la fortuna il rompa...
O tu medesmo.

Il Conte:
Io? come?

Marco:
Al par di tutti
I generosi, che giovando altrui
Nocquer sempre a sé stessi, e superate
Tutte le vie delle più dure imprese,
Caddero a un passo poi, che facilmente

L'ultimo de' mortali avria varcato.
Credi ad un uom che t'ama: i più dei nostri
Ti sono amici! ma non tutti il sono.
Di più non dico, né mi lice; e forse
Troppo già dissi. Ma la mia parola
Nel fido orecchio dell'amico stia,
Come nel tempio del mio cor, rinchiusa.

Il Conte:
Forse io l'ignoro? E forse ad uno ad uno
Non so quai siano i miei nemici?

Marco:
E sai
Chi te gli ha fatti? In pria l'esser tu tanto
Maggior di loro, indi lo sprezzo aperto
Che tu ne festi in ogni incontro. Alcuno
Non ti nocque finor; ma, chi non puote
Nuocer col tempo? Tu non pensi ad essi,
Se non allor che in tuo cammin li trovi;
Ma pensan essi a te, più che non credi.
Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode
Nell'odio. Or tu non irritarlo: cerca
Di spegnerlo; tu il puoi forse. Consiglio
Di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei,
Io non ti do, né tal da me l'aspetti.
Ma tra la non curanza, e la servile
Cautela avvi una via; v'ha una prudenza
Anco pei cor più nobili e più schivi;
V'ha un'arte d'acquistar l'alme volgari,
Senza discender fino ad esse: e questa
Nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.

Il Conte:
Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio
Le mille volte a me medesmo io il diedi;
E sempre all'uopo ei mi fuggì di mente;
E sempre appresi a danno mio che dove
Semina l'ira, il pentimento miete.

Dura scuola ed inutile! Alfin stanco
Di far leggi a me stesso, e trasgredirle,
Tra me fermai, che s'egli è mio destino
Ch'io sia sempre in tai nodi avviluppato
Che mestier faccia a disbrigarli appunto
Quella virtù che più mi manca, s'ella
È pur virtù, s'è mio destin che un giorno
Io sia colto in tai nodi, e vi perisca;
Meglio è senza riguardi andargli incontro.
Io ne appello a te stesso: i buoni mai
Non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.
E giurerei che un sol non è fra loro
Cui tu degni, non dico accarezzarlo,
Ma non dargli a veder che lo dispregi.
Rispondi.

Marco:
È ver: se v'ha mortal di cui
La sorte invidii, è sol colui che nacque
In luoghi e in tempi ov'uom potesse aperto
Mostrar l'animo in fronte, e a quelle prove
Solo trovarsi ove più forza è d'uopo
Che accorgimento: quindi, ove convenga
Simular, non ti faccia maraviglia
Che poco esperto io sia. Pensa per altro
Quanto più m'è concesso impunemente
Fallire in ciò che a te; che poche vie
Al pugnal d'un nemico offre il mio petto;
Che me contra i privati odii assecura
La pubblica ragion; ch'io vesto il saio
Stesso di quei che han la mia sorte in mano.
Ma tu stranier, tu condottiero al soldo
Di togati Signor, tu cui lo Stato
Dà tante spade per salvarlo, e niuna
Per salvar te... fa che gli amici tuoi
Odan sol le tue lodi; e non dar loro
La trista cura di scolparti. Pensa
Che felici non son, se tu nol sei.

Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi
Che ancor più addentro nel tuo cor risuoni
Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia
A cui tu se' sola speranza: il cielo
Diè loro un'alma per sentir la gioja,
Un'alma che sospira i dì sereni,
Ma che nulla può far per conquistarli.
Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire
Che il tuo destin ti porta: allor che il forte
Ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
Signor di sé che non pensava in prima.

Il Conte:
Tu hai ragione. Il ciel si piglia al certo
Qualche cura di me, poiché m'ha dato
Un tale amico. Ascolta; il buon successo
Potrà, spero, placar chi mi disama:
Tutto in letizia finirà. Tu intanto
Se cosa odi di me che ti dispiaccia,
L'indole mia ne incolpa, un improvviso
Impeto primo, ma non mai l'obblio
Di tue parole.
Marco: Or la mia gioja è intera.
Va, vinci, e torna. Oh come atteso e caro
Verrà quel messo che la gloria tua
Con la salute della patria annunzi!

Fine dell'Atto primo.

Atto secondo

Scena prima
Parte del campo ducale con tende.
Malatesti e Pergola.

Pergola:
Sì, condottier; come ordinaste, in pronto
Son le mie bande. A voi commise il Duca
L'arbitrio della guerra: io v'ho obbedito,
Ma con dolor: ve ne scongiuro ancora,
Non diam battaglia.

Malatesti:
Anzian d'anni e di fama,
O Pergola, qui siete: io sento il peso
Del vostro voto; ma cangiar non posso
Il mio. Voi lo vedete, il Carmagnola
Ci provoca ogni dì: quasi ad insulto
Sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto:
E due partiti ci rimangon soli;
O lui cacciarne, o abbandonar la terra
Che saria danno e scorno.

Pergola
A pochi è dato,
A pochi egregi il dubitar di nuovo,
Quando han già detto: ella è così. S'io parlo
È che tale vi tengo. Italia forse
Mai da' barbari in poi non vide a fronte
Due sì possenti eserciti: ma il nostro
L'ultimo sforzo è di Filippo. In ogni
Fatto di guerra entra fortuna, e sempre
Vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando
Ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi
Dargliene più ch'ella non chiede. E questo
Esercito con cui tutto possiamo
Salvar, ma che perduto in una volta

Mai più rifar non si potria, non dèssi
Come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
Avventurarlo in un sì picciol campo,
E in un campo mal noto, e quel ch'è peggio
Noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto
Argin divide le due schiere: a destra
E a sinistra paludi, in esse sparsi
I suoi drappelli: e noi fuori dei nostri
Alloggiamenti non teniamo un palmo
Pur di terren. Credete ad un che l'arti
Conosce di costui, che ha combattuto
Al fianco suo: qui v'è un'insidia. Forse
La miglior via di guerreggiar quest'uomo
Saria tenerlo a bada, aspettar tempo,
Tanto che alcun dei duci ai quali è sopra
Pigliasse a noia il suo superbo impero,
E il fascio ch'egli or nella mano ha stretto
Si rallentasse alfin. Pur, se a giornata
Venir si debbe, non è questo il loco:
Usciam di qui, scegliamo un campo noi,
Tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,
Senza svantaggio almanco, si decida.

Malatesti:
Due grandi schiere a fronte stanno; e grande
Fia la battaglia: d'una tale appunto
Abbisogna Filippo. A questi estremi
A poco a poco ei venne, e coi consigli
Ch'or proponete. A trarnelo, fia d'uopo
Appigliarci agli opposti: il rischio vero
Sta nell'indugio, e nel mutare il campo
Rovina certa. Chi sappia dir quanto
Di numero e di cor scemato ei fia,
Pria che si ponga altrove? Ora egli è quale
Bramar lo puote un capitan; con esso
Tutto lice tentar.

Scena seconda
Sforza, Fortebraccio e detti.

Malatesti:
Ditelo, o Sforza,
E Fortebraccio; voi giungete in tempo:
Ditelo voi, come trovaste il campo?
Che possiamo sperarne?

Sforza:
Ogni gran cosa.
Quando gli ordini udir, quando lor parve
Che una battaglia si prepari, io vidi
Un feroce tripudio: alla chiamata
Esultando venièno, e col sorriso
Si fean cenno a vicenda. E quando io corsi
Entro le file, ad ogni schiera un grido
S'alzava; ognuno in me fissando il guardo
Parea dicesse: o condottier, v'intendo.

Fortebraccio:
E tai son tutti: allor ch'io venni a' miei,
Tutti mi furo intorno. Un mi dicea:
Quando udremo le trombe? Altri: noi siamo
Stanchi d'esser beffati: e tutti in una
La battaglia chiedean, come già certi
Dell'ottenerla, e dubbj sol del quando.
Ebben, compagni, io rispondea, se il senno
Presto s'udrà, mi date voi parola
Di vincere con me? Gli elmi levati
Sull'aste, un grido universal d'assenso
Fu la parola, ond'io gioisco ancora.
E a tai soldati ci venia proposto
D'intimar la ritratta; ed alle mani,
Che già posate sulle spade aspettano
L'ordin di sguainarle e di ferire,
Si comandasse di levar le tende?
Chi fronte avria di presentarsi ad essi

Con tal ordine ormai?

Pergola:
Dal parlar vostro
Un nuovo modo di milizia imparo;
Che i soldati comandino, e che i duci
Obbediscano.

Fortebraccio:
O Pergola, i soldati
A cui capo son io, fur da quel Braccio
Disciplinati, che per tutto ancora
Con maraviglia e con terror si noma;
E non son usi a sostener gli scherni
Dell'inimico.

Pergola:
Ed io conduco genti
Da me, qual ch'io mi sia, disciplinate;
E sono avvezze ad aspettar la voce
Del condottiero, ed a fidarsi in lui.

Malatesti:
Dimentichiamo or noi che numerati
Sono i momenti, e non ne resta alcuno
Per le gare private?

Scena terza
Torello e detti.

Sforza:
Ebben, Torello,
Siete mutato di parer? Vedeste
L'animo ardente de' soldati?

Torello:
Il vidi;
Udii le grida del furor, le grida
Della fiducia e del coraggio; e il viso
Rivolsi altrove, onde nessun dei prodi

Vi leggesse il pensier che mal mio grado
Vi si pingeva: era il pensier che false
Son quelle gioje e brevi: era il pensiero
Del valor che si perde. Io cavalcai
Lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,
Quanto lunge potei, rividi quelle
Macchie che sorgon qua e là dal suolo
Uliginoso che la via fiancheggia:
Là son gli agguati, il giurerei. Rividi
Quel doppio cinto di muniti carri,
Onde assiepato è del nemico il campo.
Se l'urto primo ei sostener non puote,
Ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne
Preparato al secondo. Un nuovo è questo
Trovato di costui, per torre ai suoi
Il pensier primo che s'affaccia ai vinti,
Il pensier della fuga. Ad atterrarlo
Due colpi è d'uopo: ei con un sol ne atterra.
Perché, non giova chiuder gli occhi al vero,
Non son più quelle guerre, in cui pe' figli
E per le donne e per la patria terra
E per le leggi che la fan sì cara
Combatteva il soldato, in cui pensava
Il capitano a statuirgli un posto,
Egli a morirvi. A mercenarie genti
Noi comandiamo, in cui più di leggeri
Trovi il furor che la costanza: e corrono
Volonterosi alla vittoria incontro.
Ma s'ella tarda, se son posti a lungo
Tra la fuga e la morte, ah! dubbia è troppo
La scelta di costoro. E questo evento
Più che tutt'altro antiveder ci è forza. -
Vil tempo in cui tanto al comando cresce
Difficoltà, quanto la gloria scema!
Io lo ripeto, non è questo un campo
Di battaglia per noi.


Malatesti:
Dunque?

Torello:
Si muti.
Non siam pari al nemico; andiamo in luogo
Dove lo siam.

Malatesti:
Così Maclodio a lui
Lascerem quasi in dono? I valorosi,
Che vi son chiusi, non potran tenersi
Più che due giorni.

Torello:
Il so; ma non si tratta
Né d'un presidio qui, né d'una terra;
Trattasi dello Stato.

Sforza:
E di che mai
Se non di terre si compon lo Stato
E quelle che indugiando, ad una ad una
Già lasciammo sfuggir, quante son elle?
Casal, Bina, Quinzano e... se vi piace
Noveratele voi, ché in tal pensiero
Troppo caldo io mi sento. Il nobil manto,
Che a noi fidato ha il Duca, a brano a brano
Soffriam così che in nostra man si scemi,
E che a lui messo omai da noi non giunga
Che una ritratta non gli annunzi. Intanto
Superbisce il nemico, e ai nostri indugi
Sfacciato insulta.

Torello:
E questo è segno, o Sforza,
Ch'ei brama una battaglia.

Sforza:
Oh, che puot'egli

Bramar di più che innanzi a sé cacciarne
Colla spada nel fodero?

Pergola
Che puote
Bramar di più? Dirovvel'io: che noi
Tutto arrischiam l'esercito in un campo
Ov'egli ha preso ogni vantaggio. Or questo
Poniamo in salvo; ché le terre è lieve
Ripigliar con gli eserciti.

Fortebraccio
Con quali?
Non, per mia fé, con quelli a cui s'insegna
A diloggiar quando il nemico appare,
A non mirarlo in faccia, a lasciar soli
Nelle angosce i compagni; ma con genti
Quali or le abbiam d'ira e di scorno accese,
Impazienti di pugnar, con queste
Si riparan le perdite, e si vince.
Che dobbiamo aspettar? Brandi arrotati,
Perché lasciarli irrugginir?

Sforza:
Torello,
Voi temete d'agguati? Anch'io dirovvi:
Non son più quelle guerre, in cui minuti
Drappelletti movean, coll'occhio teso
Ogni macchia guatando, ogni rivolta.
Un'oste intera sopra un'oste intera
Oggi rovescerassi: un tanto stuolo
Si vince sì, ma non s'accerchia; ei spazza
Innanzi a sé gl'intoppi, e fin ch'è unito,
Dovunque sia, sul suo terreno è sempre.

Fortebraccio:
(a Pergola e Torello) Siete convinti?


Torello:
Sofferite...

Malatesti:
Io il sono.
Omai vano è più dir. Certo io mi tengo
Che tutti andrete in operar d'accordo
Più che non foste in divisar disgiunti.
Poi che un partito e l'altro ha il suo periglio,
Scegliamo almen quel che più gloria ha seco.
Noi darem la battaglia: alla frontiera
Io mi pongo coi miei; Sforza vien dietro
E chiude la vanguardia; il mezzo tenga
Della battaglia Fortebraccio: e il nostro
Ufficio sia con impeto serrarci
Addosso il campo del nemico, aprirlo
E spingerci a Maclodio. Voi, Torello,
E voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra
Questa giornata, io pongo in vostra mano
L'assicurarla: voi, discosti alquanto,
Il retroguardo avrete. O la fortuna,
Pur come suol, seconda i valorosi,
E rompiamo il nemico; e voi piombate
Sopra i dispersi. Ma s'ei dura incontro
L'impeto nostro, e ci vedete entrati
Donde uscir soli non possiam; venite
A noi, reggete i periglianti amici;
Ché per cosa che accaggia, io vi prometto,
Retrocedere a voi non ci vedrete.

Fortebraccio:
Non ci vedrete, no.

Sforza:
Siatene certi.

Fortebraccio:
Sia lode al ciel, combatteremo alfine:
Mai non accadde a capitan, ch'io sappia,

Per fare il suo mestier contender tanto.

Pergola:
O Carmagnola, tu pensasti che oggi
Il giovenil corruccio alla prudenza
Prevarrebbe dei vecchi; e ti apponesti.

Fortebraccio:
Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi:
Ella cresce cogli anni, e tanto cresce
Che alfin diventa...

Pergola:
Ebben, dite.

Fortebraccio:
Paura;
Poi che volete ad ogni modo udirlo.

Malatesti:
Fortebraccio!

Pergola:
L'hai detto. Ad un soldato
Che già più volte avea pugnato e vinto
Prima che tu vedessi una bandiera,
Oggi tu il primo hai detto...

Malatesti:
Da quel lato,
Presso Maclodio è posto il Carmagnola.
Quegli fra noi che avere oggi pensasse
Altro nemico che costui, sarebbe
Un traditor: pensatamente il dico.

Pergola:
Ritratto il voto che dapprima io diedi;
E il do per la battaglia: ella fia quale
Predissi allor; ma non importa. Allora
Potea schifarsi; or la domando io primo:

Io son per la battaglia.

Malatesti:
Accetto il voto,
Ma non l'augurio: lo distorni il cielo
Sul capo del nemico.

Pergola:
O Fortebraccio,
Tu m'hai offeso.

Malatesti:
Or via...

Fortebraccio:
Se così credi,
Sia pur così: perché a te spiaccia, o a quale
Altro pur sia, non crederai ch'io voglia
Una parola ritirar che uscita
Dalle labbra mi sia.

Malatesti:
(in atto di partire) Chi resta fido
A Filippo, mi segua.

Pergola:
Io vi prometto
Che oggi darem battaglia, e che di noi
Non mancheravvi alcuno. - O Fortebraccio,
Non giunger onta ad onta; io ti ripeto,
Tu m'hai offeso. - Ascolta, io t'offro il modo
Che tu mi renda l'onor mio, serbando
Intatto il tuo.

Fortebraccio:
Che vuoi?

Pergola:
Dammi il tuo posto.
Ovunque tu combatta, a tutti è noto

Che tu volesti la battaglia, ed io,
Io deggio ad ogni modo essere in luogo
Che l'amico e il nemico aperto veggia
Ch'io non ho... tu m'intendi.

Fortebraccio:
Io son contento,
Piglia quel posto; poi che il brami è tuo.
O forte, or m'odi: ora m'è dolce il dirti
Ch'io non t'offesi, no: per la fortuna
Del Signor nostro tu soverchio temi:
Questo dir volli. Ma il timor che nasce
In cor di quei che ama la vita, e l'ama
Più dell'onor, ma che nel cor del prode
Muore al primo periglio ch'egli affronta,
E mai più non risorge, o valoroso,
Pensavi tu?...

Pergola:
Nulla pensai: tu parli
Da generoso qual tu sei.
(a Malatesti)
Signore,
Voi consentite al cambio?

Malatesti:
Io v'acconsento;
E son ben lieto di veder tant'ira
Tutta cader sovra il nemico.

Torello:
(allo Sforza) Io stava
Col Pergola da prima; ingiusto, io spero,
Non vi parrà...

Sforza:
V'intendo; e con lui state
Alla vanguardia: ultimi e primi, tutti
Combatterem; poco m'importa il dove.


Malatesti:
Non più ritardi. Iddio sarà coi prodi.
(partono).

Scena quarta
Campo veneziano. Tenda del Conte.
Il Conte, un Soldato

Soldato:
Signor, l'oste nemica è in movimento:
La vanguardia è sull'argine, e s'avanza.

Il Conte:
I condottieri dove son?

Soldato:
Qui tutti
Fuor della tenda i principali; e stanno
Gli ordin vostri aspettando.

Il Conte:
Entrino tosto.
(parte il Soldato).

Scena quinta

Il Conte:
Eccolo il dì ch'io bramai tanto. - Il giorno
Ch'ei non mi volle udir, che invan pregai,
Che ogni adito era chiuso, e che deriso,
Solo, io partiva, e non sapea per dove,
Oggi con gioja io lo rammento alfine.
Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,
Ma condottier de' tuoi nemici, ingrato!
Io lo dicea; ma allor pareva un sogno,
Un sogno della rabbia; ed ora è vero.
Gli sono a fronte: ecco mi balza il core:
Io sento il dì della battaglia... e s'io...
No: la vittoria è mia.

Scena sesta
Il Conte, Gorzoga, Orsini, Tolentino, altri Condottieri

Il Conte:
Compagni, udiste
La lieta nuova: l'inimico ha fatto
Ciò ch'io volea; così voi pur farete.
E il sol che sorge, a ognun di noi, lo giuro,
Il più bel dì di nostra vita apporta.
Non è tra voi chi una battaglia aspetti
Per farsi un nome, io 'l so; ma questa sera
L'avrem più glorïoso; e la parola
Che al nostro orecchio scenderà più grata,
Omai fia quella di Maclodio. - Orsini,
Son pronti i tuoi?

Orsini:
Sì.

Il Conte:
Corri all'imboscate
Sulla destra dell'argine; raggiungi
Quei che vi stanno, e prendine il comando.
E tu a sinistra, o Tolentino. E quindi
Non vi movete, che non sia lo scontro
Incominciato; quando ei fia, correte
Alle spalle al nemico. Udite entrambi.
Se dell'insidie egli s'avvede, e tenta
Ritrarsi, appena avrà voltato il dorso,
Siategli addosso uniti: io son con voi.
Provochi, o fugga, oggi dev'esser vinto.

Orsini:
Ei lo sarà.
(parte).

Tolentino:
Ti obbedirem, vedrai.
(parte)


Il Conte:
(agli altri) Tu, Gonzaga, al mio fianco. I posti a voi
Assegnerò sul campo. Andiam, compagni;
Si resista al prim'urto: Il resto è certo.

Coro:
S'ode a destra uno squillo di tromba;
A sinistra risponde uno squillo:
D'ambo i lati calpesto rimbomba
Da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l'aria un vessillo;
Quindi un altro s'avanza spiegato:
Ecco appare un drappello schierato;
Ecco un altro che incontro gli vien.
Già di mezzo sparito è il terreno;
Già le spade rispingon le spade;
L'un dell'altro le immerge nel seno;
Gronda il sangue; raddoppia il ferir. -
Chi son essi? Alle belle contrade
Qual ne venne straniero a far guerra
Qual è quei che ha giurato la terra
Dove nacque far salva, o morir? -
D'una terra son tutti: un linguaggio
Parlan tutti: fratelli li dice
Lo straniero: il comune lignaggio
A ognun d'essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nudrice,
Questa terra di sangue ora intrisa,
Che natura dall'altre ha divisa,
E ricinta con l'alpe e col mar.
Ahi! Qual d'essi il sacrilego brando
Trasse il primo il fratello a ferire?
Oh terror! Del conflitto esecrando
La cagione esecranda qual è?
Non la sanno: a dar morte, a morire
Qui senz'ira ognun d'essi è venuto;
E venduto ad un duce venduto,
Con lui pugna, e non chiede il perché.


Ahi sventura! Ma spose non hanno,
Non han madri gli stolti guerrieri?
Perché tutte i lor cari non vanno
Dall'ignobile campo a strappar?
E i vegliardi che ai casti pensieri
Della tomba già schiudon la mente,
Ché non tentan la turba furente
Con prudenti parole placar?
Come assiso talvolta il villano
Sulla porta del cheto abituro
Segna il nembo che scende lontano
Sopra i campi che arati ei non ha;
Così udresti ciascun che sicuro
Vede lungi le armate coorti,
Raccontar le migliaja de' morti,
E la piéta dell'arse città.
Là, pendenti dal labbro materno
Vedi i figli che imparano intenti
A distinguer con nomi di scherno
Quei che andranno ad uccidere un dì;
Qui le donne alle veglie lucenti
De' monili far pompa e de' cinti,
Che alle donne diserte de' vinti
Il marito o l'amante rapì.
Ahi sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d'uccisi;
Tutta è sangue la vasta pianura;
Cresce il grido, raddoppia il furor.
Ma negli ordini manchi e divisi
Mal si regge, già cede una schiera;
Già nel volgo che vincer dispera,
Della vita rinasce l'amor.
Come il grano lanciato dal pieno
Ventilabro nell'aria si spande;
Tale intorno per l'ampio terreno
Si sparpagliano i vinti guerrier.
Ma improvvise terribili bande
Ai fuggenti s'affaccian sul calle;

Ma si senton più presso alle spalle
Scalpitare il temuto destrier.
Cadon trepidi a piè dei nemici,
Rendon l'arme, si danno prigioni:
Il clamor delle turbe vittrici
Copre i lai del tapino che mor.
Un corriero è salito in arcioni;
Prende un foglio, il ripone, s'avvia,
Sferza, sprona, divora la via
Ogni villa si desta al romor.
Perché tutti sul pesto cammino
Dalle case, dai campi accorrete?
Ognun chiede con ansia al vicino,
Che gioconda novella recò?
Donde ei venga, infelici, il sapete,
E sperate che gioia favelli?
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
Questa orrenda novella vi do.
Odo intorno festevoli gridi;
S'orna il tempio, e risuona del canto;
Già s'innalzan dai cori omicidi
Grazie ed inni che abbomina il ciel.
Giù dal cerchio dell'alpi frattanto
Lo straniero gli sguardi rivolve;
Vede i forti che mordon la polve,
E li conta con gioja crudel.
Affrettatevi, empite le schiere,
Sospendete i trionfi ed i giuochi,
Ritornate alle vostre bandiere:
Lo straniero discende; egli è qui.
Vincitor! Siete deboli e pochi?
Ma per questo a sfidarvi ei discende;
E voglioso a quei campi v'attende
Dove il vostro fratello perì.
Tu che angusta a' tuoi figli parevi,
Tu che in pace nutrirli non sai,
Fatal terra, gli estrani ricevi:
Tal giudizio comincia per te.

Un nemico che offeso non hai
A tue mense insultando s'asside;
Degli stolti le spoglie divide;
Toglie il brando di mano a' tuoi Re.
Stolto anch'esso! Beata fu mai
Gente alcuna per sangue ed oltraggio?
Solo al vinto non toccano i guai;
Torna in pianto dell'empio il gioir.
Ben talor nel superbo viaggio
Non l'abbatte l'eterna vendetta;
Ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
Ma lo coglie all'estremo sospir.
Tutti fatti a sembianza d'un Solo;
Figli tutti d'un solo Riscatto,
In qual ora, in qual parte del suolo,
Trascorriamo quest'aura vital
Siam fratelli; siam stretti ad un patto:
Maledetto colui che l'infrange,
Che s'innalza sul fiacco che piange,
Che contrista uno spirto immortal!

Fine dell'Atto secondo.

Atto terzo

Scena prima
Il Conte, e il primo Commissario.
Il Conte:
Siete contenti?

1° commiss.:
Udir l'alto trionfo
Della patria; vederlo; essere i primi
A salutarla vincitrice; a lei
Darne l'annunzio; assistere alla fuga
De' suoi nemici; e mentre al nostro orecchio
Rimbomba il suon della minaccia ancora,
Veder la gloria sua fuor del periglio

Uscir raggiante e più che mai serena,
Come un sol dalle nubi; è gioia questa
Forse, o signor, cui la parola arrivi?
Voi la vedete: essa vi sia misura
Della riconoscenza; e ben ci tarda
Di rendervi tai grazie in altro nome
Che non è il nostro, e del Senato a voi
Riferir la letizia e il guiderdone.
Ei sarà pari al merto.

Il Conte:
Io già lo tengo.
Venezia è salva; ho liberata in parte
Una grande promessa; ho fatto alfine
Risovvenir di me tal che m'avea
Dimenticato; ho vinto.

1° commiss.:
Ed or si vuole
Assicurar della vittoria il frutto.

Il Conte:
Questa è mia cura.

1° commiss.:
Or che dal vostro brando
Sgombra è la via, noi ci aspettiam che tutta
Voi la farete; né starem fin tanto
Che non si giunga del nemico al trono.

Il Conte:
Quando fia tempo.

1° commiss.:
E che? Voi non volete
Inseguire i fuggenti?

Il Conte:
Or non lo voglio.


1° commiss.:
Ma il Senato lo crede... E noi ben certi
Che pari all'alta occasion, che pari
Alla vittoria il vostro ardor saria
Nel proseguirla, abbiamo a lui...

Il Conte:
Vi siete
Troppo affrettati.

1° commiss.:
E che dirà mai quando
Udrà che ancor siam qui?

Il Conte:
Dirà, che il meglio
È di fidarsi a chi per lui già vinse.

1° commiss.:
Ma... che pensate far?

Il Conte:
Ve l'avrei detto
Più volentier pochi momenti or sono;
Pur convien ch'io vel dica. Io non mi voglio
Allontanar di qui pria ch'espugnate
Non sien le rocche che ci stan d'intorno.
Voglio un solo nemico, e quello in faccia.

1° commiss.:
Or dunque i nostri voti...

Il Conte:
I vostri voti
Più arditi son del brando mio, più rapidi
De' miei cavalli; ... ed io... la prima volta
È che m'ascolto dir ch'io pur m'affretti.

1° commiss.:
Ma pensaste abbastanza?


Il Conte:
E che! Sì nuova
Dunque mi giunge una vittoria? E parvi
Che questa gioia mi confonda il core
Tanto che il primo mio pensier non sia
Per ciò che resta a far?

Scena seconda
Il secondo Commissario e detti.

2° commiss.:
(a Conte) Signor, se tosto
Non correte al riparo, una sfacciata
Perfidia s'affatica a render vana
Sì gran vittoria; e già l'ha fatto in parte.

Il Conte:
Come?

2° commiss.:
I prigioni escon del campo a torme;
I condottieri ed i soldati a gara
Li mandan sciolti, né tener li puote
Fuor che un vostro comando.

Il Conte:
Un mio comando?

2° commiss.:
Esitereste a darlo?

Il Conte:
È questo un uso
Della guerra, il sapete. È così dolce
Il perdonar quando si vince! e l'ira
Presto si cambia in amistà ne' cori
Che batton sotto il ferro. Ah! non vogliate
Invidïar sì nobil premio a quelli
Che hanno per voi posta la vita, ed oggi
Son generosi, perché ier fur prodi.


2° commiss.:
Sia generoso chi per sé combatte,
Signor; ma questi - e ad onor l'hanno, io credo -
Al nostro soldo han combattuto; e nostri
Sono i prigioni.

Il Conte:
E voi potete adunque
Creder così: quei che gli han visti a fronte,
Che assaggiaro i lor colpi, e che a fatica
Su lor le mani insanguinate han poste,
Nol crederan sì di leggieri.

2° commiss.:
È questa
Dunque una giostra di piacer? Non vince
Per conservar, Venezia? E vana al tutto
Fia la vittoria?

Il Conte:
Io già l'udii, di novo
La devo udir questa parola: amara,
Importuna mi vien come l'insetto
Che, scacciato una volta, anco a ronzarmi
Torna sul volto... La vittoria è vana?
Il suol d'estinti ricoperto, sparso
E scoraggiato il resto: il più fiorente
Esercito! col qual, se unito ancora
E mio foss'egli, e mio davver, torrei
A correr tutta Italia; ogni disegno
Dell'inimico al vento; anche il pensiero
Dell'offesa a lui tolto; a stento usciti
Dalle mie mani, e di fuggir contenti
Quattro tai duci, contro a' quai pur ieri
Era vanto il resistere; svanito
Mezzo il terror di quei gran nomi; ai nostri
Raddoppiato l'ardir che agli altri è scemo;
Tutta la scelta della guerra in noi;
Nostre le terre ch'egli han sgombre... è nulla?

Pensate voi che torneranno al Duca
Que' prigioni? che l'amino? che a loro
Caglia di lui più che di voi? ch'egli abbiano
Combattuto per esso? Han combattuto
Perché all'uomo che segue una bandiera,
Grida una voce imperïosa in core:
Combatti, e vinci. Ei son perdenti; ei sono
Tornati in libertà; si venderanno, -
Oh! tale ora è il soldato! a chi primiero
Li comprerà... Comprateli, e son vostri.

1° commiss.:
Quando assoldammo chi dovea con essi
Pugnar, comprarli noi credemmo allora.

2° commiss.:
Signor, Venezia in voi si fida; in voi
Vede essa un figlio; e quanto all'util suo,
Alla sua gloria può condur, s'aspetta
Che si faccia da voi.

Il Conte:
Tutto ch'io posso.

2° commiss.:
Ebben, che non potete in questo campo?

Il Conte:
Quel che chiedete: un uso antico, un uso
Caro ai soldati vïolar non posso.

2° commiss.:
Voi cui nulla resiste, a cui sì pronto
Tien dietro ogni voler, sì ch'uom non vede
Se per amore o per timor si pieghi,
Voi non potreste in questo campo, voi
Fare una legge, e mantenerla?

Il Conte:
Io dissi

Ch'io non potea: meglio or dirò: nol voglio.
Non più parole; cogli amici è questo
Il mio costume antico, ai giusti preghi
Soddisfar tosto e lietamente, e gli altri
Apertamente rifiutar. Soldati!

2° commiss.:
Ma... che disegno è il vostro?

Il Conte:
Or lo vedrete.
(a un Soldato che entra).
Quanti prigion restano ancora?

Il soldato:
Io credo
Quattro cento, Signor.

Il Conte:
Chiamali... chiama
I più distinti... quei che incontri i primi:
Vengan qui tosto.
(parte il Soldato).
Io 'l potrei certo... Ov'io
Dessi un tal cenno, non s'udria nel campo
Una repulsa... Ma i miei figli, i miei
Compagni del periglio e della gioia,
Quei che fidano in me, che un capitano
Credon seguir sempre a difender pronto
L'onor della milizia ed il vantaggio,
Io tradirli così! Farla più serva,
Più vil, più trista che non è! ... Signori,
Fidente io son, come i soldati il sono;
Ma se cosa or da me chiedete a forza,
Che mi tolga l'amor de' miei compagni,
Se mi volete separar da quelli,
E a tal ridurmi ch'io non abbia appoggio
Altro che il vostro, a mio malgrado il dico,
M'astringerete a dubitar...


2° commiss.:
Che dite!

Scena terza
I Prigionieri, fra i quali Pergola figlio, e detti.

Il Conte:
(ai Prigionieri). O prodi indarno, o sventurati! ... A voi
Dunque fortuna è più crudel, voi soli
Siete alla trista prigionia serbati?

Un prigioniere
Tale, eccelso Signor, non era il nostro
Presentimento: allorché a voi dinanzi
Fummo chiamati, udir ci parve il messo
Di nostra libertà. Già tutti l'hanno
Ricovrata color che agli altri duci,
Minor di voi, caddero in mano; e noi...

Il Conte:
Voi, di chi siete prigionier?

Il prigioniere:
Noi fummo
Gli ultimi a render l'armi. In fuga o preso
Già tutto il resto, ancor per pochi istanti
Fu sospesa per noi l'empia fortuna
Della giornata; alfin voi feste il cenno
D'accerchiarci, o signor, soli, non vinti,
Ma reliquie de' vinti, al drappel vostro...

Il Conte:
Voi siete quelli? Io son contento, amici
Di rivedervi; e posso ben far fede
Che pugnaste da prodi: e se tradito
Tanto valor non era, e pari a voi
Sortito aveste un condottier, non era
Piacevol tresca esservi a fronte.



l Conte di Carmagnola”, oltre che dalla “Prefazione”
"I
Il prigioniere:
Ed ora
Ci fia sventura il non aver ceduto
Che a voi, signore? E quelli a cui toccato
Men glorïoso è il vincitor, l'avranno
Trovato più cortese? Indarno ai vostri
La libertà chiedemmo; alcun non osa
Dispor di noi senza l'assenso vostro;
Ma cel promiser tutti. Oh! se potete
Mostrarvi al Conte, ci dicean; non egli
Certo dei vinti aggraverà la sorte;
Non fia certo per lui tolta un'antica
Cortesia della guerra, ... ei che sapria
Esser piuttosto ad inventarla il primo.

Il Conte: (ai Commissari)
Voi gli udite, o Signori... Ebben, che dite? ...
Voi, che fareste? ...
(ai Prigionieri)
Tolga il ciel che alcuno
Più altamente di me pensi ch'io stesso. -
Voi siete sciolti, amici: addio; seguite
La vostra sorte, e s'ella ancor vi porta
Sotto una insegna che mi sia nemica...
Ebben, ci rivedremo.
(segni di gioia fra i Prigioni, che partono;
il Conte osserva il Pergola figlio, e lo ferma)
O giovanetto,
Tu del volgo non sei; l'abito, e il volto
Ancor più chiaro il dice; e ti confondi
Con gli altri, e taci?

Pergola figlio:
O capitano, i vinti
Non han nulla da dir.

Il Conte:
Questa fortuna
Porti così, che ben ti mostri degno

D'una miglior. Quale è il tuo nome?

Pergola figlio:
Un nome
Cui crescer pregio assai difficil fia,
Che un grande obbligo impone a chi lo porta:
Pergola è il nome mio.

Il Conte:
Che? Tu sei figlio
Di quel valente?

Pergola figlio:
Io il son.

Il Conte:
Vieni ed abbraccia
L'antico amico di tuo padre. Io era
Quale or tu sei, quando il conobbi in prima.
Tu mi rammenti i lieti giorni, i giorni
Delle speranze. E tu fa cor. Fortuna
Più giocondi princìpi a me concesse;
Ma le promesse sue sono pei prodi;
E tosto o tardi essa le adempie. Il padre
Per me saluta, o giovinetto, e digli
Ch'io non tel chiesi, ma che certo io sono
Ch'ei non volea questa battaglia.

Pergola figlio:
Ah! certo,
Non la volea; ma fur parole al vento.

Il Conte:
Non ti doler: del capitano è l'onta
Della sconfitta; e sempre ben comincia
Chi da forte combatte ove fu posto.
Vien meco;
(lo prende per mano)
ai duci io vo' mostrarti, io voglio
Renderti la tua spada.

(ai Commissari).
Addio, Signori;
Giammai pietoso coi nemici vostri
Io non sarò, che dopo averli vinti.
(partono il Conte e Pergola figlio).

Scena quarta
I due Commissari.

2° commiss.: (dopo qualche silenzio).
Direte ancor che a presagir perigli
Troppo facil son io? Che le parole
De' suoi contrari, il mio sospetto antico,
L'odio forse, chi sa? mi fanno ingiusto
Contra costui? Ch'egli è sdegnoso, ardente,
Ma leal? che da lui cercar non dèssi
Ossequi, ma servigi? e quando in grave
Caso la nostra voglia a lui s'intimi,
Il dubitar ch'egli resista è un sogno?
Vi basta questo?

1° commiss.:
V'ha di più. Gli dissi
Che a noi premea che s'inseguisse il vinto:
Ei ricusò.

2° commiss.:
Ma che rispose?

1° commiss.:
Ei vuole
Assicurarsi delle rocche... ei teme...

2° commiss.:
Cauto ad un tratto è divenuto... e dopo
Una vittoria.

1° commiss.:
La parola a stento
Gli uscia di bocca: ella parea risposta

All'indiscreto che t'assedia, e vuole
Il tuo segreto che per nulla il tocca.

2° commiss.:
Ma l'ha poi detto il suo segreto? E questo
Motivo ond'egli accontentar vi volle,
Vi parve il solo suo motivo, il vero?

1° commiss.:
Nol so, non vi badai, tempo non ebbi
Che di pensar ch'io mi trovava innanzi
Un temerario, e ch'io sentia parole
Inusitate ai pari nostri.

2° commiss.:
E s'egli
Al suo Signore antico, al primo ond'ebbe
Onor supremi, all'alta creatura
Della sua spada, più terror che danno
Volesse far? fargli pensar soltanto
Quel ch'egli era per lui, quel che gli è contro?
Tal nemico mostrarglisi, ch'ei brami
D'averlo amico ancor? S'ei non potesse
Tutto staccare il suo pensier da un trono
Ch'egli alzò dalla polve; ov'ebbe il primo
Grado dopo colui che v'è seduto?
Se un duca ardente di conquiste, e inetto
A sopportar d'una corazza in peso,
Che d'una mano ha d'uopo e d'un consiglio,
Che al condottier lo chiede, e gli comanda
Ciò ch'ei medesmo gl'inspirò, più grato
Signor, più dolce al condottier paresse,
Che molti, e vigilanti, e più bramosi
Di conservar che d'acquistar, cui preme
Sovr'ogni cosa il comandar davvero?

1° commiss.:
Tutto io m'aspetto da costui.


2° commiss.:
Teniamo
Questo sospetto: il suo contegno, i nostri
Accorgimenti il faran chiaro in breve,
O ad altro almen ci guideranno. Ei trama
Certo. Colui che trama, e del successo
Si pasce già, come se il tenga, ardito
Parla ancor che nol voglia; e quei che sprezza
In faccia il suo signor, già in cor ne ha scelto
Un altro, o pensa a diventarlo ei stesso.
No: da Filippo ei non è sciolto in tutto.
A quella stirpe onde la sposa egli ebbe
Non è stranier: troppo gli è caro il nodo
Che ad essa un dì lo strinse. In quella figlia,
Che ha tanta parte in suo pensier, non scorre
Col suo confuso de' Visconti il sangue?

1° commiss.:
Come parlò! Come passò dall'ira
Al non curar! Con che superba pace
Disubbidì! Siam noi nel nostro campo?
Di Venezia i mandati? Eran costoro
Vinti e prigioni? E più sicuro il guardo
Portavano di noi! noi testimoni
Del suo poter! del conto in cui ci tiene,
Dei nostri acquisti così sparsi al vento,
Di tal gioia, di tai grazie, di tali
Abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote. -
Che avviso è il vostro?

2° commiss.:
Haccene due? Soffrire,
Dissimular, fargli querela ancora
D'un'offesa che mai creder non puote
Dimenticata, e insiem la strada aprirgli
Di ripararla a modo suo, gradire
Che ch'ei ne faccia, chiedergli soltanto
Ciò che siam certi d'ottenerne; opporci

Sol quanto basti a far che vera appaia
Condiscendenza il resto; a dichiararsi
Non astringerlo mai... vegliare intanto;
Scriverne ai Dieci, ed aspettar comandi.

1° commiss.:
Viver così! Che si diria di noi?
Dell'alto ufficio che ci fu commesso,
A cui venimmo invidïati, e or tale
Diviene?

2° commiss.:
È sempre glorioso il posto
Dove si serve la sua patria, e dove
Si giunge ai fini suoi. Soldati e duci
Tutti sono per lui, l'ammiran tutti,
Nessun l'invidia; a sommo onor si tiene
Bene obbedirlo; e in questo sol v'è gara
Che ad essergli secondo ognuno aspira.
Voce sì cara e riverita in prima,
Che forza avrebbe in lor poscia che udita
L'hanno in un tanto dì, che forza avrebbe
Se proferisse mai quella parola,
Che in core han tutti, la rivolta? Guai!
Che più? gli udimmo pur, come de' suoi,
E nel pensiero de' nemici in cima.

1° commiss.:
Ma siamo in tempo? Ei già sospetta.

2° commiss.:
Il siamo.
Essi armati, e sol essi; avvezzi tutti
A prodigar la vita, a non temere
In periglio, ad amarlo, e delle imprese
A non guardar che la speranza, alfine
Più ch'uomini nel campo: ah! se fanciulli
Non fosser poi nel resto, ed i sospetti
Facili a palesar come a deporli;

Se una parola di lusinga, un atto
Di sommessa amistà non li volgesse
A talento di quel che l'usa a tempo;
A che saremmo? ubbidiria la spada?
Saremmo ancora i Signor noi?

1° commiss.:
Sta bene.
Riesca, o no, questo partito è il solo.

Atto quarto

Scena prima
Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia.
Marco Senatore, e Marino uno dei Capi.

Marco:
Eccomi al cenno degli eccelsi Capi
Del Consiglio dei Dieci.

Marino:
Io parlo in nome
Di tutti lor. Vi si destina un grave
Incarco, fuor di qui: se un argomento
Di confidenza questo fia... la vostra
Coscienza il diravvi.

Marco:
Ella mi dice
Che scarsa al merto ed all'ingegno mio
Dee la patria concederla, ma intera
Alla fede ed al cor.

Marino:
La patria! È un nome
Dolce a chi l'ama oltre ogni cosa, e sente
Di vivere per lei; ma proferirlo
Senza tremar non dee chi resta amico
De' suoi nemici.


Marco:
Ed io...

Marino:
Per chi parlaste
Oggi in Senato? Per la patria? I vostri
Sdegni, i vostri terrori eran per lei?
Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio,
O il periglio di chi? Chi difendeste...
Voi solo?

Marco:
Io so davanti a chi mi trovo.
Sta la mia vita in vostra man, ma il mio
Voto non già: giudice ei non conosce
Fuor che il mio cor; né d'altro esser può reo
Che d'avergli mentito. A darne conto
Pur disposto son io.

Marino:
Tutto che puote
Por la patria in periglio, essere inciampo
All'alte mire sue, dargli sospetto,
È in nostra man. Perché ci siate or voi
Se nol sapete, se mostrar vi giova
Di non saperlo, uditelo. Per ora
D'oggi si parli; non vogliam di tutta
La vostra vita interrogar che un giorno.

Marco:
E che? fors'altro mi si appon? Di nulla
Temer poss'io; la mia condotta...

Marino:
È nota
Più a noi che a voi. Dalla memoria vostra
Forse assai cose ha cancellato il tempo:
Il nostro libro non obblia.


Marco:
Di tutto
Ragion darò.

Marino:
Voi la darete quando
Vi fia chiesta. Non più. Quando il Senato
Diede il comando al Carmagnola, a molti
Era sospetta la sua fede; ad altri
Certa parea: potea parerlo allora.
Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri
Mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde
In perfid'ozio la vittoria. Il velo
Cade dal ciglio ai più. Nel suo soccorso
Troppo fidando il Trevisan s'innoltra
Nel Po, le navi del nemico affronta;
Sopraffatto dal numero, richiede
Al Capitan rinforzo, e non l'ottiene.
Freme il Senato; poche voci appena
S'alzano ancor per lui. Cremona è presa,
Basta sol ch'ei v'accorra; ei non v'accorre.
Giunge l'annunzio oggi al Senato. Alfine
Più non gli resta difensor che un solo:
Solo, ma caldo difensor. Per lui
Innocente è costui, degno di lode
Più che di scusa; e se vi fu sventura,
Colpa è soltanto del destino e nostra.
Non è giustizia che il persegue: è solo
Odio privato, è invidia, è basso orgoglio
Che non perdona al sommo a chi tacendo
Grida coi fatti: io son maggior di voi.
Certo inaudito è un tal linguaggio: i Padri
Nel lor Senato oggi l'udiro; e muti
Si volsero a guardar donde tal voce
Venia, se uno straniero oggi, un nemico
Premere un seggio nel Senato ardia.
Chiarito è il Conte un traditor; si vuole
Torgli ogni via di nuocere. Ma l'arte

Tanta e l'audacia è di costui, che reso
Ei s'è tremendo a' suoi Signori; è forte
Di quella forza che gli abbiam fidata;
Egli ha il cor de' soldati; e l'armi nostre,
Quando voglia, son sue; contro di noi
Volger le puote, e il vuol. Certo è follia
Aspettar che lo tenti; ognun risolve
Ch'ei si prevenga, e tosto. A forza aperta
È impresa piena di perigli. E noi
Starem per questo? E il suo maggior delitto
Sarà cagion perché impunito ei vada?
Sola una strada alla giustizia è schiusa,
L'arte con cui l'ingannator s'inganna.
Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga:
Questo è il voto comun. Che fece allora
L'amico di costui? Ve ne rammenta?
Io vel dirò; ché men tranquillo al certo
Era in quel punto il vostro cor, dell'occhio
Che imperturbato vi seguia. Perdeste
Ogni ritegno, oltrepassaste il largo
Confin che un resto di prudenza avea
Prescritto al vostro ardor, dimenticaste
Ciò che promesso v'eravate intero
Ai men veggenti vi svelaste, a quelli
Cui parea novo ciò che a noi non l'era.
Ognuno allor pensò ch'oggi in Senato
V'era un uom di soverchio, e che bisogna
Porre il segreto dello Stato in salvo.

Marco:
Signor, tutto a voi lice. Innanzi a voi
Quel che ora io sia, non so; però non posso
Dimenticarmi che patrizio io sono;
Né a voi tacer che un dubbio tal m'offende.
Sono un di voi: la causa dello Stato
È la mia causa; e il suo segreto importa
A me non men che altrui.


Marco:
Volete alfine
Saper chi siete qui? Voi siete un uomo
Di cui si teme, un che lo Stato guarda
Come un inciampo alla sua via. Mostrate
Che nol sarete; il darvene agio ancora
È gran clemenza.

Marco:
Io sono amico al Conte:
Questa è l'accusa mia; nol nego, io il sono:
E il ciel ringrazio che vigor mi ha dato
Di confessarlo qui. Ma se nemico
È della patria: mi si provi, è il mio.
Che gli si appone? I prigionier disciolti?
Non li disciolse il vincitor soldato? -
Ma invan pregato il condottier non volle
Frenar questa licenza. - Il potea forse?
Ma l'imitò. Non ve lo astrinse un uso,
Qual ch'ei sia, della guerra? ed al Senato
Vera non parve questa scusa? E largo
D'ogni onor poscia non gli fu? L'aiuto
Al Trevisan negato? Era più grave
Periglio il darlo; era l'impresa ordita
Ignaro il Conte; ei non fu chiesto in tempo.
E la sentenza che a sì turpe esiglio
Il Trevisan dannò, tutta la colpa
Non rovesciò sovra di lui? Cremona?
Chi di Cremona meditò l'acquisto?
Chi l'ordin die' che si tentasse? Il Conte.
Del popol tutto che a romor si leva
Non può scarso drappel l'inaspettato
Impeto sostener; ritorna al campo,
Non scemo pur d'un combattente. Al Duce
Buon consiglio non parve incontro un novo
Impensato nemico avventurarsi;
E abbandonò l'impresa. Ella è, fra tante
Sì ben compiute, una fallita impresa.

Ma il tradimento ov'è? Fiero, oltraggioso
Da gran tempo, voi dite, è il suo linguaggio;
Un troppo lungo tollerar macchiato
Ha l'onor nostro. Ed un'insidia, il lava?
E poi che un nodo, un dì sì caro, ormai
Non può tener Venezia e il Carmagnola,
Chi ci vieta disciorlo? Un'amistade
Sì nobilmente stretta, or non potria
Nobilmente finir? Come! anche in questo
Un periglio si scorge! Il genio ardito
Del condottier, la fama sua si teme,
De' soldati l'amor! Se render piena
Testimonianza al ver colpa si stima;
Se a tal trista temenza oppor non lice
La lealtà del Conte; il senso almeno
Del nostro onor la scacci. Abbiam di noi
Un più degno concetto; e non si creda
Che a tal Venezia giunta sia, che possa
Porla in periglio un uom. Lasciam codeste
Cure ai tiranni: ivi il valor si tema
Ove lo scettro è in una mano, e basta
A strapparlo un guerrier che dica: io sono
Più degno di tenerlo, e a' suoi compagni
Il persuada. Ei che tentar potria?
Al Duca ritornar, dicesi, e seco
Le schiere trar nel tradimento. Al Duca?
All'uom che un'onta non perdona mai,
Né un gran servigio, ritornar colui
Che gli compose e che gli scosse il trono?
Chi non poté restargli amico in tempo
Che pugnava per lui, ridivenirlo
Dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi
A quella man che in questo asilo istesso
Comprò un pugnal per trapassargli il petto!
L'odio solo, Signor, creder lo puote.
Ah! qual sia la cagion che innanzi a questo
Temuto seggio fa trovarmi, un'alta
Grazia mi fia, se fare intender posso

Anco una volta il ver: qualche lusinga
Io nutro ancor che non fia forse invano.
Sì, l'odio cieco, l'odio sol potea
Far che fosse in Senato un tal sospetto
Proposto, inteso, tollerato. Ha molti
Fra noi nemici il Conte: or non ricerco
Perché lo siano: il son. Quando nascoste
All'ombra della pubblica vendetta,
Le nimistà private io disvelai;
Quando chiedea che a provveder s'avesse
L'util soltanto dello Stato, e il giusto;
Allora ufficio io non facea d'amico,
Ma di fedel patrizio. Io già non scuso
Il mio parlar: quando proporre intesi
Che sotto il vel di consultarlo ei sia
Richiamato a Venezia, e gli si faccia
Onor più dell'usato, e tutto questo
Per tirarlo nel laccio... allor, nol nego...

Marino:
Più non pensaste che all'amico.

Marco:
Allora,
Dissimular nol vuo', tutte io sentii
Le potenze dell'alma sollevarsi
Contro un consiglio... ah fu seguito! ... un solo
Pensier non fu; fu della patria mia
L'onor ch'io vedo vilipeso, il grido
Dei nemici e dei posteri; fu il primo
Senso d'orror che un tradimento inspira
All'uom che dee stornarlo, o starne a parte.
E se pietà d'un prode a tanti affetti
Pur si mischiò, dovea, poteva io forse
Farla tacer? Son reo d'aver creduto
Ch' util puote a Venezia esser soltanto
Ciò che l'onora; che si può salvarla
Senza farsi...


Marino:
Non più: se tanto udii
Fu perché ai Capi del Consiglio importa
Di conoscervi appien. Piacque aspettarvi
Ai secondi pensier; veder si volle
Se un più maturo ponderar v'avea
Tratto a più saggio e più civil consiglio.
Or, poiché indarno si sperò, credete
Voi che un decreto del Senato io voglia
Difender ora innanzi a voi? Si tratta
La vostra causa qui. Pensate a voi,
Non alla patria: ad altre, e forti, e pure
Mani è commessa la sua sorte; e nulla
A cor le sta che il suo voler vi piaccia,
Ma che s'adempia, e che non sia sofferto
Pure il pensier di porvi impedimento.
A questo vegliam noi. Quindi io non voglio
Altro da voi che una risposta. Espresso
Sovra quest'uomo è del Senato il voto;
Compir si dèe. Voi, che pensieri avete?

Marco:
Quale inchiesta, Signor!

Marino:
Voi siete a parte
D'un gran disegno; e in vostro cor bramate
Che a vuoto ei vada: non è ver?

Marco:
Che importa
Ciò ch'io brami, allo Stato? A prova ormai
Sa che dell'opre mie non è misura
Il desiderio, ma il dover.

Marino:
Qual pegno
Abbiam da voi che lo farete? In nome
Del Tribunale un ve ne chieggio: e questi,

Se lo negate, un traditor vi tiene.
Quel che si serba ai traditor, v'è noto.

Marco:
Io... Che si vuol da me?

Marino:
Riconoscete
Che patria è questa a cui bastovvi il core
Di preferire uno stranier. Sui figli
A stento e tardi essa la mano aggrava;
E a perderne soltanto ella consente
Quei che salvar non puote. Ogni error vostro
È pronta ad obbliar; v'apre ella stessa
La strada al pentimento.

Marco:
Al pentimento!
Ebben, che strada?

Marino:
Il Musulman disegna
D'assalir Tessalonica: voi siete
Colà mandato. A quale ufficio, quivi
Noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi
Voi partirete.

Marco:
Ubbidirò.

Marino:
Ma un'arra
Si vuol di vostra fé: giurar dovete
Per quanto è sacro, che in parole o in cenni
Nulla per voi traspirerà di quanto
Oggi s'è fisso. Il giuramento è questo:
(gli presenta un foglio).
Sottoscrivete.


Marco: (legge).
E che, Signor? Non basta?...

Marino:
E per ultimo, udite. Il messo è in via
Che porta al Conte il suo richiamo. Ov'egli
Pronto ubbidisca, ed in Venezia arrivi,
Giustizia troverà, forse clemenza.
Ma se ricusa, s'egli indugia, o segno
Dà di sospetto, un gran segreto udite,
E serbatelo in voi; l'ordine è dato
Che dalle nostre man vivo ei non esca.
Il traditor che dargli un cenno ardisce,
Quei l'uccide, e si perde. Io più non odo
Nulla da voi: scrivete; ovvero...
(gli porge il foglio).

Marco:
Io scrivo.
(prende il foglio e lo sottoscrive).

Marino:
Tutto è posto in obblio. La vostra fede
Ha fatto il più; vinto ha il dover: l'impresa
Compirsi or dee dalla prudenza; e questa
Non può mancarvi, sol che in mente abbiate
Che ormai due vite in vostra man son poste.
(parte)

Scena seconda

Marco:
Dunque è deciso! ... un vil son io! ... fui posto
Al cimento; e che feci? ... Io prima d'oggi
Non conoscea me stesso! ... Oh che segreto
Oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio
Un amico io potea! Vedergli al tergo
L'assassino venir, veder lo stilo
Che su lui scende, e non gridar: ti guarda!

Io lo potea; l'ho fatto... io più nol deggio
Salvar; chiamato ho in testimonio il cielo
D'una infame viltà... la sua sentenza
Ho sottoscritta... ho la mia parte anch'io
Nel suo sangue! oh che feci! ... io mi lasciai
Dunque atterrir? ... La vita? ... Ebben, talvolta
Senza delitto non si può serbarla:
Nol sapeva io? Perché promisi adunque?
Per chi tremai? per me? per me? per questo
Disonorato capo? ... o per l'amico?
La mia ripulsa accelerava il colpo,
Non lo stornava. O Dio, che tutto scerni,
Rivelami il mio cor; ch'io veggia almeno
In quale abisso son caduto, s'io
Fui più stolto, o codardo, o sventurato.
O Carmagnola, tu verrai! ... sì certo
Egli verrà... se anche di queste volpi
Stesse in sospetto, ei penserà che Marco
È senator, che anch'io l'invito; e lunge
Ogni dubbiezza ei caccerà; rimorso
Avrà d'averla accolta... Io son che il perdo!
Ma... di clemenza non parlò quel vile?
Sì, la clemenza che il potente accorda
All'uom che ha tratto nell'aguato, a quello
Ch'egli medesmo accusa, e che gl'importa
Di trovar reo. Clemenza all'innocente!
Oh! il vil son io che gli credetti, o volli
Credergli; ei la nomò perché comprese
Che bastante a corrompermi non era
Il rio timor che a goccia a goccia ei fea
Scender sull'alma mia: vide che d'uopo
M'era un nobil pretesto; e me lo diede.
Gli astuti! i traditor! Come le parti
Distribuite hanno fra lor costoro!
Uno il sorriso, uno il pugnal, quest'altro
Le minacce... e la mia? ... voller che fosse
Debolezza ed inganno... ed io l'ho presa!
Io gli spregiava, e son da men di loro!

Ei non gli sono amici! ... Io non doveva
Essergli amico: io lo cercai; fui preso
Dall'alta indole sua, dal suo gran nome.
Perché dapprima non pensai che incarco
È l'amistà d'un uom che agli altri è sopra?
Perché allor correr solo io nol lasciai
La sua splendida via, s'io non potea
Seguire i passi suoi? La man gli stesi;
Il cortese la strinse; ed or ch'ei dorme,
E il nemico gli è sopra, io la ritiro:
Ei si desta, e mi cerca; io son fuggito!
Ei mi dispregia, e muore! Io non sostengo
Questo pensier... Che feci! ... Ebben, che feci?
Nulla finora: ho sottoscritto un foglio,
E nulla più. Se fu delitto il giuro,
Non fia virtù l'infrangerlo? Non sono
Che all'orlo ancor del precipizio; il veggio,
E ritrarmi poss'io... - Non posso un mezzo
Trovar? ... Ma s'io l'uccido? - Oh! forse il disse
Per atterrirmi... E se davvero il disse?
Oh empi, in quale abbominevol rete
Stretto m'avete! Un nobile consiglio
Per me non v'ha; qualunque io scelga, è colpa.
Oh dubbio atroce!... Io li ringrazio; ei m'hanno
Statuito un destino; ei m'hanno spinto
Per una via; vi corro: almen mi giova
Ch'io non la scelsi: io nulla scelgo; e tutto
Ch'io faccio è forza e volontà d'altrui.
Terra ov'io nacqui, addio per sempre: io spero
Che ti morrò lontano, e pria che nulla
Sappia di te, lo spero: in fra i perigli
Certo per sua pietade il ciel m'invia.
Io non morrò per te. Che tu sii grande
E glorïosa, che m'importa? Anch'io
Due gran tesori avea, la mia virtude,
Ed un amico, e tu m'hai tolto entrambi.
(parte).

Scena terza
Tenda del Conte.
Il Conte, e Gonzaga.

Il Conte:
Ebben, che raccogliesti?

Gonzaga:
Io favellai,
Come imponesti, ai Commissari; e chiaro
Mostrai che tutta delle vinte navi
Riman la colpa e la vergogna a lui
Che non le seppe comandar; che infausta
La giornata gli fu perché la imprese
Senza di te; che tu da lui chiamato
Tardi in soccorso, romper non dovevi
I tuoi disegni per servir gli altrui;
Che l'armi lor, tanto in tua man felici,
Sempre il sarien, se questa guerra fosse
Commessa al senno ed al voler d'un solo.

Il Conte:
Che dicon essi?

Gonzaga:
Si mostrar convinti
Ai detti miei: dissero in pria, che nulla
Dissimular volean; che amaro al certo
Dei perduti navigli era il pensiero,
E di Cremona la fallita impresa:
Ma che son lieti di saper che il fallo
Di te non fu; che di chiunque ei sia,
Da te l'ammenda aspettano.

Il Conte:
Tu il vedi,
O mio Gonzaga; se dai fede al volgo
Sommo riguardo, arte profonda è d'uopo
Con questi uomin di Stato. Io fui con essi

Quel ch'esser soglio; rigettai l'ingiuste
Pretese lor, scender li feci alquanto
Dall'alto seggio ove si pon chi avvezzo
Non è a vedersi altri che schiavi intorno;
Io mostrai lor fino a che segno io voglio
Che altri Signor mi sia: d'allora in poi
Mai varcato non l'hanno; io li provai
Saggi sempre e cortesi.

Gonzaga:
E non pertanto
Dar consiglio ad alcuno io non vorrei
Di tener questa via. Te da gran tempo
La gloria segue e la fortuna; ad essi
Util tu sei, tu necessario e caro,
Terribil forse: e tu la prova hai vinta;
Se pur può dirsi che sia vinta ancora.

Il Conte:
Che dubbi hai tu?

Gonzaga:
Tu, che certezza? Io veggio
Dolci sembianti, e dolci detti ascolto,
Segni d'amor; ma pur, l'odio che teme
Altri ne ha forse?

Il Conte:
No: di questo io nulla
Sono in pensier. Troppo a regnar son usi,
E san che all'uom da cui s'ottiene il molto
Chieder non dèssi improntamente il meno.
E poi, mi credi, io li guardai dappresso:
Questa cupa arte lor, questi intricati
Avvolgimenti di menzogna, questo
Finger, tacere, antiveder, di cui
Tanto li loda e li condanna il mondo,
È meno assai di quel che al mondo appare.


Gonzaga:
Se pur non era di lor arte il colmo
Il parer tali a te.

Il Conte:
No: tu li vedi
Con l'occhio altrui: quando col tuo li veda,
Tu cangerai pensiero. Havvene assai
Di schietti e buoni; havvene tal che un'alta
Anima chiude, a cui pensier non osa
Avvicinarsi che gentil non sia:
Anima dolce e disdegnosa, in cui
Legger non puoi, che tu non sia compreso
D'amor, di riverenza, e di desio
Di somigliarle. Non temer; non sono
Di me scontenti; e quando il fosser mai,
Io lo saprei ben tosto.

Gonzaga:
Il Ciel non voglia
Che tu t'inganni.

Il Conte:
Altro mi duo: son stanco
Di questa guerra che condur non posso
A modo mio. Quand'io non era ancora
Più che un soldato di ventura, ascoso
E perduto tra i mille, ed io sentia
Che al loco mio non m'avea posto il cielo,
E dell'oscurità l'aria affannosa
Respirava fremendo ed il comando
Sì bello mi parea, ... chi m'avria detto
Che l'otterrei, che a gloriosi duci,
E a tanti e così prodi e così fidi
Soldati io sarei capo; e che felice
Io non sarei perciò! ...
(entra un Soldato).
Che rechi?


Soldato
Un foglio
Di Venezia.
(gli porge il foglio e parte).

Il Conte:
Veggiam.
(legge).
Non tel diss'io?
Mai non gli ebbi più amici: a loro la pace
Domanda il Duca, e conferir con meco
Braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?

Gonzaga:
Io vengo.

Il Conte:
Che dì tu di tal pace?

Gonzaga:
Ad un soldato
Tu lo domandi?

Il Conte:
È ver. Ma questa è guerra?
O mia consorte, o figlia mia, fra poco
Io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:
Questo è contento al certo. E pur del tutto
Esser lieto non so: chi potria dirmi
Se un sì bel campo io rivedrò più mai?

Atto quinto

Scena prima
Notte. Sala del Consiglio dei Dieci illuminata.
Il Doge, i Dieci, e il Conte, seduti.

Il Doge: (al Conte).
A questi patti offre la pace il Duca;

Su ciò chiede il Consiglio il parer vostro.

Il Conte:
Signori, un altro io ve ne diedi; e molto
Promisi allor: vi piacque. Io attenni in parte
Quel che promesso avea: ma lunge ancora
Dalle parole è il fatto; ed or non voglio
Farle obbliar però: sul labbro mio
Imprevidente militar baldanza
Non le mettea. Di novo avviso or chiesto,
Altro non posso che ridirvi il primo.
Se intera e calda e risoluta guerra
Far disponete, ah! siete a tempo: è questa
La miglior scelta ancora. Ei vi abbandona
Bergamo e Brescia; e non son vostre? L'armi
Le han fatte vostre: ei non può tanto soffrirvi
Quanto sperar di torgli v'è concesso.
Ma, da un guerrier che vi giurò sua fede,
Voi non volete altro che il ver, se il modo
Mutar di questa guerra a voi non piace,
Accettate gli accordi.

Il Doge:
Il parlar vostro
Accenna assai, ma poco spiega: un chiaro
Parer vi si domanda.

Il Conte:
Uditel dunque.
Scegliete un duce, e confidate in lui:
Tutto ei possa tentar; nulla si tenti
Senza di lui: largo poter gli date;
Stretto conto ei ne renda. Io non vi chieggio
Ch'io sia l'eletto: dico sol che molto
Sperar non lice da chi tal non sia.

Marino:
Non l'eravate voi quando i prigioni
Sciolti voleste, e il furo? Eppur la guerra

Più risoluta non si fea per questo,
Né certa più. Duce e Signor nel campo,
Forse concesso non l'avreste.

Il Conte:
Avrei
Fatto di più: sotto alle mie bandiere
Venian quei prodi; e di Filippo il soglio
Vòto or sarebbe, o sederiavi un altro.

Il Doge:
Vasti disegni avete.

Il Conte:
E l'adempirli
Sta in voi: se ancor nol son, n'è cagion sola
Che la man che il dovea sciolta non era.

Marino:
A noi si disse altra cagion: che il Duca
Vi commosse a pietà, che l'odio atroce
Che già portaste al signor vostro antico
Sovra i presenti il rovesciaste intero.

Il Conte:
Questo vi fu riferto? Ella è sventura
Di chi regge gli Stati udir con pace
La impudente menzogna, i turpi sogni
D'un vil di cui non degneria privato
Le parole ascoltar.

Marino:
Sventura è vostra
Che a tal riferto il vostro oprar s'accordi,
Che il rio linguaggio lo confermi, e il vinca.

Il Conte:
Il vostro grado io riverisco in voi,
E questi generosi in mezzo a cui
V'ha posto il caso: e mi conforta almeno

Che il non mertato onor di che lor piacque
Cingere il loro capitan, lo stesso
Udirvi io qui, mostra ch'essi han di lui
Altro pensiero.

Il Doge:
Uno è il pensier di tutti.

Il Conte:
E qual?

Il Doge:
L'udiste.

Il Conte:
È del Consiglio il voto
Quello che udii?

Il Doge:
Sì, il crederete al Doge.

Il Conte:
Questo dubbio di me? ...

Il Doge:
Già da gran tempo
Non è più dubbio.

Il Conte:
E m'invitaste a questo?
E taceste finor?

Il Doge:
Sì, per punirvi
Del tradimento, e non vi dar pretesti
Per consumarlo.

Il Conte:
Io traditor! Comincio
A comprendervi alfin: purtroppo altrui
Creder non volli. - Io traditor! Ma questo

Titolo infame infino a me non giunge:
Ei non è mio; chi l'ha mertato il tenga.
Ditemi stolto: il soffrirò; che il merto:
Tale è il mio posto qui; ma con null'altro
Lo cambierei, ch'egli è il più degno ancora.
Io guardo, io torno col pensier sul tempo
Che fui vostro soldato: ella è una via
Sparsa di fior. Segnate il giorno in cui
Vi parvi un traditor! Ditemi un giorno
Che di grazie e di lodi e di promesse
Colmo non sia! Che più? Qui siedo; e quando
Io venni a questo che alto onor parea,
Quando più forte nel mio cor parlava
Fiducia, amor, riconoscenza, e zelo...
Fiducia no: pensa a fidarsi forse
Quei che invitato tra gli amici arriva?
Io veniva all'inganno! Ebben, ci caddi;
Ella è così. Ma via; poiché gettato
È il finto volto del sorriso ormai,
Sia lode al ciel; siamo in un campo almeno
Che anch'io conosco. A voi parlare or tocca;
E difendermi a me: dite, quai sono
I tradimenti miei?

Il Doge:
Gli udrete or ora
Dal Collegio segreto.

Il Conte:
Io lo ricuso.
Quel che io feci per voi, tutto lo feci
Alla luce del Sol; renderne conto
Tra insidïose tenebre non voglio.
Giudice del guerrier, solo è il guerriero.
Voglio scolparmi a chi m'intenda; voglio
Che il mondo ascolti le difese, e veggia...

Il Doge:
Passato è il tempo di voler.


Il Conte:
Qui dunque
Mi si fa forza? Le mie guardie!
(alzando la voce fa per uscire)

Il Doge:
Sono
Lunge di qui. Soldati!
(entrano genti armate).
Eccovi ormai
Le vostre guardie.

Il Conte:
Or son tradito!

Il Doge:
Un saggio
Pensier fu dunque il rimandarle: a torto
Non si stimò che, in suo tramar sorpreso,
Farsi ribelle un traditor potria.

Il Conte:
Anche un ribelle, sì: come v'aggrada
Omai potete favellar.

Il Doge:
Sia tratto
Al tribunal segreto.

Il Conte:
Un breve istante
Udite in pria. Voi risolveste, il vedo,
La morte mia; ma risolvete insieme
La vostra infamia eterna. Oltre l'antico
Confin l'insegna del Leon si spiega
Su quelle torri, ove all'Europa è noto
Ch'io la piantai. Qui tacerassi, è vero;
Ma intorno a voi, dove non giunge il muto
Terror del vostro impero, ivi librato,
Ivi in note indelebili fia scritto

Il benefizio e la mercé. Pensate
Ai vostri annali, all'avvenir. Fra poco
Il dì verrà che d'un guerriero ancora
Uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro?
Voi provocate la milizia. Or sono
In vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
Ch'io non vi nacqui, che tra gente io nacqui
Belligera, concorde, usa gran tempo
A guardar come sua questa qualunque
Gloria d'un suo concittadin: non fia
Che straniera all'oltraggio ella si tenga.
Qui v'è un inganno: a ciò vi trasse un qualche
Vostro nemico e mio: voi non credete
Ch'io vi tradissi. È tempo ancora.

Il Doge:
È tardi.
Quando il delitto meditaste, e baldo
Affrontavate chi dovea punirlo,
Tempo era allor d'antiveggenza.

Il Conte:
Indegno!
Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti
Ch’io chiedessi pietà, ch’io ti pregassi:
Tu forse osasti di pensar che un prode
Pe' giorni suoi tremava. Ah! tu vedrai
Come si muor. Va; quando l'ultim'ora
Ti coglierà sul vil tuo letto, incontro
Non le starai con quella fronte al certo,
Che a questa infame, a cui mi traggi, io reco.
(parte il Conte tra i soldati)

Scena seconda
Casa del Conte.
Antonietta, e Matilde.

Matilde:
Ecco l'aurora; e il padre ancor non giunge.


Antonietta:
Ah! tu nol sai per prova: i lieti eventi
Tardi, aspettati giungono, e non sempre.
Presta soltanto è la sventura, o figlia:
Intraveduta appena, ella ci è sopra.
Ma la notte passò: l'ore penose
Del desio più non son: tra pochi istanti
Quella del gaudio suonerà. Non puote
Ei più tardar; da questo indugio io prendo
Un fausto augurio: il consultar sì a lungo
Tratto non han, che per fermar la pace.
Ei sarà nostro e per gran tempo.

Matilde:
O madre,
Anch'io lo spero. Assai di notti in pianto,
E di giorni in sospetto abbiam passati.
È tempo ormai che, ad ogni istante, ad ogni
Novella, ad ogni susurrar del volgo
Più non si tremi, e all'alma combattuta
Quell'orrendo pensier più non ritorni:
Forse colui che sospirate, or muore.

Antonietta:
Oh rio pensier! ma almen per ora è lunge.
Figlia, ogni gioja col dolor si compra.
Non ti sovvien quel dì che il tuo gran padre
Tratto in trionfo, tra i più grandi accolto,
Portò l'insegne de' nemici al tempio?

Matilde:
Oh giorno!

Antonietta:
Ognun parea minor di lui;
L'aria sonava del suo nome; e noi
Scevre dal volgo, in alto loco intanto
Contemplavam quell'uno in cui rivolti
Eran tutti gli sguardi: inebbriato

Il cor tremava, e ripetea: siam sue,

Matilde:
Felici istanti!

Antonietta:
Che avevam noi fatto
Per meritarli? A questa gioia il cielo
Ci trascelse fra mille. Il ciel ti scelse,
Il ciel ti scrisse un sì gran nome in fronte...
Tal don ti fece, che a chiunque il rechi,
Ne andrà superbo. A quanta invidia è segno
La nostra sorte! E noi dobbiam scontarla
Con queste angosce.

Matilde:
Ah! son finite... ascolta;
Odo un batter di remi... ei cresce... ei cessa...
Si spalancan le porte... ah! certo ei giunge:
O madre, io vedo un'armatura; è desso.

Antonietta:
Chi mai saria s'egli non fosse? ... O sposo...
(va verso la scena)

Scena terza

Gonzaga, e dette.

Antonietta:
Gonzaga! ... ov'è il mio sposo? ov'è? ... Ma voi
Non rispondete? Oh cielo! il vostro aspetto
Annunzia una sventura.

Gonzaga:
Ah che pur troppo
Annunzia il vero!

Matilde:
A chi sventura?


Gonzaga:
O donne!
Perché un incarco sì crudel m'è imposto?

Antonietta:
Ah! voi volete esser pietoso, e siete
Crudel: tremar più non ci fate. In nome
Di Dio, parlate; ov'è il mio sposo?

Gonzaga:
Il cielo
Vi dia la forza d'ascoltarmi. Il Conte...

Matilde:
Forse è tornato al campo?

Gonzaga:
Ah! più non torna!
Egli è in disgrazia dei Signori; è preso.

Antonietta:
Egli è preso! perché?

Gonzaga:
Gli danno accusa
Di tradimento.

Antonietta:
Ei traditore!

Matilde:
Oh padre!

Antonietta:
Or via, seguite: preparate al tutto
Siam noi: che gli faran?

Gonzaga:
Dal labbro mio
Voi non l'udrete.


Antonietta:
Ahi l'hanno ucciso!

Gonzaga:
Ei vive;
Ma la sentenza è proferita.

Antonietta:
Ei vive?
Non pianger, figlia, or che d'oprare è il tempo.
Gonzaga, per pietà, non vi stancate
Della nostra sventura; il ciel v'affida
Due derelitte. Ei v'era amico: andiamo,
Siateci scorta ai giudici. Vien meco,
Poverella innocente: oh! vieni: in terra
V'è ancor pietà: son sposi e padri anch'essi.
Mentre scrivean l'empia sentenza, in mente
Non venne lor ch'egli era sposo e padre.
Quando vedran di che dolor cagione
È una parola di lor bocca uscita,
Ne fremeranno anch'essi; ah! non potranno
Non rivocarla: del dolor l'aspetto
È terribile all'uom. Forse scusarsi
Quel prode non degnò, rammentar loro
Quel che per essi oprò; noi rammentarlo
Sapremo. Ah! certo ei non pregò; ma noi,
Noi pregheremo.
(in atto di partire).

Gonzaga:
Oh ciel, perché non posso
Lasciarvi almen questa speranza! A preghi
Loco non v'è: qui i giudici son sordi,
Implacabili, ignoti: il fulmin piomba,
La man che il vibra è nelle nubi ascosa.
Solo un conforto v'è concesso, il tristo
Conforto di vederlo, ed io vel reco.
Ma il tempo incalza. Fate cor; tremenda
È la prova; ma il Dio degl'infelici

Sarà con voi.

Matilde:
Non v'è speranza?

Antonietta:
Oh figlia!
(partono).

Scena quarta

Prigione.

Il Conte:
A quest'ora il sapranno. Oh perché almeno
Lunge da lor non muoio! Orrendo, è vero,
Lor giungeria l'annunzio; ma varcata
L'ora solenne del dolor saria;
E adesso innanzi ella ci sta: bisogna
Gustarla a sorsi, e insieme. O campi aperti!
O Sol diffuso! O strepito dell'armi!
O gioia de' perigli! O trombe! O grida
Dei combattenti! o mio destrier! Fra voi
Era bello il morir. Ma... ripugnante
Vo dunque incontro al mio destin, forzato,
Siccome un reo, spargendo in sulla via
Voti impotenti e misere querele?
E Marco, anch'ei m'avria tradito! Oh vile
Sospetto! oh dubbio! oh potess'io deporlo
Pria di morir! Ma no: che val di nuovo
Affacciarsi alla vita, e indietro ancora
Volgere il guardo ove non lice il passo?
E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?
Io le provai quest'empie gioie anch'io:
Quel che vagliano or so. Ma rivederle!
Ma i lor gemiti udir! L'ultimo addio
Da quelle voci udir! Fra quelle braccia
Ritrovarmi... e staccarmene per sempre!
Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr'esse

Un guardo di pietà.

Scena quinta
Antonietta, Matilde, Gonzaga e il Conte.

Antonietta:
Mio sposo! ...

Matilde:
Oh padre!

Antonietta:
Così ritorni a noi? Questo è il momento
Bramato tanto? ...

Il Conte:
O misere, sa il cielo
Che per voi sole ei m'è tremendo. Avvezzo
Io son da lungo a contemplar la morte,
E ad aspettarla. Ah! sol per voi bisogno
Ho di coraggio; e voi, voi non vorrete
Tormelo, è vero? Allor che Dio sui buoni
Fa cader la sciagura, ei dona ancora
Il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro
Alla sciagura or sia. Godiam di questo
Abbracciamento: è un don del cielo anch'esso.
Figlia, tu piangi! e tu, consorte! ... Ah! quando
Ti feci mia, sereni i giorni tuoi
Scorreano in pace; io ti chiamai compagna
Del mio tristo destin: questo pensiero
Mi avvelena il morir. Deh ch'io non veggia
Quanto per me sei sventurata!

Antonietta:
O sposo
De' miei bei dì, tu che li festi; il core
Vedimi; io muojo di dolor: ma pure
Bramar non posso di non esser tua.


Il Conte:
Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed ora
Non far che troppo il senta.

Matilde:
Oh gli omicidi!

Il Conte:
No, mia dolce Matilde; il tristo grido
Della vendetta e del rancor non sorga
Dall'innocente animo tuo, non turbi
Quest'istanti: son sacri. Il torto è grande;
Ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali
Un'alta gioia anco riman. La morte!
Il più crudel nemico altro non puote
Che accelerarla. Oh! gli uomini non hanno
Inventata la morte: ella saria
Rabbiosa, insopportabile: dal cielo
Ella ne viene; e l'accompagna il cielo
Con tal conforto, che né dar né torre
Gli uomini ponno. O sposa, o figlia, udite
Le mie parole estreme: amare, il veggio,
Vi piombano sul cor; ma un giorno avrete
Qualche dolcezza a rammentarle insieme.
Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi;
Questa infelice orba non sia del tutto.
Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi
La riconduci: ella è lor sangue; ad essi
Fosti sì cara un dì: consorte poscia
Del lor nemico, il fosti men; le crude
Ire di Stato avversi fean gran tempo
De' Carmagnola e de' Visconti il nome.
Ma tu riedi infelice; il tristo oggetto
Dell'odio è tolto: è un gran pacier la morte.
E tu, tenero fior, tu che fra l'armi
A rallegrare il mio pensier venivi,
Tu chini il capo; oh! la tempesta rugge
Sopra di te! tu tremi, ed al singulto

Più non regge il tuo sen; sento sul petto
e tue infocate lagrime cadermi;
E tergerle non posso: a me tu sembri
Chieder pietà, Matilde: ah! nulla il padre
Può far per te: ma pei diserti in cielo
V'è un padre, il sai. Confida in esso, e vivi
A dì tranquilli se non lieti: ei certo
Te li destina. Ah! perché mai versato
Tutto il torrente dell'angoscia avria
Sul tuo mattin, se non serbasse al resto
Tutta la sua pietà? Vivi, e consola
Questa dolente madre. Oh ch'ella un giorno
A un degno sposo ti conduca in braccio!
Gonzaga, io t'offro questa man che spesso
Stringesti il dì della battaglia, e quando
Dubbi eravam di rivederci a sera.
Vuoi tu stringerla ancora, e la tua fede
Darmi che scorta e difensor sarai
Di queste donne, infin che sien rendute
Ai lor congiunti?

Gonzaga:
Io tel prometto.

Il Conte:
Or sono
Contento. E quindi, se tu riedi al campo,
Saluta i miei fratelli, e dì lor ch'io
Muoio innocente: testimon tu fosti
Dell'opre mie, de' miei pensieri, e il sai.
Dì lor che il brando io non macchiai con l'onta
D'un tradimento: io nol macchiai: son io
Tradito. E quando squilleran le trombe,
Quando l'insegne agiteransi al vento,
Dona un pensiero al tuo compagno antico.
E il dì che segue alla battaglia, quando
Sul campo della strage il sacerdote,
Fra il suon lugubre, alzi le palme offrendo

Il sacrificio per gli estinti al cielo,
Ricordivi di me, che anch'io credea
Morir sul campo.

Antonietta:
Oh Dio, pietà di noi!

Il Conte:
Sposa, Matilde, ormai vicina è l'ora;
Convien lasciarci... addio.

Matilde:
No, padre...

Il Conte:
Ancora
Una volta venite a questo seno;
E per pietà partite.

Antonietta:
Ah no! dovranno
Staccarci a forza. (si ode uno strepito di armati).

Matilde:
Oh qual fragor!

Antonietta:
Gran Dio!
(s'apre la porta di mezzo, e si affacciano genti armate; il capo di esse si avanza verso il Conte: le due donne cadono svenute).

Il Conte:
O Dio pietoso, tu le involi a questo
Crudel momento; io ti ringrazio. - Amico,
Tu le soccorri, a questo infausto loco
Le togli; e quando rivedran la luce
Dì lor... che nulla da temer più resta.

Fine della tragedia

Fotografia con ciocca di capelli e autografo di Alessandro Manzoni