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Umberto Saba - POESIE




















































Umberto Saba






aderisce agli umili aspetti della realtà familiare della vita triestina.
Le poesie sono raccolte nel Canzoniere (1900-45) e in Mediterranee e le prose in Scorciatoie e raccontini (1946); l'opera Storia e cronistoria del Canzoniere (1948) costituisce il miglior commento e la più sincera testimonianza della sua arte.
Il mondo poetico pieno di malinconia e di triste saggezza e la sincerità e innocenza della sua lirica collocano Saba tra i più importanti autori del nostro Novecento.

Il canzoniere
(Raccolta poetica)

ll canzoniere di Saba, pubblicato nel 1948, è opera poetica senza interruzioni, concepita come un lungo poema, sulla linea di un'autobiografia che lega indissolubilmente ogni evento lirico e fornisce quindi la trama della evoluzione artistica ed esistenziale del poeta. La formazione culturale dell'autore non è facilmente inquadrabile in un profilo storico della letteratura italiana, in quanto egli rimase sempre piuttosto estraneo alle correnti dominanti, libero da facili suggestioni e da superficiali adesioni, teso al contrario verso la personale elaborazione dei propri ritmi poetici. Il suo travaglio artistico infatti si è venuto svolgendo in modo quasi segreto, minuzioso, costante, deciso nel netto rifiuto di avanguardie e retroguardie poetiche. La lettura del Canzoniere mostra inequivocabilmente in Saba la propensione alla cura assidua e tenace dell'espressione poetica, la scrupolosa ricerca introspettiva, la grande onestà umana. L'evocazione degli oggetti è pervasa da una costante affettuosità, come se la realtà racchiudesse sempre gli spunti e le occasioni per la elaborazione poetica. Nascono così i grandi temi della poesia di Saba: il dolore e il conforto. Attraverso una estenuante ricerca nella realtà circostante, il poeta assimila con solidarietà la sofferenza che è negli uomini, nella natura, nelle cose, ne rimane coinvolto, tenta un chiarimento e restituisce un personalissimo discorso poetico.

Autobiografismo, quindi, ma purificato da ogni sovrastruttura individualistica, perchè inevitabilmente coinvolto nel dolore comune, teso a riassumere liricamente e in modo autentico la condizione umana. Si può affermare con il critico De Robertis che in Saba "la ricerca poetica tende a diventare "moralità", a raggiungere insomma il vertice di un'unità universale uguale per tutti, in quanto avvertita da tutti". L'esperienza drammatica della guerra provoca nel poeta una partecipazione ancora maggiore alla tragedia umana e dal Canzoniere, sia pure nella unitarietà di temi e di forme che lo caratterizzano, traspare questa insanabile frattura. "Negli anni posteriori alla tragedia europea Saba avrà saputo, avrà dovuto - avverte il critico Manacorda - armare il suo linguaggio anche dell'invettiva più aspra e tagliente che sarà tuttavia non la negazione dell'antico ideale di comprensione e di amore tra gli uomini, ma la sua sublimazione dopo l'esperienza della guerra e della persecuzione scatenata da chi rifiutava l'etica della fratellanza".

La poesia diventa allora più tormentata nella introspezione, tesa a scavare nel profondo, a penetrare lucidamente i tratti del male di vivere. Il dolore è per Saba ormai una condizione ineliminabile per l'umana esistenza, non può certo essere placato dalle parole e dalle emozioni liriche. Resta la concentrazione del poeta nella volontà di scoprire la vena più nascosta dell'amore per gli altri, nel rintracciare ancora una volta, nella realtà, le motivazioni dell'agire e le ragioni del cuore. Tutto questo alla luce di una commozione sempre trattenuta e di una coscienza onesta e attenta a seguire, come afferma il critico Carlo Bo, "la sua naturale umanità, che è qualcosa di molto diverso dalle altre umanità programmate dagli scrittori, e assomiglia piuttosto a un tentativo di denudamento insensibile, con la speranza di arrivare a un discorso diverso tra gli uomini, non più basato sulle facoltà di potere ma sull'umiltà, sulla semplicità, sulla pietà".



La poetica di Saba

Saba ha sempre dichiarato di aver cercato nella propria opera la verità , quella più profonda e nascosta, di cui noi stessi non abbiamo chiara conoscenza e che solo l'esperienza del dolore è capace di rivelarci. Con "la verità che giace al fondo" Saba si riferisce alla profondità dell'inconscio. La poesie diventa quindi strumento per la ricerca della verità interiore e si serve di versi chiari e trasparenti (antiermetismo) che fa apparire un mondo e lo rischiara.
Il colloquio confidenziale con la realtà (secondo la lezione pascoliana) si arricchisce in seguito di toni lirici e si volge ai temi della gioia, del dolore, della morte (Cose leggeri e vaganti, 1929 - 1931, L'amorosa spina, 1920, Preludio e canzonette, 1922 - 1923, Cuor morituro, 1925 - 1930, Preludio e fughe, 1928 - 1929, Il piccolo Berto, 1929 - 1931) e gradatamente la poesia diviene riflessione esistenziale ed accettazione rassegnata del tempo che fugge (Parole, 1933 -1934, Ultime cose, 1935 - 1943, Varie, 1944, Mediterranee, 1946, raccolte poi nel 1948 nel Canzoniere). La produzione letteraria di Saba vede negli ultimi anni aggiungersi al lirismo proprio del poeta il motivo moralistico e sentenzioso delle prose di Scorciatoie e raccontini (1946) e della raccolta Uccelli, quasi un racconto (1951). Postumi furono pubblicati il romanzo Ernesto ed il volume Amicizia. Per contro, i primi versi di Saba erano prosastici, incerti, il motivo psicologico di fondo era dato dalla malinconia, le figure rappresentate simboli di una vita grigia e comune. Eppure, il linguaggio che dal prosaico diviene talvolta - secondo alcuni - sciatto, e la costante aderenza al reale non sfociano nel verismo provinciale ma esprimono un'intensa carica sentimentale che diviene canto. I luoghi domestici e le figure care e quotidiane accompagnano e consolano la vita malinconica del poeta ed il suo canto esprime un desiderio di affratellamento. È questa una costante di Saba. Anche le poesie come quelle della raccolta Preludio e fughe (1927 -1928) che poterebbero apparire come una pausa meramente musicale, racchiudono un attento ascolto delle voci interiori e sono spesso simbolo di sentimenti sofferti e di memorie.
Ricordo e nostalgia del passato
Nelle ultime raccolte, accanto alla contemplazione assorta della vita si insinuano il ricordo e la nostalgia del passato, spesso affidati alla musicalità dei versi. Persistono, tuttavia, gli aspetti domestici e le figure amate, i versi sono, però, più scanditi e la composizione è breve e incisiva. Restano immutabili i temi originari: i fanciulli di Trieste, le vie solitarie, i caffè fumosi del porto, le donne amate. Sono temi immobili, poiché Saba concepisce la vita come immutabile: l'uomo - ed in questo segue il pensiero di Leopardi - spera sempre un domani migliore, anche se sa che il nuovo giorno porterà le stesse sofferenze di quello trascorso. Saba è ritenuto una delle voci migliori e più riconoscibili del '900 italiano, per la fedeltà ai propri temi, la ricchezza sentimentale, l'impegno umano, l'itinerario spirituale e stilistico non condizionato dalle mode. La sua poesia è, soprattutto, storia della sua esistenza, contemplata con la fermezza di chi sa trovare nel dolore e nella pena il segno del destino umano, in nome del quale si sente unito agli altri uomini (Leopardi - La ginestra).
Mentre i poeti del periodo fra le due guerre tendono ad una riflessione e ad una grande consapevolezza letteraria, che conduce all'ermetismo, in Saba è evidente la volontà di esprimersi in modi semplici, musicali, a volte con notazioni diaristiche, anche se l'autobiografismo gradualmente si dissolve nel canto. Il fondo costante di Saba è la consapevolezza malinconica di una esistenza immutabile e la malinconia è alleviata dalla contemplazione delle cose quotidiane, dal sentirsi vivere, dall'accettare le passioni come sempre diverse e sempre le stesse. I paesaggi non sono descritti, bensì evocati dal ricordo e dall'affetto che modulano un canto monotono, ma intimo e suggestivo. Di Saba esistono due documenti critici di altissimo valore: Quello che resta da fare ai poeti (1911), articolo rifiutato dalla Voce e la Storia e cronistoria del Canzoniere (1948) che appartiene all'ultima fase della sua opera.
La "poesia onesta"
L'apparente contraddizione tra la poesia onesta propugnata nell'articolo e la critica della propria opera, attenta a sottolineare i meriti e a trascurare le manchevolezze, si risolve nell'essere il Saba critico di se stesso e, quindi, in possesso di una verità diretta che fa della seconda opera la conclusione logica di una vita trascorsa al servizio della poesia. La prima ragione di Saba, la sua umanità, fa sì che la sua poesia sia un dono per gli altri (Pascoli), con la speranza di giungere ad un discorso fatto di umiltà, semplicità e pietà. L'esame critico si riallaccia all'affermazione del 1911: - ai poeti resta da fare la poesia onesta (N.B. - si è in pieno clima di avanguardia, il manifesto di Marinetti è del 1909). Saba contrappone il Manzoni degli Inni sacri (versi mediocri ma immortali perché onesti, frutto di autentici sentimenti), al D'Annunzio delle Laudi e della Nave (versi magnifici, ma effimeri perché disonesti in quanto artificiali, non rispondenti ai sentimenti, bensì costruiti ad effetto). Saba ha quindi già ben chiara la nozione di una poesia che non deve essere frutto di artificio, di finte passioni, di menzogna, esclusivamente volta ad ottenere un bel risultato. Compito dello scrittore è far collimare contenuto e forma, magari limitando la spinta emotiva, piuttosto che correre il rischio di esagerare e mentire. Il poeta, lo scrittore in genere, deve essere, tanto nella vita, quanto nella letteratura, un uomo onesto. Tale principio, che è il punto di partenza di Saba, è ancore determinante al momento della critica della propria opera e tale possibilità critica gli viene dalla consapevolezza di ciò che egli ha inteso realizzare (non è crepuscolare, come a volte è definito, per gli stessi motivi per i quali rinunzia al dannunzianesimo e tutto ciò che può essere o sembrare posa). Saba parla della necessità di sostenere con il ritmo l'espressione della passione, fissando così i limiti dello strumento, a vantaggio del sentimento da esprimere. Saba mira al giusto equilibrio tra sentimento ed arte, tra contenuto e forma, seguendo l'ispirazione, senza timore di ripetere se stesso o gli altri, (al contrario dei simbolisti, sostenitori della poesia pura). Saba si accosta ad una poesia discorsiva, capace di accogliere tutte le occasioni di ispirazione che la vita può offrire.
Poeta, non letterato di professione
Il poeta deve rileggersi cercando di rilevare la corrispondenza fra stati d'animo e versi, tra pensato e scritto, mediante moduli tradizionali e semplici, in netto contrasto con le soluzioni allora di moda. Il poeta, inoltre, deve abbandonare il modello del letterato di professione (D'Annunzio) rifiutando sia le soluzioni dei futuristi, sia quegli esiti dannunziani che hanno prodotto una poesia artificiale e la collusione tra letteratura e politica. Parimenti Saba rifiuta la ricerca esasperata dell'originalità e la sperimentazione eccessiva e gratuita, mirando, invece, ad una equilibrata opera di revisione, di selezione e di rifacimento. Al contrario di quanto vede fare intorno a sé, Saba adotta il più semplice dei linguaggi e propone un discorso non drammatico, alieno da violente speculazioni, cercando di sviluppare la naturale capacità dell'uomo - Saba nello stabilire il contatto con gli altri, sulla base di uno scambio fondato su una diversa, ma sempre semplice ed umana interpretazione dell'esistenza. Saba vive pazientemente aspettando la serena disperazione, ossia la serenità che viene dalla volontaria partecipazione a ciò che deriva dall'esperienza del mondo, dalla ricerca dell'equilibrio e dal senso delle proporzioni, mentre la disperazione è la consapevolezza dell'inalterabilità della vita e dell'inevitabilità del destino. A tale consapevolezza, Saba contrappone la pazienza, il gusto dell'interpretazione, l'amore della vita, per arrivare non alla spiegazione (alla maniera di Montale) bensì a mitigare l'impatto con la realtà. La malinconia e la dolente consapevolezza dell'esistenza, la meditazione sul trascorrere del tempo, diviene accorata saggezza della maturità e un doloroso amore della vita. Che trova voce nel dialogo interiore fra passato e presente e la consapevolezza delle propria vicissitudini esistenziali diviene coscienza della tragedia storica di tutto un popolo, sempre restando aliena dalla retorica.
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
La Malinconia

Malinconia
la vita mia
struggi terribilmente;
e non v'è al mondo, non c'è al mondo niente
che mi divaghi.

Niente, o una sola
casa. Figliola,
quella per me saresti.
S'apre una porta; in tue succinte vesti
entri, e mi smaghi.

Piccola tanto,
fugace incanto
di primavera. I biondi
riccioli molti nel berretto ascondi,
altri ne ostenti.

Ma giovinezza,
torbida ebbrezza,
passa, passa l'amore.
Restan sì tristi nel dolente cuore,
presentimenti.

Malinconia,
la vita mia
amò lieta una cosa,
sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,
ch'altro non spero.

Quando non s'ama
più, non si chiama
lei la liberatrice;


e nel dolore non fa più felice
il suo pensiero.

Io non sapevo
questo; ora bevo
l'ultimo sorso amaro
dell'esperienza. Oh quanto è mai più caro
il pensier della morte,
al giovanetto,
che a un primo affetto
cangia colore e trema.
Non ama il vecchio la tomba: suprema
crudeltà della sorte.

Fanciulle

Maria ti guarda con gli occhi un poco
come Venere loschi.
Cielo par che s'infoschi
quello sguardo, il suo accento è quasi roco.

Non è bella, né in donna ha quei gentili
atti, cari agli umani;
belle ha solo le mani,
mani da baci, mani signorili.

Dove veste, sue vesti son richiami
per il maschio, un'asprezza
strana di tinte. È mezza
bambina e mezza bestia. Eppure l'ami.

Sai ch'è ladra e bugiarda, una nemica
dei tuoi intimi pregi;
ma quanto più la spregi
più la vorresti alle tue voglie amica.

A mia moglie
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.

se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.

Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.

Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo


ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?

Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.

Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.

Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.

E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.

La capra

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Squadra paesana

Anch'io tra i molti vi saluto, rosso-
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.

Le angoscie
che imbiancano i capelli all'improvviso,


sono da voi così lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.

Il Borgo

Fu nelle vie di questo
Borgo che nuova cosa
m'avvenne.

Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d'uscire
di me stesso, di vivere la vita
di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.

Non ebbi io mai sì grande
gioia, né averla dalla vita spero.
Vent'anni avevo quella volta, ed ero
malato. Per le nuove
strade del Borgo il desiderio vano
come un sospiro
mi fece suo.

Dove nel dolce tempo
d'infanzia

poche vedevo sperse
arrampicate casette sul nudo
della collina,
sorgeva un Borgo fervente d'umano
lavoro. In lui la prima
volta soffersi il desiderio dolce
e vano
d'immettere la mia dentro la calda
vita di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.

La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimé, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere
l'alta gioia ottenuta
di non esser più io,
d'essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo.

Nato d'oscure
vicende,
poco fu il desiderio, appena un breve
sospiro. Lo ritrovo
- eco perduta


di giovinezza - per le vie del Borgo
mutate
più che mutato non sia io. Sui muri
dell'alte case,
sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
è sceso il velo che avvolge le cose
finite.

La chiesa è ancora
gialla, se il prato
che la circonda è meno verde. Il mare,
che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
enorme,
che, fermo, piega da un parte. Forme,
colori,
vita onde nacque il mio sospiro dolce
e vile, un mondo
finito. Forme,
colori,
altri ho creati, rimanendo io stesso,
solo con il mio duro
patire. E morte
m'aspetta.

Ritorneranno,
o a questo
Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
del fiore. Un altro
rivivrà la mia vita,
che in un travaglio estremo
di giovinezza, avrà per egli chiesto,
sperato,
d'immettere la sua dentro la vita
di tutti,


d'essere come tutti
gli appariranno gli uomini di un giorno
d'allora.

Tre momenti

Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi,
che all'altra parte rivolgete, a quella
che più nera si accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch'abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s'avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all'erta spia.

Festa è nell'aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessun'offesa varcava la porta,
s'incrociavano grida ch'eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d'amore orna Trieste.

L'ora nostra

Sai un'ora del giorno che più bella
sia della sera? tanto
più bella e meno amata? È quella
che di poco i suoi sacri ozi precede;
l'ora che intensa è l'opera, e si vede
la gente mareggiare nelle strade;



sulle mole quadrate delle case
una luna sfumata, una che appena
discerni nell'aria serena.

È l'ora che lasciavi la campagna
per goderti la tua cara città,
dal golfo luminoso alla montagna
varia d'aspetti in sua bella unità;
l'ora che la mia vita in piena va
come un fiume al suo mare;
e il mio pensiero, il lesto camminare
della folla, gli artieri in cima all'alta
scala, il fanciullo che correndo salta
sul carro fragoroso, tutto appare
fermo nell'atto, tutto questo andare
ha una parvenza d'immobilità.

È l'ora grande, l'ora che accompagna
meglio la nostra vendemmiante età.

Teatro degli Artigianelli

Falce martello e la stella d'Italia
ornano nuovi la sala. Ma quanto
dolore per quel segno su quel muro!

Esce, sorretto dalle grucce, il Prologo.
Saluta al pugno; dice sue parole
perché le donne ridano e i fanciulli
che affollano la povera platea.
Dice, timido ancora, dell'idea
che gli animi affratella; chiude: "E adesso
faccio come i tedeschi: mi ritiro".
Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l'amico


dell'uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.

Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il canone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.

Il torrente

Tu così avventuroso nel mio mito,
così povero sei fra le tue sponde.
Non hai, ch'io veda, margine fiorito.
Dove ristagni scopri cose immonde.

Pur, se ti guardo, il cor d'ansia mi stringi,
o torrentello.
Tutto il tuo corso è quello
del mio pensiero, che tu risospingi
alle origini, a tutto il fronte e il bello
che in te ammiravo; e se ripenso i grossi
fiumi, l'incontro con l'avverso mare,
quest'acqua onde tu appena i piedi arrossi
nudi a una lavandaia,
la più pericolosa e la più gaia,
con isole e cascate, ancor m'appare;
e il poggio da cui scendi è una montagna.

Sulla tua sponda lastricata l'erba
cresceva, e cresce nel ricordo sempre;
sempre è d'intorno a te sabato sera;



sempre ad un bimbo la sua madre austera
rammenta che quest'acqua è fuggitiva,
che non ritrova più la sua sorgente,
né la sua riva; sempre l'ancor bella
donna si attrista, e cerca la sua mano
il fanciulletto, che ascoltò uno strano
confronto tra la vita nostra e quella
della corrente.

Trieste
(da Trieste e una donna, 1910-12)

Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un'erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.

Intorno
circola ad ogni cosa


un'aria strana, un'aria tormentosa,
l'aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

Città vecchia
(da Trieste e una donna, 1910-12)

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
nell'umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.



Dopo la tristezza
(da Trieste e una donna, 1910-12)

Questo pane ha il sapore d'un ricordo,
mangiato in questa povera osteria,
dov'è più abbandonato e ingombro il porto.

E della birra mi godo l'amaro,
seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al faro.

L'anima mia che una sua pena ha vinta,
con occhi nuovi nell'antica sera
guarda una pilota con la moglie incinta;

e un bastimento, di che il vecchio legno
luccica al sole, e con la ciminiera
lunga quanto i due alberi, è un disegno

fanciullesco, che ho fatto or son vent'anni.
E chi mi avrebbe detto la mia vita
così bella, con tanti dolci affanni,

e tanta beatitudine romita!

Ulisse

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'acqua emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,



per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Prospettiva

La gente in fretta dirada.
                       Filari
d'alberi nudi ai lati del viale,
in fondo là dove campagne sfumano,
si avvicinano - pare - in una stretta.
E v'entra un poco di quel cielo lilla
che turba e non consola.
                       Breve sera,
troppo, in vista, tranquilla.

La casa della mia nutrice

La casa della mia nutrice posa
tacita in faccia alla Cappella antica,
ed al basso riguarda, e par pensosa,
da una collina alle caprette amica.

La città dove nacqui popolosa
scopri da lei per la finestra aprica;
anche hai la vista del mar dilettosa
e di campagne grate alla fatica.

Qui - mi sovviene - nell'età primiera,
del vecchio camposanto fra le croci,
giocavo ignaro sul far della sera.

A Dio innalzavo l'anima serena;


e dalla casa un suon di care voci
mi giungeva, e l'odore della cena.

Passioni

Sono fatte di lacrime e di sangue
e d'altro ancora. Il cuore
batte a sinistra.

Il fanciullo e la verga

« Io verga t'ammonivo un dí: Conviene
essere saggi. E quando là in un canto
eri preso, ed a me sposato, oh quanto
poco di questo era per te il diletto! » -

« Oh strano, oh triste, oh risibile oggetto,
come farti ai miei ochhi osi presente? » -
« Un dolore ricordo, io a te, cocente? » -
« Certo: ed ira e vergogna ». - « Or che ti tiene

di gettarmi lontano? » - « Dici bene,
odiata verga; e meglio io fo: ti spezzo ». -
« Ancor non l'osi, ancor non sei che a mezzo
un uomo. E se mi spezzi, è prova questa

che ancor mi temi ». - « Oh, a me non sei molesta
da gran tempo! » - « Da un anno. Ma tu m'hai,
senza toccarmi, spezzata, se sai
già ridere di me, delle mie pene ».

Ritratto della mia bambina

La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell'estiva vesticciola: « Babbo
- mi disse - voglio uscire oggi con te ».
Ed io pensavo: Di tante parvenza
che s'ammirano al mondo, io ben so a quali
posso la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull'onde biancheggia, a quella scia
ch'esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.

Mezzogiorno d'inverno

In quel momento ch'ero già felice
(Dio mi perdoni la parola grande
e tremenda) chi quasi al pianto spinse
mia breve gioia? Voi direte: « Certa
bella creatura che di là passava,
e ti sorrise ». Un palloncino invece,
un turchino vagante palloncino
nell'azzurro dell'aria, ed il nativo
cielo non mai come nel chiaro e freddo
mezzogiorno d'inverno risplendente.
Cielo con qualche nuvoletta bianca,
e i vetri delle case al sol fiammanti,
e il fumo tenue d'uno due camini,
e su tettue le cose, le divine
cose, quel globo dalla mano incauta

d'un fanciullo sfuggito (egli piangeva
certo in mezzo alla folla il suo dolore,
il suo grande dolore) tra il Palazzo
della Borsa e il Caffè dove seduto
oltre i vetri ammiravo io con lucenti
occhi or salire or scendere il suo bene.

Il fanciullo e l'averla

S'innamorò un fanciullo d'un'averla.
Vago del nuovo - interessate udiva
di lei, dal cacciatore, meraviglie -
quante promesse fece per averla!

L'ebbei e all'istante l'obliò. La trista
nella sua gabbia alla finestra appesa,
piangeva sola e in silenzio, del cielo
lontano irraggiungibile alla vista.

Si ricordò di lei solo quel giorno
che, per noia o malvagio animo, volle
stringerla in pugno. La quasi rapace
gli fece male e s'involò. Quel giorno,

per quel male l'amò senza ritorno.

Inverno

È notte, inverno rovinoso. Un poco
sollevi le tendine, e guardi. Vibrano
i tuoi capelli, selvaggi, la gioia
ti dilata improvvisa l'occhio nero;
che quello che hai veduto - era un'immagine
della fine del mondo - ti conforta
l'intimo cuore, lo fa caldo e pago.

Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.

Felicità

La giovanezza cupida di pesi
porge spontanea al carico le spalle.
Non regge. Piange di malinconia.

Vagabondaggio, evasione, poesia,
cari prodigi sul tardi! Sul tardi
l'aria si affina ed i passi si fanno
leggeri.
Oggi è il meglio di ieri,
se non è ancora la felicità.

Assumeremo un giorno la bontà
del suo volto, vedremo alcuno sciogliere
come un fumo il suo inutile dolore.

Messina
(Terremoto del 1908)

Io non la vidi mai, che d’essa noto
n’era il nome e non più. Nel mio pensiero,
quanto vedevo immaginando il vero,
è quello che distrusse il terremoto.
Vedea uno stretto da varcarsi a nuoto;
di cupe frondi un dondolio leggero:
col porto di vocianti uomini nero,
sotto un meriggio eternalmente immoto,
biancheggiar la città, vasta aranciera.
ora veggo macerie, onde la fiamma
esce, o un lungo sottil braccio di cera.
Vagano cani ritornati fiere:
mentre al bimbo che piange e chiede mamma
canta la ninna-nanna un bersagliere …

Nella notte di Natale

Io scrivo nella mia dolce stanzetta,
d’una candela al tenue chiarore,
ed una forza indomita d’amore
muove la stanca mano che si affretta.
Come debole e dolce il suon dell’ore!
Forse il bene invocato oggi m’aspetta.
Una serenità quasi perfetta
calma i battiti ardenti del mio cuore.
Notte fredda e stellata di Natale,
sai tu dirmi la fonte onde zampilla
Improvvisa la mia speranza buona?
E’ forse il sogno di Gesù che brilla


nell’anima dolente ed immortale
del giovane che ama, che perdona?

La foglia

Io sono come quella foglia - guarda -
sul nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene attaccata.

Negami dunque. Non ne sia rattristata
la bella età che a un'ansia ti colora,
e per me a slanci infantili s'attarda.

Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile.

Un ricordo

Non dormo. Vedo una strada, un boschetto,
che sul mio cuore come un’ansia preme;
dove si andava, per star soli e insieme,
io e un altro ragazzetto.

Era la Pasqua; i riti lunghi e strani
dei vecchi. E se non mi volesse bene
pensavo e non venisse più domani?
E domani non venne. Fu un dolore,
uno spasimo verso la sera;
che un’amicizia (seppi poi) non era,
era quello un amore;

il primo; e quale e che felicità
n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste.
Ma perché non dormire, oggi, con queste
storie di, credo, quindici anni fa?

Mia moglie

Quando triste rincaso e lei m’aspetta
alla finestra, se la bella e cara
moglie, ad un gesto, il mio male sospetta,
se il disgusto mi legge, od altro, in faccia,
tosto al mio collo le amorose braccia,
come due serpi vigorose, getta;
me solo accusa la sua voce amara.
"E così dice è così che mi torni.
Non un bacio per me, non un sorriso
per tua figlia; stai lì, muto, in disparte;
si direbbe, a vederti, che tu hai l’arte
di distruggerti. Ed io... guardami in viso,
guarda, se alle parole mie non credi,
questi solchi che v’ha lasciato il pianto.
Ero qui sola ad aspettarti; intanto
la nostra casa io l’ho rimessa, vedi?
come nel primo giorno.
Ma tu già non m’ascolti. Che passione,
e che rabbia mi fai!
Non s’ha il diritto, sai,
quando si vive con altre persone,
di tenere per sé le proprie pene;
bisogna raccontarle, farne parte
ai nostri cari che vivono in noi
e di noi".

"Quanto, quanto m’annoi",
io le rispondo fra me stesso. E penso:
Come farà il mio angelo a capire
che non v’ha cosa al mondo che partire
con essa io non vorrei, tranne quest’una,

questa muta tristezza; e che i miei mali
sono miei, sono all’anima mia sola;
non li cedo per moglie e per figliola,
non ne faccio ai miei cari parti uguali.

C'era

C’era, un po’ in ombra, il focolaio; aveva
arnesi, intorno, di rame. Su quello
si chinava la madre col soffietto,
e uscivano faville.

C’era nel mezzo una tavola dove
versava antica donna le provviste.
Il mattarello vi allungava a tondo
la pasta molle.

C’era, dipinta in verde, una stia, e la gallina in libertà raspava.
Due mastelli, là sopra, riflettevano,
colmi, gli oggetti.

C’era, mal visto nel luogo, un fanciullo.
Le sue speranze assieme alle faville
del focolaio si alzavano. Alcuna
guarda! è rimasta.

A mia figlia

io tenero germoglio,
che non amo perché sulla mia pianta
sei rifiorita, ma perché sei tanto
debole e amore ti ha concesso a me;
o mia figliola, tu non sei dei sogni
miei la speranza; e non più che per ogni

altro germoglio è il mio amore per te.

La mia vita mia cara
bambina,
è l’erta solitaria, l’erta chiusa
dal muricciolo,
dove al tramonto solo
siedo, a celati miei pensieri in vista.
Se tu non vivi a quei pensieri in cima,
pur nel tuo mondo li fai divagare;
e mi piace da presso riguardare
la tua conquista.

Ti conquisti la casa a poco a poco,
e il cuore della tua selvaggia mamma.
Come la vedi, di gioia s’infiamma
la tua guancia, ed a lei corri dal gioco.
Ti accoglie in grembo una sì bella e pia
Mamma, e ti gode. E il suo vecchio amore oblia.

Sera di febbraio

Spunta la luna.
Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s'allaccia;
sbanda a povere mète.
Ed è il pensiero
Della morte che, in fine, aiuta a vivere.


Caro luogo

Vagammo tutto il pomeriggio in cerca
d'un luogo a fare di due vite una.

Rumorosa la vita, adulta, ostile,
minacciava la nostra giovinezza.

Ma qui giunti ove ancor cantano i grilli,
quanto silenzio sotto questa luna.

Donna

Quand'eri
giovinetta pungevi
come una mora di macchia. Anche il piede
t'era un'arma, o selvaggia.

Eri difficile a prendere.
Ancora
giovane, ancora
sei bella. I segni
degli anni, quelli del dolore, legano
l'anime nostre, una ne fanno. E dietro
i capelli nerissimi che avvolgo
alle mie dita, più non temo il piccolo
bianco puntuto orecchio demoniaco.

Fanciulli allo stadio
Galletto
è alla voce il fanciullo; estrosi amori
con quella, e crucci, acutamente incide.

Ai confini del campo una bandiera
sventola solitaria su un muretto.
Su quello alzati, nei riposi, a gara
cari nomi lanciavano i fanciulli,
ad uno ad uno, come frecce. Vive
in me l'immagine lieta; a un ricordo
si sposa - a sera - dei miei giorni imberbi.

Odiosi di tanto eran superbi
passavano là sotto i calciatori.
Tutto vedevano, e non quegli acerbi.

Di ronda alla spiaggia
Annotta. Nella piazza i trombettieri
uscirono a suonar la ritirata.
La consegna io l'ho, credo, scordatta;
che tendono a ben altro i miei pensieri.

E il mare solitario i miei pensieri
culla con le sue lunghe onde grigiastre,
dove il tramonto scivolò con piastre
d'oro, rifulse in liquidi sentieri.

Questo a lungo ammirai, ben che al soldato
più chiudere che aprire gli occhi alletta,
che ha i piedi infermi ed il cuore malato.

E seggo, e sulla sabbia umida e netta
un nome da infiniti anni obliato
scrive la punta della baionetta.

La vetrina
(1938)

Sono a letto, ammalato. E gli occhi intorno
giro per la mia stanza. Oltre i lucenti
vetri un mobile antico a sé li chiama,
alle cose ch'esposte in lui si stanno

Bianche stoviglie, ove son navi in blu
dipinte, un porto, affaccendate genti
intorno a quelle. Altre vi sono cose
ch'erano già nella materna casa,
cui guardo con rimorso oggi ed affanno,

e così lieto le guardavo un giorno,
che di nuove acquistarne avevo brama.
Ciascuna d'esse a un tempo mi richiama
che fu sì dolce, che per me non fu
tempo, che ancor non ero nato, ancora

non dovevo morire. Ed anche in parte
ero già nato, era negli avi miei
il mio dolore d'oggi. E in un m'accora
strano pensiero, che mi dico: Ahi, quanta
pace al mondo prima ch'io nascessi;

e l'ho turbata io solo. Ed è un mendace
sogno; è questo il delirio, amiche cose.

Quanto un giorno v'ho amate, belle cose,
che siete là nella vetrina, e altrove
siete, nell'ombra e nel sole, ed oh quale

ho nostalgia di lasciarvi! Nel buio,
tornar nel buio dell'alvo materno,

nel duro sonno, onde più nulla smuove,
non pur l'amore, soave tormento
sì, ma a me fatto intollerando. È il letto

questo in cui venni da quel caro buio
molto piangendo, alla luce, alle cose
ond'ebber gioia i miei occhi. E mortale
non so più quel dì deprechi. E male
non ho che m'impauri, o è solo interno

Come ogni notte, quando il lume spengo,
che agli occhi miei gravi di sonno apporta
essa fastidio, e metto il capo sotto
la coltre, e tutto a me stesso rinvengo,
tutto in me mi rannicchio, or sì vorrei

fare, e che più per me non fosse giorno!
E sì tutto m'arride. Anche la gloria
viene; il suo bacio, ancor che tardo, io sento.

Del divino per me milleottocento
Amate figlie, qui dalla lontana

Inghilterra venute, di voi dico,
pinte tazzine, vasellame usato
dagli avi miei laboriosi, al tempo
che la vita più degna era e più umana,
e molto prima che nascessi, io so

la vostra istoria, che ai vecchi la chiese
il poeta ch'è pio verso il passato.
Approdava ogni mese un bastimento
A questo porto di traffici amico,
con di voi sì gran copia che il mendico



come il ricco ne aveva. Aveva il tempo
fornito appena atroce guerra, e pace
era sui mari, ma non mai nel cuore
dell'uomo. Or voi nella vetrina state
che v'è coetanea, semplice, capace

di molte e belle forme. Ed io a guardarvi
non so, nel mio dolore, altro che morte
non so invocarmi. Non vissuto invano,
più d'esser nato la sventura sento.

Ceneri

di cose morte, di mali perduti,
di contatti ineffabili, di muti
sospiri;

vivide
fiamme da voi m'investono nell'atto
che d'ansia in ansia approssimo alle soglie
del sonno;

e al sonno,
con quei legami appassionati e teneri
ch'ànno il bimbo e la madre, ed a voi ceneri
mi fondo.

L'angoscia
insidia al varco, io la disarmo. Come
un beato la via del paradiso,
salgo una scala, sosto ad una porta
a cui suonavo in altri tempi. Il tempo
ha ceduto di colpo.
Mi sento,

con i panni e con l'anima di allora,
in una luce di folgore; al cuore
una gioia si abbatte vorticosa
come la fine.
Ma non grido.
Muto
parto dell'ombre per l'immenso impero.

È Tutto Vero
(a Giacomo Debenedetti)

È tutto vero. i canarini fanno
- ieri ne disperavo quasi – il nido.
e Giacomino mi scrive: <<il tuo libro è bello,
è molto bello. Accordi statua
arcobaleno. È questa tua stagione
tarda, senza rancori, che mi piace>>.
è tutto vero. Ma è più vero ancora
che sono stanco a morire; che a vivere
- non è per noi che si deve, è per altri –
solo di solitudine ho bisogno.

Al Lettore

Se leggi questi versi e se in profondo
senti che belli non sono, son veri,
ci trovi un canarino e tutto il mondo.

Pettirosso

Trattenerti, volessi anche, non posso.
Vedi, amico del merlo, il pettirosso.
Quanto ha il simile in odio egli di quella
vicinanza par lieto. e tu li pensi
compagni inseparabili, che agli orli
di un boschetto sorpreso li sorprendi.
Ma un impeto gioioso al nero amico,
che vive prede ha nel becco, l’invola.
Piega un ramo lontano, cui non nuoce,
se un po’ ne oscilla, l’incarco; la bella
stagione, il cielo tutto suo l’inebbriano,
e la moglie nel nido. come un tempo
il dolce figlio che di me nutrivo,
e là si sgola.

Quest’anno

Quest’anno la partenza delle rondini
mi stringerà, per un pensiero, il cuore.
Poi stornelli faranno alto clamore
sugli alberi al ritrovo del viale
XX settembre. poi al lungo male
dell’inverno compagni avrò qui solo
quel pensiero, e sui tetti il bruno passero.
Alla mia solitudine le rondini
mancheranno, e ai miei dì tardi l’amore.

A un giovane comunista

Ho in casa – come vedi – un canarino.
Giallo screziato di verde. Sua madre
certo, o suo padre, nacque lucherino.

E’ un ibrido. E mi piace meglio in quanto
nostrano. Mi diverte la sua grazia,
mi diletta il suo canto.
Torno in sua cara compagnia, bambino.

Ma tu pensi: I poeti sono matti.
Guardi appena; lo trovi stupidino.
Ti piace più Togliatti.

Uccelli

L’alata
genia che adoro – ce n’è al mondo tanta! –
varia d’usi e costumi, ebbra di vita,
si sveglia e canta.

Contovello

Un uomo innaffia il suo campo. Poi scende
così erta del monte una scaletta,
che pare, come avanza, il piede metta
nel vuoto. Il mare sterminato è sotto.
Ricompare. Si affanna ancora attorno
quel ritaglio di terra grigia, ingombra
di sterpi, a fiore del sasso. Seduto
all'osteria, bevo quest'aspro vino.


All'anima mia

Dell'inesausta tua miseria godi.
Tanto ti valga, anima mia, sapere;
sì che il tuo male, null'altro, ti giovi.

O forse avventurato è chi s'inganna?
né a se stesso scoprirsi ha in suo potere,
né mai la sua sentenza lo condanna?

Magnanima sei pure, anima nostra;
ma per quali non tuoi casi t'esalti,
sì che un bacio mentito indi ti prostra.

A me la mia miseria è un chiaro giorno
d'estate, quand'ogni aspetto dagli alti
luoghi discopro in ogni suo contomo.

Nulla m'è occulto; tutto è sì vicino
dove l'occhio o il pensiero mi conduce.
Triste ma sollegiato è il mio cammino;

e tutto in esso, fino l'ombra, è in luce.

Goal

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non vedere l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che lo induce
con parole e con mano, a sollevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.

Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato sotto il cielo, di vedere.

Presso alla rete inviolata il portiere,
l’altro - è rimasto; ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch’io son parte….

Vecchio sobborgo

Vecchio sobborgo improvvisato e squallido,
già campagna sassosa, poi conquista.

Sul tetto di una casa cresce l'erba
come sui resti di un incendio. Pochi
passi più in là c'è il Pastificio, il rosso
suo fumaiolo. Ma la giostra suona
all'ultima miseria delle cose;
alle merci che sembrano rifiuti,
alle facciate delle case invase
di una lebbra che ieri era colore
e rallegrava lontano la vista.

Come diverso il giovane barista,
e pure nato da te, da te si sente!
Mi fa un caffè come un trionfo, e i buoni
occhi in volto gli ridono sportivi.

Amai

Amai trite parole che non uno
osava. M'incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.

Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l'abbandona.

Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.

Oggi il tempo è di pioggia

Oggi il tempo è di pioggia.
Sembra il giorno una sera,
sembra la primavera
un autunno, ed un gran vento devasta
l'arboscello che sta - e non pare - saldo;
par tra le piante un giovanetto alto
troppo per la sua troppo verde età.
Tu lo guardi. Hai pietà
forse di tutti quei candidi fiori
che la bora gli toglie...

Nuovi versi alla Lina

Una donna! E a scordarla ancor m'aggiro
io per il porto, come un levantino.
Guardo il mare: ha perduto il suo turchino,
e a vuoto il mondo ammiro.


Una donna, una ben piccola cosa,
una cosa, Dio mio! tanto meschina;
poi una come lei, sempre più ascosa
in se stessa, che pare ogni mattina
occupi meno spazio a questo mondo,
dare ad un'esistenza il suo profondo
dolore; solo io qui sentirmi e sperso,
se più di lei la mia città non riempio;
spoglio per essa, e senz'altare, il tempio
dell'universo.

Una donna, un nonnulla. E i giorni miei
sono tristi; un donna ne fa strazio,
piccola, che una casa nello spazio,
un piroscafo è tanto più di lei.

non v'è cosa di te che più m'incresca;
fingiti abbominevole ai miei occhi.
O mia povera amica, oggi, perché
rattenermi? Non ho abbastanza amato,
si che per sempre, e più assai che non credi,
del ben che t'ho voluto ti son grato?
Pianger di che? Non lacrime mi devi
di rimorso; ma andar diritta e forte,
ma il silenzio di te, ma la mia morte
nel tuo cuore; e se questo oggi ti appare
pena soverchia al dolor che hai recato,
sol che morto mi pensi, anzi non nato,
posso ancora pensare
posso ancora sperare
che una mattina di sole al destarmi,
di quante cose che per te ho lasciato,
di quanta gloria saprei ricordarmi;
trovar dolci le notti, i giorni brevi

alla mia gioventù ch'è ancora in fiore;
sorridere in cuor mio del mio dolore,
e guarirmi di te.
Ma tu lasciami, tu che nulla sai
farmi che adesso una viltà non sia.
Senza volgerti segui la tua via,
che un mesto ricordo in me sarai.

13

Dico al mio cuore, intanto che t'aspetto:
Scordala, che sarà cosa gentile. ~
Ti vedo, e generoso in uno e vile,
a te m'affretto.
So che per quanto alla mia vita hai tolto,
e per te stessa dovrei odiarti.

Ma poi altro che un bacio non so darti
quando t'ascolto.
Quando t'ascolto parlarmi d'amore
sento che il male ti lasciava intatta;
sento che la tua voce amara è fatta
per il mio cuore.

14

Dico: «Son vile...»; e tu: «Se m'ami tanto
sia benedetta la nostra viltà»
«... ma di baciarti non mi sento stanco».
«E chi si stanca di felicità?»
Ti dico: «Lina, col nostro passato,
amarci... adesso... quali oblii domanda!»
Tu mi rispondi: «Al cuor non si comanda;
e quel ch'è stato è stato».


Dico: «Chi sa se saprò perdonarmi;
se più mai ti vedrò quella di prima?»
Dici: «In alto mi vuoi nella tua stima?
Questo tu devi: amarmi».

La greggia

Greggia, tu che il sobborgo impolverato
traversi a sera: ed un lezzo a me grato
dietro te lasci, e hai tanta via da fare,
tra la furia dei carri e lo squillare
dei tram; dove la vita ha maggior fretta
come lenta procedi, e in te ristretta!
Greggia che amai dall’infanzia sperduta,
per te la doglia si fa in cor più acuta;
e mi viene, non so, d’inginocchiarmi;
non so, nel tuo lanoso insieme parmi
scòrger io solo qualcosa di santo,
e d’antico, e di molto venerando.

Ti mena un vecchio, sui piedi malcerto:
un Dio per te, popolo nel deserto.

Tre poesie alla mia balia

Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m' addormento.
Divento
legno in mare caduto che sull'onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano.
Oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore


n uno stile semplice ma raffinato  la  sua  poesia
I
vien meno!
Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, all'amoroso seno,
ai verdi paradisi dell'infanzia
Insonne
mi levo all'alba. Che farà la mia
vecchia nutrice? Posso forse ancora
là ritrovarla, nel suo negozietto?
Come vive, se vive? E a lei m'affretto,
pure una volta, con il cuore ansante.
Eccola : è viva; in piedi dopo tante
vicende e tante stagioni. Un sorriso
illumina, a vedermi, il volto ancora
bello per me, misterioso. E' l'ora
a lei d'aprire. Ad aiutarla accorso
scalzo fanciullo, del nativo colle tutto
improntato, la persona china
leggera, ed alza la saracinesca.
Nella rosata in cielo e in terra fresca
mattina io ben la ritrovavo. E sono
a lei d'allora. Quel fanciullo io sono
che a lei spontaneo soccorreva; immagine
di me, d' uno di me perduto...
Un grido
s'alza il bimbo sulle scale. E piange
anche la donna che va via. Si frange
per sempre un cuore in quel momento.
Adesso
sono passati quarant'anni.
Il bimbo
è un uomo adesso, quasi un vecchio, esperto
di molti beni e molti mali.

E' Umberto Saba quel bimbo.
E va, di pace in cerca,
a conversare colla sua nutrice;
che anch'ella fu di lasciarlo infelice,
non volontaria lo lasciava. Il mondo
fu a lui sospetto d' allora, fu sempre
(o tale almeno gli parve) nemico.
Appeso al muro è un orologio antico
così che manda un suono quasi morto.
Lo regolava nel tempo felice
il dolce balio; è un caro a lui conforto
regolarlo in suo luogo. Anche gli piace
a sera accendere il lume, restare
da lei gli piace, fin ch'ella gli dice:
"E' tardi. Torna da tua moglie, Berto".

Mio padre per me l'assassino

Mio padre è stato per me "l'assassino",
fino ai vent'anni che l'ho conosciuto.
Allora ho visto ch'egli era un bambino,
e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto,
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d'una donna l'ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

"Non somigliare - ammoniva - a tuo padre".
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
eran due razze in antica tenzone.

Nuvoletta
Tu sei la nuvoletta, io sono il vento.
Ti porto ove a me piace;
qua e là ti porto per il firmamento
e non ti do mai pace.
Vanno a sera a dormire dietro ai monti
le nuvolette stanche;
tu nel tuo letticciolo, i sonni hai pronti
sotto le coltri bianche.

Meriggio
Silenzio! Hanno chiuso le verdi
persiane e gli usci le case.
Non vogliono essere invase
dalla tua gloria, o sole!
Non vogliono! Troppo le fiamme
che versi nella contrada,
dove qua e là della strada
ferrata l'acciaio sfavilla
rovente. Pispigliano appena
gli uccelli, poi taccion, vinti
dal sonno. Sembrano estinti
gli uomini, tanta è ora di pace, silenzio!.

Il biancospino
Di marzo per la via
della fontana
la siepe s'è svegliata
tutta bianca,
ma non è neve,
quella: è biancospino
tremulo ai primi
soffi del mattino.

La fiorita di neve

Dal cielo tutti gli Angeli
videro i campi brulli,
senza fronde nè fiori,
e lessero nel cuore dei fanciulli
che aman le cose bianche.
Scossero le ali stanche di volare
ed allora discese lieve lieve
la fiorita di neve.

Più non mi temono i passeri

Più non mi temono i passeri. Vanno
vengono alla finestra indifferenti
al mio tranquillo muovermi nella stanza.
Trovano il miglio e la scagliuola: dono
spanto da un prodigo affine, accresciuto
dalla mia mano. Ed io li guardo muto
(per tema non si pentano) e mi pare
(vero o illusione non importa) leggere
nei neri occhietti, se coi miei s'incontrano,
quasi una gratitudine.
Fanciullo,
od altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva o in letizia (e più se in pena) apprendi
da chi ha molto sofferto, molto errato,
che ancora esiste la Grazia, e che il mondo
TUTTO IL MONDO - ha bisogno d'amicizia.

A mamma

Mamma, c'è un tedio oggi, una sottile
malinconia, che dalle cose in ogni
vita s'insinua, e fa umili i sogni
dell'uomo che il suo mondo ha nel cuore.
Mamma, ritornerà oggi all'amore
tuo, che un dì l'ebbe a vile?
Chi è solo con il suo solo dolore?

Mamma, il tempo che fugge
t'ansia; e l'ansia che impera
nel tuo cuore c'è, forse anche nel mio;
c'è, pur latente, il male che ti strugge;
son le tue cure in me domenicali
malinconie.
Lente lente ora sfollano le vie
nella sera di festa e verdi e rossi
accendono fanali le osterie
di campagna. È una strana sera, mamma,
una che certo affanna
i cuori come il tuo soli ed amanti,
sugli ultimi mari i naviganti,
dentro l'orride celle i prigionieri.
Canterellando scendono i sentieri
del borgo i cittadini,
torna dolce al fanciullo la sua casa;
ed il mistero ond'è la vita invasa
tu con preghiere esprimi.

Mamma, il tempo che fugge
cure con cure alterna; ma in chi sugge
il latte e in chi denuda la mammella
c'è un sangue solo per la vita bella.

Milano

Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio
villeggiatura. Mi riposo in Piazza
del Duomo. Invece di stelle
ogni sera si accendono parole.
Nulla riposa della vita come
la vita.

Eros

Sul breve palcoscenico una donna
fa, dopo il Cine, il suo numero.
Applausi, e scherno credo, ripetuti.
In piedi, del loggione in un canto, un giovinetto,
mezzo spinto all’infuori, coi severi
occhi la guarda, che ogni tratto abbassa.
È fascino?
È disgusto?
È l’una e l’altra cosa? Chi sa?
Forse a sua madre pensa,
pensa se questo è l’amore. I lustrini
sul gran corpo di lei, col gioco vario
delle luci l’abbagliano.
E i severi
occhi riaperti, là più non li volge.
Solo ascolta la musica, leggera
musichetta da trivio, anche a me cara
talvolta, che per lui si è fatta, dentro
l’anima sua popolana ed altera,
una marcia guerriera.

Il vetro rotto

Tutto si muove contro te. Il maltempo,
le luci che si spengono, la vecchia
casa scossa a una raffica e a te cara
per il male sofferto, le speranze
deluse, qualche bene in lei goduto.
Ti pare il sopravvivere un rifiuto
d’obbedienza alle cose.
E nello schianto
del vetro alla finestra è la condanna.

Un vecchio amava un ragazzo

Un vecchio amava un ragazzo.Egli,bimbo
-gatto in vista selvatico-temeva
castighi a occulti pensieri.Ora due
cose nel cuore lasciano un'impronta
dolce:la donna che regola il passo
leggero al tuo la prima volta,eil bimbo
che,al fine tu lo salvi,fiducioso
mette la sua manina nella tua
Giovinetto tiranno,occhi di cielo,
aperti sopra un abisso,pregava
lunga all'amico suo la ninna nanna.
La ninna nanna era una storia,quale
una rara commossa esperienza
filtrava alla sua ingorda adolescenza:
altro bene,altro male."Adesso basta-
diceva a un tratto;-spegniamo,dormiamo."
E si voltava contro il muro."T'amo-
dopo un silenzio aggiungeva-tu buono

sempre con me,col tuo bambino." E subito
sprofondava in un sonno inquieto.Il vecchio,
con gli occhi aperti,non dormiva piu'.
Oblioso,insensibile,parvenza
d'angelo ancora.Nella tua impazienza,
cuore,non accusarlo.Pensa: E' solo;
ha un compito difficile; ha la vita
non dietro,ma dinanzi a se'.Tu affretta,
se puoi,tua morte.O non pensarci piu'.

TREDICESIMA PARTITA

Sui gradini un manipolo sparuto
si riscaldava di se stesso.
E quando
- smisurata raggiera – il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarì il presentimento della notte.
Correvano sue e giù le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.
Piaceva
essere così pochi intirizziti
uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.

L'addio

Senz'addii m'hai lasciato e senza pianti;
devo di ciò accorarmi?
Tu non piangevi perché avevi tanti,
tanti baci da darmi.

Durano sì certe armoniose intese
quanto una vita e più.
Io so un amore che ha durato un mese,
e vero amore fu.

Bocca

La bocca
che prima mise
alle mie labbra il rosa dell'aurora,
ancora
in bei pensieri ne sconto il profumo.

O bocca fanciullesca, bocca cara,
che dicevi parole ardite ed eri
così dolce a baciare.

La ritirata in Piazza Aldrovandi a Bologna

Piazza Aldrovandi e la sera d'ottobre
hanno sposate le bellezze loro;
ed è felice l'occhio che le scopre.
L'allegra ragazzaglia urge e schiamazza
che i bersaglieri colle trombe d'oro
formano il cerchio in mezzo della piazza.
Io li guardo: Dai monti alla pianura
pingue, ed a quella ove nell'aria è il male,
convengono a una sola vita dura,
a un solo malcontento, a un solo tu;
or quivi a un cenno del lor caporale
gonfian le gote in fior di gioventù.
La canzonetta per l'innamorata,
un'altra che le coppie in danza scaglia,
e poi, correndo già, la ritirata.
E tu sei tutta in questa piazza, o Italia.

La statua di Umberto Saba a Trieste