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Alessandro Manzoni - OPERE DOPO LA CONVERSIONE












































OPERE DOPO LA CONVERSIONE





la composizione di dodici inni sacri che avrebbero dovuto celebrare e illustrare le festività più importanti della Chiesa cattolica. Gli Inni sarebbero dovuti essere un’occasione al Poeta per esaltare la riacquistata Fede, l’effetto da essa prodotto sulla sua coscienza, e, ad un tempo, un tentativo di spiegare al popolo il significato ed il valore, sia religioso che morale e sociale, di quelle festività rievocatrici dei momenti salienti dell’incontro dell’umanità col Cristo Redentore. In effetti, se si eccettua la “Pentecoste”, gli altri Inni falliscono sostanzialmente entrambi gli scopi, perché, come giustamente osserva il Momigliano, «quando il Manzoni li scriveva, era certo fervidamente religioso, ma c'era ancora in lui l'ardore di chi è nuovo ad un sentimento e, quindi, senza accorgersi, lo falsa con la retorica o s'accontenta di un'espressione poco meditata e condensata»; d’altra parte l’eccesso di riferimenti biblici e di figure retoriche certo non poteva giovare ad una facile comprensione degli Inni: «La semplicità - osserva ancora il Momigliano -, in misura diversa, difetta nei quattro minori Inni Sacri; e questo vizio si rivela specialmente nella fredda abbondanza delle figure retoriche».
Il piano dell'opera è rivelato dallo stesso Manzoni nella seconda delle 46 carte in cui egli trascrisse gli Inni di suo pugno. Qui sono indicati i titoli dei dodici Inni e sono segnati con una X quelli che andava componendo:

         1. Il Natale   X         
         2. L’Epifania                 
         3. La Passione   X                
         4. La Risurrezione          X        
         5. L’Ascensione                
         6. La Pentecoste        X        
         7. Il Corpo del Signore
         8. La Cattedra di S. Pietro
         9. L’Assunzione
       10. Il nome di Maria    X
       11. Ognissanti
       12. I Morti

Come si vede, solo cinque Inni furono portati a termine, ma il Manzoni iniziò anche un sesto, “Ognissanti”, che abbandonò dopo solo quattro strofe.
Il poeta compose il suo primo Inno, “La Risurrezione”, tra l’aprile e il giugno del 1812: nella prima parte (vv. 1-70) il Poeta rievoca il momento della resurrezione di Cristo che, gettata via la pietra sepolcrale, sale in cielo fra lo sbigottimento delle donne preganti sulla sua tomba e la sinistra paura che assale la “scolta insultatrice”; gli fanno scorta le anime dei Profeti che Egli è disceso a liberare dal Limbo, mentre il monte di Sion, su cui sorge Gerusalemme, commosso ed esultante per l’avvenimento, si scuote come per un terremoto. Nella seconda parte (vv.71-112) si descrive l’esultanza del mondo cristiano: i sacerdoti sostituiscano i paramenti color viola con quelli bianchi, le madri facciano indossare ai figli gli abiti della festa e il ricco doni il superfluo della sua mensa a quella del povero perché anch’essa sorrida in questo fausto giorno. Peccato che molti, ribelli alla legge del Signore, non risorgeranno dalle tenebre dell’inferno: solo chi confida in Dio risorgerà nel giorno del Giudizio Universale.
“Il nome di Maria” fu composto tra il novembre del 1812 e l’apri­le del 1813: è l’Inno meno denso di reminiscenze bibliche e liturgiche. Se, infatti, si eccettua l’iniziale racconto della visita di Maria alla cugina Elisabetta, tutto l’inno scorre facile sull’esaltazione del nome della Vergine, venerato in tutte le parti della terra ed invocato dal fanciullo impaurito come dal marinaio in pericolo, e dalla femminetta che a Lei “della sua immortale alma gli affanni espone”: a Lei tutti possono ricorrere perché Ella non distingue il dolore “degl'imi e de' grandi”. Tutti debbono onorare il nome di Maria ed anche gli Ebrei, ricordando che la Madre di Cristo fu della loro stirpe, cantino con i Cristiani: «Salve, o degnata del secondo nome, / o Rosa, o Stella ai periglianti scampo;/ inclita come il sol, terribil come / oste schierata in campo».
Tra il luglio e il settembre del 1813 fu composto “Il Natale”, che, nelle varie edizioni degli Inni Sacri, occupa il primo posto. Dopo aver ricordato che l’uomo, condannato per l’antico peccato, si giaceva in terra come un masso che, caduto dall’alta vetta, resta immobile a valle senza aver la forza di risalire su, annunzia la nascita del Salvatore nell’umile presepe e l’avvento della nuova speranza. Il procedimento narrativo usato dal Poeta con frequente ricorso a reminiscenze bibliche e liturgiche, spegne in parte lo slancio lirico iniziale, sicché conveniamo col Busetto, secondo il quale «ciò che difetta in modo manifesto è la sintesi poetica, poiché i particolari motivi e le varie rappresentazioni, rampollanti dal sentimento meravigliato e devoto del grande evento, non si raccolgono in un'organica visione religiosa e umana, né convergono armoniosamente ad illuminare il significato misterioso e solenne dell'avvenimento celebrato...Di questo motivo religioso e umano, fecondo d'alta poesia, il Manzoni ebbe l'intuizione e s’abbandonò, nel primo impeto, all'alto volo: ma poi gli si confuse la visione di questo legame tra il figlio dell'Uomo e il figlio di Dio, attorno a cui s'annoda tutta la poesia del Cristianesimo, e si perse a commentare il gran fatto a mo' dei sermoni chiesastici e a verseggiare il testo biblico».
“La Passione” fu composta tra il marzo del 1814 e l’ottobre del 1815: rappresenta con ordine e scrupolosa aderenza ai testi biblici la vicenda del Cristo che, venuto al mondo per dividere coi fratelli tapini il funesto retaggio del peccato originale, fu vilipeso, deriso, tradito ed infine ucciso col più atroce ed infamante supplizio: ma quel Sangue versato per la riconciliazione dell’uomo con Dio, discenda sui “ciechi” figli della terra e sia “pioggia di mite lavacro”. L’ispirazione è piuttosto fiacca e lontanissima da quella che animò la lauda di Jacopone da Todi: «Jacopone è così icasticamente nudo - avverte il Momigliano -, divino; Manzoni è spesso così enfatico e riflessivo».
Nel giorno di Natale del 1833 morì Enrichetta Blondel e il Manzoni, che per questa perdita rimase terribilmente affranto, vagheggiò l’idea di riscrivere l’inno sacro dedicato al Natale. Solo due anni dopo si accinse a farlo, iniziando un inno che nel manoscritto porta il titolo “Il Natale del 1833”. L’inno fu abbandonato dopo la quarta strofa.
Egual destino toccò anche all’inno “Ognissanti” che, iniziato nel 1847 - secondo la testimonianza della seconda moglie -, fu interrotto alla quarta strofa.
Un discorso a parte merita “La Pentecoste”, composta fra il giugno del 1817 ed il settembre del 1822.
L’inno si divide in tre parti: nella prima (vv. 1-48) si rievoca l’origine della Chiesa, la “Madre de' Santi”, che è ad un tempo “del sangue incorruttibile / conservatrice eterna” e “campo di quei che sperano”: quando il suo Signore fu tratto dai perfidi a morire sul colle e quando la sua divina spoglia uscì dalle tenebre e salì al trono del Genitore, recandosi in mano il prezzo del perdono, i suoi primi sacerdoti, gli undici Apostoli, se ne stavano rinchiusi nel Cenacolo timorosi della sorte che era toccata al Maestro, ma lo Spirito Santo discese su di loro (appunto nel giorno della Pentecoste, cioè il cinquantesimo giorno dopo la Resurrezione) e li animò ad uscire alla luce per diffondere il Verbo. La seconda parte (vv. 49-80) è dedicata alla spiegazione dei miracolosi effetti della predicazione apostolica che ha raggiunto tutte le regioni della terra e si è rivolta a tutti gli uomini, ai liberi ed agli schiavi, ai ricchi ed ai poveri, alle spose ed alle vergini, annunziando una nuova gloria “vinta in più belle pro­ve” ed una nuova pace “che il mondo irride, ma che rapir non può”.
La terza ed ultima parte (vv. 81-144) è una solenne preghiera allo Spirito Santo perché discenda continuamente, propizio ai suoi cultori ed a chi l’ignora, per rianimare i cuori estinti nel dubbio, per donarsi come premio ai vinti, per consolare gli sventurati e sgomentare le ire superbe dei potenti insegnando loro la pietà: lo Spirito Santo faccia che il povero sollevi lo sguardo al cielo e “volga i lamenti in giubilo” e che il ricco dispensi i suoi beni con volto amico e “con quel tacer pudico, / che accetto il don ti fa”: ed accompagni l’uomo dalla nascita al suo tramonto, fino a brillare “nel guardo errante di chi sperando muor”.
Il significato globale dell’Inno è che l’umanità, redenta dal Salvatore, non ha tuttavia la forza morale di conservare la Grazia: il corpo è debole e le tentazioni della terra sono tante, perciò occorre che il miracolo della Pentecoste, della discesa dello Spirito Santo in soccorso dell’umanità, si rinnovi quotidianamente. Detto significato non si ricava, come di solito negli Inni precedenti, da un discorso lucido quanto freddo, ma da una serie di immagini che zampillano, l’una dietro l’altra, dalla fantasia vivida e commossa del Poeta, che sente profondamente la grande forza rigeneratrice della nuova Fede e vive tuttavia il dramma della fragilità umana, delle perenni ingiustizie sociali, dei travagli che affaticano i miseri ed abbattono i più deboli: che è poi la caratteristica dominante della sua particolare religiosità, tendente a privilegiare gli effetti della nuova Fede sulla realtà quotidiana della storia, prima ancora che quelli relativi al destino soprannaturale.
«Ma quel che distingue la Pentecoste - afferma il Momigliano - è il gaudio dell'anima che si sente legata, insieme con tutti gli uomini, a Dio; il suo abbandono appassionato alla guida suprema; il volo ampio dello spirito che raccoglie con sé, in una sola adorazione, come genuflessa in una chiesa sterminata, tutta l'umanità. Il ritmo che move l'inno dal principio alla fine, è pieno di palpiti; ma ciascuna frase, presa a sé, è per lo più serena, precisamente tornita. Anche qui si rivela il poeta che sa frenare i sentimenti più impetuosi e fissarli nella forma più nitida... ».






c’è da registrare, dal punto di vista estetico, una enorme differenza di valore fra le prime, composte rispettivamente nel 1814 e nel 1815, e quelle del 1821, rientranti negli anni più fecondi e più felici dell’ispirazione manzoniana.
L’ “Aprile 1814” fu composta in occasione della vittoria degli Austriaci sui Francesi e del conseguente “cambio della guardia” nel governo lombardo. Per un po' si sperò che gli Austriaci non ripristinassero l’antico dominio sulla regione e volessero conservare il Regno italico, affrancandolo però dal giogo francese e difendendone l’indipendenza. Anche il Manzoni credette in questo sogno e compose in fretta questa canzone, ma poi l’abbandonò allo stato di abbozzo, quando gli Austriaci si insediarono in Milano “per diritto di conquista” e ne ebbero riconfermato il possesso dal Congresso di Vienna. L’opera, che si compone di 91 versi, fu poi pubblicata dal Bonghi nel primo decennale della morte dell’Autore.
La canzone è una vera e propria arringa contro le prevaricazioni dei Francesi, usi a spogliare d’ogni ricchezza le terre “liberate” e ad imporre le inique leggi dei conquistatori come messaggi di redenzione, doni di civiltà.
Le speranze del Manzoni per una Patria libera ed indipendente si rifecero vive quando il 30 marzo 1815, durante l’avventura napoleonica dei Cento giorni, Gioacchino Murat, re di Napoli e cognato del Bonaparte, lanciò da Rimini un proclama a tutti gli Italiani perché si unissero a lui nel disegno di realizzare l’unità e l’indipendenza della Nazione: «Italiani, l’ora è venuta che debbono compiersi gli alti destini d'Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente. Dall’Alpi allo Stretto di Scilla odasi un grido solo: l’indipendenza d’Italia». Ma gli Italiani non si mossero: essi diffi­davano più dei Francesi che degli Austriaci. Il Manzoni fu uno dei pochi a credere alla buona fede del Murat ed alla possibile realizzazione della sua impresa, e compose “Il Proclama di Rimini”, una canzone che l’esito rovinoso della campagna militare intrapresa dal Murat contro gli Austriaci, troncò nel bel mezzo, al verso 51. Il frammento fu pubblicato nel 1848.
Nella canzone si fa l’esaltazione dell'ardimento di Gioacchino Murat e della nobiltà della sua causa: il re di Napoli chiama a raccolta i figli migliori di quell’Italia che, negletta ai conviti dei popoli, al pari di un mendicante a cui è già cortesia non fargli dispetto, solo dai suoi figli aspetta la redenzione e dalla Giustizia di Dio, che aprì le acque del Mar Rosso per far fuggire gli Ebrei e le richiuse poi sugli inseguitori. Tutte queste immagini saranno riprese con maggior efficacia in “Marzo 1821”. Nel “Proclama di Rimini” invece l’andamento è fiacco, la passione poco eccitata, l’interesse propagandistico troppo scoperto. Lo stesso Manzoni come riferisce il Cantù, ebbe a dire, a proposito di questa canzone e riferendosi al verso 34: «Io e Mazzini abbiamo avuto sempre fede nell'indipendenza d'Italia, compiuta e assicurata con l'unità. In questa unità era sì grande la mia fede, che le ho fatto il più grande de' sacrifici, quello di scrivere scientemente un brutto verso: Liberi non sarem se non siam uni».
Di ben altro respiro e di ben diversa intensità lirica sono le due odi del 1821, composte quasi di getto.
Il 10 marzo del 1821 scoppiò in Piemonte quel moto rivoluzionario liberale che avrebbe dovuto dare la Costituzione al Piemonte e l’indipendenza alla Lombardia. Le truppe degli insorti, giunte sulla sponda del Ticino, che segnava i confini fra le due regioni, erano prossime a varcare quei termini per marciare contro gli Austriaci e liberare i fratelli lombardi: auspicio perché il moto si estendesse in tutta Italia e realizzasse l’unità del Paese e l’indipendenza dallo straniero. Purtroppo quel fiume non fu varcato e l’8 aprile di quello stesso anno gl’insorti erano stati già sconfitti dalle truppe congiunte del generale piemontese de La Tour e dell’austriaco Bubna. Il Manzoni, animato dalla sua fede fortissima nell’unità d’Italia, aveva precorso gli eventi e immaginata la redenzione della Patria: in pochi giorni compose l’ode “Marzo 1821”, così ricca d’amor patrio, così vibrante del sentimento della libertà e dignità dei popoli, così calda di accenti cri­stiani che non danno luogo a manifestazioni di odio, ma sempre e soltanto di amore e di carità verso gli uomini in generale e verso le vittime in particolare. L’ode, dopo l'esito di quelle vicende, non poté ovviamente essere pubblicata e fu tenuta nascosta dall’Autore fino al 1848, quando vide la luce, dopo le “cinque giornate” di Milano, a spese del Governo Provvisorio, che premise all’edizione questa avvertenza: «Edizione messa sotto la tutela delle vigenti leggi e convenzioni, e che si vende una lira italiana, in favore dei profughi veneti, per cura della Commissione Governativa delle offerte per la causa nazionale».
I patrioti piemontesi, sostenuti da Carlo Alberto, hanno attraversato il Ticino ed hanno giurato: «Non fia loco ove sorgan barriere / tra l'Italia e l'Italia, mai più! ». Da tutte le contrade d’Italia altri forti rispondono a quel giuramento, e solo colui che fosse capace di distinguere e dividere nel Po le acque confuse dei suoi numerosi affluenti, potrebbe ancora dividere una “gente risorta” in “volghi spregiati”. I figli d’Italia finalmente son sorti a pugnare e non potranno che vincere perché hanno dalla loro parte la forza di una causa giusta e l’aiuto di quel Dio che «nell'onda vermiglia / chiuse il rio che inseguiva Israele», quel Dio che «è Padre di tutte le genti; / che non disse al germano giammai: / Va’, raccogli ove arato non hai; / spiega l'ugne, l'Italia ti do». Al solo pronunciare il dolce nome d’Italia, l’animo del Poeta si intenerisce e prorompe in un grido soffocato dal pianto: “Cara Italia!”. Il Poeta rievoca allora le ingenue speranze degli Italiani che si aspettavano la libertà dallo straniero, ma il cuore e la mente sono ora attenti al nuovo evento e trepidanti:

Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
stretti intorno a’ tuoi santi colori,
forti, armati de' propri dolori,
i tuoi figli son sorti a pugnar.
.............................................
Per l'Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
al convito de' popoli assisa,
o più serva, più vil, più derisa
sotto l'orrida verga starà.

L’ultima strofa rappresenta l’omaggio più riverente e commosso che si possa fare a quanti combattono per la libertà della propria Patria: tale omaggio salta evidente dalla amara e malinconica delusione di quanti non avranno potuto partecipare in prima persona al risorgimento della Patria e avranno appreso la lieta novella dal labbro d’altrui, come gente straniera.
E si ricollega idealmente alla “dedica” rivolta molto nobilmente ad un poeta-soldato, che ha lasciato la vita sul campo di Lipsia per difendere la libertà della propria terra, un poeta-soldato che appartiene alla stirpe dei conquistatori e dei dominatori dell’Italia, ma che si innalza al di sopra della viltà della sua gente per unirsi alla schiera dei Martiri del nostro Risorgimento. In ciò è manifesta l’intima ispirazione cristiana dell’ode, che, al di là del motivo patriottico più immediato, coglie l’essenza del valore della Libertà e di quello della Patria, i quali non dovrebbero dividere gli uomini, ma affratellarli come figli di un solo Padre. A noi sembra quanto mai significativo il giudizio di Ferruccio Ulivi, secondo il quale «sentimentalmente e moralmente, l'ode sta sul piano dell'evocazione di una società cristiana degli Inni Sacri, e non è dubbio che il Manzoni connetta la visione dell'indipendenza e unità nazionali a una concezione integrale sub specie cristiana».

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Inni sacri 1812 - 1822



La risurrezione
Aprile - 23 giugno 1812

È risorto: or come a morte
La sua preda fu ritolta?
Come ha vinto l'atre porte,
Come è salvo un'altra volta
Quei che giacque in forza altrui?
Io lo giuro per Colui
Che da' morti il suscitò.

È risorto: il capo santo
Più non posa nel sudario;
È risorto: dall'un canto
Dell'avello solitario
Sta il coperchio rovesciato:
Come un forte inebbriato
Il Signor si risvegliò.

Come a mezzo del cammino,
Riposato alla foresta,
Si risente il pellegrino,
E si scote dalla testa
Una foglia inaridita,
Che, dal ramo dipartita,
Lenta lenta vi risté:

Tale il marmo inoperoso,
Che premea l'arca scavata
Gittò via quel Vigoroso,
Quando l'anima tornata
Dalla squallida vallea,
Al Divino che tacea:
Sorgi, disse, io son con Te.


Che parola si diffuse
Tra i sopiti d'Israele!
Il Signor le porte ha schiuse!
Il Signor, l'Emmanuele!
O sopiti in aspettando,
È finito il vostro bando:
Egli è desso, il Redentor.

Pria di Lui nel regno eterno
Che mortal sarebbe asceso?
A rapirvi al muto inferno,
Vecchi padri, Egli è disceso:
Il sospir del tempo antico,
Il terror dell'inimico,
Il promesso Vincitor.

Ai mirabili Veggenti,
Che narrarono il futuro,
Come il padre ai figli intenti
Narra i casi che già furo,
Si mostrò quel sommo Sole,
Che, parlando in lor parole,
Alla terra Iddio giurò;

Quando Aggeo, quando Isaia
Mallevaro al mondo intero
Che il Bramato un dì verria;
Quando assorto in suo pensiero
Lesse i giorni numerati,
E degli anni ancor non nati
Daniel si ricordò.

Era l'alba; e, molli il viso,
Maddalena e l'altre donne
Fean lamento sull'Ucciso;
Ecco tutta di Sionne 60
Si commosse la pendice,
E la scolta insultatrice
Di spavento tramortì.


Un estranio giovinetto
Si posò sul monumento:
Era folgore l'aspetto,
Era neve il vestimento:
Alla mesta che 'l richiese
Diè risposta quel cortese:
È risorto; non è qui.

Via co' palii disadorni
Lo squallor della viola:
L'oro usato a splender torni:
Sacerdote, in bianca stola,
Esci ai grandi ministeri,
Tra la luce de' doppieri,
Il Risorto ad annunziar.

Dall'altar si mosse un grido:
Godi, o Donna alma del cielo;
Godi; il Dio, cui fosti nido
A vestirsi il nostro velo,
È risorto, come il disse:
Per noi prega: Egli prescrisse
Che sia legge il tuo pregar.

O fratelli, il santo rito
Sol di gaudio oggi ragiona;
Oggi è giorno di convito;
Oggi esulta ogni persona:
Non è madre che sia schiva
Della spoglia più festiva
I suoi bamboli vestir.

Sia frugal del ricco il pasto;
Ogni mensa abbia i suoi doni;
E il tesor, negato al fasto
Di superbe imbandigioni,
Scorra amico all'umil tetto,
Faccia il desco poveretto
Più ridente oggi apparir.


Lunge il grido e la tempesta
De' tripudi inverecondi:
L'allegrezza non è questa
Di che i giusti son giocondi;
Ma pacata in suo contegno,
Ma celeste, come segno
Della gioia che verrà.

Oh beati! a lor più bello
Spunta il sol de' giorni santi;
Ma che fia di chi rubello
Torse, ahi stolto! i passi erranti
Nel sentier che a morte guida?
Nel Signor chi si confida
Col Signor risorgerà.






Il nome di Maria
9 novembre 1812 - 19 aprile 1813

Tacita un giorno a non so qual pendice
Salia d'un fabbro nazaren la sposa;
Salia non vista alla magion felice
D'una pregnante annosa;

E detto: “Salve” a lei, che in reverenti
Accoglienze onorò l'inaspettata,
Dio lodando, sclamò: Tutte le genti
Mi chiameran beata.

Deh! con che scherno udito avria i lontani
Presagi allor l'età superba! Oh tardo
Nostro consiglio! oh degl'intenti umani
Antiveder bugiardo!


Noi testimoni che alla tua parola
Ubbidiente l'avvenir rispose,
Noi serbati all'amor, nati alla scola
Delle celesti cose,

Noi sappiamo, o Maria, ch'Ei solo attenne
L'alta promessa che da Te s'udia,
Ei che in cor la ti pose: a noi solenne
È il nome tuo, Maria.

A noi Madre di Dio quel nome sona:
Salve beata! che s'agguagli ad esso
Qual fu mai nome di mortal persona,
O che gli vegna appresso?

Salve beata! in quale età scortese
Quel sì caro a ridir nome si tacque?
In qual dal padre il figlio non l'apprese?
Quai monti mai, quali acque

Non l'udiro invocar? La terra antica
Non porta sola i templi tuoi, ma quella
Che il Genovese divinò, nutrica
I tuoi cultori anch'ella.

In che lande selvagge, oltre quei mari
Di sì barbaro nome fior si coglie,
Che non conosca de' tuoi miti altari
Le benedette soglie?

O Vergine, o Signora, o Tuttasanta,
Che bei nomi ti serba ogni loquela!
Più d'un popol superbo esser si vanta
In tua gentil tutela.

Te, quando sorge, e quando cade il die,
E quando il sole a mezzo corso il parte,
Saluta il bronzo, che le turbe pie
Invita ad onorarte.


Nelle paure della veglia bruna,
Te noma il fanciulletto; a Te, tremante,
Quando ingrossa ruggendo la fortuna,
Ricorre il navigante.

La femminetta nel tuo sen regale
La sua spregiata lacrima depone,
E a Te beata, della sua immortale
Alma gli affanni espone;

A Te che i preghi ascolti e le querele,
Non come suole il mondo, né degl'imi
E de' grandi il dolor col suo crudele
Discernimento estimi.

Tu pur, beata, un dì provasti il pianto,
Né il dì verrà che d'oblianza il copra:
Anco ogni giorno se ne parla; e tanto
Secol vi corse sopra.

Anco ogni giorno se ne parla e plora
In mille parti; d'ogni tuo contento
Teco la terra si rallegra ancora,
Come di fresco evento.

Tanto d'ogni laudato esser la prima
Di Dio la Madre ancor quaggiù dovea;
Tanto piacque al Signor di porre in cima
Questa fanciulla ebrea.

O prole d'Israello, o nell'estremo
Caduta, o da sì lunga ira contrita,
Non è Costei, che in onor tanto avemo,
Di vostra fede uscita?

Non è Davidde il ceppo suo? Con Lei
Era il pensier de' vostri antiqui vati,
Quando annunziaro i verginal trofei
Sopra l'inferno alzati.


Deh! a Lei volgete finalmente i preghi,
Ch'Ella vi salvi, Ella che salva i suoi;
E non sia gente né tribù che neghi
Lieta cantar con noi:

Salve, o degnata del secondo nome,
O Rosa, o Stella ai periglianti scampo,
Inclita come il sol, terribil come
Oste schierata in campo.




Il Natale
13 luglio - 29 settembre 1813

Qual masso che dal vertice
Di lunga erta montana,
Abbandonato all'impeto
Di rumorosa frana,
Per lo scheggiato calle
Precipitando a valle,
Batte sul fondo e sta;

Là dove cadde, immobile
Giace in sua lenta mole;
Né, per mutar di secoli,
Fia che riveda il sole
Della sua cima antica,
Se una virtude amica
In alto nol trarrà:

Tal si giaceva il misero
Figliol del fallo primo,
Dal dì che un'ineffabile
Ira promessa all'imo
D'ogni malor gravollo,
Donde il superbo collo
Più non potea levar.


Qual mai tra i nati all'odio,
Quale era mai persona,
Che al Santo inaccessibile
Potesse dir: perdona?
Far novo patto eterno?
Al vincitore inferno
La preda sua strappar?

Ecco ci è nato un Pargolo,
Ci fu largito un Figlio:
Le avverse forze tremano
Al mover del suo ciglio:
All'uom la mano Ei porge,
Che si ravviva, e sorge
Oltre l'antico onor.

Dalle magioni eteree
Sgorga una fonte, e scende,
E nel borron de' triboli
Vivida si distende:
Stillano mèle i tronchi
Dove copriano i bronchi,
Ivi germoglia il fior.

O Figlio, o Tu cui genera
L'Eterno, eterno seco;
Qual ti può dir de' secoli:
Tu cominciasti meco?
Tu sei: del vasto empireo
Non ti comprende il giro:
La tua parola il fe'.

E Tu degnasti assumere
Questa creata argilla?
Qual merto suo, qual grazia
A tanto onor sortilla?
Se in suo consiglio ascoso
Vince il perdon, pietoso
Immensamente Egli è.


Oggi Egli è nato: ad Efrata,
Vaticinato ostello,
Ascese un'alma Vergine,
La gloria d'Israello,
Grave di tal portato:
Da cui promise è nato,
Donde era atteso uscì.

La mira Madre in poveri
Panni il Figliol compose,
E nell'umil presepio
Soavemente il pose;
E l'adorò: beata!
Innanzi al Dio prostrata,
Che il puro sen le aprì.

L'Angel del cielo, agli uomini
Nunzio di tanta sorte,
Non de' potenti volgesi
Alle vegliate porte;
Ma tra i pastor devoti,
Al duro mondo ignoti,
Subito in luce appar.

E intorno a Lui, per l'ampia
Notte calati a stuolo,
Mille celesti strinsero
Il fiammeggiante volo;
E accesi in dolce zelo,
Come si canta in cielo,
A Dio gloria cantar.

L'allegro inno seguirono,
Tornando al firmamento:
Tra le varcate nuvole
Allontanossi, e lento
Il suon sacrato ascese,
Fin che più nulla intese
La compagnia fedel.


Senza indugiar, cercarono
L'albergo poveretto
Que' fortunati, e videro,
Siccome a lor fu detto,
Videro in panni avvolto,
In un presepe accolto,
Vagire il Re del Ciel.

Dormi, o Fanciul; non piangere;
Dormi, o Fanciul celeste:
Sovra il tuo capo stridere
Non osin le tempeste,
Use sull'empia terra,
Come cavalli in guerra,
Correr davanti a Te.

Dormi, o Celeste: i popoli
Chi nato sia non sanno;
Ma il dì verrà che nobile
Retaggio tuo saranno;
Che in quell'umil riposo,
Che nella polve ascoso,
Conosceranno il Re.




La Passione
3 marzo 1814 - 15 ottobre 1815

O tementi dell'ira ventura,
Cheti e gravi oggi al tempio moviamo,
Come gente che pensi a sventura,
Che improvviso s'intese annunziar.
Non s'aspetti di squilla il richiamo;
Nol concede il mestissimo rito:
Qual di donna che piange il marito,
È la veste del vedovo altar.




Cessan gl'inni e i misteri beati,
Tra cui scende, per mistica via,
Sotto l'ombra de' pani mutati,
L'ostia viva di pace e d'amor.
S'ode un carme: l'intento Isaia
Proferì questo sacro lamento,
In quel dì che un divino spavento
Gli affannava il fatidico cor.

Di chi parli, o Veggente di Giuda?
Chi è costui che, davanti all'Eterno,
Spunterà come tallo da nuda
Terra, lunge da fonte vital?
Questo fiacco pasciuto di scherno,
Che la faccia si copre d'un velo,
Come fosse un percosso dal cielo,
Il novissimo d'ogni mortal?

Egli è il Giusto, che i vili han trafitto,
Ma tacente, ma senza tenzone;
Egli è il Giusto; e di tutti il delitto
Il Signor sul suo capo versò.
Egli è il santo, il predetto Sansone,
Che morendo francheggia Israele;
Che volente alla sposa infedele
La fortissima chioma lasciò.

Quei che siede sui cerchi divini,
E d'Adamo si fece figliolo;
Né sdegnò coi fratelli tapini
Il funesto retaggio partir:
Volle l'onte, e nell'anima il duolo,
E l'angosce di morte sentire,
E il terror che seconda il fallire,
Ei che mai non conobbe il fallir.




La repulsa al suo prego sommesso,
L'abbandono del Padre sostenne:
Oh spavento! l'orribile amplesso
D'un amico spergiuro soffrì.
Ma simìle quell'alma divenne
Alla notte dell'uomo omicida:
Di quel Sangue sol ode le grida,
E s'accorge che Sangue tradì.

Oh spavento! lo stuol de' beffardi
Baldo insulta a quel volto divino,
Ove intender non osan gli sguardi
Gl'incolpabili figli del ciel.
Come l'ebbro desidera il vino,
Nell'offese quell'odio s'irrita;
E al maggior dei delitti gl'incita
Del delitto la gioia crudel.

Ma chi fosse quel tacito reo,
Che davanti al suo seggio profano
Strascinava il protervo Giudeo,
Come vittima innanzi a l'altar,
Non lo seppe il superbo Romano;
Ma fe' stima il deliro potente,
Che giovasse col sangue innocente
La sua vil sicurtade comprar.

Su nel cielo in sua doglia raccolto
Giunse il suono d'un prego esecrato:
I Celesti copersero il volto:
Disse Iddio: Qual chiedete sarà.
E quel Sangue dai padri imprecato
Sulla misera prole ancor cade,
Che, mutata d'etade in etade,
Scosso ancor dal suo capo non l'ha.


Ecco appena sul letto nefando
Quell'Afflitto depose la fronte,
E un altissimo grido levando,
Il supremo sospiro mandò:
Gli uccisori esultanti sul monte
Di Dio l'ira già grande minaccia,
Già dall'ardue vedette s'affaccia,
Quasi accenni: Tra poco verrò

O gran Padre! per Lui che s'immola,
Cessi alfine quell'ira tremenda;
E de' ciechi l'insana parola
Volgi in meglio, pietoso Signor.
Sì, quel Sangue sovr'essi discenda;
Ma sia pioggia di mite lavacro:
Tutti errammo; di tutti quel sacro -
santo Sangue cancelli l'error.

E tu, Madre, che immota vedesti
Un tal Figlio morir sulla croce,
Per noi prega, o regina de' mesti,
Che il possiamo in sua gloria veder;
Che i dolori, onde il secolo atroce
Fa de' boni più tristo l'esiglio,
Misti al santo patir del tuo Figlio,
Ci sian pegno d'eterno goder.

La Pentecoste
21 giugno - 2 ottobre 1817

Madre de' Santi, immagine
Della città superna,
Del sangue incorruttibile
Conservatrice eterna;
Tu che, da tanti secoli,
Soffri, combatti e preghi,
Che le tue tende spieghi
Dall'uno all'altro mar;

Campo di quei che sperano;
Chiesa del Dio vivente,
Dov'eri mai? qual angolo
Ti raccogliea nascente,
Quando il tuo Re, dai perfidi
Tratto a morir sul colle,
Imporporò le zolle
Del suo sublime altar?

E allor che dalle tenebre
La diva spoglia uscita,
Mise il potente anelito
Della seconda vita;
E quando, in man recandosi
Il prezzo del perdono,
Da questa polve al trono
Del Genitor salì;

Compagna del suo gemito,
Conscia de' suoi misteri,
Tu, della sua vittoria
Figlia immortal, dov'eri?
In tuo terror sol vigile,
Sol nell'obblio secura,
Stavi in riposte mura,
Fino a quel sacro dì,




Quando su te lo Spirito
Rinnovator discese
E l'inconsunta fiaccola
Nella tua destra accese;
Quando, segnal de' popoli,
Ti collocò sul monte,
E ne' tuoi labbri il fonte
Della parola aprì.

Come la luce rapida
Piove di cosa in cosa,
E i color vari suscita
Dovunque si riposa;
Tal risonò moltiplice
La voce dello Spiro:
L'Arabo, il Parto, il Siro
In suo sermon l'udì.

Adorator degl'idoli,
Sparso per ogni lido,
Volgi lo sguardo a Solima,
Odi quel santo grido:
Stanca del vile ossequio,
La terra a Lui ritorni:
E voi che aprite i giorni
Di più felice età,

Spose, che desta il subito
Balzar del pondo ascoso;
Voi già vicine a sciogliere
Il grembo doloroso;
Alla bugiarda pronuba
Non sollevate il canto
Cresce serbato al Santo
Quel che nel sen vi sta.




Perché, baciando i pargoli,
La schiava ancor sospira?
E il sen che nutre i liberi
Invidiando mira?
Non sa che al regno i miseri
Seco il Signor solleva?
Che a tutti i figli d'Eva
Nel suo dolor pensò?

Nova franchigia annunziano
I cieli, e genti nove;
Nove conquiste, e gloria
Vinta in più belle prove;
Nova, ai terrori immobile
E alle lusinghe infide,
Pace, che il mondo irride,
Ma che rapir non può.

O Spirto! supplichevoli
A' tuoi solenni altari,
Soli per selve inospite,
Vaghi in deserti mari,
Dall'Ande algenti al Libano,
D'Erina all'irta Haiti,
Sparsi per tutti i liti,
Uni per Te di cor,

Noi T'imploriam! Placabile
Spirto, discendi ancora,
A' tuoi cultor propizio,
Propizio a chi T'ignora;
Scendi e ricrea; rianima
I cor nel dubbio estinti;
E sia divina ai vinti
Mercede il vincitor.




Discendi Amor; negli animi
L'ire superbe attuta:
Dona i pensier che il memore
Ultimo dì non muta;
I doni tuoi benefica
Nutra la tua virtude;
Siccome il sol che schiude
Dal pigro germe il fior;

Che lento poi sull'umili
Erbe morrà non còlto,
Né sorgerà coi fulgidi
Color del lembo sciolto,
Se fuso a lui nell'etere
Non tornerà quel mite
Lume, dator di vite,
E infaticato altor.

Noi T'imploriam! Ne' languidi
Pensier dell'infelice
Scendi piacevol alito,
Aura consolatrice:
Scendi bufera ai tumidi
Pensier del violento;
Vi spira uno sgomento
Che insegni la pietà.

Per Te sollevi il povero
Al ciel, ch'è suo, le ciglia;
Volga i lamenti in giubilo,
Pensando a Cui somiglia;
Cui fu donato in copia,
Doni con volto amico,
Con quel tacer pudico,
Che accetto il don ti fa.




Spira de' nostri bamboli
Nell'ineffabil riso;
Spargi la casta porpora
Alle donzelle in viso;
Manda alle ascose vergini
Le pure gioie ascose;
Consacra delle spose
Il verecondo amor.

Tempra de' baldi giovani
Il confidente ingegno;
Reggi il viril proposito
Ad infallibil segno;
Adorna le canizie
Di liete voglie sante;
Brilla nel guardo errante
Di chi sperando muor.



Ognissanti
Frammenti

...in omnibus Christus.
PAUL, Col., III, 11.
Multa quidem membra, unum autem corpus.
Cor., 1, XII, 20.
Omnes enim vos estis Unum in Christo Jesu.
Gal., III, 28.
[1821 (Parenti); novembre 1830 (Busetto); 1847 (Lesca)]
...
Cercando col cupido sguardo,
Tra il vel della nebbia terrena,
Quel sol che in sua limpida piena
V'avvolge or beati lassù;


Il secol vi sdegna, e superbo
Domanda qual merto agli altari
V'addusse; che giovin gli avari
Tesor di solinghe virtù.

A Lui che nell'erba del campo
La spiga vitale ripose,
Il fil di tue vesti compose,
Del farmaco i succhi temprò;

Che il pino inflessibile agli austri,
Che docile il salcio alla mano,
Che il larice ai verni, e l'ontano
Durevole all'acque creò;

A Quello domanda, o sdegnoso,
Perché sull'inospite piagge,
All’alito d'aure selvagge,
Fa sorgere il tremulo fior,

Che spiega dinanzi a Lui solo
La pompa del candido velo,
Che spande ai deserti del cielo
Gli olezzi del calice, e muor.

E voi che, gran tempo, per ciechi
Sentier di lusinghe funeste
Correndo all'abisso, cadeste
In grembo a un'immensa pietà;

E come l'umor, che nel limo
Errava sotterra smarrito,
Da subita vena rapito,
Che al giorno la strada gli fa,

Si lancia, e seguendo l'amiche
Angustie con ratto gorgoglio,
Si vede d'in cima allo scoglio
In lucido sgorgo apparir;


Sorgeste già puri, e la vetta,
Sorgendo, toccaste, dolenti
E forti, a magnanimi intenti
Nutrendo nel pianto l'ardir;

Un timido ossequio non veli
Le piaghe che il fallo v'impresse:
Un segno divino sovr'esse
La man, che le chiuse, lasciò.

Tu sola a Lui festi ritorno
Ornata del primo suo dono;
Te sola più su del perdono
L'Amor che può tutto locò;

Te sola dall'angue nemico
Non tocca né prima né poi;
Dall'angue, che appena su noi
L'indegna vittoria compiè,

Traendo l'oblique rivolte,
Rigonfio e tremante, tra l'erba,
Sentì sulla testa superba
Il peso del puro tuo piè.
...







IL NATALE DEL 1833
[14 marzo 1835]
Tuam ipsius animam pertransivit gladius
Luc. II. 35
1
Sì che Tu sei terribile!
Sì che in quei lini ascoso,
In braccio a quella Vergine,
Sovra quel sen pietoso,
Come da sopra i turbini
Regni, o Fanciul severo!
E fato il tuo pensiero,
È legge il tuo vagir.

2
Vedi le nostre lagrime,
Intendi i nostri gridi;
Il voler nostro interroghi,
E a tuo voler decidi.
Mentre a stornar la folgore
Trepido il prego ascende
Sorda la folgor scende
Dove tu vuoi ferir.

3
Ma tu pur nasci a piangere,
Ma da quel cor ferito
Sorgerà pure un gemito,
Un prego inesaudito:
E questa tua fra gli uomini
Unicamente amata,
Nel guardo tuo beata,
Ebra del tuo respir,


4
Vezzi or ti fa; ti supplica
Suo pargolo, suo Dio,
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripetendo: è mio!
Un dì con altro palpito,
Un dì con altra fronte,
Ti seguirà sul monte.
E ti vedrà morir.

5
Onnipotente ...........        






Dio nella natura

Tu sì che a noi t'ascondi:
L'occhio ti cerca invano;
Ma l'opre di tua mano
Ti svelano, o Signor.

Tutto del tuo gran nome
In terra, in ciel, favella;
Risplende in ogni stella,
È scritto in ogni fior.
...

Liriche politiche





Aprile 1814
22 aprile 1814

Fin che il ver fu delitto, e la Menzogna
Corse gridando, minacciosa il ciglio:
“Io son sola che parlo, io sono il vero”,
Tacque il mio verso, e non mi fu vergogna,
Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
Ché non è sola lode esser sincero,
Né rischio è bello senza nobil fine.
Or che il superbo morso
Ad onesta parola è tolto alfine,
Ogni compresso affetto al labbro è corso;
Or s'udrà ciò che, sotto il giogo antico,
Sommesso appena esser potea discorso
Al cauto orecchio di privato amico.

Toglier lo scudo de le Leggi antique
E le da lor create, e il sacro patto
Mutar come si muta un vestimento;
O non mutate non serbarle, e inique
Farle serbar benché segrete, e in atto
Di chi pensa, tacendo, al tradimento;
E novi statuir padri alla legge,
E, perché amici ai buoni,
Sperderli a guisa di spregiato gregge:
Questi de' salvatori erano i doni;
Questo dicean fondarne a civil vita;
Qual se Italia, al chiamar d'esti Anfioni
Fosse dei boschi e de le tane uscita.


Anzi, fatta da lor donna e reina
La salutaro, o fosse frode o scherno:
D'armi reina, io dico, e di consigli;
Essa che ai piè de la imperante inchina
Stavasi, e fea di sue ricchezze eterno
Censo agli estranei, e de gli estrani al figli;
Che regger si dovea con l'altrui cenno;
Che ogni anno il suo tesoro
Su l'avara ponea lance di Brenno.
È ver; tributo nol dicean costoro,
Men turpe nome il vincitor foggiava.
Ma che monta, per Dio! Terra che l'oro
Porta, costretta, allo straniero, è schiava.

E svelti i figli al genitor dal fianco,
E aprir loro le porte, ed esser padre
Delitto, e quasi anco i sospir nocenti;
E tratti in ceppi, e noverati a branco,
Spinti ad offesa d'innocenti squadre
Con cui meglio starieno abbracciamenti.
Oh giorni! oh campi che nomar non oso!
Deh! per chi mai scorrea
Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?
O madri orbate, o spose, a chi crescea
Nel sen custode ogni viril portato?
Era tristezza esser feconde, e rea
Novella il dirvi: un pargoletto è nato!

Né gente or voglio cagionar de' mali
Che lo stesso bevea calice d'ira,
Né infonder tosco ne le piaghe aperte;
Ma dico sol ch'è da pensar da quali
Strette il perdono del Signor ne tira,
Perché sien maggior grazie a Lui riferte.
Ché quando eran più l'onte aspre ed estreme,
E al veder nostro, estinto
Ogni raggio parea d'umana speme;
Allor fuor de la nube arduo ed accinto,

Tuonando, il braccio salvator s'è mostro;
Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;
Che a ragion si rallegra il popol nostro.

Bel mirar da le inospiti latebre
Giovin raminghi al sospirato tetto
Correr securi, ed a le braccia pie;
E quei che in ferri astrinse ed in tenebre
L'odio potente, un motto od un sospetto
Al soavi tornar colloquj e al die;
E un favellar di gioja e di speranza,
E su le fronti scolta
De' concordi pensier l'alma fidanza;
E il nobil fior de' generosi a scolta
Durar ne l'armi e vigilar, mostrando
Con che acceso voler la patria ascolta
Quando libero e vero è il suo dimando;

E quel che a dir le sue ragioni or chiama
Lunge da basso studio e da contesa,
Parlar per lei com'ella è desiosa,
E l'antica far chiara itala brama;
Che sarà, spero, a quei possenti intesa
Cui par che piaccia ogni più nobil cosa.
Vedi il drappello che al governo è sopra,
Animoso e guardingo,
Al ben di tutti aver rivolta ogni opra;
E i ministri di Dio dal mite aringo
Nel dritto calle ragunar la greggia.
Molte e gran cose in picciol fascio io stringo;
Ma qual parlar sì belle opre pareggia?

Il proclama di Rimini
1815

O delle imprese alla piú degna accinto,
signor che la parola hai proferita,
che tante etadi indarno Italia attese;
ah! quando un braccio le teneano avvinto
genti che non vorrian toccarla unita,
e da lor scissa la pascean d'offese;
e l'ingorde udivam lunghe contese
dei re tutti anelanti a farle oltraggio;
in te sol un raggio
di nostra speme ancor vivea, pensando
ch'era in Italia un suol senza servaggio,
ch'ivi slegato ancor vegliava un brando.
Sonava intanto d'ogni parte un grido,
libertà delle genti e gloria e pace!
ed aperto d'Europa era il convito;
e questa donna di cotanto lido,
questa antica, gentil, donna pugnace
degna non la tenean dell'alto invito:
essa in disparte, e posto al labbro il dito,
dovea il fato aspettar dal suo nemico,
come siede il mendico
alla porta del ricco in sulla via;
alcun non passa che lo chiami amico,
e non gli far dispetto è cortesia.
Forse infecondo di tal madre or langue
il glorioso fianco? o forse ch'ella
del latte antico oggi le vene ha scarse?
o figli or nutre, a cui per essa il sangue
donar sia grave? o tali a cui piú bella
pugna sembri tra loro ingiuria farse?
Stolta bestemmia! eran le forze sparse,
e non le voglie; e quasi in ogni petto
vivea questo concetto:
liberi non sarem se non siam uni:
ai men forti di noi gregge dispetto,

fin che non sorga un uom che ci raduni.
Egli è sorto per Dio! Sí, per Colui
che un dí trascelse il giovinetto ebreo
che del fratello il percussor percosse;
e fattol duce e salvator de' suoi,
degli avari ladron sul capo reo
l'ardua furia soffiò dell'onde rosse;
per quel Dio che talora a stranie posse,
certo in pena, il valor d'un popolo trade;
ma che l'inique spade
frange una volta, e gli oppressor confonde;
e all'uom che pugna per le sue contrade
l'ira e la gioia de' perigli infonde.
Con Lui, signor, dell'Italia fortuna
le sparse verghe raccorrai da terra,
e un fascio ne farai nella tua mano.





Marzo 1821
ODE

Alla illustre memoria
di
TEODORO KOERNER
poeta e soldato
della indipendenza germanica
morto sul campo di Lipsia
il giorno XVIII d'Ottobre MDCCCXIII
nome caro a tutti i popoli
che combattono per difendere
o per riconquistare
una patria.
marzo 1821

Soffermati sull'arida sponda,
Vòlti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel novo destino,
Certi in cor dell'antica virtù,
Han giurato: Non fia che quest'onda
Scorra più tra due rive straniere;
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l'Italia e l'Italia, mai più!

L'han giurato: altri forti a quel giuro
Rispondean da fraterne contrade,
Affilando nell'ombra le spade
Che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno stretto le destre;
Già le sacre parole son porte:
O compagni sul letto di morte,
O fratelli su libero suol.

Chi potrà della gemina Dora,
Della Bormida al Tanaro sposa,
Del Ticino e dell'Orba selvosa
Scerner l'onde confuse nel Po;

Chi stornargli del rapido Mella
E dell'Oglio le miste correnti,
Chi ritogliergli i mille torrenti
Che la foce dell'Adda versò,

Quello ancora una gente risorta
Potrà scindere in volghi spregiati,
E a ritroso degli anni e dei fati,
Risospingerla ai prischi dolor:
Una gente che libera tutta,
O fia serva tra l'Alpe ed il mare;
Una d'arme, di lingua, d'altare,
Di memorie, di sangue e di cor.

Con quel volto sfidato e dimesso,
Con quel guardo atterrato ed incerto,
Con che stassi un mendico sofferto
Per mercede nel suolo stranier,
Star doveva in sua terra il Lombardo;
L'altrui voglia era legge per lui;
Il suo fato, un segreto d'altrui;
La sua parte, servire e tacer.

O stranieri, nel proprio retaggio
Torna Italia, e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende
Da una terra che madre non v'è.
Non vedete che tutta si scote, 45
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla
Sotto il peso de' barbari piè?

O stranieri! sui vostri stendardi
Sta l'obbrobrio d'un giuro tradito;
Un giudizio da voi proferito
V'accompagna all'iniqua tenzon;
Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;


Ogni gente sia libera, e pera
Della spada l'iniqua ragion.

Se la terra ove oppressi gemeste
Preme i corpi de' vostri oppressori,
Se la faccia d'estranei signori
Tanto amara vi parve in quei dì;
Chi v'ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell'itale genti?
Chi v'ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v'udì?

Sì, quel Dio che nell'onda vermiglia
Chiuse il rio che inseguiva Israele,
Quel che in pugno alla maschia Giaele
Pose il maglio, ed il colpo guidò;
Quel che è Padre di tutte le genti,
Che non disse al Germano giammai:
Va’, raccogli ove arato non hai;
Spiega l'ugne; l'Italia ti do.

Cara Italia! dovunque il dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio;
Dove ancor dell'umano lignaggio
Ogni speme deserta non è;
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura,
Dove ha lacrime un'alta sventura,
Non c'è cor che non batta per te.

Quante volte sull'Alpe spiasti
L'apparir d'un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne' deserti del duplice mar!
Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
Stretti intorno a' tuoi santi colori,
Forti, armati de' propri dolori,
I tuoi figli son sorti a pugnar.


Oggi, o forti, sui volti baleni
Il furor delle menti segrete:
Per l'Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
Al convito de' popoli assisa,
O più serva, più vil, più derisa
Sotto l'orrida verga starà.

Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d'altrui,
Come un uomo straniero, le udrà!
Che a' suoi figli narrandole un giorno,
Dovrà dir sospirando: io non c'era;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata quel dì non avrà.



Il cinque maggio
17-19 luglio 1821

Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,

muta pensando all'ultima
ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie' mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.

Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:

vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà.

Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar.




Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch'era follia sperar;

tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.

Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor.

E sparve, e i dì nell'ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor.




Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;

tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir!

E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de' manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.

Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;




e l'avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò.

Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.

Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.

Epigrammi, scherzi e complimenti



Parodia d'arietta melodrammatica metastasiana
XIX secolo

Tu vuoi saper s'io vado,
Tu vuoi saper s'io resto:
Sappi, ben mio, che questo
Non lo saprai da me.

Non che il pudor nativo
Metta alla lingua il morso,
O che impedisca il corso
Quel certo non so che.

Vuoi ch'io dica perché non lo dico?
Non lo dico, oh destino inimico!
Non lo dico, oh terribile intrico!
Non lo dico, perché non lo so.

Lo chieggo alla madre
Con pianti ed omei:
Risponde: Vorrei
Saperlo da te.

Se il chieggo alla sposa:
Decidi a tuo senno,
Risponde: un tuo cenno
È legge per me.
Se il chieggo a me stesso
...


L'ira di Apollo 1816
Ode burlesca

Per la Lettera semiseria di Grisostomo

Vidi (credi, se il vuoi, volgo profano!)
Vidi là dove innalzasi
E nel Lario si specchia il Baradello
Il Delfico calar Nume sovrano,
E su la torre aerea
Ristar dell'antichissimo Castello.
Gli spirava dal volto ira divina,
E da la chioma odor d'ambrosia fina.

Sperai che, quale in su la rupe Ascrea
O sul giogo Parnasio,
Almo suono ei trarria da la sua cetra;
Ma il Nume che tutt'altro in testa avea.
Piegando il braccio eburneo,
Stese la man sul tergo a la faretra:
Tolse uno stral, su l'arco d'oro il tese;
Lungo e profondo mormorio s'intese;

Ove su l'ampio verdeggiar dei prati
Sacra a le belle Najadi,
Sorge l'alta Milan, la mira ei volse.
Me prese alto terror pei Lari amati,
E da le labbra tremule
La voce a stento ad implorar si sciolse:
“Ferma! che fai? Deh non ferir, perdona,
Santo figlio di Giove e di Latona!”

Al dardo impaziente il vol ritenne,
E a me rivolto, in placido
Sembiante, a dir mi prese il dio di Delo:
“Fino a noi da que' lidi il grido venne
D'uom che sfidare attentasi
Tutti gli Dei, tutte le Dee del cielo,
E l'audacia di lui resta impunita?

Pera l'empia città che il lascia in vita!”

“Deh! per Leucotoe”, io dissi, “e per Giacinto,
Per la gentil Coronide,
Per quella Dafne più di tutte amata,
De la cui spoglia verde il capo hai cinto,
Poni lo sdegno orribile,
Frena la furia de la destra irata;
Pensa, o signor di Delfo, almo Sminteo,
Che se enorme è la colpa, un solo è il reo.

Un solo ha fatto ai numi vostri insulto,
Spinto da l'atre Eumenidi;
Egli è il solo fra noi che non vi adora;
Non obliar per lui degli altri il culto:
Vedi l'are che fumano,
Vedi il popolo pio che a voi le infiora,
Ascolta i preghi, odi l'umil saluto,
Che il Cordusio ti manda e il Bottonuto.

Tutto è pieno di voi. Qual rio cultore,
Non invocata Cerere,
I semi affida a l'immortal Tellure?
Ad ardua impresa chi rivolge il core,
Se a la Cortina Delfica
Non tenta il velo de le sorti oscure?
Quale è il nocchier che sciolga al vento i lini,
Pria di far sacrificio ai Dei marini?

Voi, se Fortuna a noi concede il crine
O volge il calvo, amabile
E perenne argomento ai canti nostri:
Così le Greche genti e le Latine
Voi Signori cantavano
E degli Olimpj e dei Tartarei chiostri:
E noi, che in voi crediamo al par di loro,
Non sacreremo a voi le cetre d'oro?

Figlio di Rea, tu faretrato arciero,

De la donzella Sicula
Buon rapitor, che regno hai sopra l'ombre,
Tu che dal suolo uscir festi il destriero,
Marte, Giunone e Venere,
Tu che il virgineo crin d'ulivo adombre,
Io per me mi protesto, o Numi santi,
Umilissimo servo a tutti quanti.

Fa' luogo, o biondo Nume, al mio riclamo:
Non render risponsabile,
Per un sol che peccò, tutto un paese;
Lascia tranquilli noi che rei non siamo;
E le misure energiche
Sol contra l'empio schernitor sian prese”.
Tacqui, e m'accorsi dal placato aspetto
Che il biondo Dio gustava il mio progetto.

Lo stral ripose nel turcasso, e disse:
“Poi che quest'empio attentasi
Esercitar le nostre arti canore,
Queste orribili pene a lui sien fisse:
Lunge dai gioghi aonii
Sempre dimori e dalle nove suore;
Non abbia di Castalia onda ristauro,
Ne mai gli tocchi il crin fronda di lauro.

Giammai non monti il corridor che vola,
Ma intorno al vero aggirisi,
Viaggiando pedestre il vostro mondo.
Non spiri aura di Pindo in sua parola:
Tutto ei deggia da l'intimo
Suo petto trarre e dal pensier profondo,
E sia costretto lasciar sempre in pace
L'ingorda Libitina e il Veglio edace.

E perché privo d'ogni gioja e senza
Speme si roda il perfido,
Lira eburna gli tolgo e plettro aurato”.
Un gel mi prese alla feral sentenza;


oco dopo l’avvenuta conversione il Manzoni ideò
P
Tomba di Alessandro Manzoni nel Cimitero Monumentale di Milano
E, sbigottito e pallido,
Esclamai: “Santi Numi, egli è spacciato!
E come vuoi che senza queste cose
Ei se la cavi?”. “Come può”, rispose.

Tacque, e ristette il Nume, simigliante
A la sua sacra immagine
Che per Greco scalpel nel marmo spira,
Dove negli atti e nel divin sembiante
Vedi la calma riedere,
E sul labbro morir la turgid'ira:
Spunta il piacer de la vittoria in viso,
Mirando il corpo del Pitone anciso.




A Giulio, lodatore di "pazzi sonettanti", o classicisti

Dunque il tuo Lesbio per l'estinta Nice
Va su' tumuli erbosi a sparger pianti
Veracemente come in versi il dice?

Oh, che mi narri di siffatti vanti
Sentimentali che a bandir lor nome
Spandon cotesti pazzi sonettanti?

Poi gridan che ahi! gli è indarno offrir le chiome
Alla Tartarea Giuno, e abbracciar l'are
Dell'Eumenidi pie per vincer, come

Pur non fu dato al Tracio Orfeo, le avare
Fauci dell'atra Dite, e all'aureo sole
Ricondur le rapite anime care.

E sentono costoro? e in lor parole
Dolor tu forse, o amor, od altro senti
In mezzo al ghiaccio di cotante fole?


Male il Poeta ti pingesti in mente,
Diletto Giulio, e il tuo veder fallace
S'accusa in tal subbietto anco ebbramente.

Come i versi lodar puoi del dicace
Spensierato Berillo, ond'è schernita
Del buon Pacomio la vista verace

Perché incerto è nell'opre, ed ogni ardita
Sentenza il punge, e fugge i crocchi, e gode
Trar taciturna e solitaria vita?

Poi veggo il duolo che ti cruccia e rode
Se la scola t'ingiunge altra lettura
Che poemetti, canzoncine ed ode.



A Carlo Porta 1819
Sonetto beroldinghiano
1 marzo 1819

Lingua mendace che invoca gli Dei
essendo in suo cuore ateo mitologico,
tu credesti ingannare i sensi miei
con stile affettatamente pedagogico.

Del qual giammai creduto io non avrei
che mi stimassi tanto cacologico
da non discerner sensi buoni e rei
sotto il velame del linguaggio anfibologico.

Falso avvocato ne fingesti difensore
per tirare in rovina il tuo cliente.
O stelle! o numi! chi vide un tale orrore?.

E per tradire ancor più impunemente
pigliare un nome caro all'alme Suore
come la tua inizial spergiura e mente!



Al signor Francesco Hayez 1822

Già vivo al guardo la tua man pingea
un che in nebbia m'apparve all'intelletto:
altra or fugace e senza forme idea
timida accede all'alto tuo concetto:
lieto l'accoglie, e un immortal ne crea
di maraviglia e di pietade oggetto;
mentre aver sol potea dal verso mio
pochi giorni di spregio, e poi l'oblio.

Ad Angelica Palli 1827
Agosto 1827

Prole eletta dal Ciel, Saffo novella
che la prisca Sorella
di tanto avanzi in bei versi celesti
e in santi modi onesti,
canti della infelice tua rivale,
del Siculo sleale
nello scoglio fatal, m'attristi; ed io
ai numeri dolenti
t'offro il plauso migliore, il pianto mio.
Ma tu credilo intanto ad alma schietta,
che d'insigne vendetta
l'ombra illustre per te placata fora,
se il villano amator vivesse ancora.

Per Vincenzo Monti 1828

Salve, o divino, cui largì Natura
il cor di Dante e del suo Duca il canto!
Questo fia il grido dell'età futura;
ma l'età che fu tua tel dice in pianto.

A
Anche per le liriche civili, come per gli “Inni Sacri”

Il “Cinque Maggio” fu composta in soli tre giorni subito dopo che il Poeta ebbe la notizia della morte di Napoleone, avvenuta nell’isola di Sant’Elena il 5 maggio 1821. La notizia fu riportata dalla “Gazzetta di Milano” del 16 luglio e il Manzoni l’apprese il giorno dopo nella sua villa di Brusuglio. Ne fu talmente scosso che per tre giorni non pensò ad altro e sentì impellente il bisogno di scrivere qualcosa sull’avvenimento. Si racconta che la moglie Enrichetta, per calmargli l’agitazione e propiziargli la serenità d’animo necessaria all’ispirazione, gli suonasse al piano brani delicatissimi di musica classica. Ultimata l’ode, il Poeta la inviò, come d’obbligo, alla censura per chiedere la licenza di pubblicarla. Come aveva previsto, però, la licenza gli fu negata, ma la lirica circolò ugualmente e largamente grazie ad un espediente usato dal Manzoni: egli ne aveva mandate alla censura due copie nella speranza che una venisse trafugata da qualche funzionario di polizia, come infatti avvenne.
L’anno successivo l’ode fu pubblicata a Lugano insieme con una traduzione in latino di tal Pietro Soletti di Oderzo, ma già prima aveva avuto l’alto onore di essere tradotta in tedesco dal Goethe, che pubblicò la sua versione sul giornale “Ueber Kunst und Alterthum”. Nell’agosto del 1822 lo stesso Goethe recitò la sua versione alla corte di Weimar ed ecco come il Consigliere Gruner descrive l’avvenimento: «Il gran poeta era quasi trasfigurato e commosso, i suoi occhi mandavano scintille, la precisa accentuazione d'ogni parola e insieme l'espressione m'incantavano; e quando ebbe finito, ci fu un momento di pausa. Ci guardammo a vicenda, e leggemmo il nostro entusiasmo l'uno negli occhi dell'altro. Non è vero, riprese il Goethe, non è vero che Manzoni è un grande poeta? Io vorrei, gli risposi, che Manzoni fosse stato presente a questa declamazione: egli avrebbe avuto un ampio compenso dell'opera sua». Il Manzoni pubblicò l’ode solo nel 1845.
Dopo aver descritto lo stupore con cui la terra accoglie la notizia della morte di un Uomo che sembrava immortale e dopo aver precisato che il proprio genio poetico si è conservato “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio” durante tutta la vicenda napoleonica fatta di alterna fortuna, il Poeta raccoglie in poche rapide immagini le tappe salienti della straordinaria esistenza di Napoleone e le caratteristiche fondamentali della sua personalità eccezionale, cui si sottomisero, come aspettando il fato, due secoli, l’un contro l’altro armato. Fu vera gloria?, si domanda il Poeta.
Egli non osa giudicare e rimanda ai posteri l’ardua sentenza, e corre invece a scrutare nel segreto di quella grande anima allorché sparve dalla storia e chiuse nell’ozio i suoi estremi dì. E la coglie nei momenti disperati dei ricordi, dai quali lo trarrà la benefica mano della Fede per avviarlo, attraverso i floridi sentieri della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
L’ode non poteva terminare che con una commossa esaltazione della “Bella Immortal! benefica / Fede ai trionfi avvezza!”: conclusione che ha indotto qualche critico di riguardo a classificare quest’opera piuttosto come un Inno sacro che come un’ode civile. «La Pentecoste è l'atto di fede nell'avvento del dono eterno della redenzione, e cioè la fede nella possibilità di un'eterna purificazione e santificazione della nostra vita dolorosa - scrive Mario Sansone -. Nel Cinque Maggio è il ritrovamento, nel canto celebrativo di un altissimo personaggio, e cioè in una particolare e concreta situazione e realtà, di cotesta consolatrice giustificazione del dolore e del dramma del mondo... Napoleone ripercorre le vicende della sua vita, che si parano innanzi a lui come assurde nelle loro immense contraddizioni. L'enorme interrogativo della storia: che sono, che valgono, a che corrono le vicende e le opere degli uomini? si para innanzi alla dolorosa solitudine dell'eroe. Egli non sa a che cosa sia valsa la sua opera, e qual demone lo abbia mosso; e che cosa infine valga questo immenso andare del mondo. Nell'interrogativo napoleonico palpita il gran cuore del poeta: l'oscuro dramma del cuore del Manzoni qui si risolve, e l'anelito segreto covato per tanti anni nell'ansiosa solitudine dell'anima finalmente si libera: il dolore, la morte, la decadenza, la solitudine, l’odio sono accettati e scontati. Così vuole Dio, così ha stabilito e ordinato Dio. E Dio è qui la legge stessa e il ritmo del mondo. La storia esce dal caos informe e si ordina, il moto assurdo diventa destino, e il puro urtarsi delle forze diventa legge».


Le 100.000 lire, dette "Manzoni"
emesse dal 1967 al 1979