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ALDA MERINI


DELIRIO AMORO

Elaborazione di
Licia Maglietta
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Tutto su mia madre Alda Merini
_________

di
Emanuela Carniti
__________________
ALDA MERINI  - DELIRIO AMOROSO



































FINE

da  DELIRIO AMOROSO

.............................................

Allora ti dedico un canto, e dentro questo canto è come un pugno la tua domanda quando mi chiedi: «Com’ è che sei trascorsa dalla verità alla follia?» Non lo so, non voglio saperlo, è così bello perdersi.

Tangenziale dell’ ovest,
scendi dai tuoi vertici profondi,
squarta questi ponti di rovina,
allunga il passo e rimuovi
le antiche macerie della Porta,
sicché si tendano gli ampi valloni
e la campagna si schiuda.
Tangenziale dell’ ovest,
queste acque amare debbono morire,
non vi veleggia alcuno, né lontano
senti il rimbombo del risanamento,
butta questi ponti di squarcio
dove pittori isolati
muoiono un mutamento;
qui la nuda ringhiera che ti afferra
è una parabola d’oriente
accecata dal masochismo,
qui non pullula alcuna scienza,
ma muore tutto putrefatto conciso
con una lama di crimine azzurro
con un bisturi folle
che fa di questi paraggi
la continuazione dell’ ovest,
dove germina Villa Fiorita.
Quando sono entrata
tre occhi mi hanno raccolto
dentro le loro sfere,
tre occhi duri impazziti
di malate dementi:
allora io ho perso i sensi
ho capito che quel lago
azzurro era uno stagno
melmoso di triti rifi uti

==>SEGUE




in cui sarei affogata.
Il manicomio è una grande cassa di risonanza
e il delirio diventa eco
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai,
maledetto, su cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta.
Le mie impronte digitali
prese nel manicomio
hanno perseguitato le mie mani
come un rantolo che salisse la vena della vita,
quelle impronte digitali dannate
sono state registrate nel cielo
e vibrano insieme ahimè
alle stelle dell’arsa maggiore.
Ore perdute invano
nei giardini del manicomio,
su e giù per quelle barriere inferocite dai fi ori,
persi tutti in un sogno
di realtà che fuggiva
buttata dietro le nostre spalle
da non so quale chimera.
E dopo un incontro
qualche malato sorride
alle false feste.
Tempo perduto in vorticosi pensieri,
assiepati dietro le sbarre
come rondini nude.
Allora abbiamo ascoltato sermoni,
abbiamo moltiplicato i pesci,
laggiù vicino al Giordano,
ma il Cristo non c’era:
dal mondo ci aveva divelti
come erbaccia obbrobriosa.
Come bufali stanchi
aggregati a impossibili disegni
noi viviamo alla macchia,
la nostra religione è la follia
il nostro vitello d’oro è Nicola Crocetti.
Come bufali stanchi
che inseguono terre promesse

==>SEGUE

mossi all’attacco della paura
corriamo per immense praterie
bofonchiando non so quali preghiere,
noi che siamo soli per gobbe diverse
non abbiamo tempo di sognare l’amore
e pensiamo solo alla fuga
e come bufali stanchi,
fra le orme del nostro deserto,
a volte ci buttiamo per terra
e il nemico ci uccide.
Al cancello si aggrumano le vittime
volti nudi e perfetti
chiusi nell’ignoranza,
paradossali mani
avvinghiate ad un ferro,
e fuori il treno che passa
assolato leggero,
uno schianto di luce propria
sopra il mio margine offeso.
Forse bisogna essere morsi
da un’ape velenosa
per mandare messaggi
e pregare le pietre
che ti mandino luce;
per questo io sono scesa
nei giardini del manicomio,
per questo di notte saltavo
i recinti vietati
e rubavo tutte le rose... .
e poi... .
prima di morire al mio giorno
o notte, o lunga notte
di solitudine assente,
o devastati giardini
dove io sola vivevo
perché 1’indomani sarei
morta ancora di orrore
ma la sera, oh la sera
nei giardini del manicomio
a volte io facevo all’amore
con uno disperato come me
in una grotta di orrore.

==>SEGUE


Le mie impronte digitali

Le mie impronte digitali
prese in manicomio
hanno perseguitato le mie mani
come un rantolo che salisse la vena della vita,
quelle impronte digitali dannate
sono state registrate nel cielo
e vibrano insieme
ahimè
alle stelle dell’Orsa maggiore.


Il mio primo trafugamento di madre
avvenne in una notte di estate
quando un pazzo mi prese
e mi adagiò sopra l’erba
e mi fece concepire un fi glio ...
Oh mai la luna gridò tanto
contro le stelle offese,
e mai gridarono tanto i miei visceri
arsi da quell’impura passione
né il Signore volse mai il capo all’indietro
come in quell’ istante preciso
vedendo la mia verginità di madre
offesa dentro un ludibrio.
Il mio primo trafugamento di donna
avvenne in un angolo oscuro
sotto il calore impetuoso del sesso.
Poi quel bimbo mi fu tolto dal grembo
e affi dato a mani più ‘sante’
ma fui io ad essere oltraggiata
io che salii sopra i cieli
per avere concepito una genesi.
Il piede della follia
è macchiato di azzurro,
con esso abbiamo migrato
sui monti dell’ ascensione,
il piede della follia
non ha nulla di divino
ma la mente ci porta
lungo le ascese bianche
dove flotta la neve

==>SEGUE


non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
Iddio ti compariva
e il tuo corpo andava in briciole,
delle briciole bionde e odorose
che scendevano a devastare
sciami di rondini improvvise.

Quando ci mettevano il cappio al collo
e ci buttavano sulle brandine nude
insieme a cocci immondi di bottiglie
per favorire l’autoannientamento,
allora sulle fronti madide
compariva il sudore degli orti sacri,
degli orti maledetti degli ulivi.
Quando gli infermieri bastardi
ci sollevavano le gonne putride
e ghignavano, ghignavano verde,
era in quel momento preciso
che volevamo la lapidazione.
Quando venivano inchiodati in un cesso
per esser sottoposti alla Cerletti,
era in quel momento che la Gestapo vinceva
e i nostri maledettissimi corpi
non osavano sferrare pugni a destra e a manca
per la resurrezione degli uomini.
Ma la Gestapo noi adesso vogliamo colpirla
e vogliamo instaurare la ghigliottina
ed anche la rivoluzione francese,
proprio sul patio ove sorgeva l’oggetto infame
delle nostre vicissitudini di uomini,
la ghigliottina sorda dal vorticoso silenzio
per le teste degli psichiatri adunchi.
Noi vogliamo vederle rotolare per terra
come delle palle da ping pong.
A lungo fummo calati nelle racchette del gioco,
a lungo fummo palle volo, giochi di baseball.
Adesso basta, vogliamo giocare anche noi
e io che amo zappare la terra
costruirò questo campo per i ludi gioiosi dei pazzi.
lo canto le Donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro ‘non follia’
il canto di Giulia io canto riversa su un letto

==>SEGUE


cresce il sambuco,
geme l’agnello;
abbiamo attraversato ponti
esaminato misure,
e quando l’ombra cupa
del delirio incombeva
sulla nuca profonda
noi chinavamo il capo
come sotto una legge,
e la legge mosaica
noi l’abbiamo composta
ricavando spezzoni
dagli altipiani chiusi;
ecco, il nostro trionfo
viene giù dalle montagne
come larga cascata;
noi siamo restati
angeli uguali a quelli
che in un giorno d’aurora
hanno messo le ali.
Laggiù dove morivano i dannati
nell’inferno decadente e folle
nel manicomio infi nito,
dove le membra intorpidite
si avvoltolavano nei lini
come in un sudario semita,
laggiù dove le ombre del trapasso
ti lambivano i piedi nudi
usciti di sotto le lenzuola,
e le fascette torride
ti solcavano i polsi e anche le mani,
e odoravi di feci,
laggiù nel manicomio
facile era traslare
toccare il paradiso.
Lo faccvi con la mente affocata,
con le mani molli di sudore,
col pene alzato nell’aria
come una sconcezza per Dio,
laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio

==>SEGUE



la cantilena dei Salmi, delle anime ‘mangiate’
il canto di Giulia aperto portava catene pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio.
Canto quei pugni orrendi dati su bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia.
Canto la stalla ignuda entro cui è nato il ‘delitto’
la sfera di cristallo per una bocca ‘rnagata’.
Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile a un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido di amore come in qualsiasi donna.

==>SEGUE

Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua defl orazione su un letto di psichiatria,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.
Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfi orava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.
Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.
Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva ad un porto.
Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violento degli infermieri bastardi.
Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudi scio cercava gli inguini dolci.
lo canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le donne.
lo canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercè di Caino
e canto il mio dolore d’esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita
per via della poesia.

L’uccello di fuoco
della mia mente malata,
questo passero grigio
che abita nel profondo
e col suo pigolìo
sempre mi fa tremare
perché pare indifeso,
bisognoso d’amore,
qualche volta ha una voce
cpsì tenera e nuova
che sotto il suo trionfo
detto la poesia.

==>SEGUE






O poesia, non venirmi addosso,
sei come una montagna pesante,
mi schiacci come un moscerino;
poesia, non schiacciarmi,
l’insetto è alacre e insonne,
scalpita dentro la rete,
poesia, ho tanta paura,
non saltarmi addosso, ti prego.

lo sono il tuo testimone
sono cieco come Omero
ma ho mille occhi come Argo
anche se mi siedo su di un piedistallo
e sono nudo di silenziosa virtù
ti ascolto e so che tu fremi
perché sai che io ho veduto
e tu hai avuto la tentazione
di togliermi l’unico occhio che avevo
e lo hai quasi fatto
poi hai sentito il bisogno di colpirmi alle gambe
e non ho più ballato
mi hai messo le scarpe ai piedi
quando fuggivo nuda tra i prati
hai anche piantonato la mia povera mente
ma rimango comunque il tuo testimone
hai affl itto i miei amori con mille soste
mi hai tagliato le foglie
e persino il ventre fonte di ogni desiderio
e piacere
mi hai fatto deridere da uno storpio
cantare da una musa stonata
affl iggere da misere presenze di mercato
ma io rimango il tuo testimone
sono un testimone alto alato
che vola oltre la tua possibilità di mescita
e di fatto tu mesci vino amaro
ma sono sempre il tuo testimone
tu sei il male in persona
ma chissà perché
sei anche. il mio privato endecasillabo
io sono il tuo testimone
e tu sei il mio cuore.
Ogni mattina il mio stelo vorrebbe levarsi nel vento
soffiata ebrietudine di vita,

==>SEGUE

ma qualcosa lo tiene a terra,
una lunga pesante catena d’angoscia
che non si dissolve.
Allora mi alzo dal letto
e cerco un riquadro di vento
e trovo uno scacco di sole
entro il quale poggio i piedi nudi.
Di questa grazia segreta
dopo non avrò memoria
perché anche la malattia ha un senso
una dismisura, un passo,
anche la malattia è matrice di vita.
Ecco, sto qui in ginocchio
aspettando che un angelo mi sfi ori
leggermente con grazia,
e intanto accarezzo i miei piedi pallidi
con le dita voglio se d’amore.
   

Invito quindi coloro che ci seviziano in nome di un certo prestigio, avallato a volte da una laurea funesta e da un pretestuoso piccolo diploma di operatore sociale, a rendersi conto della propria nullità umana. Anch’io ambivo a quel pezzo di carta che forse un giorno mi avrebbe strutturata, ma poi nacque la poesia. Chi maledire di più fra i due non lo so. È rimasto un corpo tenero, forse troppo, che non si ricorda neanche più, dopo tanti anni di sapore delittuoso e cattivo, di avere concepito l’amore in fragilissime notti, quando la luna discendeva, solo livello di delirio. lo non venni marchiata dal manicomio, ma dal-l’amore. Un amore che mi trovai addosso come una cosa grigia e tremenda. Un amore che era una voragine, in cui un uomo, peccaminoso e contratto, mi aveva mormorato invece che preghiere cattive parole d’amore violento. E io rimasi scissa in due come un albero, che non potendo crescere più, viveva a stento sotto gli occhi rigorosi di una madre inutile, perché io ero ormai affi data al caso.
Se tu dovessi fare l’amore con me entreresti nella mia setta del dubbio. Tu, non andare al sole, potresti generare dei vermi, perché l’amore genera sempre. Quando vedrai la mia pelle chiara e luminosa, ricorda, caro, che ti trovi davanti al cadavere di colei che è stata dissepolta e offesa. Lungi dal darmi delle notti d’incanto, dammi una sepoltura adeguata, qui, dove arde la caldaia numerica dei sogni di Aristotele, dove aspettiamo colei che non è riapparsa, il cui cadavere giace con me ogni notte.
lo non so nominarti o maledirti, dopo quell’incontro in cui guardasti rapido negli occhi la scommessa d’amore che avevi fatto a rappresaglia impura del pensiero, e hai creduto ai malevoli e lubrichi inganni della sorte. Fatto fi ero dell’ombra, mi hai scavato in volto dune di pianto.
Neanche il mio sapere ti ha arenato alle soglie del destino. Perché mi hai fatto male? Ero una palla di pensiero, sapiente e colorata, perché non hai giocato con il mio amore? Ci sono momenti di effusione imprecisa che valgono la sete eterna. In ogni storia d’amore che si rispetti, in ogni storia di fede, in ogni storia di dubbio, c’è sempre un portiere. Portiere fu anche San Pietro. Ma il portiere è sempre sinistro. Il mio è orrido, ma la matrice dell’ orrore è anche una matrice di vita.
Qual è quel miele assoluto, benefi co, quel miele che non tiene al suo centro un tocco magistrale di veleno? Anche nella medicina migliore, la più buona, ottimale e studiata, c’è sempre una piccola dose di arsenico. Il portiere è il mio arsenico. lo, che sono un po’ come Socrate, me lo bevo avidamente: se sia amore non lo so.
So soltanto che il portiere è il pesce d’oro dell’editoria, perché tutte le ispirazioni vengono, purtroppo, dalla terrestrità, dall’impotenza o dalla massima potenza del pesce vivo. E senza il portiere non si potrebbe né inventare né distruggere, né sognare e neanche pregare, perché il portiere, per cattivo che sia, è sempre il lungimirante Giuda. Quando costui non riesce a possedere una donna, vomita in calici apparentemente puri il suo bisogno d’amore. Così vorrebbe possedermi, e fare di me un’adepta di satana. Un giorno io l’ho baciato, innocentemente, e da quel giorno anch’io sono stata presa nella morsa della rovina. Che lui poi si impicchi ad un albero maestro o che si metta a mangiare ravanelli in un prato dorato o che si ingozzi di cultura pornografi ca, cosa importa?
Se il mio adorato Richard, con la sua stupenda e cantabile bellezza, sapesse che le sue radici divine poggiano nel ventre inverecondo del mio portiere, ne avrebbe orrore. Ma così è. Ogni fiore olezzante e tenero ha il suo sterco. Il mio salumiere mi guarda con riverente rispetto, so che mi ama, che ammira la mia anima e il mio silenzio. A volte mi invita a ridere e io queste cose le faccio con piacere, per compiacere gli altri. L’altro giorno un frate mi disse: - Quante cose belle ha posto Dio nella sua anima! Ci ha mai pensato? lo gli ho risposto di no, che ero paga e felice di questa dimenticanza. Gli dissi anche che la santità non va guardata in faccia, altrimenti si squaglia, come per la favoletta del Dio Amore. Allora il prete mi ha accarezzato la mano e mi ha detto: - Sei ancora una bambina -. È vero, e sono corsa fuori. Ma quel prete non ha capito una cosa, che mentre lo guardavo pensavo di lui che era un uomo stupendo, da mangiarsi di baci.
Ho una fame chiara, violenta, una voglia di amore sugli occhi. Tutti noi siamo violenti perché siamo incatenati. Un giorno di demenziale purezza andai da un frate non ancora converso. Era bellissimo. Pareva Sant’ Antonio da Padova. Gli dissi: - Padre, sono innamorata -, ed egli mi sgridò come una buona mamma. - Sapete Padre - continuai - sono venuta perché vorrei un fi glio. Il Padre era bello, con un incarnato roseo che faceva pensare al paradiso. Citando una mia vecchia poesia, dissi: - Gli inguini sono la forza dell’anima -r-, Probabilmente alla parola «inguini» il senso religioso del santo Padre si sconvolse. Figliola - disse, - volete davvero un figlio? - Si, con tutte le mie forze. L’avrete. Se pensate a Sant’ Anna, che ha partorito a novant’ anni, vi potete consolare. A vrei voluto obiettare che San Gioacchino non l’avevo trovato, ma mi parve che intendesse proporsi lui. Mi sentii una lunghissima messa che mi portò alla depressione più profonda. Ricevetti la santa comunione e l’ostia mi andò a sbattere contro le gengive, facendo un peccaminoso rumore. Mi vergognai come una ladra. Alla fine un padre diacono richiuse la porta della chiesa e io ne uscii ancora una volta illibata e demente.
Pare che Giuseppe Verdi non avesse le sensazioni epidermiche, e che quasi ogni giorno si affi dasse al barometro, come noi ci affi diamo all’oroscopo. Forse mi sbaglio: io non ho buona memoria. Comunque io, in pieno agosto, porto il cappotto. Una volta un vichingo dell’ amore riuscì ad entrare nella mia ben paludata fortezza di follia letteraria e mi invitò a levarmi il cappotto, il vichingo era bellissimo. lo, matura e assonnata vittima di una sclerosi. Ma il paletot non volevo levarmelo. Dopo tre mesi di assiduo corteggiamento cominciai a pensare che il giovane vichingo volesse vedermi nuda, e la cosa non mi dispiaceva. Appena mi levai il paletot, guardandolo rapita, il vichingo dalla mano lesta lo agguantò, fuggendo poi a gambe levate e lasciandomi lì con una rabbia erotica cinquantenne, fottuta, inaudita.    
==>SEGUE

L’amore per il mio Operatore Psichiatrico è stato aspramente combattuto. Però ci fu un tempo in cui, quando mi svegliavo, nella mia mente cantava l’uccello di fuoco. Questo uccello, stranamente, venne irretito da credenze magiche, da certi fumi ancestrali, da catene di colpa inverosimili. Oggi questo uccello non canta più e le sue penne, quando mi si rivolta nel cuore, mi fanno un solletico così intenso che me ne debbo andare. La mia dottoressa lo chiama «allarme biologico». lo lo chiamo disturbo psicomotorio. Ma lo chiamo anche voce veniente, veggenza postulante, veggenza querula, veggenza divina (ora che sono diventata atea per eccesso di dolore, e Dio mi dà fastidio e a volte lo considero osceno). I miei amori sono stati grandi come la morte. Inutile dire come li ho concepiti. A volte è bastato un sorriso, a volte un tono profondo. Ci sono donne che concepiscono figli con poca fatica, per predisposizione uterina. La mia mente è così: ha l’utero basso, e basta un sorriso o un’ assenza perché lei concepisca un figlio. Ha concepito anche figli degeneri, figli gobbi e storti, gialli, viola, scarlatti. Ha concepito anche il manicomio.
...........................

Purtroppo il sesso non ha mente e pertanto prosegue anche per direzioni sbagliate. Va da sé che la mente si indigna di queste trovate del sesso così comincia la feroce battaglia del ragionar d’amore e ragionare d’amore vuol dire perdere tempo. Il crimine più orrendo è la morte dei sensi la morte degli appetiti, aquile voluttuose e incensurate volano sopra la testa dei poeti e masticano colombe avide di vita, come quella che venne un giorno a morire sul mio letto. Fu un ammonimento che mi venne dal cielo, dove circolano gli aerei impuniti della mia grandezza: aerei che vorrebbero sganciare bombe, perché il delitto nasce dai confi ni dell’ignoranza e dalla grandezza dello sperma usato per strane misture. Poi vorrei raccontare di quel giorno, quando andai da padre R. e mi denudai con forza il petto cantando «Lola che dilati la camicia», e accorsero i frati, accorse anche il padre superiore, e io fui cacciata dalla chiesa. Denudandomi il petto, avevo messo in mostra un mazzo di banconote appena riscosse all’ufficio postale di Via Gorizia. Così non capirò mai se i frati siano stati sconvolti dal mio seno o dalla pensione degli invalidi. Se non avessi avuto attorno tante orribili cose forse non avrei incontrato padre R. e non mi sarei placata nel suo riso dolente. R. era l’acqua del ristoro. Sopra R. piangevo il mio Eterno Poeta, ma anche la mia strada senza ritorno. Gli amori possono essere di tanti tipi: coercitivi, energici, tipo plenilunio, tipo abbandono totale, tipo suicidio. Ma quello che più mi piace è l’amore trionfante della follia, e la follia è una donna. I miei amori cominciano nei tempi futuri. I miei amori non sono mai esistiti, perché loro non ne sapevano niente. Oppure non sapevo niente io e ci siamo amati in silenzio, e in tempi diversi. Il barometro naturalmente ero io. I veri amori sono delle invenzioni, sono dei sogni, sono dei parametri di poesia. Se questo o quell’altro uomo siano veramente esistiti, se abbiano toccato la mia carne, questo è un fenomeno secondario. Il vero amore è lo spirito che si converte in Es, lo spirito che sbaglia rotta. Queste rotte sbagliate del lungo viaggio che condussero Ulisse verso Itaca sono le sirene, contro le quali io non ho avuto l’avvertenza di mettere i tergicristalli. Queste sirene hanno fi nito col farmi avere grossi sbandamenti di tempo e, a volte, di denaro. Gli amori non sono cose eterne e segrete. Gli amori sono cose impossibili, cose che non accadono, cose da niente oppure cose da tutto, che entrano ed escono dalla vagina e che ti violano ripetutamente. Gli amori non hanno sostanza, ma una composizione eterea che passa addirittura dal cuore.
Si può assurgere a sfere di contenzione sudate e terribili che cominciano da un senso di assoluta povertà ed emarginazione in seno all’arte per finire in una resurrezione quasi patologica in seno alla follia artistica. lo ho avuto Grandi Amori. Grandi amori distruttivi come catastrofi che mi hanno presa, violentata e poi abbandonata sul greto della vita. Che gli amori siano colpevoli o no è da vedersi, ed è uno sprovveduto colui che non li riconosce come Spiriti, perché «Amore» è una cosa inventata. Forse non esiste, e se esiste è senza memoria. Ho un letto voluttuoso come quello di Messalina, dotato di ben sei materassi ereditati dalla sorte. Tutti concupi scano il mio povero letto, che è grande e disordinato, ma estremamente pacifi co. Però in quel letto l’amore non si fa, perché inevitabilmente i materassi si dividono e l’amante di turno cade nel mezzo senza più riuscire a liberarsi dal lenzuolo che viene ad avvolgerlo come una specie di sudario. I più audaci hanno provato a ghermirmi e si è sentito un tonfo pesante. Gli inquilini hanno protestato e si sono chiesti: «Ma chissà cosa fa quella lì di notte». Niente, trasportavo materassi dopo che l’aspirante amante se ne era andato via sbattendo pesantemente la porta. L’amore è una cosa diffi cile. L’amore è una cosa rubata. Lui era venuto, una notte, silenzioso e assorto come un ladro che chiede di essere confortato, più che amato. Lo avevo accolto con le mie mani, piene di lacrime e di passione. Era bello e pareva redento. Era colto e pareva disposto a dare la sua cultura: invece voleva uccidermi. E per uccidere una donna non c’è che una maniera: legarle addosso il rimorso a vita e non darle la parte essenziale dell’amore. Lui sapeva che nella mia mente era caduta la censura del non ricordo e per toglierla era necessario un atto sessuale dolce e pieno. Lui lo negò, adducendo chiare scuse non bene precisate perché quell’uomo non voleva essere solo un amante, ma un lutto di Amore. E allora io ho avuto tanti amori e li ho azzerati magari con un sorriso, una pausa, una distrazione.
lo sono malata di tempo musicale e nelle mie sospensioni cosmiche vanno a morire i miei amori. Dentro la musica li ritrovo tutti, quando accendo la radio.

    





Ah se almeno potessi,
suscitare l’amore
come pendio sicuro al mio destino!
E adagiare il respiro
fi tto dentro le foglie
e ritogliere il senso alla natura!
O se solo potessi
toccar con dita tremule la luce
quella gagliarda che ci sboccia in seno,
corpo astrale del nostro viver solo
pur rimanendo pietra, inizio, sponda
tangibile agli dèi ...
e violare i più chiusi paradisi
solo con la sostanza dell’affetto.

O il veleggiare del tuo caldo pensiero
sopra la mia parola
e il tuo dormire selvaggio
accanto al mio seno vivo;
o l’adombrarsi della primavera
quando cade il suono del seme
sulla terra feconda di parola.
Così tu sei l’esempio
del sole mio.

Gli inguini sono la forza dell’ anima,
tacita, oscura,
un germoglio di foglie
da cui esce il seme del vivere.
Gli inguini sono tormento,
sono poesia e paranoia,
delirio di uomini.
Perdersi nella giungla dei sensi,
asfaltare l’anima di veleno,
ma dagli inguini può germogliare Dio
e sant’ Agostino e Abelardo,
allora il miscuglio delle voci
scenderà fi no alle nostri carni
a strapparci il gemito oscuro
delle nascite ultraterrestri.

==>SEGUE



A me piacciono gli anfratti bui
delle osterie dormienti,
dove la gente culmina nell’eccesso del canto,
a me piacciono le cose bestemmiate e leggere,
e i calici di vino profondi,
dove la mente esulta,
livello di magico pensiero.
Troppo sciocco è piangere sopra un amore perduto
malvissuto e scostante,
meglio l’acre vapore del vino
indenne,
meglio l’ubriacatura del genio,
meglio si meglio
l’indagine sorda delle scorrevolezze di vite;
io amo le osterie
che parlano il linguaggio sottile
della lingua di Bacco,
e poi nelle osterie
ci sta il nome di Charles
scritto a caratteri d’oro.

Charles Charlot Charcot,
rimembranza dolce,
vieni tu dall’Andalusia,
vieni tu dal miraggio segreto
del fl orilegio dei sensi?
Charles, Charcot,
tu che hai nel duro cappello
le melodie del gioco,
sei giocoliere o amante?

Ti sei presentato una sera ubriaco
sollevando l’audace gesto
di chi vuole fare cadere una donna
nel proprio tranello oscuro
e io non ti ho creduto
profi ttatore infi ngardo.
Sulla mia buona fede
avresti lasciato cadere il tuo inguine sporco;
per tanta tua malizia
hai commesso un reato morto.

==>SEGUE
   



Una volta ti dissi:
non arrabbiarti, amore,
s’io sono diversa.
Forse sono una colonna di fumo,
ma la legna che sotto di me arde
è la legna dorata dei boschi,
e tu non hai voluto ascoltarmi.
Guardavi la mia pelle candida
con l’incredulità di un sacerdote,
e volevi affondarvi il coltello
e così la tua vittima è morta
sotto il peso della tua stoltezza,
o malaccorto amore.
Prendevo in giro l’ebrietà della forma
e sapevo che ero di lutto,
eppure il lutto mi doleva dentro
con la dolcezza di uno sparviero.
Quante volte fui scoperta e mangiata,
quante volte servii di pasto agli empi;
e anche tu adesso sei empio,
o mio corollario di amore.
Dov’è la tua religione
per la mia povera croce?

Non ho altro da dirti, ché altrimenti
morirei dissanguata di parole
e peri tura come vuole Iddio,
invece col tacere pongo fi ne
alla rovina docile dei sensi
e mi ammanto di rapido calore.
Parlando non si rompe quel cristallo
di luce innalzato dallo sguardo
tuo se mi guardi, mio adorato nume?

Ogni giorno che passa
fi orisce un usignolo
di bel canto sul ramo,
che fa qualche richiamo
modesto richiamo
alla povera vita,
usignolo che canta
di povertà infi nita.

==>SEGUE





   


Ogni giorno che passa
alza questo sipario
di perpetua baldanza
ed ecco il calendario
della vita che passa.
Ogni giorno è una zolla
che rimuove la terra
ma piantarvi il tuo seme
che fatica superba!

Dimmi almeno che oscura meraviglia
già ti prende di me che trovi bella
questa scommessa ed umile giunchiglia
che già ti paragona ad una stella
Dimmi che me divina e me presente
senti dentro il tuo letto di piacere
Dimmi che un bacio fuga dolcemente
tutte le smanie e tutte le chimere.

Mi sono innamorata
delle mie stesse ali d’angelo,
delle mie nari che succhiano la notte,
mi sono innamorata di me
e dei miei tormenti.
Un erpice che scava dentro le cose,
o forse fatta donzella
ho perso le mie sembianze.
Come sei nudo, amore,
nudo e senza difesa:
io sono la vera cetra
che ti colpisce nel petto
e ti dà larga resa.

Ed era un mattino bugiardo
uno dei tanti mattini
in cui entrai in un nefasto sogno:
era un sogno di pesanti paure,
di zolle devastate
era il sogno di un impossibile amore.
Le nostre mani furono disserrate
schiodate come le mani del Cristo

==>SEGUE
    


inutili furono i nostri abbandoni,
qualcuno ci ferì alle spalle
non so chi, non so chi
forse una forza umana
forse la forza del destino
forse tu stesso, amore,
mi hai colpita alle spalle.

Sul carme dove poggia la mia vita
molto distante dalle tue parole
io mi aggroviglio dentro un po’ di sole
io per te sono donna e san rapita rapita
dentro mistiche mie aiole
dove la primavera è sì fi orita
ch’io grondo acqua di lacrime e poi sole.

Se Tu mi hai posto in grembo e nella mente
questo seme dolcissimo d’amore,
versa sopr’ esso un’ aria che lo allevi
e che gli dia piii facile respiro!
Se mi hai dato l’amore come parte
di Te che sei la Parte della vita,
fa che io trovi il calice piùmio,
il più vasto, il più ricco e desolato
per colmarlo di me, fa che lo trovi.
Pietro!

Il peso di una carezza
può essere un segno d’alba,
il crisma del tuo destino,
la donna che alla fonte
dolcemente si inclina,
taglia netto il suo solco
di costante preghiera,
e così se mi appoggio
alla tua mano pura
mi si leva dentro l’alba
dentro si alza il cielo,
ma perché nell’amore
sì forte mi raggelo?

==>SEGUE
    


Tu mi domandi per sempre,
ma io non ho vita continua;
ti nutrirei di attimi soltanto.
Sono l’apparizione che dilegua,
e il tempo che intercorre fra due tappe
è una tregua a favore della morte.
lo vivo nello spazio di un amplesso:
tu stesso mi maturi senza accorgerti
sotto il tepore delle tue carezze ...
Ma ti confesso, e credimi:
non c’è forma di donna che continui,
dentro di me, il rovescio dell’ amante.

Tu insegui le mie forme,
segui tu la giustezza del mio corpo
e non mai la bellezza
di cui vado superba.
Sono animale all’infelice coppia
prona su un letto misero d’assalti,
sono la carezzevole rovina
dai fecondi sussulti alle tue mani,
sono il vuoto cresciuto
sino all’altezza esatta del piacere
ma con mille tramonti alle mie spalle:
quante volte, amor mio, tu mi disdegni.

E di queste insaziabili vergogne
io non dirò più nulla, ancora appesa
al mio muro di saturo stupore
è la mia fede, e non ricordi caro
il nostro mutamento e la vergogna
d’essere ignudi dentro ad un destino.
Così maleodorante ci rimane
nel grembo questo trucido ricordo,
e non rammento, non ricordo caro
come tu fosti e come ti conobbi.

Da questi occhi cerchiati di dolore
che ancora non Ti vedono, Signore,

==>SEGUE


riflesso dentro il mondo,
salvami Tu: sepolta sotto il ciglio
ho una vena di sguardo fuggitiva,
grave di intelligenza,
pallida di tremore inopinato.
Toglimi a me che ho fatta rete intorno
alle stesse bellezze che mi hai date,
che ho mutilati con stoltezza viva
i margini della forza.
O Padre, o Amico, perché vuoi sepolta
entro la tomba del mio stesso nome
me cosciente, me viva
e me, perennemente innamorata?
Se qualcuno cercasse di capire il tuo sguardo
Poeta difenditi con ferocia
il tuo sguardo san cento sguardi
che ahimè ti hanno guardato tremando.

lo ho paura. Ma che cosa è la paura? È l’amore, è la poesia e tutto ciò che elimina ed assorbe. La paura è tutto ciò che mi tiene prodigiosamente astratta alla vita. Quando dico «quello mi fa paura», intendo dire che mi coarta di passione, e perché uso questo termine non lo so. È un modo come un altro per scambiare i sensi tra poesia e paura.

Lasciami alle mie notti
ed ai miei benefici di peccato,
lasciami nell’errore
se decantarmi è compito di Dio!
So che mi assolverai delle mie pene:
ma ora lasciami umana
col cuore roso dalla mia paura.
Quando sarò bassorilievo al tempo
della Tua eternità, non avrò fronti
contro cui capovolgere la faccia.

Dove le ombre crescono, sin quasi
a traspirare luce, sui portali
del giorno, io soffro la dolente immagine
del mio pallido vivere malcerto.

==>SEGUE



Dove già s’ode stridere catena
rugginosa di brama e di condanna,
so che cadrò dannata dai miei limiti.
Ah, non fate che il sole mi sorprenda
coi suoi giubili pieni
né mostratemi parchi
gioiosamente in crescita di voce.
Nascondetemi i fi ori,
i fedeli sorrisi dei fanciulli,
gli amorosi convegni.
Sospendete la musica e la danza:
se giungo dalle tenebre feroci,
fate che trovi intatto ogni confi ne!
Piango, su questo rettile vellutato e triste
che chiuso nella mia grande dimora
sul ventre dello sciacallo
sull’arpa vergognosa del sogno
che cerco di salvare dai miei grandi argomenti
Piango sulle mie molte agonie
piango sul mare di corallo che mi ha travolto
e piango per il non detto
“Le ragioni del pianto a volte sono stomachevoli
vergognose persino
ragioni senza dimora e senza luce”
Si parla di una sfortuna che ha aggredito
il poeta alle spalle e che lui ha chiamato canzone
Piango perché sono un giusto in un mondo
pieno di tentacoli diversi e mentre mi offro
al piacere, il piacere mi dice che non è
tempo più di parlare per i poeti.
Piango perché quest’ altra persona che è in me
è diventata il mio eco e pure lui, l’amato,
continua a credere d’essere la radice del pianto.
Quanto è in errore costui che non sa che per muovere
la terra occorre una grande vastità di pensiero
e non certo un uomo che cerchi
languidamente una donna,
ma questa radice che si inerpica sulle grandi montagne
voraci della mia pazienza in cui cade il metallo del verso
sciagura disumana.

==>SEGUE


La verità io non te l’ho detta perché non c’è, come non c’è la legge. Chi c’è? Un’altra chimera, un altro sogno, un’altra fi glia non nata, perché ... (e qui ci vorrebbe la psicanalisi per capire come un grembo possa generare fantasmi infiniti). O caro amico vicino e lontano che porgi l’ orecchio al ricordo e all’avvenire, conosci tu il mistero della mia vita? lo no.

La parte del suo dolore
che ciascuno lo beva caldo
in una coppa isolata
solo dai molti amici,
ma la coppa di gioia
che trovi mille serventi
e mille etère accese,
la parte del vino amaro
va bevuta nell’ ombra.
Le mille metamorfosi
le molte primavere perdute
nei giardini del manicomio
adesso io voglio star sola.
Ho concimato due terre
una non ha dato frutto
ma l’altra mi ha dato l’alloro
e con questo cingerò il mio capo di vergine
che ha chinato il collo sul ceppo
perché io sono una martire
e dopo andrò davanti all’altare
povera di ogni memoria
e mi dirò al mio signore
ma adesso, sì proprio adesso
io voglio fi nalmente restare sola.





ALDA MERINI

Amai teneramente dei dolcissimi amanti
senza che essi sapessero mai nulla.
E su questi intessei tele di ragno
e fui preda della mia stessa materia.
In me l’anima c’era della meretrice
della santa della sanguinaria e dell’ ipocrita.
Molti diedero al mio modo di vivere un nome
e fui soltanto una isterica.
Vado fumando questa sigaretta
e il mio tempo, lo spazio e ogni riposo
stento nell’ozio che non più mi affretta
ma intanto brucio questo verde alloro
e qualche forte mio pensiero audace
che mi viene a trovare qual sirenetta.




La bellezza che capita al poeta brutto e deforme
calato nell’ ansia della vita e quando povertà si aggiunge
al dolore della nascita il poeta prova a credere
che il suicidio sia un grande stato di abbandono
invece è la perfezione di ciò che si vede al di là del mondo
ed è Dioniso oscuro che ci invita a brindare alla vita
perché dal momento che non siamo mai stati capiti
noi soli siamo stati le vere persone felici della terra.

Mi credono ignorante. Hanno asserito
che ero una emerita cretina fatalmente
soccorsa da una voce biblica.
lo non posso pretendere
che una mano scavi il mio volto
affl itto dall’ignoranza
né che Dio mi seduca con le sue apparizioni
né che il povero cambi la veste.
In un sol giorno scrivo mille poesie
perché ho l’anima gonfi a d’amore
e mi prevarica l’atto
di una maternità crocifissa.

L’essere stata in certi tristi luoghi,
coltivare fantasmi
come tu dici, attento amico mio,
non dà diritto a credere che dentro
dentro di me continui la follia.
Son rimasta poeta anche all’inferno
solo che io cercavo di Euridice
la casta ombra e non ho più parole ...
Ecco, Franco, la tenera risposta
al tuo dilemma: io sono poeta
e poeta rimasi tra le sbarre
solo che fuori, senza casa e persa
ho continuato mio malgrado il canto
della tristezza, e dentro ad ogni fi ore
della mia casa è ancora la speranza
che nulla sia accaduto a devastare
il mio solco di luce ed abbia perso
la vera chiave che mi chiude al vero.

==>SEGUE
Dalla solita sponda/ del mattino/ Io mi guadagno/ palmo a palmo il giorno:/ il giorno dalle acque così grigie,/ dall’espressione assente./
(Il gobbo, poesia scritta da Alda Merini diciassettenne nel 1948: l’anno precedente c’era stato il suo primo ricovero in clinica psichiatrica)

«Di noi quattro sorelle, io sono la maggiore – nata nel 1955 – e quella con più ricordi. Fino ai miei 6 o 7 anni la vita in famiglia era stata abbastanza gradevole, con momenti belli e dolci. Ma dopo la nascita di Flavia, nel 1958, nostra madre andò in depressione e non le restò abbastanza energia per dare a mia sorella le attenzioni che chiedeva. Flavia fu mandata a vivere per dei periodi dalla nonna materna, e lì cominciò la sua difficile vita di figlia a singhiozzo.
«Il punto di non ritorno, quando la mamma si ammalò davvero, arrivò nel 1966. Io avevo 11 anni, Flavia 8, Barbara e Simona non erano ancora nate. Mio padre, che era un uomo molto chiuso, un giorno disse che usciva per andare a un funerale e tornò dopo due giorni. Non abbiamo mai saputo dove sia stato. Mia madre fu presa da una terribile ansia, lo cercò disperatamente e, quando papà tornò, gli chiese conto di dove era stato. Lui non rispose, scoppiò una scenata violentissima.
«Mio padre non seppe gestire il litigio. Invece di calmarla, chiamò qualcuno al telefono: non abbiamo mai saputo chi. Poi portò me e Flavia dalla portinaia, risalì e poco dopo sentimmo nostra madre che gridava mentre la trascinavano giù per le scale. La sera stessa papà ci portò a Torino, da parenti che quasi non conoscevamo. In poche ore era sparita la nostra famiglia, non avevamo più una casa e nemmeno dei genitori. Quando ci penso, sento dentro le stesse sensazioni di allora: terrore, disperazione, senso di impotenza».


Emanuela Carniti è la prima delle quattro figlie avute da Alda Merini e dal marito, il panettiere Ettore Carniti, uomo schivo e taciturno che la grande potessa aveva sposato nel 1953, a 22 anni. Come le sorelle – Flavia, Barbara e Simona – non si era mai svelata pubblicamente fino alla morte della madre settantottenne, avvenuta a Milano un anno fa, il primo novembre 2009. Solo allora, insieme, hanno deciso di aprire un sito, www.aldamerini.it, dedicato alla madre. Abitano distanti l’una dall’altra, tutte hanno figli. Barbara, nata nel 1968, e Simona, nata nel 1972, vivono appartate e lontano dai riflettori. Flavia si occupa del sito, Emanuela è la memoria storica della famiglia. Questa è una sua rara intervista.


Tu insegui le mie forme,/ segui tu la giustezza del mio corpo/ e non mai la bellezza/ di cui vado superba./ Sono animale all’infelice coppia/ prona su un letto misero d’assalti,/ sono la carezzevole rovina/ dai fecondi sussulti alle tue mani,/ sono il vuoto cresciuto/ sino all’altezza esatta del piacere/ ma con mille tramonti/ alle mie spalle:/ quante volte, amor mio,/ tu mi disdegni.
(Dies Irae, dedicata dalla Merini a suo marito nel 1953)


«Prima di ammalarsi, nostra madre era stata una persona allegra. Forse non aveva una grande capacità materna di comprensione, nel senso che non riusciva a mettersi nei nostri panni, era spesso concentrata nel suo mondo. Io la vedevo scrivere, scrivere, suonava il pianoforte, dava anche lezioni di italiano. Quando scriveva entrava in una sua bolla e noi ci rendevamo conto che si infastidiva se la disturbavamo.
«Eppure, fino alla grande scenata, il rapporto fra i nostri genitori era stato abbastanza buono. Mio padre la portava in palmo di mano, la chiamava “La mia signora”. Era piuttosto lei che lo abbacchiava un po’, ma lui non ne soffriva, almeno non lo dava a vedere. Papà era un uomo tradizionale che aveva bisogno di una moglie tradizionale, di essere coccolato e accudito, e lei non era brava in questo. Ma nonostante ci fosse molta differenza culturale fra loro, non era né geloso né invidioso. Era come se ognuno vivesse in un suo mondo, però si volevano bene.
«Ai primi tempi lui aveva una panetteria e la mamma ogni tanto lo aiutava. Smise quando restò incinta di me, perché dovette trascorrere la gravidanza a letto. Allora mio padre andò a lavorare per altri. Era pagato molto bene, ma mia madre non ha mai saputo gestire il denaro, così lui glielo lesinava. I soldi erano un argomento di discussione continua. Questo però capitava in molte famiglie. E poi la nostra era una casa aperta e vivace, da noi veniva tanta gente. E io ricordo di essere stata a casa di Salvatore Quasimodo.
«La mamma tornò a casa dalla clinica psichiatrica 15 giorni dopo, ma nulla fu più come prima. Io e mia sorella non abbiamo mai chiesto a papà le ragioni di quella telefonata, di quel gesto estremo e così duro. Non avevamo molta confidenza con i nostri genitori, allora non c’era l’abitudine di parlare con i bambini e noi non facevamo domande.
«Quanto a mamma, ha sempre avuto un rapporto labile con la ricostruzione dei fatti e delle date. Era lei che, anni dopo, mi chiedeva chiarimenti e cercava risposte. Una volta mi ha domandato: “Ti ricordi se papà mi tradiva?”. Credo avesse dei sensi di colpa, ma non li ha mai elaborati come tali. Lei scriveva poesie, era il suo modo di vivere se stessa, gli eventi, gli affetti.
«Entrava e usciva dagli ospedali psichiatrici, che non erano ancora quelli umanizzati di Basaglia, ma manicomi duri, repressivi. Lì dentro era facile perdere se stessi. Io a volte la accompagnavo per le visite di controllo e spesso tornavo a casa da sola perché la trattenevano, oppure era lei a chiedere di essere ricoverata. Vederla restare dentro era un trauma e insieme un sollievo, perché a casa lei e mio padre litigavano spessissimo, e a volte si picchiavano pure».


Io ero un uccello/ dal bianco ventre gentile,/ qualcuno mi ha tagliato la gola/ per riderci sopra,/ non so./ Io ero albatro grande/ e volteggiavo sui mari./ Qualcuno ha fermato/ il mio viaggio,/ senza nessuna carità di suono./ Ma anche distesa per terra/ Io canto ora per te/ Le mie canzoni d’amore./
(La Terra Santa, 1984)


«Mia sorella rimase a Torino: non tornò più a casa. Rotture così nette segnano per sempre, soprattutto se sei un bambino, perché da un giorno all’altro ti tolgono tutto quello che conosci e senza dirti perché. Se almeno ci avessero lasciate insieme ci saremmo confortate a vicenda, ma nessuno ci chiese che cosa desideravamo, nessuno ci domandò un parere, decisero i grandi e gli assistenti sociali per noi.
«Restammo insieme solo per poco tempo a Torino, ma non ci piaceva, piangevamo notte e giorno. Quando nostro padre venne a trovarci, pensavamo che ci avrebbe riportato a casa con lui, invece prese solo me, mi portò in istituto, dove rimasi per un mese e mezzo, e lasciò lì Flavia da sola. Non l’ho rivista per anni. Ci telefonavamo, ma raramente. Ognuna di noi era occupata nella propria sopravvivenza».


Emanuela interrompe il racconto, si nasconde la bocca con una mano, gli occhi intensi e truccati di nero guardano fisso un punto nel vuoto. «Questa intervista è durissima. Mi fa rivivere tutti insieme tanti momenti dolorosi… Non credevo fosse così difficile». Serve una pausa. Un po’ di silenzio nella sua casa sul lago d’Orta, colorata di giallo, piena di fiori, di quadri, di foto di Alda Merini, di tende di organza, di sapore orientale, di collane e orecchini vivaci. Poi il racconto riparte.


«Vivevo da sola con mio padre. Mia madre ogni tanto tornava dall’ospedale, litigava con lui, si deprimeva e rientrava in manicomio. Lei nelle liti non cedeva mai, però non si lasciavano. Non era autonoma economicamente, non sapeva dove altro andare. A scuola non avevo molte amicizie: la mamma ci aveva abituato a non invitare bambini perché la casa era piccola e la confusione le dava fastidio. Finii le medie e mi iscrissi a un istituto per segretarie di azienda. Non mi piaceva, avrei voluto studiare lingue, medicina, ma mi dissero che non c’erano abbastanza soldi. Però a scuola stavo bene. Tornare a casa invece non mi piaceva, perché non sapevo mai che cosa avrei trovato.
«Mi fidanzai a 15 anni, lui ne aveva 9 più di me, non ero innamorata. Fu mio padre a buttarmi nel matrimonio, quasi per caso, dopo che il mio fidanzato aveva cercato di placare una lite fra lui e mia madre. Papà gli disse di non farsi più vedere. Poi, guardandomi, aggiunse: “E se vuoi andare anche tu, prendi il tuo bel cappottino, puoi seguirlo”. Lo guardai sbalordita e me ne andai. Ero minorenne, intervenne il tribunale, la situazione si fece difficile, minacciarono di mandarmi in riformatorio. Mi sposai, perché sennò non sarei più riuscita ad andarmene di casa.
«Nel frattempo era nata la terza sorella, Barbara. Ero in casa quando mia madre ebbe le doglie e dopo, siccome lei era depressa, preparavo io il biberon. Diedero Barbara quasi subito in affido, non ha mai vissuto con i miei. Subito dopo la mia partenza mamma restò incinta di Simona, anche lei venne affidata a una famiglia lontana e praticamente non l’abbiamo quasi più vista. Ho sofferto molto per queste due sorelle. Fossi stata più grande le avrei prese a vivere con me. Per anni ho cercato di non pensare a loro, dovevo occuparmi della mia sopravvivenza, ma poi i sensi di colpa riaffiorano e te li porti dietro per sempre».


La vita è grama e deludente assai…/ Ho una placida figlia/ Con gli occhi azzurri/ ed i capelli d’oro/ Che mi sta, cuore mio,/ sempre lontana/ E ha le mani fanciulle/ E il volto bello pieno di ironia/ e mi vuole tanto bene/ Come soltanto se ne vuole/ a un Dio;/ questa fanciulla bella/ che nei liti remoti è dell’Italia/ a me pensa talvolta e mi sorride/ unica stella dentro la tempesta./
(A Barbara, 1980)


«A 15 anni andai a vivere con i suoceri, in una casa isolata sul lago, e lasciai la scuola. Fu un trauma: non c’era nulla, mi sentivo una sopravvissuta. Pensavo solo a tenermi assieme, prendevo quel poco di buono che c’era. A 18 anni, contro il parere di mio marito, sono andata a fare l’infermiera. A 21 ho desiderato avere un figlio ed è nata Sara. Non è stato facile imparare a fare la mamma, lo è sempre quando non hai un esempio da seguire. Tre anni dopo mi sono separata, ed è stato più difficile di quanto pensassi. Così, finalmente, ho inziato l’analisi.
«Nel frattempo era stata votata la legge Basaglia, che chiudeva i manicomi e riformava tutta la psichiatria. Allora ho frequentato un corso da infermiera psichiatrica, lo desideravo fin da quando mamma si era ammalata. Ho dato il concorso, l’ho vinto, ho contribuito ad aprire il primo centro di salute mentale a Omegna. All’inizio bisognava andare a cercare i malati a casa, dopo tutto quello che avevano passato nei manicomi non ne volevano più sapere di camici e infermieri. Poco alla volta gli abbiamo fatto capire che noi facevamo un lavoro diverso, e oggi sono orgogliosa del lavoro che faccio. Lo so: questo mestiere l’ho scelto per la storia che ho. In fondo è sempre così, si curano gli altri per curare anche se stessi, guardando negli altri guardi dentro di te.
«Intanto mia madre era uscita dal manicomio, stava meglio, aveva ricominciato a scrivere dopo quasi vent’anni di silenzio, mi veniva a trovare con mio padre, cercava di starmi vicino, ma io cercavo di starle lontano. Non c’è mai stato un recupero di contatto. Nel frattempo ho incontrato un altro compagno, è nato il mio secondo figlio, Riccardo, mi sono di nuovo separata e mio padre è morto. Era il 1983. Prima di andarsene riuscì a chiedermi solo due cose: se gli portavo delle arance e se ero felice col mio uomo. È morto senza riuscire a domandare mai nulla a nessuno.
«Io sono una da Mulino Bianco. Quando la sera, tornando a casa dal lavoro, vedo le luci accese dentro le case, mi perdo a immaginare famiglie felici che chiacchierano cenando. Mia figlia mi prende in giro per questo, ma credo sia normale per una come me che sognava di essere adottata.
«È stata l’analisi a riconciliarmi con mia madre. L’ho accettata quando ho capito che lei non poteva essere la madre che avrei voluto, quando l’ho vista come persona e non più come madre. Dai genitori bisogna separarsi per imparare a comprenderli e a vedere le loro fragilità. Anche l’entrare a contatto con la malattia mentale mi ha aiutato a capirla e a capirmi. La sua vita non è stata facile.
«Le sue cose non le ho lette tanto. Ho cominciato a farlo dopo che è morta. Una volta le ho chiesto: “Mamma, ma perché ti sei sposata?”. Lei mi ha risposto: “Io volevo farmi suora. È stata mia madre a impedirmelo, mi ha spinto a sposarmi”. Neanche lei ha potuto sempre scegliere il suo destino, però aveva la poesia che l’ha aiutata a vincere il buio. In realtà mia madre è sempre stata sposata con la poesia, è la poesia la luce che l’ha salvata».


Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,/ il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola/ come una trappola da sacrificio,/ è quindi venuto il momento di cantare una esequie al passato.
(La Terra Santa, 1984)


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Intervista ad Alda Merini
di Maria Piacente

L'appuntamento
"Va bene, venga alle due", mi dice Alda Merini al telefono. "No, non con la sua collaboratrice, venga da sola". "Sì, il registratore lo può portare". La incontro sotto casa sua, cinque minuti dopo aver suonato al suo campanello; ero già preoccupata. "Forse non vuole più fare l'intervista", avevo pensato... Un amico, con sollecitudine, l'accompagnava tenendo in mano delle borse; lei era appena un po' provata dalla stampella che, in questo periodo, usa per camminare. Quando si sono salutati ho preso io quelle borse, erano molto leggere; abbiamo fatto due piani a piedi, io salivo davanti a lei. Ogni volta che, al pianerottolo di questa casa sui Navigli, giravo la testa per cercarla, incontravo il suo sorriso e le sue scuse, per il da fare che mi dava. Alda ha un bel foulard, color corallo come un orecchino che porta all'orecchio sinistro; sulle guance, appena accese per la camminata, ha comunque un po' di fard. Gli occhi sono bellissimi e, mentre si sistema per parlare con me, si lamenta un po': non si sente tanto bene, ha male ad una gamba. Le dico che la trovo bene, per davvero, e mentre un po' vergognosa si ritrae, si mette le mani tra i capelli, con un colpo leggero si fa bella. Man mano che parla e mi risponde, o non mi risponde, mi lascia e mi prende, sta in silenzio o accenna ad una canzoncina che mi dice aver cantato insieme a Lucio Dalla a?Ratatatà?, bella diventa davvero ed il suo volto diventa l'incarnazione della sua "Anima Innamorata".

Piacente: ho preparato delle domande, suggerite dalla lettura delle sue poesie che, se non ho interpretato male, parlano ....

Merini: Dei figli?

P.: .... della vita. Io l'ho conosciuta? si ricorda? a Rho, a Villa Burba e, in quell'occasione, le chiesi il perché dell'indicibilità della verità. Può aggiungere qualcosa sull'indicibilità della poesia?

Merini: Mah, la gente farnetica! Ieri ho letto su un libro una cosa essenziale: la poesia è gioia. Piantiamola di creare un alone... Insomma: uno è innamorato, è felice e scrive, se riesce a scrivere! C'è anche chi non riesce a scrivere e pazienza... non è così necessario. E' come se tutte dovessero essere belle come la Sofia Loren. Se non lo sono... pazienza!

P.: Leggendo le sue poesie mi sono sentita toccata dall'autenticità delle emozioni e dei vissuti che lei ha rappresentato.

Merini: ma il mio vissuto non conta.

P.: cosa le succede dopo aver espresso questi sentimenti?

Merini: Niente, né prima né dopo; queste son tutte costruzioni delle donne che han finito per rompermi le scatole.

P.: lei mi ha detto che è stata scelta dalla poesia

Merini: non confondiamo la letteratura con la confessione di S. Agostino adesso non andiamo nel teologico.

P.: E' stata scelta in un senso speciale

Merini: Sì, il vate è un prescelto

P.: Quindi, a Lei è congeniale creare poesia, Le è ....

Merini: ... costituzionale. Il poeta è fatto in un certo modo; io credo che il poeta abbia una certa figura...

P.: in che senso?

Merini: Lo si vede dallo sguardo, ha luce in una certa maniera diversa, è più sensibile, più suscettibile, più solo, più autosufficiente, più permaloso, più orgoglioso, più amoroso, sempre un più, ma non si può insegnare agli altri...

P.: certo, ma è un più che qualcuno sente di più e qualcuno di meno

Merini: ma ci son quelli ai quali non frega niente se c'è il più o il meno

P.: secondo lei, tra creare poesia e creare figli, ci sono punti in comune?



Merini: che domanda! Quante madri non hanno fatto poesie e sono ottime madri.

P.: mi riferivo all'atto del creare.

Merini: cosa c'entra! Lei ha un figlio; su miliardi di spermatozoi, solo uno fa un figlio: è un mistero della natura, come si fa a capirlo... e la poesia è la stessa cosa. Il poeta non può abbassarsi a sentire ogni singolo individuo, parla per una moltitudine! Se poi uno, il suo pensiero, va dietro al mio, è un caso: io non ho scritto per quella persona, ho scritto per me.

P.: per noi, direi.

Merini: per noi, perché Lei se ne è appropriata. Guardi, io mi sono sentita dire che siccome sono stata in manicomio, tanti che avevano delle turbe erano uguali a me. Io benedico i tempi in cui i poeti non venivano avvicinati da nessuno, perché una volta leggevano i testi e buonanotte, L'invasione dell'habitat del poeta è sempre controproducente anche perché ogni persona porta la sua negatività e il poeta è molto suscettibile a questo.

P.: Anche la sua positività, magari.

Merini: ma non ne ha bisogno il poeta della positività, è già positivo lui, semmai è Lei che porta via qualcosa: mi faccia le domande!

Merini: io non la voglio offendere, sto spiegando che ognuno fa delle domande ma, vede, le risposte sono anche casuali: non c'è la profondità che Lei cerca. Il poeta è un povero cristo proprio come Lei, magari meno di Lei, vuole stare in pace, non vuole essere provocato da queste domande, poi dice delle fesserie che non sa neanche lui. Moravia diceva: "... scrivo perché così capisco quello che scrivo", perché anche lui non lo sa

P.: Nel suo libro L'anima innamorata emerge con forza il suo amore per la vita, anche se sempre intriso di dolore, il sentimento di vitalità, di amore per la vita è quasi sconcertante.

Merini: Ma anche lei ama la vita, tutti amiamo la vita

P.: Qualcuno la ama più di altri ...

Merini: La persona non ama la vita quando è acciaccata, malata e deve dipendere dagli altri, ma chi non ama la vita? Lei non è un poeta, ma è la vita che è un poema. Se Lei non la sa far parlare non è colpa mia, se Lei nella vita vede solo il nero, non è colpa mia, non è colpa dell'Alda Merini!

P.: A volte questo forte senso di vitalità crea dell'invidia, l'invidia può attaccare questo sentimento di vitalità?

Merini: Lo può uccidere, è una sorta di maledizione e maledicere vuol dire: dir male, maledire; dire male porta iella, porta molto male! L'invidia per me è un peccato capitale in quanto Dio - io seguo molto il Vangelo, mi piace molto come chiave di lettura della vita? Dice, appunto, che se due bicchieri, l'uno grosso l'altro piccolo, contengono tutti e due abbastanza, sono saturi, devono essere riempiti. Se lei è più bella di me, meglio per Lei, non passerò la giornata a pensare quanto Lei valga più di me, ma piuttosto cercherò di tesaurizzare quel poco che ho facendolo valere molto ai miei occhi, non ai suoi: proprio per non provocare l'invidia.

P.: Lei ha scritto: ".. sempre hanno parlato di invidia - invidia del pene, nella donna ma non hanno parlato di una cosa, letterati compresi, di ciò che una donna ha in sé, la sua favola, la favola della donna ...".

Merini: Perché la donna è una favola, è bella la donna, io le odio le donne in generale, perché quelle che ho conosciuto sono state tremende, mi hanno fatto del male, io ho avuto la disavventura di conoscere donne atroci, che hanno visto quello che io avevo dentro e lo hanno frainteso. Anche Campana... quella che lo ha fatto rinchiudere è stata una carogna che approfittando delle loro liti si è messa dalla parte dell'Aleramo, che nessuno aveva chiamato in causa. Quando è successo il mio ricovero è intervenuta un'altra che non c'entrava niente: ha disfatto il mio matrimonio, la casa, perché la supponenza delle donne ...

P.: Trovo anch'io che ci sia molta invidia tra donne che sembrano amiche

Merini: ma quale amicizia, la parola amicizia non esiste ...

P.: secondo Lei l'uomo ci invidia la capacità generativa ...

Merini: ma no, ce l'ha data la natura

P.: ma lei non pensa che l'uomo è un po' geloso?


Merini: l'uomo è geloso dei figli, perché quando nascono i figli la donna non lo guarda più, perché l'uomo è stupido, vedi la violenza carnale, vedi la considerazione del pene come margine di sicurezza, la donna si appropria del pene involontariamente quando genera ...

P.: e lo cattura.

Merini: no, non ne parliamo, sono temi freudiani ormai superati

P.: a proposito di cose freudiane, io ho letto nella sua Anima Indocile, che la poesia è gioia, è transfert

Merini: è anche dolore a volte!

P.: In Reato di vita lei parla della sua analisi con Fornari.

Merini: Io conosciuto Fornari, mi ha illuminato, era un gran bell'uomo e me ne sono innamorata. Ma non c'entrava niente, forse l'amore è una grande leva di gioia, ma alla nostra età, alla mia... ma l'amore può ancora esserci!

P.: Secondo lei l'amore, la passione, ci può fare comprendere di noi cose che non comprenderemmo?

Qui la Merini si distrae e, con un sorriso, comincia a fare apprezzamenti sulle mie calze, dice che sono davvero belle; le rispondo che mi piace cercarne di particolari e lei ribatte di non riuscire a trovarne di quel tipo. Ci scambiamo qualche informazione ed ecco che riprende, come piena dinuova lena ...

Merini: donne che avevano "intelletto d'amore". Quando la donna partorisce un figlio le si apre una nuova dimensione; questa donna, in quanto donna, viene snaturata e la madre viene messa in una terza dimensione. Lei vedrà che una madre del figlio capisce tutto, sa tutto, lo sente a distanza. Questa fatalità, questo amore tra madre e figlio, che è molto di più dell'innamoramento, è una passione. Ho finito in questi giorni il Magnificat? ... perché, vede, alla Madonna poco importava di S. Giuseppe come maschio, a lei importava di generare ...

P.: Il sacro ed il profano l'hanno sempre accompagnata nella sua vita di artista. Tra qualche mese pubblicherà il Magnificat, per l'editore Frassinelli. Quali sono, a questo proposito, gli elementi di continuità rispetto alle sue prime opere, per esempio, alla Maddalena parla a Cristo? che lei ha scritto per Quasimodo a 16 anni, oppure più recentemente, a "Corpo D'amore, un incontro con Gesù?"

Merini: Io a sedici anni avevo già un linguaggio amoroso molto, come possiamo dire, molto azzardato ed ero una ragazzina che non conosceva niente dell'amore. Però avrei voluto l'amore in quel modo, e l'ho descritto, però ero assolutamente vergine, come la Madonna, non conoscevo uomo. Però - e questo è stato il miracolo della mia bellissima poesia che ha fatto gridare al miracolo anche i critici - io ero come i bambini, spregiudicata nel linguaggio. Non sapevo niente, non avevo baciato mai neanche un uomo. Fatto sta che poi, quando ho fatto l'amore con Manganelli, Manganelli mi ha detto: Ma tu eri vergine?! Ha fatto quello che ha fatto Lei, aveva letto le poesie alla lettera. E ha capito che Alda Merini era una sempliciotta, una donna qualunque. E' un dono, vede, è una cosa che io ho descritto così bene che gli altri ci han creduto ... Infatti scrivo la poesia come menzogna, perché è una menzogna, la poesia è anche una bugia che il poeta racconta a se stesso, raccontando delle grosse favole a sé e agli altri. E' un po' un imbroglione, vero?

P.: Penso di sì... Mi vuol parlare della sua ultima fatica, Il Magnificat? So che in quest'opera Lei evoca la Vegine Madre, indagando soprattutto il suo apetto più umano e femminile: la maternità...

Alda Merini, si mette a ridere e mi dice: "Ma, chi la manda?". Mentre le rispondo la sua risata si fa più cristallina e aggiunge: "Mi manda Picone!"'. Mi metto a ridere anch'io. Ridiamo insieme. Intanto comincia a raccontarmi una storia, divertente ma collocata su quel labile confine dove il farsesco ed il tragico si intrecciano in modo indistricabile.

Merini: Il nostro prevosto, ha ricevuto una lettera anonima perché le campane davano fastidio. Hanno fatto un'indagine per capire a chi davano fastidio. Forse ai bambini? Ma i bambini si alzano presto la mattina, vien fuori che c'è un matto qua, dove abito io, che quando suonano le campane picchia la moglie. Ridiamo insieme. "Fantastico", dice lei. "Fantastico" dico io. E mentre ancora ridiamo di gusto lei prosegue ...

Merini: Allora per evitare le botte la moglie ha mandato la lettera anonima al prevosto.

P.: Davvero?!

Merini: Davvero! Quando il marito sente le campane, si ricorda quando ha sposato la moglie, prende un bastone e giù botte a tutto spiano! Tutti qui sono impauriti, e non vogliono sentire le campane! Io mi domandavo perché non suonavano più le campane; finché io, a mia volta, faccio una telefonata al prevosto e gli dico: Lei, che prete è? Non suona più neanche le campane!? E lui mi ha spiegato che c'era una ragione!

P.: E' stato sensibile il prevosto, in questa situazione!


Merini: Ma roba da matti! Da quando hanno chiuso i manicomi, hanno messo fuori tanta gente, che ha questi odi patologici... l'invidia è una patologia anche grossolana

P.: E' un sentimento....

Merini: No, non è un sentimento, è un non sentimento, perché il sentimento è sempre amore. Il sentimento è come una grande pace, una pace che prende dentro gli uomini. L'amore di Dio non fa discriminazioni . L'invidia invece è un negare quello che è evidente. E allora si arriva all' omicidio, si arriva alla gelosia, si arriva ai furori uterini... E infatti, secondo me, gli ebrei, quando dicevano che la donna era impura, non avevano tutti i torti, ma neanche i talebani quando la coprono, perchè più è scoperta più fa delle cazzate. No? Cosa ne dice lei?

P.: Vuole provocare un po'? Però, in effetti, un'eccessiva esposizione del corpo, non è poi così seducente: magari, è meglio un po' di veli....

Merini: Tutta questa esposizione di seni e di gambe, è come se una volesse andare in braccio alle persone.. Mi ricordo un fatto, successo a S. Valentino. Una delle solite saccenti giornaliste che dice ad una anziana: "Lei, nonna, conosce l'orgasmo?". No guardi, dice la nonna, ho sempre lavato con il bucato a mano. E' stata molto bella! Una volta le donne venivano poprio adoperate dai mariti; il marito era anche l'educatore sessuale. Io ho avuto certe patologie, le ho viste. Quando una donna rimaneva vedova, come è successo a me, magari conosceva il carpentiere o un tale, e scopriva una nuova dimensione, andava fuori di matto perché non pensava che, oltre alla 'scopata' maritale, ci fosse il piacere della carne. Ecco quello che io dico, che si chiama peccato, ma non è un peccato, è una dimensione del piacere della carne non finalizzata alla procreazione. E' un amore carnale, una passione che può portare alla morte forse; in questo io credo che la Chiesa abbia ragione di preservare le persone da questi grossi innamoramenti per non farli cadere in basso, per non farli rovinare.

Qui la poetessa si concede una digressione tra i diversi modi di percepire l'umana fragilità e l'intreccio tra queste debolezze e la necessità di un ruolo etico della Chiesa allo scopo di contenere i danni possibili della passione incontrollata: il percorso la porta anche fino a S.Agostino, il problema della Trinità, i misteri della fede. Le ricordo come in Corpo d'amore, un incontro con Gesù lei restituisca a Gesù la sua sostanza appunto amorosa, umana e conflittuale e il suo bellissimo "tutti gli innamorati sono in Cristo"; le chiedo cos'è, allora, la passione per Alda Merini.

Merini: E' una cosa che va al di là delle nostre possibilità, e ci distrugge spesso e volentieri. E' anche bella! Leopardi dice "fratello al tempo stesso amore e morte/ ingenerò la sorte". E' pericolosa: siamo nella dimensione di mezzo degli amori maritali non molto turbolenti.

P.: La passione, nell'amore maritale, dopo un po' se ne va, signora Merini.

Merini: Subentra l'amore

P.: Lei disgiunge l'amore dalla passione?

Merini: Sono due cose differenti: preferisco l'amore, però.

P.: Lei scrive che la follia è il modo di dichiarare guerra a chi vuole la nostra vita.

Merini: E' una difesa la follia.

P.: Cosa può aggiungere oggi ?

Merini: la follia è una difesa: una difesa estrema che dice " de chi se passa no!". E' un tirar giù una saracinesca.

P.: Parliamo del tradimento:

Merini: Eh, lei mi fa delle domande:..

P.: Nel suo Maria. Poesie, racconti e pensieri lei dice "Sono andata in croce perché come Cristo il bacio di Giuda me l'aspettavo"

Merini: Ma lei ha messo il dito nella piaga e può immaginare cosa ho provato di fronte al tradimento. Una persona davanti al tradimento perde l'amore per sé, perde la stima. Non so perché, ed è lì il mistero, lei tiene in grande conto il giudizio dello sciagurato che l'ha tradita. Sarebbe da condannare lei che non è capace di capire che l'altro è un cretino e si soffre per un cretino; condanno più lei del cretino perché lei non aveva abbastanza stima di se stessa.

P.: Infatti il dolore è così difficile da sopportare: tutti cercano di starne lontano ed è invece indispensabile per crescere. Sempre nel suo Un'anima indocile lei dice " ho dentro il palpito deldolore" e pare di capire che non tutti sanno portarsi dietro la follia che il dolore comporta.

Merini: Ma neanche la gloria. C'è gente che fa una serata viene a casa gasata "perché, io qui io là..." e dopo per questa gente lei è un niente di niente. La gloria va dimenticata, si deve andare avanti umilmente.


P.: Lei dice come tutti i forti sentimenti debbono essere amministrati

Merini: Brava, l'amministrazione del sentire. Bisogna saper amministrare il proprio patrimonio sia genetico che sentimentale. Per esempio anche la gioia può ucciderla: ha mai visto due che si incontrano dopo tanti anni e uno muore dall'emozione. Le emozioni vanno ben tenute a bada o no?

P.: Verissimo, però a volte ci vogliamo far inondare dalle emozioni per sentirle e poi saperle amministrare e allora lì, col dolore, forse, ci forgiamo.

Merini: Signora è rischioso: non tutti lo sanno fare

P.: Però lei si è lasciata andare alla passione, all'amore ?

Merini: Si, l'ho pagato però

P.: L'ha pagato e tutti lo paghiamo, credo

Merini: Io mi sono lasciata coinvolgere dalla passione, l'ho presa in pieno e l'ho pagata, come tutti forse. E' per questo che io ho tanti ammiratori donne perché io ho pagato. Adesso non lo farei più, non avrei più neanche le forze per farlo. Un'ondata di manicomio oggi mi travolgerebbe, mi ucciderebbe in un giorno. Allora ero giovane, capisce? Sognavo la gloria, quando ero giovane. Adesso mi dà fastidio.

P.: Adesso che c'è ....

Merini: Ma no, non mi serve più oramai. Ho notato che gli uomini sono delle banderuole: se lei è in auge allora le voglio bene, se lei cade in basso... Guardi, io sono cresciuta nell'epoca duciana e quando ho visto il duce attaccato, ho capito, ed ero una bambina, come vanno le cose nel mondo: se lei sbaglia paga, è vero o no?

P.: Il dolore è una condizione ineluttabile?

Merini: Dio non ci ha fatto per il dolore. Ci ha fatto per la gioia, anche perchè ci ha dato delle prove: la prova non è il dolore. La prova è un saper distinguere il bene dal male, è saper scegliere: ci vuole discernimento. Io ce l'ho per l'età, lei è molto più giovane. Un po' dolcemente, quasi per allentare la tensione, il coinvolgimento, scivoliamo in un'altra digressione sulla moda e sul modo femminile di vedere l'estetica, il gusto del bello. Ma ragionando sul bello il suo sguardo si riaccende ed subito pronta.

Merini: Ma la donna ha il culto dell'arte. Alcune sono anche sciatte, però la donna ha gusto, perché la donna è maestra, maestra nel curarsi, nel porsi come una cosa bella nel senso estetico. Sa perché in manicomio si son salvate più donne che uomini? Perché la donna è più furba: l'uomo è uno Zampanò, rispetto a noi

P.: E' vero, un uomo quando viene lasciato da una donna si lascia più andare ...

Merini: Avevo una zia che prima di partorire si inghirlandava tutta e l'ostetrica diceva "Va dove finiscono le tue gale". Però finito il parto tornava a ghirlandarsi... Il grande innamorato della donna, sa chi è? E' il proprio figlio e viceversa. Un prete mi ha detto: guardi una mamma che allatta il figlio, il figlio succhia il latte, ma guarda la mamma cioè beve il volto della mamma.

P.: Si dice sempre, infatti, alle mamme di guardare i figli mentre li allattano.

Merini: Loro introiettano questa immagine materna ...

P.: Un ritorno?

Merini: c'è un ritornare al passato. Guardi la mia figliola, la Barbara, è quella lì. Guardi che bella figliola che ho!

P.: E' quella che ho visto a villa Burba?

Merini: Sì, sì. Devo camminare un po': ieri non stavo bene, quello è Davide, mio nipote. Finiamo la cosa, poi vado a riposarmi un po' Seguendo un certo percorso che ci porta dal privato al pubblico possibile, usciamo e rientriamo nell'intervista, sempre lievemente, sempre attente a contenere l'implicita violenza di ogni intervista.

P.: Ho letto delle poesie che lei ha dedicato alle sue figlie. Come è stata per lei la maternità?


Merini: E' stata una cosa molto bella, meno le due che ho avuto in manicomio, che è stata un tragedia. Come mi han trattato in gravidanza ... La gravidanza, per me, è stato un periodo di grande illuminazione, di grandi scoperte.

P.: In un suo testo lei parla dell'artista come di colui che per pre.. (e qui un bel lapsus mi porta quasi a dire: pregare anziché creare) per creare ha bisogno anche di dannarsi, di non stare in pace e quindi anche di desiderare. Cos'è per lei il desiderio?

Merini: E' un gioco per me, io desidero le cose che amo, che mi piacciono .. Lei guardi la canzone "profumi e balocchi": la madre adulta prende i profumi come balocchi e la figlia, la bambina, lo capisce che lei lo fa per piacere agli uomini. E' una richiesta d'amore, in fondo! No? E la bambina lo capisce. Parliamo di Anghiari, del Convegno su "Narrazione e terapia". Le dico del riconoscimento che le sarà conferito. Lei , un po' si schermisce, dicendo che alla sua età non si aspetta più niente e conclude il nostro incontro con uno sfogo dove la poetessa e la donna sono, giustamente, presenti, compresenti e ampiamente risentite.

Merini: Io sono incazzata nera perche un po' di anni fa, io sono andata al San Paolo per una ernia da tre soldi, mi hanno lacerata tutta perchè è venuto un dottore cretino per dire che dovevano legarmi perchè ero matta da legare. Io avevo una bronchite dovuta ai carpentieri e alla povere, non respiravo più. Ho perso di vista la poesia per occuparmi solo dei miei mali. Un paio di boccoli e un rossetto, me li ha portati una dottoressa siciliana, e cosi sono guarita. Il mio medico della mutua non viene anche se sono Alda Merini.