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Sebastiano
Satta

CANTI BARBARICINI

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SEGUITO


Lascia la crocea benda, che avvolseti
Al capo il torbido giorno di rabide ire.
Ascolti? a Te ne vengono, primavera dell’anima
Nostra, e a Te l’inno cantano dell’avvenire.
Per sempre snebbiano via con le nuvole
I truci sogni dinanzi a loro:
Eccoti il vino, il vin purpureo
Dei colli, mescilo nell’ospitale tua coppa d’oro!

Non io. Nel calice mio più non fumiga
Il vino ambrosio della mia giovinezza,
Pure, se ancor sull’invido cuor passi il vostro cantico,
Sfolgorante di indomita fede e fortezza,
Sentirò, o liberi Goliardi, l’èmpito
Del dolce sogno, sogno che fu,
E che ancor memore sorge dall’anima
Cercando il cantico, cercando il sole di gioventù.

IL CANTO DELLA BONTÀ
Per il primo Congresso dei Maestri sardi tenutosi in Nuoro

Fabbro, che sull’incudine sai battere il fecondo
Vomere, e, se lo voglia il Dritto, anche la spada;
Tu che inondi di sònito e luce la contrada,
Già prima che la stella lasci il ridesto mondo;
Seminator, che il solco segni tra i pigri veli
Del novembre, e la stiva reggi devotamente,
Come una croce, e versi dal pugno la semente,
E dal cuor la speranza, grande, guardando i cieli;

Uomo dei campi, che col tuo nobile ferro
Strazî, per fecondarlo, il faticoso cuore
Della terra, onde poi il calice ha il licore,
La lampana la fiamma, e l’ombra arguta il cerro;
Pastore, irto di pelli, che, quando dalla reggia
Del monte rompe il nembo, col vento e la bufera,
Vai fosco e taciturno, pensando nella sera
Con egual core ai figli e ai redi della greggia;

E donne, o voi bendate ai dì mesti di croco,
Che coronate di ninnananne divine

==>SEGUE
E le culle e le bare; voi madri, voi regine,
Caste custoditrici del lievito e del fuoco:
Udite, udite! Vengono, ecco, al rupestre nido
Nostro i piccoli padri! A lor, sì come dopo
La pia fatica, dite il canto, e di piropo
Ogni anima fiammeggi nell’affettuoso grido!

Vengono i dolci padri di tutti i figli: i buoni
Pastor che danno il timo all’orfano agnelletto:
I fabbri di virtù: i saggi che al negletto
Fior dan la luce; gli uomini delle seminagioni.
Dite il canto. Ma quale canto, o figli, dirà
L’anima vostra, in cui, come in non tocca selce,
Non desta è ancor la fiamma? Ah! voi spargete l’elce
Ed intrecciate solo pensieri di bontà!

O figli, o figli! quanto arse in fondo all’oscura
Anima nostra di odio, in voi arda d’amore.
O Bontà, rideranno precinti dal candore
Tuo tutti i sensi e i sogni della Città futura.
Oh siate buoni! nulla vi sarà di più grande
E di più augusto che la Bontà, sotto il sole.
I canti degli eroi non valgon le parole
Del giusto, e il rosso alloro non val le pie ghirlande.

L’anima vi trabocchi di amor, come una coppa
Di latte; nel perdono vostro amate pur quelli
Che si nutrono d’odio: anch’essi son fratelli
Nostri, ed intorno a loro fu vasto il pianto e troppa
L’ombra; versate il vostro balsamo anche sul male
Che è nel cuore dell’uomo; amate anche il felice
Inesperto del pianto; anche la meretrice
Amate, e il folle e il truce ed il micidïale.

Nulla sarà più grande di questo amore e un vano
Sogno fu ogni altra cosa! All’uomo che il coltello
Brandì torvo nell’ira, mormorate: Fratello!
E il ferro gli cadrà dalla snodata mano.
Alla donna che strugge nell’opera servile
Il dì di giovinezza: alla negletta ancella
Che anela scalza ed arsa, mormorate: Sorella!
E il cuor le tremerà come fiore in aprile.

==>SEGUE
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
CANTI
Canti barbaricini
Canti del salto e della tanca
_________

a cura di
Giovanni Pirodda
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Alla notizia della morte di Sebastiano Satta pastori e banditi, e insieme a loro i contadini, scesero dai monti per accompagnarlo all’ultima dimora. Il poeta fu popolare e amato fra i Sardi  contemporanei, che si dilettavano ad ascoltare anche in pubbliche letture i suoi canti, ispirati agli ideali di uguaglianza e di progresso sociale, ai miti di un immaginario collettivo: la natura, la donna (sposa e madre-matriarca), l’amore, le leggende tradizionali, il pastore, il bandito, l’odio, la vendetta, il ribellismo e l’attesa di una palingenesi. Sono i temi di una mitica e drammatica identità sarda, che Satta riproponeva a un nuovo pubblico, ricorrendo alla mediazione autorevole delle forme letterarie e metriche della poesia italiana fra Otto e Novecento.
Ma, al di là del mito, l’esperienza sattiana raggiunge una capacità poetica spesso misconosciuta, che merita di essere annoverata almeno tra le voci minori di quel periodo. Nel succedersi dei giudizi critici sulla poesia di Satta si affacciano di continuo perplessità e riserve riguardo al valore del lavoro sulla lingua poetica da lui compiuto. I toni alti del linguaggio e dello stile, il registro prevalentemente aulico hanno fatto pensare a una piatta imitazione della poesia carducciana e, generalmente, del classicismo ottocentesco, secondo influssi non rielaborati originalmente. In realtà l’operazione poetica compiuta da Satta, se analizzata nelle sue componenti e nelle sue modalità di elaborazione (anche alla luce dei documenti, di recente studiati, sui suoi interessi linguistici), si rivela ricca di implicazioni e tutt’altro che priva di originalità. Per capire i caratteri della poesia sattiana si può prendere l’avvio da un dato ad essa esterno, ma che pure la condiziona fortemente: l’orientamento ideologico democratico e socialista di Satta, con le forti ripercussioni che esso ha non solo sulle tematiche, ma anche sullo stile e sul linguaggio, come del resto avviene in un consistente filone della poesia italiana fra Ottocento e primo Novecento. Già Francesco De Sanctis, nelle sue lezioni su Mazzini e la scuola democratica, aveva rilevato come nella letteratura di orientamento democratico fosse prevalente la disposizione al linguaggio elevato, oratorio, sia per la continuità di quelle tendenze con la tradizione classicistico-giacobina, sia per la forte presenza in esse di intenti di persuasione. Il tono alto, il linguaggio aulico, la disposizione oratoria, il rapportarsi a un complesso di immagini proprie di una tradizione letteraria nobilitata da riferimenti storici e culturali prestigiosi (in particolare il mondo classico) sono caratteri che troviamo nella letteratura democratica per tutto l’Ottocento, ma anche in molta poesia novecentesca. La formazione radicale e l’orientamento socialista di Satta hanno dunque un ruolo importante nel determinare la fisionomia del poeta e la peculiarità del suo linguaggio poetico. Egli risente non solo, in generale, degli influssi del socialismo umanitario italiano, ma anche dei caratteri che assumevano in Sardegna le prime manifestazioni intellettuali del movimento, in cui, salvo rari casi, l’astrattezza delle proposte, il carattere intellettualistico delle elaborazioni erano prevalenti. Eppure la militanza politica di Satta non fu puramente ideale se a Nuoro in quegli anni, rispetto ad altre città sarde, il socialismo ebbe una storia più mossa e se attorno a lui si formò un nucleo di giovani intellettuali progressisti, tra i quali si distinse presto Attilio Deffenu. Nell’evoluzione e maturazione della sua poesia, dalle prime prove (decisamente ricalcate su moduli carducciani e su varie manifestazioni della poesia minore del secondo Ottocento, da Stecchetti a Cavallotti, con tracce anche del realismo alla Betteloni) fino ai componimenti più complessi e originali delle raccolte maggiori, hanno un ruolo importante gli influssi, accolti in modo più duttile rispetto a quei primi riecheggiamenti della lirica italiana dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento. Per esempio, nelle Leggende pastorali o nella stessa ideazione dei Muttos hanno certo influito l’uso che da Severino Ferrari e da Pascoli fu fatto delle forme e dei toni espressivi della poesia popolare; così come nei componimenti di carattere oratorio e celebrativo è evidente l’influsso del D’Annunzio delle Laudi. Tuttavia l’elaborazione di un linguaggio sostenuto, alto, che innesta su un fondo classicistico e carducciano anche l’esperienza della poesia primo-novecentesca, perviene a risultati – pur nella loro discontinuità – assai singolari, anche per la presenza, in quel processo, di un altro fattore: il sempre più vivo interesse manifestato da Satta per la tradizione di poesia sarda, in particolare per quella usualmente definita “semicolta”, e la considerazione del ruolo da essa svolto nella cultura dell’Isola. Sulla base di questa riconsiderazione, l’ideale del poeta-vate mazziniano e carducciano viene a configurarsi anche con i tratti del poeta di quella tradizione, e la formula di Carducci riguardo al linguaggio poetico, che deve essere di intonazione «montata almeno di un grado su la prosa», si incontra con l’aulicità e ilì prestigio di quella poesia – trasmessa in forme prevalentemente orali, concepita quindi per il canto e per l’udito, di impostazione declamata – e ne riceve un’impronta e connotazioni popolari e più autoctone. I riferimenti espliciti ai poeti di quella tradizione, soprattutto nell’ultima fase della parabola di Satta, tornano più volte. Si ripetono gli elogi dei rapsodi sardi (nobilitati attraverso questo termine che li collega alla poesia greca arcaica e a Omero, con suggestioni probabilmente anche dell’omerismo più moderno, soprattutto pascoliano); elogi che descrivono questa figura con accenti fortemente celebrativi. Ma soprattutto il canto a loro dedicato, Ai rapsodi sardi, l’ultimo di Satta, pur enfatico e forse troppo diffuso, offre una serie di elementi e di suggestioni che mi paiono, anche nei loro caratteri contraddittori, rivelatori di alcuni nuclei profondi della personalità poetica di Satta. Alla base del componimento è una spiegata ammirazione per i poeti sardi estemporanei: essi vengono descritti come «aedi erranti» che vanno «per l’antica isola (…) a dispensare larghi il canto / ad ogni cuore: al mietitore affranto / tra le messi, e al pastore tra’ suoi redi». La loro funzione è quindi quella di rallegrare e alleviare col canto le pene degli uditori: «Il mesto che vi ascolta / si rallegra (…) affanni e pene / dimentica, e si abbevera di gioja»; e il ricordo del canto lo accompagna nel suo cammino: «Ambia col grave ritmo delle ottave». I molti tratti che Satta fornisce disegnano la figura di un poeta consolatore, di una poesia in certo modo positivamente evasiva: «la vostra camena è una fanciulla / bellissima che vien dalla fontana / balda e dolce, la rossa anfora sulla / sua testa (…) Il pellegrino stanco chiede un sorso / per la sua sete, inclina ella la brocca / ròscida, e quegli beve e il cammin corso / oblìa e benedice». Satta tuttavia, senza togliere nulla alla positività di quella funzione, sembra auspicare per questa poesia contenuti più impegnati, considerando anche quale prestigio e potere essa possieda per il suo fascino su vasti strati popolari: «amati e venerati / siete perciò, fratelli, e senza trono / né spada, siete re (…) dinanzi vi sta il coro / e l’ansia turba: chini sull’irsuta / criniera dei cavalli, i mandriani / odon, e voi cantate. Il canto è fede: / e l’anima selvaggia ora vi chiede / se debba amare od odiar domani».
Ed ecco allora l’esortazione: «Ammonitela voi, coi vostri carmi, / o fratelli! (…) la mia terra cantate». E l’elogio di questa poesia è anche celebrazione della lingua in cui si esprime, «l’antico / idïoma del forte Logudoro», di cui vien tracciata la storia nelle sue manifestazioni fondamentali. Sulla base di questo vivo interesse per le forme e i modi della poesia in lingua sarda, l’aver adottato l’italiano, codice diverso da quello sardo, poneva a Satta problemi di non facile soluzione.
Come esprimere e rappresentare la civiltà della sua terra, in un momento di transizione e di crisi, in una lingua come l’italiano, in gran parte estranea? La prima difficoltà consisteva nell’orientarsi in un contesto nazionale che andava diversificandosi anche nel linguaggio poetico, in relazione a esperienze nuove, a realtà e gruppi emergenti, interpreti di esigenze di modernità nei comportamenti, nella mentalità, nel linguaggio poetico. Cantare liricamente i temi e le vicende della realtà sarda si presentava come un compito difficile, perché i codici di questa realtà, presente in Satta come vissuta e nota attraverso le aule del tribunale e l’esperienza sociale quotidiana, interferivano continuamente con le valenze linguistiche ed espressive della lingua poetica italiana. Si trattava di trovare e rielaborare un modello lirico narrativo, che aveva espresso modelli linguistici e letterari altamente elaborati e distanti dai modelli della lingua locale, e far sì che corrispondesse alla natura culturale del vissuto sardo, all’esperienza del mondo barbaricino, con una operazione di commutazione, di ricerca di equivalenze e di riformulazione in un altro codice. Equivalenze e commutazioni difficili, che inducono a soluzioni di compromesso al fine di non stravolgere, rendendolo irriconoscibile, quello specifico etico e culturale cui il poeta intende fare riferimento.
Nella scelta del lessico e nell’adeguamento del verso si avvertono nella poesia di Satta indizi di un preziosismo, ora arcaico ora moderno, non esteriore né superficiale, ma che forza la parola italiana a rendere un’immagine, un’idea, un sentimento finora inespressi, con elementi che conferiscono all’esito poetico del componimento risonanze e suggestioni inconsuete. Quando il poeta affronta tematiche sociali, dove il linguaggio ambisce a una comunicazione più diretta, non obliqua né ambigua, diverso è il trattamento linguistico, che si serve di un vocabolario più prosaico, più vicino all’uso quotidiano. La ricerca del vocabolo raro, arcaico, prezioso, è sostituita dalla parola più precisa e più aderente alla realtà a livello comunicativo; vi domina il verso sciolto e più libero si fa il gioco delle rime e delle strofe. L’apertura al quotidiano, alle movenze e ai toni della lingua popolare è evidente in alcuni titoli (Il palo telegrafico, La cantoniera, Emigranti); e inoltre nelle indicazioni anagrafiche precise – bimbi di dieci anni – o nelle puntualizzazioni cronologiche. Non mancano frammenti dell’oralità di tipo colloquiale, ed espressioni proverbiali e gnomiche, anch’esse dell’oralità, che concentrano una saggezza popolare garante di autorità collettiva, al di là del contingente; e locuzioni proprie dell’uso corrente, specie nei componimenti a struttura dialogico-narrativa, dove è evidente l’intento del poeta di rispettare il linguaggio dei propri personaggi. Né mancano i dialettismi, che danno colore al tessuto e all’immagine poetica, e convivono con vocaboli di diverse regioni italiane diventati d’uso generale. Prevalenti i toscanismi, che riflettono una tendenza toscaneggiante diffusa dopo l’unità d’Italia nelle varie regioni della penisola. Satta si riserva anche uno spazio di sperimentazione linguistica di matrice pascoliana, ma che ha soluzioni originali e adeguate al ritmo e alla tonalità della sua vena poetica. Si tratta di quel settore espressivo agrammaticale e fonico in cui il poeta è interessato a cogliere le valenze sonore della parola, in particolare delle onomatopee e più diffusamente dei vocaboli fonosimbolici che, mentre catturano le immagini sonore di eventi naturali (il vento, la pioggia), di esseri come la pecora, il cavallo, e di oggetti come i sonagli, intensificano il carattere comunicativo ed espressivo della lingua, proprio perché gli effetti di suono richiamano con immediatezza l’immagine e insieme ad essa il significato e le sue amplificazioni simboliche.
Alcune di queste voci risultano nei dizionari d’epoca (Crusca, Fanfani, Tommaseo), altre sono attestate a livello letterario in componimenti di Pascoli e D’Annunzio. Numerose sono le parole che esprimono suoni ed immagini del mondo naturale applicate a esseri umani (le madri «schiomate uggiola[no] sullo
spento focolare»; «di gioia nitrì / mia madre») in una sorta di rapporto ravvicinato che esalta la naturalità umana e attiva una corrispondenza emotiva e vitale tra uomo e natura. Di tipo pascoliano è anche la ricerca del termine preciso per quanto riguarda la flora e la fauna (con particolare predilezione per quella sarda): con questa caratteristica, che spesso accanto al termine d’uso è presente anche la variante rara e preziosa (lentischio, lentisco, sondro; biancospino, prunalbo) o il corrispettivo dialettale, in riferimento soprattutto al mondo animale (l’upupa, sa pupusa; la lumaca, sa croca). Un aspetto vistoso della poesia di Satta è l’uso del colore, legato a un’aggettivazione ad ampia gamma coloristica, talvolta intensificata anche dal ricorso al sostantivo metaforizzato (alabastro, argento, corallo, ecc.).
La lingua di Satta è anche lingua aperta agli influssi e agli apporti di altri codici linguistici, per lo più circoscritti al terreno lessicale: sono presenti francesismi (fenomeno diffuso a vari livelli nella seconda metà dell’Ottocento), molti già acquisiti nella lingua italiana, e ispanismi. Non mancano, sul versante colto del suo linguaggio, espressioni latine e il gusto della citazione, peraltro moderato. Ma a livello espressivo prevale ed è dominante lo sfruttamento del potere evocativo della parola, del ritmo, delle immagini, ottenuto attraverso la commistione e l’oscillazione tra elementi dialettali e italiani, spesso felice e talora forzata. L’aspetto più evidente del lavoro espressivo di Satta si coglie nello sfruttamento del patrimonio linguistico d’appartenenza, in vari settori: toponimi, elementi del paesaggio, della fauna e della flora, espressioni tipiche di gioia o di dolore o simili; nomi di persone, richiami di animali (cani, ecc.), espressioni gnomiche, calchi o voci dialettali che riprendono elementi dell’abbigliamento o oggetti d’uso; l’indicazione di arti e mestieri, nomi di esseri fantastici della tradizione popolare. Il rapporto con il sardo è costituito da un consapevole lavorio di adattamento, risolto in un difficile amalgama espressivo: ne risulta una proposta di lingua poetica italiana immersa nel contesto culturale e linguistico regionale. Questa operazione è sostenuta in particolare dal ricorso ad un espediente stilistico: l’assunzione del punto di vista interno al mondo rappresentato, che porta in primo piano uno o più personaggi, dietro cui si eclissa la voce del poeta; e ciò soprattutto nei componimenti a forte connotazione dialogica. L’operazione poetica di Satta è dunque più ambiziosa e impegnativa di quanto non sia emerso dal dibattito critico che si è sviluppato sulla sua opera. Essa si fa carico di una tradizione ìpoetica regionale, sia sul versante della tradizione in lingua sarda, sia sul versante della produzione in italiano – più modesta e recente, e tuttavia significativa –, per rilanciare, con una coscienza più scaltrita e aperta e meno subalterna, una esperienza poetica che ponga sullo stesso piano i valori di una realtà locale, trascurata ed estranea, e gli strumenti espressivi e tecnici di una tradizione colta, in un momento in cui si tende a dar voce alle culture emergenti che ambiscono ed esigono di avere diritto alla parola nel concerto nazionale.
Quali i risultati effettivi di questo lavoro nella molteplicità di testi prodotti da Satta? È utile tornare all’ideale rappresentato dai rapsodi sardi per capire le ragioni della scelta diversa, linguistica ma anche tematica, compiuta da Satta rispetto alla tradizione autoctona, pure così esaltata in quel componimento. Infatti, pur nella rappresentazione solenne e in positivo dei rapsodi, il poeta, con accenti dolorosi e significativi, dichiara non solo l’impossibilità per lui di identificarsi, ma anche di essere in consonanza con loro: «se all’anime che adoro, / – anime tristi ardenti nel silenzio / come lampe – sonasse nel canoro / accento dei miei padri la canzone / della speranza mia, monda d’assenzio / e pura d’ogni fosca visïone, / anch’io alla pensosa turba assorta / tal inno innalzerei che alle parole / alate (…) si leverebbe l’anima risorta. / Ma fu negato a me questo celeste / dono», quello cioè di poter alleviare «gli acerbi affanni e le funeste / cure col canto».
Mi pare che in questi versi si esprima consapevolmente una condizione contraddittoria, scissa e lacerata, che forse, come dicevo, ci introduce nel cuore della personalità culturale e dell’esperienza poetica di Satta. In maniera abbastanza chiara, è qui espressa la coscienza che la tradizione dei rapsodi, di cui egli aveva evidenziato il carattere sostanzialmente evasivo e consolatorio (pur nei toni celebrativi), non può essere assunta come modello primario da un poeta sardo teso verso la modernità, e pertanto animato da ideali di impegno civile e consapevole delle drammatiche contraddizioni in cui si dibatteva la comunità isolana.
Questa coscienza è il punto d’arrivo di un’evoluzione culturale che è segnata da passaggi fondamentali: la fervida assimilazione di molteplici aspetti della letteratura contemporanea, l’apertura alle esperienze e alle ideologie politiche più innovatrici, provenienti prevalentemente dalla cultura italiana, realizzatesi soprattutto durante il soggiorno sassarese; tali esperienze maturano negli anni nuoresi, per quanto concerne l’aspetto politico, con la partecipazione, soprattutto ideale, al movimento di promozione sociale e di crescita nell’ambito dell’ideologia socialista; e per quanto concerne l’aspetto letterario con l’elaborazione di una poesia che tenta diverse vie, anche intimistiche, ma che principalmente si lega alla tradizione di poesia democratica cui si è sopra accennato.
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Amate ogni vivente creatura: ogni cosa
Viva: il fior della Vita! La cicuta e la spica,
La vipera e l’implume, l’aquila e la formica,
La fronda del cipresso e il fiore della rosa.
E nulla, o figli, ai piccoli vostri padri sarà
Più dolce che la vostra ben divinata messe.
O nati a suggellare le fulgide promesse,
Spargete l’elce e i sogni di pace e di bontà.




SGELO

Palpita tutto al molle,
Languido mite fiato
Di marzo, il risolato
Colle.

Or fuori della bruma
Aulisce di vïole;
E verde altare al sole
Fuma.

Levansi attorno i monti
Sereni alti splendenti
Di gelo, e di gementi
Fonti.

O Barbagia! e sui cigli,
Coronata baleni
Di nevi, e di sereni
Gigli.
IN LODE DI FRANCESCO CIUSA

IL NATALE DI LAZZARO

I
Vedi è Natale: scende dai pertugi
Del soffitto la luna e imperla un velo
Sull’insonne occhio tuo. Negli stambugi,
Se c’è la luna, vi si addoppia il gelo.

Odi? rombano, cantan con anelo
Empito le campane, e tu trangugi
Fiele, ed i tuoi pensier, neri segugi
Arrandellati, abbaian contro il cielo.

Oh! D’april, quando è Pasqua, nel profondo
Ciel v’arde fuoco, e sono pie le fonti,
E vi ha di molta erbuccia e radichelle…

Ma a Natale hanno aguzzi rai le stelle;
Son chiusi i cuori e son fredde le fronti,
E muto e nero e senza sole è il mondo.

II
Tu ascolti e vedi in sogno. Ecco il fiorito
Desco e, tra molto acciottolìo sonoro
E canti, ecco il majal, di sacro alloro,
Come un cesareo vate, redimito.

Borghesi e filistei parlan fra loro
Di Gesù nato e sognano il convito
Celeste… e mangian lenti, con decoro,
Ché il cibo è assai, più assai che l’appetito.

Ma tu balzi fantasma, alto, ed ascolti
Giù dall’abisso della via salire
L’ululo estremo di cognati cuori….

Sovra le turbe passano bagliori
Di nembo e tuoni, di corrucci e d’ire!
Guardan dall’ombra disperati volti.

                    Dicembre 1903


ALLA FONTE

O Francesco, la prima creatura
Che ti sorrise dalla sanguinosa
Nostra terra, sfiorì come una rosa
Selvaggia, in un mio canto di sventura.

Or la rivedo, schiusa dalla pura
Tua mano giovanil, con rugiadosa
Fronte di gloria, riguardar secura
Oltre il sogno, alla sua vita affannosa.

Oh fuor dei venti della truce sera
Cammina, anima! Il nostro ermo destino
Celato è come il fuoco delle selci.

O Francesco, e udiremo a primavera
Costei, fornito il suo duro commino,
Parlar della tua gloria, alta fra gli elci!

                    Agosto 1904




Meriggio
LA MADRE DELL’UCCISO

Madre, nel grido della turba, il carro
Trainò l’ucciso figlio tuo dal monte;
E troppo lenti erano i gravi bovi
A portartelo al tuo solo dolore.
Or te lo senti ripassar sul core
Il sanguinoso carro.
E ti stai sulla pietra
Del focolare, ove spartivi il farro
Con la sua gioia; e inconsolata e tetra
Ti affliggi, o madre, nell’immota pena
Della tua vita; e ti discarna e adunca
Il dolore col suo ferreo ronciglio
Più d’allor che con lui, col dolce figlio,
Falciavi l’orzo per le chiuse valli.
Altra messe ora mieti:
La falce del pensiero
Taglia spighe di pianto;
Leghi i mannelli del gran sogno infranto
Nel tuo silenzio, sotto il cielo nero.
E non sola una madre con un solo
Dolor tu sei, ma sei
Ahi! tutta la Barbagia di Sardigna,
Sola sui tristi monti
Tra il singulto del mare
Tra il singulto dei venti,
In vista agli orizzonti
Seminati di pene,
Tacite e vive come fiamme ardenti
Di bivacchi notturni.

O Francesco, o fratello!
Da quali nostri cieli taciturni,
Errando per pianure d’oleastri,
Ti mosse incontro questa forma viva?
I tuoi sogni lontani eran come astri
Accesi sopra solitaria riva.
E a te venìa dall’ombra antelucana
La parola profonda
Di questa terra antica:
E ascoltasti l’insonne
Vento seminatore

==>SEGUE

Nella tanca lontana;
E adorasti il silenzio
Del ciel meridiano
Quando le selve pendon come cetre
E vibra sulle pietre
Dei vertici lo squillo
Del falco cacciatore.
Tutte accogliesti in cuore
Le melodie del campo e dell’ovile…
Del debbio e del viaggio
Dei nomadi pastori,
Della vendemmia e della tosatura,
E della domatura dei selvaggi
Torelli e dei poledri corridori.
Ecco: e tra questi accenti
Varcasti il limitare
Del tuo silenzio: e all’opra creatrice
Drizzasti il cuore con virtù nativa.

E fu puro il tuo gesto,
E casto come quello dell’uom che ara,
E della donna che apparecchia il pane,
E del pastor che guida, nella chiara
Notte di luglio, il branco alle fontane.
E fosti triste e solo al tuo lavoro,
Solo alla tua fortuna;
Con solo il tuo dolore,
Con solo il dolce amore
Che ti arridea dal Marghine lontano.
Ed ecco, la tua mano
Ora ha ghermito il sogno:
Ghermito lo ha, così, con giovanile
Impeto, come quando
Salivi l’erta cima a snidiare
I falchetti; così, come sapevi
Con la sicura fionda
Spiccar la pina dall’aerea fronda!
Ora lasciati a tergo il truce intrico
E gli striscianti sibili e l’esiguo
Aer dello speco: col sogghigno ambiguo
Nulla più ti domanda il gran Nemico.
Va’ per la tanca in fiore:

==>SEGUE
La terra è tutta bianca
Di greggie e di asfodeli;
Balzano su dall’artemisie d’oro,
Trillan da tutti i cieli,
Le allodole, o fratello!
Ah! sveneran l’agnello
Più grasso, oggi, i pastori,
E ti daranno il latte,
E parleran con te di questa loro
Madre, e avranno nel cuore
Il pianto del ricordo!
E l’anziano dirà: Sian benedette
O figlio, le tue mani.

Sardegna, o Madre, chi nella tua notte
— Non ebber mai più vasta notte i cieli —
Chi dirà il canto alla tua luce, il canto
Della tua primavera?
O Taciturna, o Sola!
La profonda parola
No, non l’udrai dai cento tuoi loquaci
Rabula, tronfî tra il plaudir dei fetidi
Subrostrani: né porpora alle rose
Della tua Primavera
Darà la cauta schiera
Degli onesti tuoi ladri e dei banditi.
Se l’aurora arderà su’ tuoi graniti
Tu la dovrai, Sardegna, ai nuovi figli.
A questo: a quanti cuori
Vegliano nella tua ombra, aspettando!
O fratello, e tu primo alla vittoria,
Da’ il grido dai vermigli
Pianori: Agita il palio…
O rosso cavallo,
O cavallo di gloria, hutalabì!

                    Aprile 1907

ODE AL GENNARGENTU

ODE AL GENNARGENTU

Anima, ascolti? Un grido di vittoria
È in cielo. Passan le aquile. Al supremo
Vertice sali, e là, sogna l’estremo
Sogno di gloria.

Ascendi. Non qui il tinnulo lamento
Degli armenti, o di nostra vita i segni.
È qui la pace: e sono questi i regni
Ermi del vento.

E già sul vento levansi, da monte
Spada, spettri di nubi. Sopra il cuore
È un’ombra: son passati. Nel chiarore
Sùbito, un fonte

Luccica e scroscia. Odorano le valli
Di serpillo e di quercia; erti fra l’erbe
Aspre, poggian nitrendo a queste acerbe
Aure i cavalli.

Ecco, è la cima. Come aërea regna
Il cielo, qual la vidi nel desìo!
Oh, che tutta ti abbracci oggi col mio
Cuore, Sardegna,

Tutta! Dai picchi dove la mattina
Stanno i vecchi pastori a rimirare,
Alti fra i greggi bianchi, il tremolare
Della marina;

Ai piani dove van silenzïose
Ombre di mandre e nubi; ai bei meandri
Delle gole, ove intesson gli oleandri
Serti di rose;

Ai ruderi del grande Enosigeo
Memori, proni tra i lentischi e i mirti,
E a quelle che te vider, sarde sirti,
Divo Aristeo.


==>SEGUE
Deh! da quanto mistero arso di lande
Tendon gli animi a te, siderea vetta.
E tu ti stai, vigilia eterna, eretta
Al nembo e al grande

Ciel, che s’inarca sul perpetuo pianto
Del mare. E sai di nostra stirpe i fati,
E udisti — o gloria! — dopo i disperati
Impeti, il canto

Della vittoria, quando dai confini
Dei monti balenarono, su gli adri
Valichi, i vostri flammei avvisi, o padri
Barbaricini.

Or nella notte irrompe pe’ deserti
Valloni la bardana: alti, nei neri
Manti, passano torvi cavalieri
Tastando i certi

Schioppi, se senton ridere nel cuore
L’odio. Pur qui, mondo di crucci e d’ire,
Salì un giorno, guardando all’avvenire,
Un vïatore.

E sull’ultimo sasso, su cui vola
L’aquila e il vento, e ha serto di vïole
Selvaggie, scrisse — e riguardava il sole —
Una parola.

E qui fiammeggia… O nubi, e tu, randagia
Aura, ditela voi nel volo vostro
L’alta parola. E tu, terra del nostro
Sogno, Barbagia,

Accoglila nel cuor, come del lento
Verno il germe nel buon solco si accoglie;
E tu vedrai dal tuo Monte, che ha soglie
Sacre, di argento,

Scender la Gioia. Tu vedrai sui monti
Fiammeggiare quel giorno le bandiere
Del sole; tutte tutte le bandiere
Dei tuoi tramonti.


==>SEGUE



Darà serti di pace l’olivastro
Della tua tanca: i tuoi figli, i pastori,
Sentiranno levarsi dai lor cuori
Selvaggi un astro.

Oh benedetta per la tua ventura,
Come lo fosti per il tuo dolore!
Sii benedetta per il nostro amore,
Barbagia, pura,

Pia madre che ci nutri di tua forza.
Sii benedetta per i limitari
Schiusi all’ospite; per i focolari
Dove non smorza

Mai la fiamma l’anziano; per il pane
E per il latte dato al vïandante
Ed al ramingo; per la greggia errante
Che alle fontane

Scende col sole, mite e bianca, a bere;
— E intorno stanno le cavalle e i cani
E i servi: e quei che se ne van pe’ piani
E le brughiere,

Cercando i redi, richiamando a nome
Le agnelle, sperse giù, nel temporale:
E han sandali di pelle di cignale,
E intonse chiome:

E sanno nelle costellazïoni
Legger l’ora del tempo, e senza freni
San domare i polledri, e son sereni,
Gagliardi e buoni —

Sii benedetta per le tue capanne
Dove tra i salmi passano leggende:
Dove, nei vespri, ronzan le tremende
Tue ninnenanne;

Per le selve che al cuore che dolora
Danno sensi di forza e melodia,
Quando vi scorre trepida, su via
Di fior, l’Aurora;

Per le tue donne che tra vagli e spole
Dicon lor tristi canti; per i vecchi
In molte opere esperti; pe’ pennecchi
Tremuli al sole

==>SEGUE

Come fronda di pioppo; per l’eletta
Tua nuova sorte; per il tuo dolore;
Per l’odio nostro; per il nostro amore:
Sii benedetta!
ICNUSIE

L’ALTERNOS
Sui campi di Tiesi, in un’alba del Giugno 1796

All’alba — il carro d’oro per la via
Lattea scendeva, e un’aquila garria —
Fu visto — o fato! — Don Giovan Maria,
Il ribelle Alternos, qui cavalcare.

L’alto suo sogno, grave di avvenire,
L’impeto fatto di speranze e d’ire,
La forza di chi sorse a maledire
Egli vide dal sommo ruinare.

Errava triste e solo. Per il piano
Fuggiangli l’occhio e l’anima lontano:
Ché ancor vedeva quel suo sogno, invano,
Sui boschi, dietro i monti, balenare.

I monti della patria! Come veli
Di ninfe si svolgevano nei cieli
Le nubi antelucane: gli asfodeli
Svettavano al chiaror crepuscolare.

Or nella gloria di sue rosse aurore,
Cinto di lampi si levava il cuore,
Anelando. Or non più, dentro il fragore
Dell’armi, l’inno, soffio aquilonare!

Non dal pulpito più prete Muroni
— Legato ha il suo ronzino agli arpïoni,
E polveroso è ancora, e con gli sproni —
Rugge sui vili, ché non sa pregare.

Non più nel solco del mattino d’oro
Le urgenti turbe! O verde Logudoro,
Di che fiamme avvolgesti il nobil coro,
In ogni ovile e in ogni casolare!

Non più veglie animose fra le gole
Dei salti, e vaste fronti aperte al sole,
Non nei consigli più sensi e parole
Ardenti come fiamma sull’altare.

Ma non questo ribelle alla tempesta,
Se pur stride nel cielo la funesta
Ora dei vinti, la pensosa testa
Sconsacrata saprà, vinto, piegare.

==>SEGUE
Solo a te, Sarda Terra, come a madre
Egli piega! Le sue vindici squadre
Egli seppe per te scioglier dalle adre
Glebe, e agitarle come nembo il mare.

Tutto fu vano! Oh voci dell’avita
Casa deserta! Oh fiori della vita
Deserta, o figlie! Oh compagnia romita
Dei padri sardi intorno al focolare!

Or l’anima solinga sotto i grigi
Cieli vede l’esilio di Parigi;
Prone le turbe vede, e sui fastigi
Dei monti scender l’ombra secolare.

IN MEMORIA
A G. Asproni

— Noi lo vedemmo e udimmo — i vecchi dicono
Seduti all’ombre verdi del sacrato,
E a lui pensando, i pii vecchi bisognano
Tutti i migliori sogni del passato —

Noi lo vedemmo e udimmo. In lui la ruvida
Possa della sua gente: e il dritto e sano
Oprare: in lui l’eloquio formidabile
Vivo di lampi come l’uragano.

In lui la gaia bonomìa: schiudevasi
Talor la sua pensosa fronte ai voli
D’arguti motti, e allor egli appariane
Come una quercia viva d’usignoli.

Ed egli fu del nostro dritto valido
Affermatore. Allor per questa terra
Volser giorni men rei. Deh! come all’anima
Il ricordo di Lui oggi si afferra! —

Così i vegliardi. E i rimembranti giovani,
Scendendo a sera dalle fosche vette
Ai villaggi, che in fiere solitudini
Maturan òdii e covano vendette,

Ripensano: Oh se ancor di sua grand’anima
Passasse un lampo, o Patria, ancor tu noi
Vedresti in folta schiera assurger vindici
Dell’onta nostra e de’ destini tuoi!


GARIBALDI
...ai pastori sul monte,
nel crepuscolo del mattino

Io dissi ai pastori: — Pastore
Chiomato, coperto di sacco,
Che prima che balzi l’astore
Dai vertici lasci il bivacco,
E guidi col saggio vincastro
La greggia che sale con l’astro
E torna con l’astro, all’albore;

Fratello che dici: Lo guardi
Iddio! quando tocchi il trifoglio,
Saliamo le cime dai tardi
Tramonti, e vedremo lo scoglio
Dove Egli ha la gran sepoltura:
Fratelli, tocchiamo l’altura,
Sospinti dai sogni gagliardi.

Ah, voi non udiste che il nome
Suo grande: quel nome che fu
Clangore di gloria, e fu come
Fiamma di immortal gioventù!
Ma voi non sapete, no, quanto
Fu buono, e la gioia e l’incanto
Effusi dall’auree sue chiome.

Oh luce di vera bontà
Mai spenta per varia fortuna!
Oh il cor che ondeggiava qua e là
Nel petto leonino, in quell’una
Visione, in un fremito solo,
In quell’empito solo, in un volo
Soltanto… nel tuo, Libertà!

E il riso suo buono, o pastori,
Versava la gioia del vino:
Il dolce suo riso divino
Versava il suo cuore nei cuori.
Ai mesti il suo seno si apriva
Così come a voi, quando arriva
La greggia ad un campo di fiori.



==>SEGUE
E al pari di voi fu sereno:
Di fiamma Egli pur si vestì:
E correr sapea senza freno
Per le pampas al mezzodì,
Così come voi, per le bianche
Vermiglie pianure e le tanche
Urlando: Oh! hutalabì!

E gioia si avea dell’aurora
Per campi ed in aspre scogliere:
E seppe, guardando le sfere,
Così come voi, legger l’ora:
E martire fu, patrïarca,
Guerriero, pastore e navarca
Succinto, e di voce sonora:

E oprava la falce al gran raggio
Di luglio: e reggeva le mandre,
Sereno nell’umil vïaggio
Tra canti di steli e calandre.
Poi, stanco, con l’anima sgombra
Di affanno, addormivasi all’ombra
Del suo cavallino selvaggio.

Saliva per erte piccàde
E aveva nei lunghi capelli
Il vento pampèro, e nei belli
Occhi avea baleni di spade.
E, amigos! diceva agli eroi,
Amigos, così come voi
Chiamate gli uguali: Fratelli! —

Sul vertice queste parole
Io dissi al fratello, al pastore.
Taceva nel mar di vïole
La tomba del Liberatore.
Ardevan i cuori e le fronti;
Sui fumidi patrî orizzonti
Raggiavan le cime nel sole.

Tacevan, percossi dall’ora
Solenne, i pastori; sul vento
Saliva, ma fievole, ad ora

==>SEGUE


Ad ora, il tinnir d’un armento.
Taceano raccolti i pastori:
Sentivan già sorger nei cuori
Un biondo sorriso d’aurora.

E fu da quel giorno una coppa
Di latte il lor cuore, e più dolce
Fu il gesto, e non disser mai troppa
La pace che l’anima molce;
E giù per dirupi e per valli,
Agli aspri selvaggi cavalli
Più baldi saltarono in groppa.

CUORE, ADORA!

A voi morti con ogni sacramento nell’adorno
Letto; a voi, placidi morti
Testati, che lasciaste — buoni, in quell’ultimo giorno —
Scrigno, casa, vigna ed orti;

A voi sorrida un gelido aprile di ghirlandette
False, in un falso giardino,
E onesti cuor di pietra a voi razzin lacrimette
Di cristallo e cäolino!

Oh di fiamme svolìo dell’orrendo cimitero
Cristiano, oltre le porte!
Sembran oggi i cipressi borghesucci messi in nero,
Colti da un pensier di morte.

Ma tu, mio vivo cuore, tu non palpiti né fremi
In quest’ombra, oggi né mai:
Tu non chiedi ai tuoi serti lacrimosi crisantemi,
E tu lagrime non dai.

Vola, vola, selvaggio cuore, lungi, sopra i venti
Del novembre; con le foglie,
Con le nuvole vola! Non dar pianti né lamenti
Della morte sulle soglie.

Cuore, adora! O deserte buche floride di assenzio
Su cui gemono tra il velo

==>SEGUE


Della bruma le voci della selva e del silenzio,
E le lagrime del cielo:

Erme fosse, ove aspettano quanti caddero per le nere
Vie, sul lastrico, nel sole:
Sepolcri d’onde svettano alberi come bandiere
Mormoranti alte parole:

O cuore adora quanti cadder bagnando col cuore
Loro il sogno. Cuore, adora
Quanti sparvero senza preci, arrisi oltre il dolore
Dal fulgore dell’aurora;

Quanti morir ribelli, pure col ferro assassino
Sovra i balzi solitari;
Quanti giaccion, non vinti né da Dio né dal destino
Nella terra e sotto i mari.


PICCOLE ANIME

Van gli scalzi fanciulli nello scialbo
Crepuscol di gennaio
A legnare. Frizzando da Montalbo
Li saluta il rovaio.

Gli elceti sembran templi di cristallo
Parati dalla brina.
Nel silenzio, non visto, stride un gallo:
— Buon dì, bianca mattina! —

Essi legnano: e stampan sull’informe
Costa, tra i cespi brulli,
L’orme… Oh tristi sul ghiaccio, all’alba, l’orme
Degli scalzi fanciulli!

E laceran tra i vepri, nelle spine,
I lor laceri panni;
Ed insanguinan pur le lor manine
Di bimbi di dieci anni.

Ma non piangono. Ai piccoli fu detto
Che il buon Dio, che gli uccelli
Guarda dal gelo, con lo stesso affetto
Veglia su i poverelli.

Ahi! ma pensa un di loro: — Tra le brume,
Per guardarsi dai rudi
Inverni, gli uccelletti han le loro piume,
E noi siam quasi ignudi… —

IL SEMINATORE

Egli guardò, guardò con quei sereni
Occhi suoi che vedeano oltre l’errore
Ed oltre il male, e vide in tutti i seni

Crescer alte le selve e, tra il fragore
Delle acque, udì sol rompere quel grido
Che lancia dalla sua rupe l’astore.

Ed una turba ignota che avea nido
In antri e spechi vide, ed a quei mesti
Disse: — Venite a me. Ecco, io vi guido

Verso il Sogno. Rifiorirà con questi
Sterpigni luoghi anche la vostra vita,
E a voi saranno tutti manifesti

I doni della terra. — Redimita
La fronte del gran Sogno, così il saggio
Parlò ai dolenti e agli umili; e brandita

Con le mani incolpevoli, nel raggio
Del sol, la scure, irrompe tra le selve
Profonde e tra i dirupi. Al suo passaggio

Cedean le secolari ombre e le belve,
Ed egli urgeva, e alla siderea testa
Gli si avvolgean le agresti madriselve,

Spontaneamente. Ma poi che funesta
Grandeggiava ancor l’ombra, egli il divino
Incendio indusse, e suscitò la festa

Delle pronube fiamme. Indi, al mattino
— Ardean sui monti gli astri ultimi e i roghi —
Trasse l’aratro, e il fumido cammino

Aprì dei solchi. Procedeano i gioghi
Lenti, silenti: ed ei con atto grave
La stiva dalle valli agli alti luoghi

Reggea come il timone d’una nave
Volta a lidi promessi. Le sementi
Dalla sua mano si spargean soavemente

==>SEGUE
IL BOVE

— Alcuna invidia mai, gramo bifolco,
Io non ebbi di te, sebben sì dura
Opra mi sia quel profondarti il solco,

E franger la maggese, e a mietitura
Carreggiarti il frumento, e poi le botti
Gravi portarti dopo svinatura.

Ché senza affanno a me volgon le notti
Nella fumida stalla; e tu ti sdrai
Senza letto né pace in tristi grotti.

A me ferrana e lupinella mai
Non mancano; tu, dopo la fatica,
Spesso, fratello, un solo pan non hai.

Solo pel tuo signor cresce la spica,
Verziga l’orto; e sol per lui quel vino
Che tu ne spremi dà la vigna aprica.

Chi più gramo di te? Non l’uccellino
Che svola e becca, pur tra nevi e geli,
Quanti germi ha la zolla e fior lo spino.

Non pur quelle che sotto aperti cieli
Van pecorelle per la valle sola
Brucando i cespi ed i rïarsi steli.

Nulla tu sei! Tu pieghi alla parola
Del tuo signore; a lui, tu, senza saio,
Vedi filare quella tua figliola

E lana e lino. Poi, quando è brumaio,
Scalzo mi segui e, servi, andiamo insieme
Per le colline morse dal rovaio.

Fra le porche gelate stride e geme
L’aratro: io vò sereno, ché chi bene
Si nutre il gelo e l’opera non teme.

È mezzogiorno: roco il suon ne viene
Dal piano; e tu quel pan, che ti dispensa
Scarso il padrone per nudrir tue pene,

==>SEGUE






Biasci pensoso. A me s’apre l’immensa
Campagna con sua fresca erba odorosa,
Più lieta e liberale d’ogni mensa.

Tali i nostri destini. Né mi è cosa
Dolente il giogo, poiché tu sopporti
Giogo più grave, e pieghi dolorosamente

la fronte invidïando i morti.

IL CANE

Tu non sai come fu. Fanno sette anni
Ora, a dicembre: un ben crudo mattino!
Io sentivo un ronzìo come di vanni

Rigidi, entro la gola del camino
Rispento. Babbo?… Oh, babbo era lontano!
Mamma morta. Lassù nell’abbaino

C’ero io solo. E aspettavo — o uomo! — invano
Ch’egli venisse e che portasse un pane
Al suo cuore. Sentivo il tramontano

Sulla gronda, e una romba di campane
Lontane che chiamavan sconsolatamente,
chi sa quali genti lontane.

Oh, ma lui non tornò! Dall’impannata
Si versò l’ombra, ed in quell’ombra un gelo
Di morte… Mi sembrò che una folata

Mi rapisse su in alto: il pianto, un velo,
Mi nascose quell’ombra e quel dolore,
Mi spirò intorno un alito di cielo

Primaverile… Era la morte. Oh, cuore
Mio, quella morte!
E poi? Rinacqui cane,
Poi, come vedi: e m’ebbe un cacciatore

Per figlio, e con lui corsi per le piane
Selvagge nel bel sole e, mentre il corno
Rintronava, balzavo entro le tane.

==>SEGUE
Né come or fai tu, bimbo, e come un giorno
Feci io pure, la notte, quando sfalda
Larga la neve, vagolai più intorno

Accattando; ché mi accogliea la falda
Del camino e ci avevo, sai, mattina
E sera, zuppa calda e cuccia calda.

Morì quel padre, ed ecco (oh la divina
Provvidenza!) mi accolse questa buona
Dama, un po’ arcigna, ed anche un po’ beghina,

Ma buona. E, tu non sai, la mia patrona
È lei la mente della Società
Protettrice dei cani: una persona

A modo insomma. È vero, essa non ha
Un chicco pei reietti e pei fanciulli,
Ma pei cani!… Ti dico in verità

È una grazia: ci hai sonno? e tu ti culli
In poltrona; ci hai fame? e lei ti ingozza
Di pasticci: noi siamo i suoi trastulli,

Il suo amore. E con lei spesso in carrozza
Noi pur si va, pieni di sacra fede,
Alla pia società. La bruma mozza

Per le strade il respiro; e vi si vede
Di dentro, o bimbi, all’uscio del fornaio
Triti, come ombre, in mezzo al marciapiede.

O fratello, io lo so! Ride il rovaio
Tra gli sbrendoli… e voi dalle vetrate
Guardate il pane, mentre ferve il gaio

Sfaccendìo dello sforno e ne fiutate
L’alore e, in sogno, dite: — Ah! quello è mio… —
E tendete la mano… e ne mangiate

In sogno, sai, come facevo anch’io,
Quando non ero cane.

A UNA MADRE
Per Maria Antonia Bianco Cavallera

Se in cospetto alla morte, ecco, sei sola;
Se in cuor più non ti suona
La Sua parola, l’ultima parola,
Dolce Madre, perdona.

Perdona a noi che, stretti nei fatali
Cerchi di questa terra,
Lo guardiamo tra ladri e micidiali
Mentre la morte afferra

La Madre! Non a quelli che nel tardo
Lor cuore al ditirambo
Borghese mescon le lor leggi. O dardo
Buono e mortale, o giambo!

Ah! non sperate che il suo cuor si franga
Nella nuova sventura:
Ei con l’aratro e con l’argentea vanga
Risalirà l’altura.

Noi lo vedrem portarci dal dolore
Più fulgide parole;
Egli farà come il seminatore
Che arando guarda il sole.

E, o Madre, tu che te ne vai lontano
Per sempre, oltre il dolore,
Tu, Madre, che ti affacci oggi all’arcana
Ombra con quel tuo cuore

Infranto, sentirai dentro la tomba
I disperati appelli:
E li vedrai ben giunger, tra la romba
Dell’inno, i suoi fratelli:

E sulla tomba tua, su quell’altare,
Sparger a piene mani
Ghirlande nere colte in mezzo al mare,
Traverso gli uragani!


I MORTI DI BUGGERRU

Novembre, non agli orti
Tuoi chiederemo i fiori
Per ghirlandare questi nostri morti.

Noi coglieremo fiori di bufera
Lungo il sonante mare.
Li copriremo d’elce,
Li cingeremo di selvaggio ulivo,
E con fiori di sole, o Primavera!

Ché non son morti. Nell’ignava fossa
Non posan essi verdi azzurri stanchi
Cadaveri… Ma vanno
Oltre letée fiumane, sul profondo
Cuor della terra, e scavano
Ancora. Van tra il rombo di altre mine
Per altre vie. Su loro
È il festoso scrosciar delle acque e il coro
Delle selve, divino. Ardon le lampane
Pari ad astri non mai prima veduti.

E a loro innanzi fuggono gli impuri
Spiriti della tenebra, gli oscuri
Spiriti della terra: Avanti, neri
Compagni mal sepolti! Oltre il sepolcro,
Giù! oltre la radice aspra dei monti,
Oltre l’alvo sereno delle fonti,
Oltre ogni umana mole,
Oltre ogni sogno infranto,
Oltre la terra che matura al sole
La sua messe di pianto…

Sardegna! dolce madre taciturna,
Non mai sangue più puro
E innocente di questo ti bruciò
Il core — E tanto ne stillò dall’urna
Della morte! — Pastore,
Re del silenzio, — sul tuo sogno immobile
Passan le rosse nuvole,
Passano i venti sul tuo chiuso cuore —
Ascolti? Il tuo silenzio


==>SEGUE


Vinto è dai colpi dei vendicatori:
E già sulla collina
Bela e svaria la mandra,
E canta la calandra
Ché l’aurora è vicina.
Uomo, che pieghi i tralci
Per la vendemmia altrui,
Canti Sebastiano Satta
Al fuoco che sotterra arde, dai grappoli
Gemerà vino d’allegrezza eterna!

Uomo, che segni sotto i cieli vasti
Piccolo i brevi solchi,
Ed è pur grande quella tua fatica!
Altri vomeri squarciano l’antica
Terra e l’aran, non visti, altri bifolchi.
Le piccozze son vomeri ben forti,
Ogni zolla è già gravida di un’alta
Promessa, e fiorirà
Una messe di gioia e di bontà.

L’allodola già canta sull’altura:
Preparate le falci,
E dite il canto della mietitura!

A EFISIO ORANO

No, tu non hai paura
Della loro galera.
Essi vanno nell’ombra della sera
Tra larve e mostri, e tu guardi all’aurora.
Coronata di rose la tua prora
Varca con te, non vinto, alla promessa
Isola di Fortuna.
Chi darà vita al nostro sogno, grande
Come il cielo? Chi ai pallidi profeti
Ombreggerà la fronte di ghirlande?
Ah! non Tartufo giudice, e non Ponzio
Pilato in tocco, e non Perrin Dandin
O sua Eccellenza Càifas daranno
Fiori ai fatali araldi.

O anime tementi, onesti gufi
Appollajati fra le crepe e i tufi
Della Legge, voi quando in cittadine
Rabbie latrò la fame e negli spazzi
E per le vie rombò negra la piena
Del dolore, e gocciò su li arsi sassi
Il sangue, ben voi dietro le cortine
Con le mani agli orecchi, scialbi e pazzi
Di terrore, agognaste questa bianca
Ora della vendetta.

Sì, quest’ora.
Ecco dite: — O benedetta
Pace tornata al desco cristïano.
Madama or potrà accedere all’argentea
Sea sicura, e i figlioli dalle suore
Avran bocche di dama e gelsomini;
E dormiremo placidi, nei letti
Presidïati dalle zanzariere
E dalla legge. Or morda la canea
Il ferro delle gabbie.
Ai rosei pesciaioli e ai macellari
Nitidi, oggi è dovuto questo omaggio;
E in dolce vassallaggio
A Sua Eccellenza gialla
Questo dono è dovuto.

==>SEGUE



Uomo che mai non ridi
Padre di tutti noi,
Noi gonzi, figli tuoi,
Ti offriam questo canestro
Di frutta settembrine:
Son pigne porporine
Tinte di sangue nero,
Canti Sebastiano Satta
Anni di tristi pene
E mesi di silenzio,
Intrecciati con poma aspre di assenzio,
Groppi di corda e serti di catene. —

O fratelli, evoé! Fratelli, gloria!
È redenta la terra
Che fu trista nei secoli:
E degli onesti gufi è la vittoria!
E raca a te che al vino
Nostro mescesti il fiele,
O figlio di Caino.
O come dolce trilla e dolce squilla
Dalla lontana Nurra
Alla Barbagia azzurra,
Dalla Trexenta all’alida Marmilla,
Il nuovo idillio! E pace, o minatori
Di Buggerru, e voi, gobbi mietitori
Del Campidano; e pace, o voi pastori
Delle rupi! Venite alle fontane:
Lasciatevi cadere
Dagli artigli le pietre.
Eccovi il vino e il pane:
I cantori e le cetre
Preludiano alla danza.
O sogni, o primavera
Di serenanti giorni,
Se mai non torni, se più mai non torni
Ad assillarci questo
Avanzo di galera.
CANTI DELL’OMBRA
Las de pleurer de vivre et d’estre miserable
Desportes, Epitaphes

SEPULTA DOMUS

Mi dicevan: — Fulano
È ricco, ha molti armenti,
Ha vigneti e fiorenti
Pomarî ai poggi e al piano.
È assai ricco Fulano!

Ed io cantavo nel mio cuor fedele:
Ah! più grande tesoro
Mi ho io nella mia casa:
Una figlietta, una bambina d’oro
Che raggia d’astri tutti i miei pensieri…
O bambina, bambina!
Ed ecco tu sei morta.
Ed io non ho più nulla;
E invidio ora il mendico
Che dà nel cavo della mano al figlio
L’acqua delle fontane;
E invidio anche il tapino
Che torna all’abituro senza pane
E trova il figlio lacero, piangente
Nella tenebra, privo
Di ogni cosa, ma vivo!
Canti Sebastiano Satta



L’ANCORA D’ORO

Tu eri la mia àncora d’oro
Che mi affidavi del porto:
Per te ho riamato il lavoro
Sereno felice risorto.

Ed ora!… Deserta la culla
Tua breve, in un ciel di bufera
Io vo’ verso l’ultima sera,
Sperduto, o mia figlia, nel nulla.
MATER LACRYMARUM

Perché oggi pieghi i ginocchi
Sì pallida, e ancora quel pianto
Ti scuora e ti brucia negli occhi?
Lo so: sfaccendando in un canto

Hai visto quel suo vestitino;
Quel nuovo, a fioretti di lino.
E hai pianto ed hai pianto ed hai pianto!
Canti Sebastiano Satta


ESPIAZIONE

Cuore or non ti frangere, ché devi
Piangere e molto ancora. Una catena
Or ti è data di spasimo e di pena
Che le altre al paragone ti fur lievi.

Alacre ai vasti soli ed alle nevi,
Un avvoltoio, con insonne lena,
Distruggerà qualunque sia serena
Ora di gioia nei tuoi giorni brevi.

E darai sangue sotto al tuo flagello,
E avrai per ogni battito un martirio
Poi che ti piacque di parer sì forte:

Ché non sapesti rompere il suggello
Di tua vita, e con Lei, nel gran delirio
Di quell’ora, baciar la bella morte.
Canti Sebastiano Satta


SOLE

Che valmi se l’aria è serena
Se ridon di canti e di fiori
I cieli le piazze i poggiuoli,
Se tu non ci sei, mia piccina?

Ritorna bambina, bambina!
Noi siam così poveri e soli
Così, senza te: siam due cuori
Battuti da un vento di pena.
sulla pia terra, e dai ridenti
Cieli scendeano augei non visti in pria,
Sugli aratri sui solchi e le sorgenti:

Poi risalian con nova melodia
Cantando oltre le nubi, incontro al sole,
Sì che il ciel ne tremava d’armonia.

E parole di pace, alte parole
Non mai prima profferte, da quei cuori
Tetri rompeano, come romper suole

Dal greppo l’elce. Ed ecco dai pianori
Crescer la messe che dà il pane, e in serti
Pampinei la vite che i dolori

Scioglie e le cure. Oh scesa dagli aperti
Cieli, da tutti i cieli, alba invocata
Nell’ombra! Ora non più per i deserti

Salti con occhio torbido l’uom guata
Il fratello, né più van come lupe,
E scalze e scarne sovra la brinata,

Tristi donne accattando dalle cupe
Macchie la bacca del lentisco e il frutto
Del caprifico su da rupe a rupe.

Ché già da tutti gli orizzonti a tutto
Il cielo, tra il tumulto del lavoro
Redentore, ed il fremito del frutto

Vinto, e il brusir dei solchi, balza il coro
Arvale, e assiduo splende ad ogni cuore
Dall’aie colme di covoni d’oro

Il tuo spirito, o Dio Seminatore!



NINNANANNA FUNEBRE

Chetati via non piangere: noi pur verremo quando giunga l’ora.
Riposa, e ninna-nanna! i tuoi piedini
Son stanchi di cercarci… ninnananna, non vedi? ecco è l’aurora,
Ed è tutta la notte che cammini!

Riposa: a te d’accanto pace hanno anch’essi gli errabondi re
Della tanca, scettrati di vincastro;
I pastori che i gigli dei prati spargeran, figlia, su te
Nelle serene notti di alabastro.

Sette cani mastini e sette alani!
Li legheremo, o figlia, al limitare
Perché la morte non venga a bussare
dai Canti della Culla

…Oh perché non ho chiuso le porte
Con sette stanghe di cerro;
Oh perché con sette catene di ferro
Non ho precluso l’adito alla morte?

Oh perché…
ANTELUCANE


LEPPA E VOMERE

Dice la Leppa: Un giorno benedetta
E sacra in pugno del milizïano,
Nei campi — ove già l’impeto romano
Si franse — balenai come saetta.

Ora, a guardia dell’umile casetta
E della virtù prisca, non invano
Vigilo, e arrido al pallido isolano
Nei tormentosi sogni di vendetta.

Ed il Vomere: Al giusto io dò le buone
Messi; come pia arca, a me si schiude
La terra che di strage empia tu irrori.

E attorno a me, dalle colline prone,
S’alza a sera, fornita l’opra rude,
Il canto arvale dei lavoratori.



SALUTO AI GOLIARDI DI SARDEGNA
Per il Congresso universitario sardo tenutosi in Nuoro

Odi? essi giungono, o Madre, o Patria!
Essi che cantano l’inno dell’avvenire.
Or tu lascia la crocea benda, che male avvolseti
Al fiero capo il torbido giorno delle ire;
Cingi la benda candida e affacciati
Alta, dei monti sul limitare
Tremolo d’elci nere, e ben volino
In alto gli animi e gli inni e i falchi ad augurare!

Vedi? a Te giungono dal golfo ondisono
Curvo sul lucido mar come arco di luna;
Dai bei lidi che videro la vela infaticabile
Di Ulisse, volta alle isole della Fortuna.
A te ne vengono dalla magnanima
Città che levasi bianca tra brune
Selve pacifiche, dove ancor vibrano,
Da mura dirùte, i fieri sensi del suo Comune.

E Tu con ospite core, Tu accoglili,
O Madre, o Patria! Non più essi agli impronti
Sogni concedon l’anima, ma vindici ad un vindice
Lor richiamo, ecco levano le balde fronti.
Per poco il nitido pennecchio or dunque
Posin le mani, o Madre, e il tetro
Stame dei negri velli, e la nobile
Ròcca, di gracili intagli insigne, come uno scettro.

Posino l’opere. Ed il più fervido
Tuo vino mescasi, e si spezzi il tuo pane
Più puro; per lor, vittima fausta, s’impiaghi il fulgido
Cignale entro le fumide forre montane.
Sentano l’anima Tua dentro l’anima
Buona, nell’anima loro che anela
Alle fontane schiuse tra i vergini
Fiori, ai tuoi vertici arsi ove l’aquila e il cor s’inciela.

==>SEGUE
APPARIZIONE DI GESÙ
AI MIETITORI DEL CAMPIDANO
Sul colle a sera sette mietitori,
Adusti come figli
Del deserto, guardavan sui pianori
Vasti pendere i cieli alti e vermigli.

Come in sogno legavano con mani
Stanche, mannelle d’oro
E pensavano: — Noi per pochi pani
D’orzo falciam le messi del pianoro

E del colle; le messi che per poco
Pane i curvi bifolchi
Han seminato, con lo sparso fuoco
E col vomere aprendo questi solchi.

Pur noi né loro non abbiam frumento
Né spighe né farina:
Son le opre nostre come pula al vento,
La nostra vita è un’ombra che declina…

Canta il grillo, e dagli arsi Campidani,
— Oh lungo andare stanco! —
Moviamo a questi luoghi alti, per piani
Di brace, scalzi, con la falce al fianco.

La falce passa, morde i culmi e cade
Ecco la messe, intorno
Ecco altre messi; e innanzi, ecco, altre biade
Non nostre. Nostro è il sol del mezzogiorno,

E l’affanno! Per noi non han li arbusti
Ombra e la fonte langue.
Eppure, o Dio, noi camminiam per giusti
Sentieri, né grondarono di sangue

Mai queste mani! — Tacquero. Su loro
Risero i cieli, il cisto
Odorò dall’altura, e nel pianoro
Ecco, apparve ai dolenti Gesù Cristo

Come una fiamma. A lor venìa dai monti
Lontani, per sentieri
Di ciclame e pervinca, dalle fonti
Specchianti nubi e voli di sparvieri.

Passò la voce sua per gli orizzonti,
Sereni, in visïone:
— Figli, guardate all’alto, erte le fronti,
Ché già vicina è la Redenzione. —
SEBASTIANO SATTA  - CANTI BARBARICINI - Parte Seconda
L’ALLODOLA

Bambina, attorno al tuo bianco recinto
Prono è un bifolco sulla stiva ed ara:
La lodoletta con sua voce chiara
Lo accompagna dal cielo di giacinto.

Anch’io pur aro, o figlia. Oh ma non mai
L’opra mi parve sì grave e nemica:
Ché a coronar la mia vana fatica
Tu, lodoletta mia, non canterai.
Canti Sebastiano Satta




STELLE

Non mai vidi per chiare finestrelle
Arder fiammelle in notte senza luna
Sì vive, come sopra la tua cuna
Vid’io ridere il coro de le stelle.

E le stelle venivan di lontano:
Spiavano il tuo riso tra i ricami
De la culla, e diceano: Oh come bella!
Poi si partian pel cielo antelucano
E tornavan ai lor alti reami
Pur parlando di te, dolce angelella.
Ahi! ma una sera ti han cercato invano…
E fuggiron le stelle quella sera
Molli di pianto dentro l’ombra nera.
Ora sanno ove dormi: e ad una ad una
Vengono a salutarti a notte bruna,
Tra mormorii di steli e di alberelle.

MADRI E SPOSE

Se madri e spose vedo in bianca vesta
Levar cantando lor pargoli al sole,
L’anima che ne rise, or se ne duole,
In suo ricordo sbigottita e mesta.

Ché sempre non vagò sola per questa
Ombra di angoscia senza far parole,
Ma errò cantando per fiorite aiuole
Cogliendo sogni, o figlia, alla tua testa.

O figlia figlia figlia, ed ecco a terra
Sparsi quei sogni! E morta è la speranza
Che mi reggeva nell’inutil guerra.

Ma non morto è il dolor che m’arronciglia
Tacito il cuore, e me, fuor d’ogni stanza,
Urge nell’ombra te cercando, o figlia!
Canti Sebastiano Satta




SOGNI

O figlia, figlia, o mia morta bambina,
Tu crescerai con noi, ché ancor ci suona
Nel cuore il dondolìo della tua culla.

Tu crescerai con noi, sarai fanciulla
— Oh come bella! — e ci darai corona
Di gioia, o nostra piccola regina.

O mia bambina, e un giorno sarai sposa
— Oh come adorna! — e tra fioretti e grani
Varcherai trepidando il limitare.

O figlia, figlia mia, non lo varcare:
Tra i sogni della vita lacrimosa,
Almeno in sogno, accanto a noi rimani!
          
           Inserire Sebastiano Satta fra i grandi intellettuali che hanno dato lustro all’isola è fin troppo semplice. Inserirlo in un contesto nazionale, in occasione poi, delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia è invece più difficile, se si tiene conto sia della data di nascita di questo poeta, 1867, che della sua formazione culturale avvenuta in un contesto storico-sociale, quello della cittadina di Nuoro, piuttosto chiuso e apparentemente poco propenso a scambi con realtà esterne nazionali o internazionali. Ma come ebbe a dire Cavour, se era importante fare l’Italia, ben più complesso sarebbe stato fare gli italiani. Sebastiano Satta, seppure in un ambiente arretrato e geograficamente circoscritto, ha saputo offrire riflessioni, osservazioni acute e profonde, perfettamente legate e coerenti con certe correnti di pensiero nazionali che si sarebbero, nel tempo, affermate in Italia, contribuendo attivamente al rafforzamento del sentimento nazionale. Pensiamo al senso di appartenenza a un luogo, ai sentimenti di giustizia sociale e di solidarietà, cari a tutti gli italiani, senza i quali l’Italia non sarebbe arrivata ad essere importante come lo è nei fatti.

Per alcuni critici letterari come Petronio, in Satta i movimenti non carducciani sono rari, e di Carducci riprenderebbe i versi paganeggianti e parnassianeggianti de “Le odi barbare”: la polemica anti-cristiana, il vagheggiamento di un’antichità greca e latina, l’entusiasmo per la civiltà delle macchine di vecchio stampo positivistico e utopistico. Anche la protesta sociale più che essere protesa al futuro, consapevole del presente, sarebbe nostalgia di un passato di ribellione, di reazione e di banditi. Per questo la sua poesia sarebbe debole dal punto di vista dei risultati letterari.
Di fatto canta le macchine, i pali del telegrafo e avverte bene che con quei pali e quelle automobili muore tutto un mondo caro al suo cuore e alla sua fantasia. Li esalta non in odio al passato (come i Futuristi o d’Annunzio) ma per la perfetta consapevolezza della loro utilità sociale, consigliando ai “custodi dell’antico costume” di seppellire in mare la vecchia patria senza pianti(“L’automobile passa” in “Canti”).
Il poeta avverte che quel passaggio dall’antico al moderno è necessario e l’ideologia del Satta non si collega in alcun modo né all’attivismo né al nicianesimo: essa invece continua il Socialismo positivistico e umanitario che fu proprio del secondo ‘800 e ne riprendi alcuni miti essenziali: il maestro, la macchina, la lotta per l’uguaglianza e il progresso sociale, la speranza per un domani migliore.

Dunque, un poeta-vate, ma anche un uomo semplice, che ha amato profondamente la sua terra, esaltandola e mitizzandola nei suoi canti.
Uomo locale eppure nazionale che forse senza volerlo ha dato ai suoi compaesani e conterranei spunti per sentirsi parte integrante di uno Stato unitario, perché ha cantato la necessità della lotta insieme, unico strumento per uscire dalla miseria e dai soprusi, dallo sfruttamento e dall’ignoranza. Egli ha capito i problemi della sua terra e ha tracciato la via per uscirne: la lotta senza indugi, la solidarietà imposta dalla tradizione nuorese e sarda, la vicinanza con chi soffre. Certo non ha parlato a platee vaste nè a folle oceaniche, ma il suo pensiero resta vivo e tuttora valido per tutti coloro che vogliono che l’Italia resti unita, questo è il filo sottile che ci unisce tutti: giustizia e solidarietà con chiunque calchi questa terra-madre.
Questo libro, che ha in fronte il nome del mio bambino e si chiude con i ricordi di una pena indimenticabile, canta o, meglio, narra il dolore della mia gente e della terra che si distende da Montespada a Montalbo, dalle rupi di Coràsi fino al mare; e canta dolor di madri, odio di uomini, pianto di fanciulli. “Barbaricini” ho voluto chiamare questi canti perché sono accordi nati in Barbagia di Sardigna; ed anche quando essi non celebrano spiriti e forme di quella terra rude ed antica, barbaricini sono nell’anima e barbaricine hanno le fogge e i modi. “Le selvagge”, che sono il cuore nero del libro, ricordano gli ultimi anni di sconforto e di tenebra, quando gli ovili erano deserti e tremende e tragiche suonavano le monodie delle prefiche, e l’animo era smarrito e percosso da sciagure e odî nefandi. Ah, il poeta vide veramente quelle madri vagare sui monti cercando i figli feriti nelle stragi omicide, e vide veramente arar la terra coi fucili legati all’aratro!
Ma la notte dileguò e si udirono i canti antelucani…
S. S.
Nuoro (Sardegna), ottobre 1909