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I - Tosto ch'io giungo in solitaria riva




Tosto ch'io giungo in solitaria riva,
Quanto a me si appresenta, o poggio , o piano,
O selva, o mormorio d'acque lontano,
Tutto a prova mi accende e vuol ch'io scriva.

Eppur, non sempre avvampa in fiamma viva
Del par la mente; onde. avvien poi , che vano
Spesso è il mio carme , e che fors' a nco è insano

Quasi d'uom che abbacando in rime viva.
Muto, deh pur, come di lingua iì sono,
Foss'io di penna! o al buon Vulcan sapessi
II neonato Sonetto offrire in dono!

Noi siam ben tutti appieno in ciò gli stessi
L’ultimo parto, ci par sempre il buono:
ma il precedente pure arder non dessi

Vittorio Alfieri   -   RIME e altro

Sulle "RIME"

L'Alfieri compose numerose "Rime" che pubblicò in Francia nel 1789; quelle scritte postume vennero pubblicate postume nel 1804. Se la "Vita" dell'Alfieri è un'autobiografia in prosa, le sue "Rime" o liriche costituiscono una specie di autobiografia ideale in versi, da cui emergono le più profonde componenti della sua creazione poetica: l'amore per la compagna della sua vita (Luisa Stolberg contessa d'Albany), la malinconica solitudine, l'ansia eroica di libertà e l'odio contro la tirannide.
"La forma metrica meglio adatta all'ispirazione alfieriana è, nella lirica, il sonetto, che gli consente, col suo breve e sintetico giro, quella concentrazione a cui tende la sua migliore poesia" (Pazzaglia).
Un sonetto esemplare è quello che inizia con il verso "Tacito orror di solitaria selva", nel quale il paesaggio selvaggio e deserto esprime la malinconia solitaria e la tensione eroica del poeta che lo squallore della natura isola dagli uomini meschini, condannati a subire la tirannide che egli condanna con un verso reciso: "ma, non mi piacque il vil mio secol mai": ma non c'è qui solo la condanna del dispotismo illuminato che egli considerava un venire a patti con la tirannide, bensì anche l'attesa fremente di una umanità eroica, di una ribellione più vasta contro la civiltà illuministica, come quella del movimento preromantico tedesco dello "Sturm und Drang" ("Tempesta e assalto")



Braccia con braccia in feri nodi attorte,
Danai co' larghi petti orribil urto;
E, dagli occhi spirando entrambi morte,
Vuol darla Alcide a forza, Antèo di furto.

Usa ogni arte, ogni schermo Antèo men forte;
Spinto è tre volte a terra , e tre n' è surto;
Ch'egli appena l'ha tocca, ella gli ha porte
Forze novelle, ond' è il valor risurto.

Ma chi contr'Ercol basta? Ecco egli afferra
io astuto schermidor con man tenace,
E dalla terra madre alto lo spicca:

Quanto ei si sbatte più, veppiù lo serra;
quindi al suolo stramazza, e vel conficca:
Per non risorger mai proteso ei giace.

II - Braccia con braccia in feri nodi attorte






Greca fronte nomar deggio, o divina,
Quella, cui negro il crin serpeggia intorno,
Qual nembo suol cerchiar la mattutina
Stella foriera di sereno giorno?

Greca, dich' io per certo, e peregrina,
Se miro al suo gentil dolce contorno:
Ma, se all' alto splendor, cui l'occhio inchina,
Ch'ella è celeste cosa a dir pur torno.

So che l'egregio Apelle, e Fidia industre
A Giuno, a Palla, a Cinzia, a Citerea
Davan fronte simil; ma in mortal veste.

So che tale fronte ancor Elena avea
Paride sol potrìa, giudice illustre
Questa dritto appellar greca o celeste.


Negra lucida chioma in trecce avvolta;
greca fronte, sottili e brune ciglia;
occhi, per cui nessuna a lei somiglia,
cui morrò per aver visti una volta

bocca, ch'è d'ogni rosa or ora colta,
più odorosa, più fresca, e più. vermiglia;
voce, che amor, diletto, e maraviglia
infonde e imprime in cor di chi l'ascolta;

riso, che al par gli uomini, e i Numi bea;
eburneo sen, vita leggiadra e snella ;
bianca morbida man, tornite braccia;

breve piè, di cui segue Amor la traccia;
e di spoglie sì belle alma più bella
mostrato ha il Cielo in voi quant'ei potea.


V - Negra lucida chioma in trecce avvolta




VII - Greca fronte nomar deggio, o divina







Negri, vivaci, e in dolce fuoco ardenti
Occhi, che date a un tempo e morte, e vita;
Siate, ven prega l'alma mia smarrita,
Per breve istante a balenar più lenti.

Di vostra viva luce in parte spenti
Bramo i raggi per ora, ond'io più ardita
Mia vista innalzi, e come Amor m'invita,
Lei con mie rime di ritrarre io tenti.

Voi, voi ne incolpo, se il soave riso,
Se il roseo labro, e ad uno ad un dipinto
Gli atti non ho del suo celeste viso.

Ah, che a tropp'alta impresa io m'era accinto!
Questi occhi han me da me si appien diviso,
Ch'oltre mia lingua, ogni mio senso é avvinto


Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda,
l'adunca falce a me brandisci innante?
Vibrala, su: me non vedrai tremante
pregarti mai, che il gran colpo sospenda.

Nascer si, nascer chiamo aspra vicenda,
non già il morire, ond'io d'angosce tante
scevro rimango, e un solo breve istante
dè miei servi natali il fallo ammenda.

Morte a troncar l'obbrobbriosa vita
che in ceppi io traggo, io di servir non degno
che indugi omai, se il tuo indugiar m'irrita?

Sottrammi ai re, cui sol da orgoglio e regno
viltà dei più, ch'a inferocir gl'invita
e a prevenir dei pochi il tardo sdegno.

XIX - Negri, vivaci, e in dolce fuoco ardenti




XVIII - Bieca, o Morte, minacci






O di gentil costume unico esempio,
D'ogni alto mio pensier cagione e donna,
Del lasso viver mio sola colonna ;
Di celestial virtude in terra tempio:

Mentr'io di pianto l'aere riempio,
Com'uomo il cui martir mai non assonna,
Forse un duol non minor di te s'indonna,
E del tuo molle cor fa crudo scempio.

Che fai tu sola i lunghi giorni interi,
Al trapassare or sì molesti e lenti,
Più che saetta a noi già un dì leggieri?

D'udirti parmi in sospirosi accenti
Chiamarmi a nome; e veggio intanto i neri
Occhi appannarsi in lagrime cocenti.

Qui Michelangiol nacque? e qui il sublime
Dolce testor degli amorosi detti?
Qui il gran poeta, che in sì forti rime
Scolpì d'inferno i pianti maladetti?

Qui il celeste inventor, ch'ebbe dall'ime
Valli nostre i pianeti a noi soggetti?
E qui il sovrano pensator, ch'esprime
Sì ben del prence i dolorosi effetti?

Qui nacquer, quando non venia proscritto
Il dir, leggere, udir, scriver, pensare;
Cose, ch'or tutte appongonsi a delitto.

Non v'era scuola allor del rio tremare;
Né si vedeva a libro d'oro inscritto
Uom, per saper gli altrui pensier spiare.

LVII - O di gentil costume unico esempio





XL - Qui Michelangiol nacque?







Fido, destriero mansueto e ardente,
Che dell'alato piè giovato hai spesso
Al tuo signor, si ch'ei seguia dappresso
Il cervo rapidissimo fuggente;

Tu riedi a me, da non gran tempo assente;
Ma pur, più non ritrovi in me lo stesso;
Ch'io son da mille e mille cure oppresso,
Egro di core, d'animo, e di mente.

M'è il rivederti doglia, e in un, diletto:
Di là tu vieni, ov'è il mio sol pensiero...
Sovvienti ancor, quand'ella il collo, e il petto

T'iva palpando; indi con dolce impero
Tuo fren reggeva? e tu, pien d'intelletto,
Del caro peso te ne andavi altero.


O cameretta, che già in te chiudesti
Quel grande, alla cui fama angusto è il mondo;
Quel si gentil d'amor mastro profondo,
Per cui Laura ebbe in terra onor celesti :

O di pensier soavemente mesti
Solitario ricovero giocondo;
Di qual lagrime amare il petto inondo.
Nel veder ch'oggi inonorata resti!

Prezioso diaspro, agata, ed oro
Foran debito fregio, e appena degno
Di rivestir sì nobile tesoro.

Ma no: tomba fregiar d'uom ch'ebbe regno
Vuolsi, e por gemme ove disdice alloro:
Qui basta il nome di quel divo ingegno

LXX - Fido, destriero mansueto e ardente





LVIII - O cameretta, che già in te chiudesti







Il gran Prusso tiranno, al qual dan fama
Marte e Pallade a gara, or su la sponda
Sta di Cocito, oltre alla cui negr'onda
Fero Minosse ad alta voce il chiama.

L'alta, sublime, e non regal sua brama
Di ottenere immortal vita seconda,
Quasi lucida fascia or già il circonda,
E ammirabil l'ha fatto a chi men l'ama.

Quindi è dover, che semivivo egli oda
Ciò che di lui dirà libero ingegno;
Se a nomarlo pur mai la lingua ci snoda.

Costui, macchiato di assoluto regno,
Non può d'uomo usurpar nome, né loda;
Ma, di non nascer re forse era degno.

Nobil città, che delle Liguri onde
Siedi a specchio, in sembiante altera tanto;
E, torreggiando al eiel da curve sponde,
Fai scorno a'monti onde hai da tergo ammanto

A tue moli superbe, a cui seconde
Null'altre Italia d'innalzare ha il vanto,
Dei cittadini tuoi che non risponde
L'aspetto, il cor, l'alma, o l'ingegno alquanto?

L'oro sudato, che adunasti e aduni,
Puoi seppellir con minor costo in grotte,
Ove ascondan se stessi, e i lor digiuni.

Tue ricchezze non spese, eppur corrotte.
Fan d'ignoranza un denso velo agli uni;
Superstition tien gli altri; a tutti è notte.

CXVIII - Il gran Prusso tiranno, al qual ...






LXXVI - Nobil città, che delle Liguri onde






Oh brillante spettacolo giocondo,
Di cui troppi anni io vissi in Gallia privo!
Celeste azzurro, d'ogni nebbia mondo,
Cui solca d'igneo Sole aurato rivo.

Qui al Capricorno, invan gelato e immondo,
Fa guerra ognor dell'alma luce il Divo:
Qui non contrista di canizie il mondo
L'ispido verno, e i fior non prende a schivo.

Scevra d'ogni torpore ecco disserra
L'urna il biondo Arno alle volubili acque.
Che irrigan liete la Palladia terra.

E qui il mio spirto pur, che al gel soggiacque
Là d'oltramonti, or ridestato afferra
La dolce Lira, a cui fors' anco ei nacque.

Sublime specchio di veraci detti,
mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;
lunga statura, e capo a terra prono;

sottil persona in su due stinchi schietti;
bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labro, e denti eletti;
pallido in volto, più che un re sul trono:

or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;
irato sempre, e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite:

per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite:
uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai.

CLVIII - Oh brillante spettacolo giocondo






CLVII - Sublime specchio di veraci detti







CLIX - Dolce a veder di giovinezza il brio






CLXI - Per queste orride selve atre d'abeti







Dolce a veder di giovinezza il brio,
Che con modestia lietamente aggiunto,
In bella donna , manifesti a un punto
Sua candid'alma e il natural desio!

Tra l'opre tutte, in cui grandeggia Iddio,
La prima è questa: e di ammirarlaè punto
Ogni uom da spron che gli ha Natura ingiunto
Per quanto al bello ei sia cieco e restio.

Oh vero raggio di luce Divina,
Che sfolgorando infra duo ardenti lumi
Fai d'ogni nostro senso alta rapina!

Oh bei leggiadri angelici costumi,
sovra forza che ogni forza inchina!
Voi de’ mortali siete in terra i Numi.

Per queste orride selve atre d'abeti,
Ch'irto fan dell'aspre Alpi il fero dorso,
Donna mia, già soletto io tenni il corso
Tuoi pai seguendo, astri miei fidi e lieti.

Indivisibili or, contenti, e queti,
Più non temendo della invidia il morso,
Noi la via pittoresca a sorso a sorso
Libando andiam, come pittor-poeti.

Dopo quasi due lustri, alla bramata
Italia alfin rivolte l'orme, addio
Diam sempiterno alla Germania ingrata.

Liberi no, men servi assai, dal rio
Giogo d'arci-tirannide insensata
Là vivrem scevri, in prezioso oblìo.




FAVOLETTA
Le mosche e l'api





D'API un libero sciame,
Industríoso e lieto,
Se ne vivea felice:
Stuol di mosche inquíeto,
A cui la fame ? anco l'invidia accrebbe,
Un suo moscon per capo eletto s'ebbe;
E l'una sì gli dice.
Noi siam pur tante,
L'api pochissime;
Ciò non ostante,
Son potentissime.
Esca abbondante,
Securo tetto,
Pace e diletto;
E che non hanno
Quelle iniquissime?
E il tutto fanno,
Rette a repubblica.
E noi, chi siamo?
Noi pur vogliamo
Libertà pubblica.
Era il moscone
Un vero omone,
Saggio, prudente,
E dell'api sapiente.
Onde a quel dire oppone
Il ragionar seguente.
Care mie figlie, è facile
Il chiacchierar, ma il fare
Dà un po' più da studiare.
L'api sono insettoni,
Aspre di pungiglioni,
Che le fan rispettare.

Ma noi, di tempra gracile,
Che faremmo in battaglia,
Se un soffio ci sparpaglia?
Le pure api si pascono
Dittamo, erbette, e rose;
E in noi sempre rinascono
Mille voglie golose.
La libertà di svolazzar quà e là,
Col periglio temprata
Di una qualche ceffata,
Sia dunque ognor la nostra;
Nè questa a noi giammai tolta verrà,
Se il senno il ver dimostra.
Così il dotto moscon, lor viste fosche
Ralluminando, apria
Che non potria ? mai farsi un POPOL MOSCHE.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina