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ALESSANDRO TASSONI



LA SECCHIA RAPITA
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
IL POEMA EROICOMICO
NELL’ITALIA BAROCCA
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ALESSANDRO TASSONI  - LA SECCHIA RAPITA
Il genere dell’epica nel Seicento si collega in gran parte al Cinquecento di Tasso in cui da un lato troviamo la riscoperta della Poetica aristotelica e dall’altro, con la Gerusalemme liberata (1575), abbiamo una coerente e piena espressione dei valori culturali, morali e ideologici dell’età del Manierismo e della Controriforma uniti al rigore strutturale e finalistico propugnato nei libri della Poetica. Il Seicento presenta una ricca produzione di poemi eroici; molti scrittori si rifanno alla mitologia o a fatti legati al conflitto tra Chiesa e Medioriente (come la battaglia e la presa di Lepanto, 1603), ma si accontentano di imitare, senza produrre nulla di originale e la qualità resta modesta. Autori come Chiabrera (La Gotiade, 1582), Bracciolini (La croce riconquistata, 1605-1611) e Lalli (La Gerusalemme desolata, 1630) si cimentano nella stesura di opere eroiche ma nessuno dei poeti epici del Seicento diede vita a qualcosa di valore lasciando il modello tassiano in evidente declino. L’epica, senza aver prodotto in Italia un grande poema seicentesco, cede il posto alla poesia eroicomica, vera rivoluzione originale nel campo delle opere di ampio respiro. Il rifiuto di un classicismo cieco rende una della caratteristiche principali del secolo il rovesciamento radicale dei criteri costitutivi.  Da un punto di vista dell’evoluzione letteraria venivano ormai sentiti come antiquati coloro che si sforzavano di rispettare le regole che Tasso aveva fissato nei Discorsi del poema eroico (1587) e messo in atto nella Gerusalemme liberata. Valori come l’imitazione del vero, o della superiorità dell’argomento storico rispetto a quello di fantasia, non sono più sentiti come valori fondamentali. Il poema eroicomico assumeva lo stesso metro del poema eroico, l’ottava, e ne riprendeva i temi, stravolgendoli però nel ridicolo ed eliminando dunque il principio tassiano di un poema epico di argomento “virtuoso e pietoso” in linea col “miscere utile dulci” di Orazio. Da questo contesto nasce la parodia del genere epico, di cui Tassoni fu iniziatore insieme al contemporaneo Bracciolini (Lo scherno degli dei del 1618 che però, più che un poema eroicomico, è un poema gioioso in cui si fa un’allegra parodia di miti conosciuti e poco ricercati). Fra gli altri poemi eroicomici, non mancò neppure la parodia dell’Eneide di Giovan Battista Lalli (L’Eneide travestita, del 1634).
Tassoni nelle biografie è descritto come un uomo dal  carattere stravagante, amante del paradosso e ricco di contraddizioni, polemico, dall’ingegno vivace ed estroso; ne è una prova l’abbondante produzione saggistica. Per fare qualche esempio, del 1602 è la stesura delle Considerazioni sopra le «Rime» del Petrarca (pubblicate nel 1609), la prima espressione della rivolta secentesca contro la riproduzione pedissequa del modello petrarchesco e il dogmatismo degli aristotelici. 
Al contrario di quanto si aspettava, la fama di Tassoni è affidata proprio alla Secchia rapita, poema in ottave di endecasillabi (ABABABCC) pubblicata a Parigi nel 1621, e ritoccata per soddisfare le richieste del­la Congregazione dell’Indice. L’edizione romana del 1624 infatti presenta due lezioni: una, in pochi esemplari, destinata al papa e una seconda destinata al grosso pubblico e corrispondente alle scelte originali dell’autore. L’edizione definitiva uscirà a Venezia nel 1630, ma il poema era già conosciuto al pubblico prima del 1618, anno in cui uscì l’opera di Bracciolini Lo scherno degli dei; tra i due, rispetto alla cronologia di pubblicazione, nacque una polemica riguardo la paternità del genere eroicomico, che però va senza dubbio attribuita a Tassoni se non altro per la qualità compositiva decisamente inferiore e la scarsa inventiva dell’ “avversario”.
Nella Secchia la volontà  dissacratoria appare già dal titolo; il riferimento al rapimento di Elena è evidente. L’Iliade, modello autorevole della produzione epica cinquecentesca, viene qui rovesciata e messa in parallelo con una guerricciola medievale. Il trattamento solenne di una materia “irrilevante” e il trattamento umile di vicende serie sono le costanti stilistiche del poema. La contaminazione tra alto e basso implica un rovesciamento delle regole che comporta la degradazione, attraverso la parodia, del modello stesso del poema eroico e la distruzione dell’ideale di ordine e di eroismo che a questo si collega.
A partire dall’incipit del primo canto “Vorrei cantar quel memorando sdegno/ ch’infiammò già ne’ fieri petti umani /un’infelice e vil Secchia di legno /che tolsero a i Petroni i Gemignani” Tassoni esprime il suo intento di rovesciamento del modello. Se lo confrontiamo con l’incipit della Gerusalemme Liberata “Canto l’arme pietose e ‘l capitano /che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo. /Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano, /molto soffrì nel glorioso acquisto” possiamo notare già alla prima lettura le macro diversità. I primi due versi sono per entrambi gli scrittori dedicati all’auto presentazione come poeti: “canto” e “vorrei cantar”. Tassoni utilizza il verbo al condizionale, verbo dell’insicurezza; non si presenta affatto come un poeta sicuro di sé, portavoce di una grande tradizione o consapevole dispensatore di alti valori. Quasi ci dice che vorrebbe trattare la materia tipica dell’epica, se potesse, ma in realtà la sua è una storia che parla di una secchia di legno e di una piccola guerra medievale, che di eroico ha ben poco. Sempre nei primi versi, infatti, abbiamo l’esposizione della materia: Tasso ci presenta un capitano (Goffredo di Buglione) al comando di una pia impresa come la liberazione del sepolcro di Cristo (prima crociata, 1096-1099). Tassoni anche ci presenta un soggetto che sembra degna di trattazione epica: lo sdegno memorando che addirittura infiammò fieri cuori, ma tutta la tensione epica dei primi due versi viene fatta precipitare nella rima “sdegno-legno” già al terzo verso perché la lotta che infiammò i cuori aveva per oggetto una secchia “infelice e vil” (tutto l’opposto di quel “gran sepolcro” di cui narra Tasso). Il parallelismo formale viene così ribaltato dal rovesciamento dei contenuti e crea il conseguente svuotamento del modello, la cui presenza è facilmente riconoscibile grazie a semplici espedienti di recupero (come il verbo “cantare” nella stessa posizione iniziale,o l’esposizione della materia nei primi due versi). La differenza, oltre che nella materia trattata e nella caduta (meccanismo che diventerà costante nel testo), risiede anche nella coralità del testo tassoniano rispetto a quello tassiano; in Tassoni non c’è un vero e proprio eroe principale e la vox populi è molto più presente. Nel suo incipit non c’è spazio per un unico protagonista in cui identificarsi o che si faccia portavoce di grandi valori.
La struttura, poi, è quella che si richiede per un poema epico perfetto: ottave di endecasillabi, come codificato da Tasso, ma la narrazione è affidata al meccanismo, vitale e cardine per l’opera, del rovesciamento delle situazioni. L’imprevedibilità diventa irrinunciabile e ogni situazione si risolve con la costante disillusione delle aspettative. Il meccanismo di creazione dell’elemento divertente per lo più si basa sull’accostamento di elementi incongrui; il comico, come dice l’autore nella prefazione, deve nascere dal vivo contrasto che deriva dal «mescolare il piccante e il ridicolo con il grave e il serio ». In questo Tassoni risulta nuovo, distaccandosi da altri poeti che avevano cantato «una materia tutta burlesca con versi gravi o una materia tutta grave con versi burleschi ». Lo scopo dichiarato dal poeta fu quello del divertimento e non un’elevazione morale o religiosa del lettore; il suo strumento è la sperimentazione di una nuova costruzione letteraria, e lui stesso si dice mossa da «..curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme, grave e burlesco; imaginando che, se ambidue dilettavano separati, avrebbono dilettato congiunti e misti, se la mistura fosse stata temperata con artificio tale che dalla loro scambievole varietà  tanto i dotti quanto gli indotti [gli ignoranti] avessero potuto cavarne gusto» (introduzione alla Secchia). Tassoni aggiunge inoltre, con estrema varietà  di materiali e di stili, episodi cavallereschi, lirici, idilliaci e pa­rodie mitologiche (come la batracomiomachia dello Pseudo Omero, libro II lassa 43). Lo schema dell’azione proposta dal poema ripropone l’impalcatura del poema eroico, ma Tassoni opera su questa un innesto di elementi destinati a svuotare dall’interno il significato alto e assoluto del genere eroico, sintesi dei massimi valori civili e religiosi del secondo Cinquecento.
Pure l’argomento è storico, come codificato; viene però scelto secondo un criterio ben diverso da quello seguito da Tasso, che aveva rappresentato lo scontro tra la Cristianità e gli “Infedeli”. Come afferma l’autore nell’introduzione, firmandosi Accademico Umorista di Roma: «La secchia rapita, poema di nuova spezie inventata dal Tassone, contiene una impresa mezza eroica e mezza civile, fondata su l’istoria della guerra che passò tra i Bolognesi e i Modanesi al tempo dell’imperador Federico secondo […] Il poema della Secchia Rapita ha per tutto ricognizione di Istoria e di Verità. L’impresa è una e perfetta, cioè con principio, mezzo e fine». Se i singoli fatti (di portata limitata) sono dunque storicamente provati, e il fatto narrato, anche se corale, è uno soltanto (dunque rispetta il precetto aristotelico di unità), l’autore parla di un’impresa “mezza eroica” e si prende la libertà  di invertirne l’ordine: il furto della secchia, che nel poema dà  l’avvio alla guerra, avvenne in realtà  alcuni secoli dopo i fatti che nel poema concludono il conflitto.
L’azione si svolge nel secolo XIII al tempo dell’imperatore Federico II e del suo alleato Ezzelino III da Romano, ma i riferimenti alla contemporaneità sono numerosi come pure non mancano riferimenti polemici di carattere personale che contribuiscono a vivacizzare i personaggi. Il poeta trae ispirazione da un fatto realmente accaduto nel 1325, quando i Bolognesi, fatta irruzione nel territorio di Modena, furono respinti ed inseguiti fino alla loro città dai Modenesi, che, fermatisi presso un pozzo per dissetarsi, portarono via come trofeo di guerra una secchia di legno. Tassoni immagina che, al loro rifiuto di riconsegnare la secchia, i bolognesi dichiarino guerra ai modenesi. Alla fine il conflitto si conclude con l’intervento del legato pontificio a queste condizioni: i Bolognesi si tengano prigioniero re Enzo, i Modenesi si tengano la secchia.
Alla guerra partecipano, distribuiti tra le due parti, gli dei dell’Olimpo. A favore dei modenesi combattono personaggi storici come re Enzo, figlio dell’imperatore Federico II, e personaggi immaginari, come la bella guerriera Renoppia, che comanda una schiera di donne, ed il conte di Culagna. Così come fonde insieme personaggi storici e personaggi immaginari, Tassoni rappresenta insieme, anacronisticamente, vicende fantastiche, fatti storici della lotta tra Modena e Bologna e avvenimenti di altre epoche (come la battaglia di Fossalta del 1249). La guerra per la secchia rapita si protrae a vicende alterne, fra battaglie, duelli, tregue e tornei, intercalati da episodi comici e burleschi, che hanno spesso come protagonista il conte di Culagna.
La bellezza del testo è da ricercarsi, tra le altre cose, proprio nella caratterizzazione di personaggi come il Conte. Nonostante Tassoni non approfondisca mai l’aspetto psicologico, soprattutto a causa dell’azione frenetica e costante che domina il testo, i personaggi restano comunque interessanti; soprattutto la figura del conte, che ben rispecchia il carattere polemico di Tassoni. L’autore infatti lo identifica con il conte Alessandro Brusantini; tra i due si era creata una lunga polemica letteraria e attraverso allusioni nemmeno troppo velate Tassoni fa trasparire il parallelismo, dipingendo il suo “avversario” come un “filosofo, poeta e bacchettone; / che fuor de’ perigli un Sacripante / ma ne’ perigli un pezzo di polmone/ Spesso ammazzato avea qualche gigante / e si scopriva poi ch’era un cappone / onde i fanciulli dietro di lontano / gli solean gridare – viva Martano!” (vv 97-100 lassa XII, canto III). Sacripante è un eroe dalla corporatura e dalla forza gigantesche ma Martano è il più vigliacco dei personaggi dell’Orlando Furioso.
Nel Conte di Culagna forse Tassoni volle  dare una sorta di  discendente a don Chisciotte, ma i due eroi non hanno nessuna parentela nonostante la vicinanza cronologica e l’inserimento in opere entrambe varie per stile e tono. L’eroe di Cervantes ha nobiltà d’animo ed è sorretto da una fede profonda, vagabonda per il mondo in cerca di un ideale; eroe a Lepanto sempre in lotta con l’avversa fortuna non si spoglia mai di una fiera dignità che lo rende nobile anche quando è coperto di stracci. Messo a dura prova dalle sofferenze, dopo aver visto svanire tutte le sue speranze e crollare le sue illusioni, rimane sereno, non impreca alla sorte; esce dalle bufere della vita con l’animo puro, e dal suo sorriso spunta un’ironia serena e malinconica che sa di bontà, di compassione e di perdono. Tassoni invece è uomo che nelle vesti di cortigiano e di ecclesiastico si lamenta sempre del suo stato ed è sempre inquieto. Don Chisciotte, ritto sul magro Ronzinante, attira la simpatia del lettore, è uomo di fede tutto immerso nel suo sogno contrastante con la realtà,  è un allucinato ma è un eroe. Il Conte di Culagna invece è un personaggio che non ispira nessun affetto, e Tassoni quasi si compiace di tratteggiare un personaggio indegno di qualunque sentimento dolce.
Possiamo vedere questa caratterizzazione antimitica dell’ “eroe” della Secchia come il riflesso e l’eco dell’intero poema. Si prenda ad esempio la scena presente nel decimo libro, lasse 50-57) in cui la moglie del conte, resasi conto che il marito la voleva avvelenare per fuggire con Renoppia, scambia i piatti e sostituisce il veleno con del potentissimo lassativo. Il conte mangia con ingordigia e scende in piazza per non vedere la moglie morta e per vantarsi davanti a tutti di imprese inesistenti. Ad un certo punto, però, il lassativo fa effetto, e dai suoi calzoni esce “..un’improvvisa cacarola” che fa allontanare tutti a causa del suo “..tristo vapor”, persino gli speziali. L’unico che gli resta accanto è un confessore “ch’avea perduto il naso in un incendio” e dei suoi servi accorre soltanto una vecchia “con un zoccolo in piede e una scarpetta”.
Ancora un volta le aspettative del lettore vengono disattese e una situazione che si prospettava tragica (l’uxoricidio) o quanto meno cavalleresca (la fuga d’amore) precipita nel comico più triviale. La caratteristica che sembra definire sia il poema che l’atteggiamento dell’autore sembra essere proprio la sua sistematica imprevedibilità . Il critico Bàrberi Squarotti (Le strutture della Secchia Rapita, Studi Tassioniani, atti e memorie per il IV centenario della nascita di A. Tassoni, Modena, 1965) concentra l’attenzione sull’effetto di svuotamento dei materiali tradizionali operato dall’interno della tradizione attraverso il loro accostamento in un miscuglio spesso esilarante, comunque sempre nuovo e dissacrante. Ibid. : “La novità  del Tassoni sta nel trattamento dei materiali, [... ] in quella mescolanza di stili [... ] di cui egli stesso si vanta: è la scoperta della rela­tività  di tutti i linguaggi: eroico, comico, lirico, burlesco, dotto, cavalleresco, per una “congiunzione”che è la scoperta di un punto di vista diverso da quello assoluto che tutte quelle forme poetiche e quelle strutture avevano fino ad allora, preteso». Ovvero: ognuno è libero di trattare qualunque argomento nel modo che più ritiene opportuno, secondo l’estro del momento, ignorando il codice delle “convenienze”. Di fatto, l’oscillazione tra parodia del poema eroico, satira delle misere condizioni dell’Italia e invettiva personale nasce dalla necessità di toccare tutti i tasti, senza mai giustificare il cambiamento di argomento e di tono. È l’ultimo dei rovesciamenti del genere epico; la tensione epico eroica è sostituita dal distacco, dalla continua caduta, dalla risata che diventa il vero fine ultimo dell’opera.
CANTO PRIMO

ARGOMENTO
Del bel Panaro il pian sotto due scorte
a predar vanno i Bolognesi armati,
ma da Gherardo altri condotti a morte,
altri dal Potta son rotti e fugati.
Gl'incalza di Bologna entro le porte
Manfredi, i cui guerrier co' vinti entrati
fanno per una Secchia orribil guerra,
e tornan trionfanti a la lor terra.

1
Vorrei cantar quel memorando sdegno
ch'infiammò già ne' fieri petti umani
un'infelice e vil Secchia di legno
che tolsero a i Petroni i Gemignani.
Febo che mi raggiri entro lo 'ngegno
l'orribil guerra e gl'accidenti strani,
tu che sai poetar servimi d'aio
e tiemmi per le maniche del saio.

2
E tu nipote del Rettor del mondo
del generoso Carlo ultimo figlio,
ch'in giovinetta guancia e 'n capel biondo
copri canuto senno, alto consiglio,
se da gli studi tuoi di maggior pondo
volgi talor per ricrearti il ciglio,
vedrai, s'al cantar mio porgi l'orecchia,
Elena trasformarsi in una Secchia.

3
Già l'aquila romana avea perduto
l'antico nido, e rotto il fiero artiglio
tant'anni formidabile e temuto
oltre i Britanni ed oltre il mar vermiglio;
e liete, in cambio d'arrecarle aiuto,
l'italiche città del suo periglio,
ruzavano tra lor non altrimenti
che disciolte polledre a calci e denti.

4
Sol la reina del mar d'Adria, volta
de l'Oriente a le provincie, a i regni,
da le discordie altrui libera e sciolta
ruminava sedendo alti disegni,
e gran parte di Grecia avea già tolta
di mano a gli empi usurpatori indegni;
l'altre attendean le feste a suon di squille
a dare il sacco a le vicine ville.

5
Part'eran ghibelline, e favorite
da l'imperio aleman per suo interesse;
part'eran guelfe, e con la Chiesa unite
che le pascea di speme e di promesse:
quindi tra quei del Sipa antica lite
e quei del Potta ardea, quando successe
l'alto, stupendo e memorabil caso,
che ne gli annali scritto è di Parnaso.

6
Del celeste Monton già il sol uscito
saettava co' rai le nubi algenti,
parean stellati i campi e 'l ciel fiorito,
e su 'l tranquillo mar dormíeno i venti;
sol Zefiro ondeggiar facea su 'l lito
l'erbetta molle e i fior vaghi e ridenti,
e s'udian gli usignuoli al primo albore
e gli asini cantar versi d'amore:

7
quando il calor de la stagion novella,
che movea i grilli a saltellar ne' prati,
mosse improvisamente una procella
di Bolognesi a' loro insulti usati.
Sotto due capi a depredar la bella
riviera del Panaro usciro armati,
passaro il fiume a guazzo, e la mattina
giunse a Modana il grido e la ruina.

8
Modana siede in una gran pianura
che da la parte d'austro e d'occidente
cerchia di balze e di scoscese mura
del selvoso Apennin la schiena algente;
Apennin ch'ivi tanto a l'aria pura
s'alza a veder nel mare il sol cadente,
che su la fronte sua cinta di gielo
par che s'incurvi e che riposi il cielo.

9
Da l'oriente ha le fiorite sponde
del bel Panaro e le sue limpid'acque;
Bologna incontro, e a la sinistra l'onde
dove il figlio del sol già morto giacque;
Secchia ha da l'aquilon, che si confonde
ne' giri che mutar sempre le piacque,
divora i liti, e d'infeconde arene
semina i prati e le campagne amene.

10
Viveano i Modanesi a la spartana
senza muraglia allor né parapetto,
e la fossa in piú luoghi era sí piana,
che s'entrava ed usciva a suo diletto.
Il martellar de la maggior campana
fe' piú che in fretta ognun saltar del letto,
diedesi a l'arma, e chi balzò le scale,
chi corse a la finestra, e chi al pitale;

11
chi si mise una scarpa e una pianella,
e chi una gamba sola avea calzata,
chi si vestí a rovescio la gonella,
chi cambiò la camicia con l'amata;
fu chi prese per targa una padella
e un secchio in testa in cambio di celata,
e chi con un roncone e la corazza
corse bravando e minacciando in piazza.

12
Quivi trovar che 'l Potta avea spiegato
lo stendardo maggior con le trivelle,
ed egli stesso era a cavallo armato
con la braghetta rossa e le pianelle.
Scriveano i Modanesi abbreviato
Pottà per Potestà su le tabelle,
onde per scherno i Bolognesi allotta
l'avean tra lor cognominato il Potta.

13
Messer Lorenzo Scotti, uom saggio e forte,
era allor Potta, e decideva i piati.
Fanti e cavalli in tanto ad una sorte
a la piazza correan da tutti i lati.
Egli, poiché guernite ebbe le porte,
una squadra formò de' meglio armati,
e ne diede il comando e lo stendardo
al figlio di Rangon detto Gherardo.

14
Egli dicea: - Va' figlio arditamente,
frena l'orgoglio di que' marrabisi;
non t'esporre a battaglia, acciò perdente
non resti, mentre siam cosí divisi;
ma ferma a la Fossalta la tua gente,
e guarda il passo e aspetta novi avisi,
ch'io ti sarò, se 'l mio pensier non falle,
innanzi sesta armato anch'io a le spalle. -

15
Cosí andava a l'impresa il cavaliero
dal fior de la milizia accompagnato,
e spettacolo in un leggiadro e fiero
si vedeva apparir da un altro lato,
cento donzelle in abito guerriero
col fianco e 'l petto di corazza armato,
e l'aste in mano e le celate in testa,
comparvero in succinta e pura vesta.

16
Venían guidate da Renoppia bella
cacciatrice ed arciera a l'armi avezza;
Renoppia di Gherardo era sorella,
pari a lui di valor, di gentilezza;
ma non avea l'Italia altra donzella
pari di grazia a lei né di bellezza,
e parea co' virili atti e sembianti
rapir i cori e spaventar gli amanti.

17
Bruni gli occhi e i capegli, e rilucenti,
rose e gigli il bel volto, avorio il petto,
le labbra di rubin, di perle i denti,
d'angelo avea la voce e l'intelletto.
Maccabrun da l'Anguille in que' commenti
che fece sopra quel gentil sonetto
Questa barbuta e dispettosa vecchia,
scrive ch'ell'era sorda da una orecchia.

18
Or giunta in piazza ella dicea: - Signori,
noi siam deboli sí, ma non di sorte
che non possiamo almen per difensori
guardare i passi e custodir le porte;
queste compagne mie ben avran cori
da gire anch'esse ad incontrar la morte,
né già disdice a vergine ben nata
per difender la patria, uscire armata.

19
Quel dí che Barbarossa arse Milano,
mio nonno guadagnò quest'armi in guerra;
Gherardo mio fratel le chiudea in vano,
ché le porte gittate abbiam per terra;
e s'al cor non vien meno oggi la mano,
se 'l nemico s'appressa a questa terra,
speriam che col suo sangue e la sua morte
ei proverà se sian di tempra forte. -

20
Accese i cor di generoso sdegno
il magnanimo ardir de la donzella,
onde con l'armi fuor senza ritegno
correa la gioventú feroce e bella.
Con maestoso modo e di sé degno
il Potta la raffrena e la rappella:
- Dove andate, canaglia berettina,
senza ordinanza e senza disciplina?

21
Credete forse che colà v'aspetti
trebbiano in fresco e torta in su 'l tagliere?
Adattatevi in fila, uomini inetti,
nati a mangiar l'altrui fatiche e bere. -
Cosí frenando i temerari affetti
distingueva in un tratto ordini e schiere.
Gherardo in tanto in opportuno punto
era correndo a la Fossalta giunto:

22
ché Bordocchio Balzan, ch'avea condotto
la prima squadra, allor quivi arrivato,
s'era con molto ardir già spinto sotto
a la torre onde il passo era guardato;
quei de la torre aveano il ponte rotto
da un canto, e 'l varco stretto indi serrato,
e 'l difendean da merli e da finestre
con dardi, mazzafrusti, archi e balestre.

23
Il capitan de la Petronia gente,
ch'era un omaccio assai polputo e grosso,
gridava da la ripa del torrente
a i suoi, ch'eran fermati, a piú non posso:
- Perché non seguitadi alliegramente?
Avídi pora di saltar un fosso?
O volídi restar tutti a la coda?
Passadi panirun pieni di broda. -

24
Cosí dicea, quand'ecco in vista altera
vide giugner Gherardo a l'altra riva,
onde a destra piegar fe' la bandiera
contra 'l nemico stuol ch'indi veniva;
e confidato ne l'amica schiera,
i cui tamburi già da lunge udiva,
spinse da l'alta sponda i suoi soldati
dal notturno cammin stanchi e affannati.

25
Allor Gherardo a' suoi diceva: - O forti,
ecco Dio che divide e che confonde
questi bedani: udite i lor consorti
che sono del Panaro anco a le sponde.
Prima del giugner lor, questi fien morti,
pochi e stanchi, e ridotti entro a quest'onde.
Seguitatemi voi, ché larga strada
io vi farò col petto e con la spada. -

26
Cosí dicendo urta 'l cavallo, e dove
la battaglia gli par piú perigliosa
si lancia in mezzo a l'onda, e 'n giro move
la spada fulminante e sanguinosa.
Non fe' il capitan Curzio tante prove
sotto Lisbona mai, né su la Mosa,
quante ne fe' tra l'una e l'altra ripa
Gherardo allor su 'l popolo dal Sipa.

27
Uccise il Bertolotto, e 'l corpo grasso
spirò ne l'acqua fresca, e fu l'orrore
de l'acqua ch'abborriva, in su quel passo,
de l'orror de la morte assai maggiore.
Uccise appresso a lui mastro Galasso
cavadente perfetto e ciurmatore:
vendea ballotte e polvere e braghieri:
meglio per lui non barattar mestieri.

28
Senza naso lasciò Cesar Viano
fratel del Podestà di Medicina,
e d'un dardo cader fe' di lontano
trafitto un figlio del dottor Guaina;
indi ammazzò il barbier di Crespellano.
che portava la spada a la mancina;
e mastro Costantin da le Magliette,
che faceva le gruccie a le civette.

29
Un certo bell'umor de' Zambeccari
gli diede una sassata ne la pancia,
e a un tempo Gian Petronio Scadinari
gli forò la braghetta con la lancia;
la buona spada gli mandò del pari
come se fosse stata una bilancia,
ch'a l'uno e l'altro tagliò il capo netto,
e i tronchi ne la rena ebber ricetto.

30
Qual già su 'l Xanto il furibondo Achille
fe' del sangue troian crescer quell'onda,
o Ippomedonte a le tebane ville
fe' de l'Asopo insanguinar la sponda,
tal il giovane fier l'onde tranquille
fa rosseggiar del sangue ostil che gronda:
ma da la tanta copia infastidita
diede la Musa a pochi nomi vita.

31
L'oste dal Chiú, Zambon dal Moscadello,
facea tra gli altri una crudel ruina;
una zazzera avea da farinello,
senz'elmo in testa e senza cappellina;
si riscontrò con Sabatin Brunello,
primo inventor de la salciccia fina,
che gli tagliò quella testaccia riccia
con una pestarola da salciccia.

32
Bordocchio intanto il fiume avea passato
soverchiand'ogn'incontro, ogni ritegno,
quando del Potta, che venía, fu dato
da la torre a Gherardo e a gl'altri il segno.
Se n'avvide Bordocchio, e rivoltato
di ripassare a' suoi facea disegno;
ma ne l'onda il destrier sotto gli cade,
e rimase prigion fra cento spade.

33
Quei ch'erano con lui dianzi passati
dal figlio di Rangon tutti fûr morti;
e già gli altri fuggian rotti e sbandati,
del mal consiglio lor, ma tardi, accorti;
quando in aiuto da' vicini prati
vider venir correndo i lor consorti,
che del Panaro a la sinistra sponda
passâr piú lenti, ov'è piú cupa l'onda.

34
Gian Maria de la Grascia, un furbacciotto
ch'era di quella squadra il capitano,
come vide fuggir dal campo rotto
quei di Bordocchio insanguinando il piano,
rinfacciò lor con dispettoso motto
la fuga vile e l'ardimento insano;
e furioso i suoi quindi spingendo,
fe' de' nemici un potticidio orrendo.

35
Radaldo Ganaceti era su 'l ponte
con molti suoi per impedir il passo,
e insieme col destrier tutto in un monte
fu da la sponda ruinato al basso.
Voltò Gherardo a quel rumor la fronte
e in aiuto de' suoi venía a gran passo,
quando comparve 'l Potta al suon di mille
corni, gridi, tamburi e trombe e squille.

36
Si raccoglie il nemico, e si ritira
al terror di tant'armi, al suono, a i lampi,
ma l'incalza Gherardo, e al vanto aspira
d'aver col suo valor rotti due campi;
corre a destra, a sinistra, urta, raggira
il destriero, e di sangue inonda i campi;
rotta ha la spada, e porta ne lo scudo
cento saette, e mezzo 'l capo ha ignudo.

37
Ma tratta da l'arcion ferrata mazza,
Fantin Vizzani e Prospero Castelli,
Astor de l'Armi e Taddeo Bianchi ammazza
e 'l cavalier Martin de gli Asinelli.
A questi spada, scudo, elmo e corazza
fece levar, ch'eran dorati e belli,
per onorarsen poi; ma veramente
fu peccato ammazzar sí nobil gente.

38
Spinte il Potta in aiuto in tanto avea
le prime insegne a i Gemignani stracchi;
ed egli verso il ponte, ove parea
che piú fossero i suoi deboli e fiacchi,
sopra una mula a piú poter correa,
che mordendo co' piè giucava a scacchi,
quando ferito fu d'una zagaglia
quel de la Grascia, e uscí de la battaglia.

39
Poiché mirò de' capitani suoi
l'un fatto prigionier, l'altro ferito
la progenie antichissima de' Boi,
e si vide ridotta a mal partito,
que' valorosi che facean gli eroi,
senza aspettar chi lor facesse invito,
chi a cavallo, chi a piè per la campagna
si diedono a menar de le calcagna.

40
Ma ratto fu con una ronca in mano
il Potta lor come un demonio addosso,
e tanti ne mandò distesi al piano
che ne fu il Ciel de la pietà commosso.
Quel fiume crebbe sí di sangue umano
che piú giorni durò tiepido e rosso,
e dove prima il Fiumicel chiamato,
fu dappoi sempre il Tepido nomato.

41
Tutto quel dí, tutta la notte intiera
i miseri Petroni ebber la caccia;
ne coperse ogni strada, ogni riviera
Manfredi Pio, che ne seguí la traccia.
Con trecento cavalli a la leggiera
con tanto ardire il giovane li caccia,
che su 'l primo sparir de l'aria scura
si trovò giunto a le nemiche mura.

42
La porta San Felice aperta in fretta
fu a' cittadini suoi, ch'erano esclusi,
ma tanta fu la calca in quella stretta
che i vincitori e i vinti entrar confusi.
Quei di Manfredi un tiro di saetta
corser la terra, e vi restavan chiusi,
s'ei da la porta ove fermato s'era
non li chiamava tosto a la bandiera.

43
Spinamonte del Forno e Rolandino
Savignani e Aliprando d'Arrigozzo
de' Denti da Balugola e Albertino
Foschiera e Calatran di Borgomozzo,
affannati dal caldo e dal cammino
trovâr non lunge da la porta un pozzo,
e una Secchia calâr nuova d'abete
per rinfrescarsi e discacciar la sete.

44
La carrucola rotta e saltellante,
e la fune annodata in quella mena,
e l'acqua ch'era assai cupa e distante,
feron piú tardi uscir la Secchia piena:
le si avventaron tutti in un istante,
e Rolandino avea bevuto a pena,
quand'ecco a un tempo da diverse strade
fûr lor intorno piú di cento spade.

45
Scarabocchio, figliol di Pandragone,
Petronio Orso e Ruffin dalla Ragazza
e Vianese Albergati e Andrea Griffone
venían gridando innanzi: - Ammazza, ammazza. -
ma i Potteschi già pronti in su l'arcione,
d'elmo e di scudo armati e di corazza,
strinser le spade e rivoltâr le facce
a l'impeto nemico e a le minacce.

46
E Spinamonte, che la Secchia presa
per bere avea, spargendo l'acqua in terra
e tagliando la fune ond'era appesa,
se ne serví contro i nemici in guerra;
con la sinistra man la tien sospesa
per riparo, e con l'altra il brando afferra;
l'aiutano i compagni e fangli sponda
contra il furor che d'ogni parte inonda.

47
Lotto Aldrovandi e Campanon Ringhiera
gridavano ambidue: - Canaglia matta,
lasciate quella Secchia ove prim'era,
o la bestialità vi sarà tratta. -
- Fatevi innanzi voi, disse il Foschiera,
notate la consegna che v'è fatta. -
E 'n questo dire un manrovescio lascia,
e taglia a Campanone una ganascia.

48
Non fu rapita mai con piú fatica
Elena bella al tempo di Sadocco,
né combattuta Aristoclèa pudica,
al par di quella Secchia da un baiocco.
Passata a Calatran fu la lorica
sí che nel ventre penetrò lo stocco
d'un fiero colpo di Carlon Cartari,
falciatore sovran de' macellari.

49
Rolandino ferí d'un sopramano
Napulion di Fazio Malvasía,
ed egli a lui storpiò la manca mano
con una daga che brandita avía.
Se di Manfredi un poco piú lontano
era il soccorso, alcun non ne fuggía;
restò ferito quel de la Balugola,
e del tanto gridar gli cadde l'ugola.

50
Manfredi in su la porta i suoi raccoglie
e l'inimico stuol frena e reprime,
e poiché dal periglio si discioglie
torna, e ripassa il Ren su l'orme prime;
né potendo mostrar piú degne spoglie,
in atto di trofeo leva sublime
sopra una lancia l'acquistata Secchia,
ché presentarla al Potta s'apparecchia;

51
parendo a lui via piú nobile e degno
de la vittoria, aver su 'l chiaro giorno
corsa Bologna, e trattone quel pegno
che sarebbe a' nemici eterno scorno.
Da la Samoggia un messo a darne segno
a Modana spedí senza soggiorno,
e tosto la città si mise in core
di girgli incontro e fargli un bell'onore.

52
Era vescovo allor per aventura
de la città messer Adam Boschetto,
che di quel gregge avea solenne cura,
e 'l mantenea d'ogni contagio netto;
non dava troppo il guasto a la Scrittura,
ed era entrato al popolo in concetto
che in cambio di dir Vespro e Matutino
giucasse i benefici a sbarraglino.

53
Questi, poiché venir dal messaggiero
con quella Secchia udí l'amica gente
tolta per forza a un popolo sí fiero
di mezzo una città tanto possente,
si mise anch'egli in ordine col clero
per girla ad incontrar solennemente,
e si fe' porre intorno il piviale
ch'usava il dí di Pasqua e di Natale.

54
Un superbo robon di drappo rosso
si mise il Potta e una beretta nera,
che mezzo palmo largo e un dito grosso
avea l'orlo d'intorno a la testiera;
gli Anziani appo lui col lucco indosso
seguivano a cavallo in lunga schiera
sopra certe lor mule afflitte e grame,
che pareano il ritratto de la fame.

55
Gli portava dinanzi un paggio armato
la spada nuda e la rotella bianca,
e avea dal destro e dal sinistro lato
i due primi Anzian, teste di banca;
lo stendardo del popolo spiegato
portava il cont'Ettòr da Villafranca,
giovinetto che Marte avea nel core
e ne la bocca e ne' begli occhi Amore.

56
Due compagnie di lance e di corrazze,
una dinanzi e l'altra iva di dietro;
i cursori del popol con le mazze
facevan ritirar le genti indietro,
che correan tutte a gara come pazze
a la vicina porta di San Pietro,
per veder quella Secchia a la campagna
credendosi che fosse una montagna.

57
In ultimo cinquanta contadine
con le gonnelle bianche di bucato,
ne le canestre lor di vinco fine
portavan pane, vin, torta in buon dato,
uova sode, frittate e gelatine
al famoso drappello affaticato
che venía con la Secchia; e cosí andando
giunsero a la Fossalta ragionando.

58
Quivi trovâr che 'l prete de la cura
gía confortando ancor gli agonizzanti,
gli assolvea da' peccati, e ponea cura
fra i paterni ricordi onesti e santi,
se 'n dito anella avean per aventura,
o ne le borse o nel giubbon contanti,
e per guardargli da gli furti altrui
gli togliea in serbo e gli mettea co' sui.

59
Manfredi in tanto apparve, e conducea
distinta a coppia a coppia la sua schiera-
Portar la Secchia in alto egli facea
da Spinamonte innanzi a la bandiera;
e di mirto e di fior cinta l'avea,
sí che spoglia parea pomposa e altera.
Subito il Potta il corse ad abbracciare
dicendogli: - Ben venga mio compare. -

60
Indi gli chiese come avea potuto
con quella Secchia uscir fuor di Bologna,
che non l'avesse ucciso o ritenuto
quel popolo per ira o per vergogna.
Ddisse Manfredi: - Iddio sa dare aiuto
a chi si fida in lui, quando bisogna:
il nemico a seguirci ebbe due piedi,
e noi quattro a fuggir, come tu vedi. -

61
Fêr poi le Cataline il lor invito
su l'erba fresca d'un fiorito prato,
e perché ognun moriva d'appetito
in un Avemaria fu sparecchiato.
Finita la merenda, e risalito
a cavallo ciascuno al loco usato,
ripresero il cammino in vêr la porta
raccontando fra lor la gente morta.

62
Sotto la porta stava Monsignore
con lo spruzzetto in man da l'acqua santa,
e intonando la laude in quel tenore
che fa il capon quando talvolta canta.
Quivi smontaro tutti a farli onore,
e l'inchinâr con l'una e l'altra pianta,
e a suon di trombe se n'andâr con esso
a render grazie a Dio del gran successo.

63
Ma la Secchia fu subito serrata
ne la torre maggior dove ancor stassi,
in alto per trofeo posta e legata
con una gran catena a' curvi sassi;
s'entra per cinque porte ov'è guardata
e non è cavalier che di là passi
né pellegrin di conto, il qual non voglia
veder sí degna e gloriosa spoglia.
CANTO SECONDO

ARGOMENTO
Mandano i Bolognesi ambasciatori
due volte a dimandar la Secchia in vano:
onde con fieri ed ostinati cori
s'armano quinci e quindi il monte e 'l piano.
Chiamano Giove a concilio i Dei minori,
contendono fra lor Marte e Vulcano:
Venere si ritira e si diparte,
e 'n terra se ne vien con Bacco e Marte.

1
Già il quarto dí volgea che vincitori
diêr la rotta a' Petroni i Gemignani,
e per l'ira che ardea ne' fieri cori
restavano anco i morti in preda a i cani,
quando in Modana entrâr due Ambasciatori
con pacifici aspetti e modi umani;
e smontati al Monton col vetturino,
chiesero a l'oste s'egli avea buon vino.

2
Indi un messo spedîr per impetrare
che l'ordine ch'avean fosse ascoltato.
Cominciò il campanaccio a dindonare
e in un momento s'adunò il Senato.
Andâr gli ambasciatori ad onorare
Alessandro Fallopia e Gaspar Prato,
e li condusser per diritta strada
a la sala ove il Duca or tien la biada.

3
Un vecchio ranticoso, affumicato,
pallido e vizzo che parea l'inedia
e per forza tener co' denti il fiato,
e potea far da Lazzaro in comedia,
poi che due volte intorno ebbe mirato,
incominciò cosí da la sua sedia:
- Messeri, io son Marcel di Bolognino
dottor di legge e conte Palatino.

4
Il mio collega è conte e cavaliero
e Ridolfo Campeggi è nominato;
io son uomo di pace, egli è guerriero;
io lettor de lo Studio, egli soldato.
Or l'uno e l'altro ha qui per messaggiero
il nostro Reggimento a voi mandato,
per iscusarsi del passato eccesso
che 'l popol nostro ha contra voi commesso.

5
Il popol nostro è un popol del demonio,
che non si può frenar con alcun freno;
e s'io non dico il ver, che san Petronio
mi faccia oggi venir la vita meno.
Sarà il collega mio buon testimonio,
che quando l'altra notte ei passò il Reno,
fu mera ivenzion d'un seduttore,
né il Reggimento n'ebbe alcun sentore.

6
Ma non si può disfar quel ch'è già fatto;
d'ogni vostro disturbo assai ne spiace;
e siam venuti qua per far riscatto
de' morti nostri, e ad offerirvi pace:
ma vogliam quella Secchia ad ogni patto,
che ci rubò la vostra gente audace:
perché altramente andría ogni cosa in zero,
e ci scorrucciaremmo da dovero. -

7
Qui chiuse il Bolognino il suo sermone,
e rise ognun quanto potea piú forte.
Era capo di banca un Rarabone
Dal Tasso, arridottor cavato a sorte:
per sopra nome gli dicean Tassone,
perch'era grosso e avea le gambe corte.
Questi, poiché 'l Senato in lui s'affisse,
compose il volto e si rivolse e disse:

8
- Che 'l vostro Reggimento abbia mandati
due personaggi suoi sí principali
a scusarsi con noi de' danni dati
e a condolersi de' passati mali,
nostra ventura è certo; e registrati
ne fieno i nomi lor ne' nostri Annali.
A noi ancora inver molto dispiace
de' vostri morti, che Dio gli abbia in pace:

9
e se per sotterrargli or qui venite,
la vostra ambascieria fia consolata;
ma quella pace che voi ci offerite
col patto della Secchia, è un po' intricata:
e conviene aggiustar pria le partite
con cui voi dite che ve l'ha rubata;
perché di secchie non abbiam bisogno,
e ci crediam che favelliate in sogno. -

10
Manfredi, ch'era a quel parlar presente,
cavatosi il capuccio e in piè levato,
- Figlio è, disse, d'un becco, e se ne mente
chi vuol dir ch'io la Secchia abbia rubato.
Di mezzo la città nel dí lucente
io la trassi per forza in sella armato:
e tornerò, se me ne vien talento,
dov'è quel pozzo e cacherovvi drento.

11
Siete mal informato, a quel ch'io veggio,
messer Marcello mio da un bolognino. -
- Cappita! disse il cavalier Campeggio,
voi siete bravo come un paladino.
Orsú ripigliarem, ch'io me n'aveggio,
con le trombe nel sacco oggi il cammino;
ma Gemignani miei, io vi protesto
che ve ne pentirete assai ben presto. -

12
Rispondeva Manfredi; e ne potea
seguir scandalo grave entro 'l Senato,
se 'l Potta allor non vi s'interponea
con modo imperioso e volto irato:
- Taci, frasca merdosa, egli dicea;
ché questo è ius antico inviolato
che possa un messagier dir ciò che vuole
senza render ragion di sue parole. -

13
Cosí gli ambasciatori usciron fuore
ed a la patria lor feron ritorno:
la quale il Baldi principal dottore
mandò con nuovi patti il terzo giorno;
e la terra offeria di Grevalcore
se la Secchia tornava al suo soggiorno.
Fu il dottor Baldi molto accarezzato
e a le spese del publico alloggiato.

14
Poscia di nuovo s'adunò il Conseglio
dov'egli fu introdotto il dí seguente.
Il Baldi, ch'era astuto come veglio
e sapea secondar l'onda corrente,
incominciò: - Signori, esempio e speglio
d'onor e senno a la futura gente,
io rendo grazie a Dio che mi concede
di seder oggi in cosí degna sede.

15
E vengovi a propor cosa inudita
che vi farà inarcar forse le ciglia.
Giace una terra antica, e favorita
de le grazie del cielo a meraviglia,
col territorio vostro appunto unita.
e lontana di qua tredici miglia.
Già vi fu morto Pansa, e dal dolore
nominata da' suoi fu Grevalcore.

16
Ancor dopo tant'anni e tanti lustri
il suo nome primier conserva e tiene:
furon già stagni e valli ime e palustri,
or son campagne arate e piagge amene;
non han però gli agricoltori industri
tutte asciugate ancor le natíe vene,
ma vi son fondi di perpetui umori
che sogliono abitar pesci canori.

17
Le Sirene de' fossi, allettatrici
del sonno, di color vari fregiate,
e del prato e de l'onda abitatrici,
fanvi col canto lor perpetua state;
i regni de l'Aurora almi e felici
paiono questi; ove son genti nate,
che ne' costumi e ne' sembianti loro
rappresentano ancor l'età de l'oro.

18
Or cosí degna terra e principale
vi manda ad offerir la patria mia
se quella Secchia, che toglieste a un tale
de' nostri, col malan che Dio gli dia,
quando i vostri l'altrier fêr tanto male
e sforzaron la porta che s'apría,
sarà da voi al pozzo rimandata
publicamente, d'onde fu levata.

19
Mentre vi s'offre la fortuna in questo.
di cambiare una Secchia in una terra,
ricordatevi sol che volge presto
il calvo a chi la chioma non afferra.
Se non cogliete il tempo, i' vi protesto
ch'avrete lunga e faticosa guerra,
né potrete durare a la campagna
che s'armerà con noi tutta Romagna. -

20
Qui tacque il Baldi e nacque un gran bisbiglio,
né fu chi rispondesse alcuna cosa:
ma si conobbe in un girar di ciglio
che la mente d'ognuno era dubbiosa.
Alfin per consultare ogni periglio
e non urtare in qualche pietra ascosa,
fecero al Baldi dir, ch'era presente,
ch'avrebbe la risposta il dí seguente.

21
Il dí che venne, il cambio fu approvato,
e disser che la Secchia eran per darla,
sottoscritto il contratto e confirmato,
a qualunque venisse a ripigliarla;
perch'altramente non volea il Senato
con atto indegno al pozzo ei rimandarla;
che in questo il Reggimento era in errore
se credea di dar legge al vincitore.

22
Il Baldi si scusò che non avea
ordine d'alterar la sua proposta,
ma che l'istesso giorno egli volea
ritornare a Bologna per la posta;
e se 'l partito a la città piacea,
avrebbe rimandato un messo a posta.
Cosí conchiuso il Baldi fe' ritorno,
né si seppe altro fino al terzo giorno.

23
Il terzo dí, ch'ognun stava aspettando
che non avesse piú la pace intoppo,
eccoti un messaggier venir trottando
sopra d'un vetturin spallato e zoppo,
e tratta fuori una protesta o un bando,
l'affisse al tronco d'un antico pioppo
che dinanzi a la porta di sua mano
avea piantato già san Gemignano.

24
Dicea la carta: - Il popol bolognese
quel di Modana sfida a guerra e morte
se non gli torna in termine d'un mese
la Secchia che rubò su le sue porte. -
Affisso il foglio, subito riprese
il suo cammin colui, spronando forte
quel tripode animale; e in un momento
parve che via lo si portasse il vento.

25
Qual resta il pescator che ne la tana
mette la man per trarne il granchio vivo,
e trova serpe o velenosa rana
o qual si voglia altro animal nocivo
tal la gente del Potta altera e vana,
trovar credendo un popolo corrivo,
quando sentí quella protesta, tutta
raggrinzò le mascelle e si fe' brutta.

26
Ma come ambiziosa per natura,
dissimulando il naturale affetto,
mostrò di non curar quella scrittura
e le minacce altrui volse in diletto:
non ristorò le ruinate mura,
non cavò de le fosse il morto letto,
né di ceder mostrò sembianza alcuna
a la forza nemica o a la fortuna.

27
Ma scrisse a Federico in Alemagna
quant'era occorso e di suo aiuto il chiese;
la milizia del pian, de la montagna
a preparar segretamente attese:
fe' lega per un anno a la campagna
col popol parmigian, col cremonese,
scrisse ne la città fanti e cavalli,
indi tutta si diede a feste e balli.

28
La fama in tanto al ciel battendo l'ali
con gli avisi d'Italia arrivò in corte,
ed al re Giove fe' sapere i mali
che d'una Secchia era per trar la sorte.
Giove, che molto amico era a i mortali
e d'ogni danno lor si dolea forte,
fe' sonar le campane del suo impero
e a consiglio chiamar gli Dei d'Omero.

29
Da le stalle del ciel subito fuori
i cocchi uscir sovra rotanti stelle,
e i muli da lettiga e i corridori
con ricche briglie e ricamate selle:
piú di cento livree di servidori
si videro apparir pompose e belle,
che con leggiadra mostra e con decoro
seguivano i padroni a concistoro.

30
Ma innanzi a tutti il Prencipe di Delo
sopra d'una carrozza da campagna
venía correndo e calpestando il cielo
con sei ginetti a scorza di castagna:
rosso il manto, e 'l cappel di terziopelo
e al collo avea il toson del re di Spagna:
e ventiquattro vaghe donzellette
correndo gli tenean dietro in scarpette.

31
Pallade sdegnosetta e fiera in volto
venía su una chinea di Bisignano,
succinta a mezza gamba, in un raccolto
abito mezzo greco e mezzo ispano:
parte il crine annodato e parte sciolto
portava, e ne la treccia a destra mano
un mazzo d'aironi a la bizzarra,
e legata a l'arcion la scimitarra.

32
Con due cocchi venía la Dea d'Amore:
nel primo er'ella e le tre Grazie e 'l figlio,
tutto porpora ed or dentro e di fuore,
e i paggi di color bianco e vermiglio;
nel secondo sedean con grand'onore
cortigiani da cappa e da consiglio,
il braccier de la Dea, l'aio del putto,
ed il cuoco maggior mastro Presciutto.

33
Saturno, ch'era vecchio e accatarrato
e s'avea messo dianzi un serviziale,
venía in una lettiga riserrato
che sotto la seggetta avea il pitale;
Marte sopra un cavallo era montato
che facea salti fuor del naturale;
le calze a tagli e 'l corsaletto indosso,
e nel cappello avea un pennacchio rosso.

34
Ma la Dea de le biade e 'l Dio del vino
venner congiunti e ragionando insieme;
Nettun si fe' portar da quel delfino
che fra l'onde del ciel notar non teme:
nudo, algoso e fangoso era il meschino,
di che la madre ne sospira e geme,
ed accusa il fratel di poco amore
che lo tratti cosí da pescatore.

35
Non comparve la vergine Diana
che levata per tempo era ita al bosco
a lavare il bucato a una fontana
ne le maremme del paese Tosco;
e non tornò, che già la tramontana
girava il carro suo per l'aer fosco;
venne sua madre a far la scusa in fretta,
lavorando su i ferri una calzetta.

36
Non intervenne men Giunon Lucina,
che 'l capo allora si volea lavare;
Menippo, sovrastante a la cucina
di Giove, andò le Parche ad iscusare
che facevano il pan quella mattina,
indi avean molta stoppa da filare;
Sileno cantinier restò di fuori
per inacquare il vin de' servidori.

37
De la reggia del ciel s'apron le porte,
stridon le spranghe e i chiavistelli d'oro;
passan gli Dei da la superba corte
ne la sala real del Concistoro:
quivi sottratte a i fulmini di morte
splendon le ricche mura e i fregi loro;
vi perde il vanto suo qual piú lucente
e piú pregiata gemma ha l'Oriente.

38
Posti a seder ne' bei stellati palchi
i sommi eroi de' fortunati regni,
ecco i tamburi a un tempo e gli oricalchi
de l'apparir del Re diedero segni.
Cento fra paggi e camerieri e scalchi
veníeno, e poscia i proceri piú degni;
e dopo questi Alcide con la mazza,
capitan de la guardia de la piazza.

39
E come quel ch'ancor de la pazzia
non era ben guarito intieramente,
per allargare innanzi al Re la via
menava quella mazza fra la gente;
ch'un imbriaco svizzero paría,
di quei che con villan modo insolente
sogliono innanzi 'l Papa il dí di festa
romper a chi le braccia, a chi la testa.

40
Col cappello di Giove e con gli occhiali
seguiva indi Mercurio, e in man tenea
una borsaccia, dove de' mortali
le suppliche e l'inchieste ei raccogliea;
dispensavale poscia a due pitali
che ne' suoi gabinetti il Padre avea,
dove con molta attenzion e cura
tenea due volte il giorno segnatura.

41
Venne al fin Giove in abito reale
con quelle stelle c'han trovate in testa,
e su le spalle un manto imperiale
che soleva portar quand'era festa;
lo scettro in forma avea di pastorale
e sotto il manto una pomposa vesta
donatagli dal popol Sericano,
e Ganimede avea la coda in mano.

42
A l'apparir del Re surse repente
da i seggi eterni l'immortal Senato,
e chinò il capo umíle e riverente
fin che nel trono eccelso ei fu locato.
Gli sedea la Fortuna in eminente
loco a sinistra, ed a la destra il Fato;
la Morte e 'l Tempo gli facean predella,
e mostravan d'aver la cacarella.

43
Girò lo sguardo intorno, onde sereno
si fe' l'aer e 'l ciel, tacquero i venti,
e la terra si scosse e l'ampio seno
de l'oceano a' suoi divini accenti.
Ei cominciò dal dí che fu ripieno
di topi il mondo e di ranocchi spenti,
e narrò le battaglie ad una ad una
che ne' campi seguîr poi de la luna.

44
- Or, disse, una maggior se n'apparecchia
tra quei del Sipa e la città del Potta:
sapete ch'è tra lor ruggine vecchia
e che piú volte s'han la testa rotta;
ma nuova gara or sopra d'una Secchia
han messa in campo; e se non è interrotta,
l'Italia e 'l mondo sottosopra veggio:
intorno a ciò vostro consiglio chieggio. -

45
Qui tacque Giove, e 'l guardo a un tempo affisse
nel padre suo, che gli sedea secondo.
Sorrise il vecchio, e tirò un peto, e disse:
- Potta, i' credea che ruinasse il mondo.
Che importa a noi se guerra, liti e risse
turban là giú quel miserabil fondo?
E se gli uomini son lieti o turbati?
Io gli vorrei veder tutti impiccati. -

46
Marte a quella risposta alzando il ciglio
- O buon vecchio, gridò, son teco anch'io;
che importa a questo eterno alto consiglio
se stato è colà giú turbato o rio?
Chi è nato a perigliar, viva in periglio:
viva e goda nel ciel chi è nato Dio.
Io, se la Diva mia nol mi disdice,
l'una e l'altra città farò infelice.

47
Sazierà doppia strage il mio furore,
di corpi morti inalzerò montagne;
farò laghi di sangue e di sudore,
e tutte inonderò quelle campagne. -
- Cavalier, disse Palla, il tuo valore
san cantar fin le trippe e le lasagne,
sí che indarno ti studi e t'argomenti
di farlo or noto a le celesti menti.

48
Ma s'hai desio di qualche degna impresa,
facciam cosí: va' tu co i Gemignani,
ch'io sarò de' Petroni a la difesa,
e ti verrò a incontrar là su que' piani.
Bologna sempre fu a' miei studi intesa;
onde tenermi a cintola le mani
or non debbo per lei. Tu meco scendi
se palma di valor, se gloria attendi. -

49
A quel parlar si levò Febo e disse:
- Vergine bella, i' verrò teco anch'io
in favor di Bologna, ove ognor visse
l'antico studio de le Muse e mio. -
Bacco, che in Citerea le luci fisse
sempre tenute avea con gran desio
- Cosí dunque, rispose in volto irato,
fia il popol mio da tutti abbandonato?

50
La città ch'ognor vive in feste e canti
fra maschere e tornei per onorarmi,
ch'ha si dolce liquor, vedrà fra tanti
travagli suoi qui neghittoso starmi?
Bella madre d'Amor, che co' sembianti
puoi far vinta cader la forza e l'armi,
tu meco scendi: ch'io farò a costoro
di stoppa rimaner la barba d'oro. -

51
Sfavillò Citerea con un sorriso
che dicea: - Bacia, bacia, anima accesa -
e gli diede col ciglio a un tempo aviso.
che sarebbe ita seco a quell'impresa.
Marte, che 'n lei tenea lo sguardo fiso
avido di litigio e di contesa,
vedendo ch'ella avea d'andar desio,
disse: - A la fè, che vo' venir anch'io.

52
Gite voi altri pur dove v'aggrada,
ch'io vo' seguir de la mia Diva i passi;
dove ella volge il piè, convien ch'io vada,
e quei di voi ch'ella abbandona, lassi.
Per lei combatte questa invitta spada
e questa destra; ed or per lei vedrassi
il Panaro gonfiarsi, e in atto strano
portar soccorso al Po di sangue umano. -

53
Sorrise Palla, ma con occhio bieco
rimirollo Vulcan ch'era in disparte;
e disse: - Empio sicario, adunque meco
comune il letto avrai per ricrearte?
E Giove stesso accorderassi teco
nel vituperio di sua figlia a parte?
Per Stige, ch'io non so chi mi s'arresta
ch'io non ti do di questo in su la testa. -

54
E strignendo un martel ch'al fianco avea,
sollevò il braccio, e di menar fece atto.
La manopola allor ch'in man tenea
lanciògli Marte, e balzò in piedi ratto
sgangherato gridando: - Anima rea,
t'insegnerò ben io di starti quatto. -
Giove che vide accesa una battaglia,
stese lo scettro e disse: - Olà, canaglia!

55
Dove credete star? giuro a Macone
ch'io vi gastigherò di tanto ardire;
venga il fulmine tosto. - E l'Aquilone
il fulmine arrecògli in questo dire.
Vulcan tratto a' suoi piedi in ginocchione
chiedea mercede e intiepidiva l'ire
lagrimando i suoi casi e l'empia sorte,
ma piú l'infedeltà de la consorte.

56
Citerea, che si vide a mal partito,
per una porticella di nascosto
da lo sdegno del padre e del marito,
mentre questi piagnea, s'involò tosto:
e dietro a lei senza aspettar invito
corsero il Dio de l'armi e 'l Dio del mosto;
ella in terra con lor prese la via,
e in mezzo a lor dormí su l'osteria.

57
Gli abbracciamenti, i baci e i colpi lieti
tace la casta Musa e vergognosa;
da la congiunzion di que' pianeti
ritorce il plettro e di cantar non osa:
mormora sol fra sé detti segreti,
ch'al fuggir de la notte umida ombrosa
fatto avean Marte e 'l giovane tebano
trenta volte cornuto il dio Vulcano.

58
L'oste di Castelfranco un gran pollaio
con uova fresche avea quanto la rena;
ne bebbero i due amanti un centinaio,
che smidollata si sentian la schiena:
ma la Diva ne volle solo un paio,
che d'altro forse avea la pancia piena.
La Diva, per non dar di sé sospetto,
presa la forma avea d'un giovinetto.

59
Di candido ermesin tutto trinciato
sopra seta vermiglia, era vestita,
con un colletto bianco profumato,
calzetta bianca e cinta colorita:
di bianco il piè leggiadro era calzato;
non si potea veder piú bella vita;
un pugnaletto d'or cingeva al fianco,
e nel cappello un pennacchietto bianco.

60
Ma l'oste ch'era guercio e Bolognese,
tanto peggio stimò ne' suoi concetti
quando corcarsi in terzo egli comprese
l'amoroso garzon fra tanti letti.
Sgombrarono gli Dei tosto il paese,
che di colui conobbero i sospetti,
temendo che 'l fellon con falso indizio
non gli accusasse quivi al Malefizio.

61
A Modana passâr quella mattina,
e ritrovâr che vi si fea gran festa:
un palio di teletta cremesina
correasi a fiori d'or tutta contesta.
Vedendo quella gente pellegrina,
ognuno a gara ne facea richiesta;
e molti li tenean per recitanti
venuti a preparar comedie inanti.

62
Dicean che Marte il Capitan Cardone,
e Bacco esser dovea l'innamorato,
e quel vago leggiadro e bel garzone
esser a far da donna ammaestrato.
Cosí alle volte ancor fuor di ragione
si tocca il punto; e molti han profetato
che si credean di favellare a caso:
la sorte ed il saper stanno in un vaso.

63
Poscia che passeggiata a parte a parte
ebber gli Dei quella città fetente,
e ben considerato il sito e l'arte
del guerreggiare e 'l cor di quella gente,
a un'osteria si trassero in disparte
ch'avea un trebbian di Dio dolce e rodente,
e con capponi e starne e quel buon vino
cenaron tutti e tre da paladino.

64
Mentre questi godean, da l'altro canto
Pallade e Febo eran discesi in terra;
e concitando gían Bologna intanto
e le città de la Romagna in guerra.
Quanto è dal Reno al Rubicone, e quanto
tra 'l monte e 'l mar quivi s'estende e serra,
s'unisce con Bologna e s'apparecchia
di gir con l'armi a racquistar la Secchia.

65
L'intesero gli amanti, e a la difesa
prepararono anch'essi i lor vassalli:
Bacco chiamò i Tedeschi a quell'impresa,
e andò fin in Germania ad invitalli.
Essi quand'ebber la sua voglia intesa,
in un momento armar fanti e cavalli,
benedicendo ottobre e San Martino,
e sperando notar tutti nel vino.

66
Marte restò in Italia a preparare
la milizia di Parma e di Cremona;
Venere disse che volea tentare
di far venir un Re quivi in persona;
e passando dov'Arno ha foce in mare,
si fe' da le Nereidi a la Gorgona
portar, e quindi a l'isola de' Sardi
ricca di cacio e d'uomini bugiardi.
CANTO TERZO

ARGOMENTO
Venere accende a l'armi il Re de' Sardi.
Ragunano lor forze i Gemignani:
s'uniscono co 'l Potta i tre stendardi,
Tedeschi, Cremonesi e Parmigiani.
Passa il Re con piú popoli gagliardi
l'alpi, e discende a guerreggiar ne' piani:
e 'l Potta il campo contra a quei dal Sipa
del Panaro tragitta a l'altra ripa.

1
Era tranquillo il mar, sereno il cielo,
taceva l'onda e riposava il vento;
e ingemmata di fior, sparsa di gelo,
l'alba sorgea dal liquido elemento,
e squarciava a la notte il fosco velo
stellato di celeste e vivo argento:
quando la Dea con amorose larve
ad Enzio re nel fin del sonno apparve.

2
E 'n lui mirando: - O generoso figlio
di Federico, onor de l'armi, disse,
l'italiche città vanno a scompiglio,
tornansi a incrudelir l'antiche risse:
Modana sovra l'altre è in gran periglio,
che fida sempre al Sacro Imperio visse:
e tu qui dormi in mezzo 'l mar nascoso?
Déstati e prendi l'armi, uom neghittoso.

3
Va' in aiuto de' tuoi, ché t'apparecchia
nuova fortuna il ciel non preveduta:
tu salverai quella famosa Secchia
che con tanto valor fia combattuta,
che giornata campal nuova né vecchia
non sarà stata mai la piú temuta:
Modana vincerà, ma con fatica,
e tu entrerai ne la città nemica.

4
Quivi d'una donzella acceso il core
ti fia, la piú gentil di questa etade
che sí t'infiammerà d'occulto ardore
che ti farà languir di sua beltade;
al fin godrai del suo felice amore,
e 'l nobil seme tuo quella cittade
reggerà poscia, e riputato fia
la gloria e lo splendor di Lombardia. -

5
Qui sparve il sonno e s'involò repente
da le luci del Re la Dea d'amore:
ei mirò le finestre, e in oriente
biancheggiar vide il mattutino albore;
chiese tosto i vestiti, e impaziente
si lanciò de le piume; e tratta fuore
la spada ch'avea dietro al capezzale,
menò un colpo e ferí su l'orinale.

6
Quel fe' tre balzi, e in cento pezzi rotto
cadde con la coperta cremesina;
con lunga riga fuor sparsa di botto
per la stanza del Re corse l'orina.
Fe' in tanto un paggio de la guardia motto
ch'era giunto un corrier da la marina
col segno de l'Imperio e la patente,
onde fu fatto entrar subitamente.

7
Scrivea da Spira Federico al figlio
che subito mandasse armi in difesa
di Modana, che posta era in periglio
per nuova guerra in quelle parti accesa.
Letta la carta il Re prese consiglio
d'andar egli in persona a quell'impresa,
e tosto armò d'amici e di vassalli
sovra 'l lito pisan fanti e cavalli.

8
A Modana fra tanto era arrivato
l'aviso, che già 'l conte di Nebrona
con seicento cavalli avea passato
l'Alpi, e s'unía con l'armi di Cremona.
Questi da Federico era mandato,
non potendo venir egli in persona:
gran baron de l'Imperio e lancia rotta,
e nemico mortal de l'acqua cotta.

9
Da l'altra parte era venuta nuova
ch'in armi si mettea tutta Romagna;
onde deliberâr d'uscir di cova
i Modanesi armati a la campagna,
e far di sé qualche onorata prova
col soccorso d'Italia e d'Alemagna.
Lasciâr le feste, e tutte le lor posse
furon da varie parti a un tempo mosse,

10
con ordin che dovesse il giorno sesto
al prato de' Grassoni esser ridotta
da i capi lor tutta la gente a sesto,
e l'insegna aspettar quivi del Potta.
Musa, tu che scrivesti in un digesto
que' nomi eccelsi e le lor prove allotta,
dammene or copia acciò che nel mio canto
i pronepoti lor n'odano il vanto.

11
Il Prato de' Grassoni a destra mano
dal ponte del Panaro era distante
quanto un arco potria tirar lontano,
e quivi ognun dovea fermar le piante.
Chi dal monte il dí sesto, e chi dal piano
dispiegò le bandiere in un istante;
e 'l primo ch'apparisse a la campagna
fu il conte de la Rocca di Culagna.

12
Quest'era un cavalier bravo e galante,
filosofo poeta e bacchettone
ch'era fuor de' perigli un Sacripante,
ma ne' perigli un pezzo di polmone.
Spesso ammazzato avea qualche gigante,
e si scopriva poi ch'era un cappone,
onde i fanciulli dietro di lontano
gli soleano gridar: - Viva Martano. -

13
Avea ducento scrocchi in una schiera,
mangiati da la fame e pidocchiosi;
ma egli dicea ch'eran duo mila e ch'era
una falange d'uomini famosi:
dipinto avea un pavon ne la bandiera
con ricami di seta e d'or pomposi:
l'armatura d'argento e molto adorna;
e in testa un gran cimier di piume e corna.

14
Fu Irneo di Montecuccoli il secondo,
figliolo del signor di Montalbano,
giovane disdegnoso e furibondo,
e di lingua e di cor pronto e di mano;
a carte e a dadi avría giucato il mondo,
e bestemmiava Dio com'un marrano:
buon compagno nel resto e senza pecche,
distruggitor de le castagne secche.

15
Settecento soldati ei conducea
da le terre del padre e de' parenti;
ne lo stendardo un Mongibello avea
che vomitava al ciel faville ardenti.
L'onor de la famiglia di Rodea,
Attolino, il seguía con le sue genti,
a cui l'Imperator de' regni greci
cinta la spada avea con altri dieci.

16
Da Rodea, da Magreda e Castelvecchio
conduceva costui trecento fanti
con sí leggiadro e nobile apparecchio
che parean tutti cavalieri erranti:
su 'l cimier per impresa avea uno specchio
cinto di piume ignote e stravaganti.
E dopo lui fu vista una bandiera
su gli argini venir de la riviera.

17
Le ville de la Motta e del Cavezzo,
Camposanto, Solara e Malcantone
quivi raccolto avean la feccia e 'l lezzo
d'ogn'omicida rio, d'ogni ladrone;
quel clima par da fiera stella avezzo
a morire o di forca o di prigione:
fur cinquecento, usati al caldo, al gielo,
a l'inculta foresta, al nudo cielo.

18
Da Camillo del Forno eran guidati
uom temerario e sprezzator di morte,
di semplice vermiglio avea segnati
il suo stendardo e l'armatura forte;
non portava cimier né fregi aurati,
né divisa o color d'alcuna sorte,
fuor che vermiglio; e sovra la sua gente
con nera e folta barba era eminente.

19
La gente che solcar soleva l'onda
e or solca il letto del gran fiume estinto,
e quella dove cade e si profonda
il Panaro diviso e 'n dietro spinto,
lasciâr le barche e i remi in su la sponda;
e mosse da guerrier nobile instinto,
quivi s'appresentar con lance e spiedi,
cento a cavallo e novecento a piedi.

20
Per capitani avean due schiericati
l'arciprete Guidoni e 'l frate Bravi;
che dianzi per ribelli ambo cacciati
avean con una man d'uomini pravi
la Stellata e 'l Bonden poscia occupati,
e 'l transito al Final chiuso a le navi.
Or rimessi venían con queste schiere,
in abito di guerra, in armi nere.

21
Alderan Cimicelli e Grazio Monte
seguían dopo costoro a mano a mano;
la Staggia l'uno e la Verdeta ha pronte,
quei di Roncaglia ha l'altro e di Panzano:
il destrier che portò Bellorofonte
già in alto, Grazio, e un argano Alderano
ne le bandiere lor spiegano al vento:
e i soldati fra tutti eran secento.

22
San Felice, Midolla e Camurana,
secento a piedi e ottanta erano in sella;
Nerazio Bianchi e Tomasin Fontana
gli conduceano a la tenzon novella:
Tomasin per insegna avea una rana
armata con la spada e la rotella;
Nerazio, che reggea quei da cavallo,
avea una mezza luna in campo giallo.

23
S'armò dopo costor quella riviera
che da Bomporto a la Bastía si stende;
povera gente, ma superba e altera,
che 'n terra e 'n acqua a provecchiarsi attende.
Fur quattrocento; e ne la lor bandiera,
che di vermiglio e d'or tutta risplende,
ritratto avea un gonfietto da pallone
Bagarotto, figliol di Rarabone.

24
Il sagace Claretto era con esso,
ch'acceso di Dogna Anna di Granata
giunt'era tutt'afflitto il giorno stesso
che un genovese gli l'avea rubata.
Gli ne fu dato a Parma indizio espresso
che l'avrebbe a Bomporto ritrovata;
ma quivi giunto ne perdé i vestigi,
e bestemmiò sessanta frati bigi.

25
Entrò ne l'osteria per rinfrescarsi
e ritrovò che Bagarotto a sorte
raccogliea quivi i suoi soldati sparsi,
e d'armi intorno cinte eran le porte.
Corsero l'uno e l'altro ad abbracciarsi,
ch'erano stati amici a la gran Corte,
e l'uno e l'altro le speranze grame
avean lasciate a i morti de la fame.

26
Narrò Claretto del suo nuovo ardore
la lunga scena e l'intricati effetti;
con quanti scherni in varie forme Amore
già tutti i suoi rivali avea negletti;
e com'or ei perdea per piú dolore
la donna sua nel colmo de' diletti.
Sorrise Bagarotto e disse: - Frate,
tu sciorini ogni dí nuove scappate.

27
Vieni meco a la guerra, e lascia andare
cotesti amori tuoi da scioperato:
la fama non s'acquista a vagheggiare
un viso di bertuccia immascherato. -
Claretto non istette a replicare,
ché gli venne desio d'esser soldato;
prese una picca e si scordò di bere:
ma ricordiamci noi de l'altre schiere.

28
Cittanova spiegâr, Fredo e Cognento,
Piramo e Tisbe morti a piè del moro:
esser potean costor da quattrocento,
e 'l furiero Manzol fu il duca loro,
giovane d'alto e nobile talento,
a cui cedean l'Agilità e 'l Decoro
nel ballar la nizzarda e la canaria
e nel tagliar le capriole in aria.

29
Quasi a un tempo arrivar da un altro lato
Villavara, Albareto e Navicelli;
eran trecento e conduceagli al prato
il fiero zoppo d'Ugolin Novelli:
dipinto ha ne l'insegna un ciel turbato
che piove sovra un campo di baccelli.
Indi venían tra lor correndo a gara
quei del Corleto e quei di Bazzovara:

30
Corleto emulator di Grevalcore
ch'Augusto nominò dal cor giocondo
quel dí che fu d'Antonio vincitore,
onde poscia con lui divise il mondo;
e Bazzovara or campo di sudore
che fu d'armi e d'amor campo fecondo,
là dove il Labadin persona accorta
fe' il beverone a la sua vacca morta.

31
Eran guidati dal dottor Masello,
ch'avea lasciato i libri a la ventura,
e s'era armato che parea un Marcello,
con la giubba a l'antica e l'armatura:
portava per impresa un ravanello
con la sementa d'or grande e matura;
e dietro a lui venían quei di Rubiera
e di Marzaglia armati in una schiera.

32
Bertoldo Grillenzon li conducea,
gran giucator di spada e lottatore;
ne la bandiera un materasso avea
che sdrucito spargea la lana fuore.
Questa schiera de l'altra esser potea
se non uguale, almen poco maggiore;
giugneano a punto al numero di mille
gli armati abitator di quattro ville.

33
Galvan Castaldi e Franceschin Murano
l'insegne di Porcile e del Montale
e le di Cadiana e di Mugnano
uniro a l'Osteria de le due scale.
Trecento con le ronche avea Galvano;
l'altro di picche avea numero eguale:
l'impresa di Galvano è una stadera;
Franceschino ha una gazza bianca e nera.

34
Ecco Alberto Boschetti in sella armato,
conte di San Cesario e di Bazzano;
ch'avendo poco pria quindi cacciato
il presidio nemico e 'l capitano,
s'era fatto signor di quello stato
col valor de la fronte e de la mano;
ed or di questi e d'altri suoi vassalli
per forza armati avea cento cavalli.

35
Pomposo viene e ne lo scudo porta
a onor di san Lorenzo una gradella:
la lancia in mano e al fianco avea la storta
tutta la schiera sua leggiadra e bella.
Una volpe che fa la gatta morta
spiegano Collegara e Corticella
che Bernardo Calori avea condotte,
trecento o poco piú tagliaricotte.

36
Due figli avea Rangon d'alto valore,
Gherardo il forte e Giacopin l'astuto;
Gherardo che d'etade era il maggiore
e 'n piú sublime grado era venuto,
de le genti paterne avea l'onore
e 'l governo al fratel quivi ceduto;
ond'egli se 'n venía portando altero
una conchiglia d'or sovra il cimiero.

37
Spilimberto, Vignola e Savignano,
Castelnovo e Campiglio in assemblea,
Ceiano e Guia, Montorsolo e Marano,
con quei di Malatigna armati avea.
Cento a caval con le zagaglie in mano
e mille fanti arcieri ei conducea,
ch'avean con agli e porri e cipollette
avvelenati i ferri a le saette.

38
Mentre questi giugnean dal destro lato,
già dal sinistro in campo era venuto
di Prendiparte Pichi il figlio armato
col fior de la Mirandola in aiuto:
fu Galeotto il giovane nomato
per tutta Italia allor noto e temuto;
e cento cavalier carchi di maglia
sotto l'impresa avea d'una tenaglia.

39
Campogaiano poscia e San Martino
mandaron cinquecento a la pedestre,
ch'aveano per insegna un saracino
e armati eran di ronche e di balestre:
Mauro Ruberti ne tenea il domíno
sovrastante maggior de le minestre;
vo' dir che de le bocche avea la taglia
e dovea compartir la vittovaglia.

40
Zaccaria Tosabecchi allor reggea
di Carpi il freno, uom vecchio e podagroso
a cui l'età il vigor scemato avea
ma non lo spirto altero e bellicoso.
Una figlia al morir gli succedea
che 'l conte di Solera avea per sposo,
zerbin de la contrada e falimbello,
di Manfredi cugin, detto Leonello.

41
Venne al vecchio desío d'esser quel giorno
in campo, e armò pedoni e cavalieri,
e una lettiga fe' senza soggiorno
che portavano a man quattro staffieri:
laminata di ferro era d'intorno,
e si potea assettar su due destrieri;
una tal poscia forte a maraviglia
ne fece il Contestabil di Castiglia;

42
e in Borgogna l'usò contra i moschetti
del bellicoso re de' fieri Galli.
Zaccaria venne con ducento eletti,
parte asini col fren, parte cavalli,
ma i pedoni a tardar furon costretti
ché 'l conte, che dovea tutti guidalli,
lasciò il suocero andar per la piú corta

43
e restò con la sposa a far la torta.
Zaccaria, che si vide abbandonato
dal genero, partí subito i fanti,
e quattrocento al cavalier Brusato
e a Guido Coccapan dienne altrettanti.
Il Cavalier un elefante alato
ha nell'insegna: e Guido ha due giganti
che giocano a le noci: il vecchio ha un gatto
che insidia un topo e stassi quatto quatto.

44
Quelli poi di Formigine e Fiorano,
dove nascono fichi in copia grande,
sono trecento, e Uberto Petrezzano
gli guida, e ne l'insegna un orco spande.
Baiamonte con lui di Livizzano
quasi a un tempo arrivò con le sue bande,
ducento fur con partigiane in spalla;
e la bandiera avean turchina e gialla.

45
Appresso d'Uguccion di Castelvetro
l'insegna apparve ch'era un cardo bianco.
Trecento balestrier le tenean dietro
ch'avean bolzoni e mazzafrustri al fianco.
Da Gorzan, Maranello e da Ceretro
de' famosi Grisolfi il buon Lanfranco
tratti avea cinquecento in una schiera,
e portava un frullon ne la bandiera;

46
onde la Crusca poi gli mosse lite
che fu rimessa al tribunal romano.
Con l'impresa d'un pero e d'una vite
Stefano e Ghin de' conti di Fogliano
avean con l'armi foglianese unite
quelle di Montezibio e di Varano,
ch'eran ducento ottanta martorelli,
unti e bisunti che parean porcelli.

47
Ma dove lascio di Sassol la gente
che suol de l'uve far nettare a Giove,
là dove è il dí piú bello e piú lucente,
là dove il ciel tutte le grazie piove?
quella terra d'amor, di gloria ardente,
madre di ciò ch'è piú pregiato altrove,
mandò cento cavalli, e intorno a mille
fanti raccolti da sue amene ville.

48
Roldano de la Rosa è il duca loro
ch'un tempo guerreggiando in Palestina
contra 'l campo d'Egitto e contra 'l Moro
fe' del sangue pagan strage e ruina;
sparsa di rose e di fiammelle d'oro
avea l'insegna azzurra e purpurina;
e dietro a lui venía poco lontano
Folco Cesio signor di Pompeiano;

49
Pompeiano ove suol l'aura amorosa
struggere il giel di que' nevosi monti;
Gommola e Palaveggio a la famosa
donna del seggio lor chinan le fronti.
Sotto l'insegna avea d'una spinosa
Folco raccolti de' piú arditi e pronti
trecento, che su zoccoli ferrati
se ne venían di chiaverine armati.

50
E quel ch'era mirabile a vedere,
cinquanta donne lor con gli archi in mano
avezze al bosco a saettar le fiere,
e a colpir da vicino e da lontano,
succinte in gonna e faretrate arciere,
calavano con lor dal monte al piano;
e la chioma bizarra e ad arte incolta
ondeggiando su 'l tergo iva disciolta.

51
Bruno di Cervarola avea il domíno
di quella terra e del vicin paese
di Moran, del Pigneto e di Saltino;
uom vago di litigi e di contese.
Con ducento suoi sgherri entrò in cammino
subito che de l'armi il suono intese;
e perch'era un cervel fatto a capriccio,
portava per impresa un pagliariccio.

52
Di Bianca Pagliarola innamorato
fatte avea già per lei prove diverse;
e a lei che gli arse il cor duro e gelato
sempre di sue vittorie il premio offerse:
or additando il suo pensier celato
un pagliariccio in campo bianco aperse,
ch'in mezzo un telo avea fatto di maglia
e mostrava nel cor la bianca paglia.

53
Appresso gli venía Mombarranzone
col suo signor Ranier, che di Pregnano
reggea la nuova gente e 'l gonfalone
che mandato gli avea Castellarano;
cinquanta con le natiche in arcione,
e quattrocento gían battendo il piano
con le scarpe sdrucite e senza suola;
la loro insegna è un bufalo che vola.

54
Brandola, Ligurciano e Moncereto
conduceva Scardin Capodibue,
ch'un diavolo stizzato in un canneto
dipinto avea ne le bandiere sue.
Col cimiero di lauro e mirto e aneto
il signor di Pazzan dietro gli fue,
che pretendea gran vena in poesia,
né il meschin s'accorgea ch'era pazzia.

55
Alessio era il suo nome, e 'n sesta rima
composto avea l'amor di Drusiana ;
nel resto fu baron di molta stima,
e seco avea Farneda e Montagnana.
Questa gente contata con la prima,
non era da giostrare a la quintana:
eran da cinquecento ferraguti
di rampiconi armati e pali acuti.

56
Di Veriga e Bison l'insegna al vento,
ch'era in campo azzurrino un sanguinaccio,
spiega Pancin Grassetti, e quattrocento
fanti conduce a suon di campanaccio:
ma piú di questi ne mandaron cento
Montombraro, Festato e 'l Gainaccio,
con l'impresa d'un asino su un pero,
e Artimedor Masetti è il condottiero.

57
Taddeo Sertorio, di Castel d'Aiano
conte e fratel di Monaca la bella,
conducea Montetortore e Misano,
dove fu la gran fuga, e la Rosella,
con archi e spiedi porcherecci in mano,
spiegando in campo bianco una padella;
trecento fur che quelle vie ronchiose
con le piante premean dure e callose.

58
Seguiva di Monforte e di Montese,
Montespecchio e Trentin poscia l'insegna:
Gualtier figliuol di Paganel Cortese
l'avea dipinta d'una porca pregna;
fur quattrocento, e parte al tergo appese
accette avean da far nel bosco legna,
parte forconi in spalla, e parte mazze
e pelli d'orsi in cambio di corazze.

59
Il conte di Miceno era un signore
fratel del Potta a Modana venuto,
dove invaghí sí ognun del suo valore
che a viva forza poi fu ritenuto:
non avea la milizia uom di piú core,
né piú bravo di lui né piú temuto:
corseggiò un tempo il mar, poscia fu duce
in Francia: e nominato era Voluce.

60
Gli donò la città per ritenerlo
Miceno, Monfestin, Salto e Trignano,
e Ranocchio e Lavacchio e Montemerlo,
Sassomolato, Riva e Disenzano:
un san Giorgio parea proprio a vederlo,
armato a piè con una picca in mano;
con ottocento fanti al campo venne
con armi bianche e un gran cimier di penne.

61
Panfilo Sassi e Niccolò Adelardi
co' Frignanesi lor seguiro appresso,
di concerto spiegando i due stendardi
di Sestola e Fanano a un tempo stesso;
l'uno ha tre monti in aria e 'l motto tardi ,
l'altro nel mar dipinto un arcipresso,
con l'uno è Sassorosso, Olina e Acquaro;
Roccascaglia con l'altro e Castellaro.

62
Eran mille fra tutti. E dopo loro
venía una gente indomita e silvestra;
San Pellegrino, e giú fino a Pianoro
tutto il girar di quella parte alpestra
dove sparge il Dragone arena d'oro
a sinistra, e 'l Panaro ha il fonte a destra,
Redonelato e Pelago e la Pieve
e Sant'Andrea che padre è de la neve;

63
Fiumalbo e Bucasol terre del vento,
Magrignan, Montecreto e Cestellino;
esser potean da mille e quatrocento
gl'inculti abitator de l'Apennino:
Apennin ch'alza sí la fronte e 'l mento
a vagheggiare il ciel quindi vicino,
che le selve del crin nevose e folte
servon di scopa a le stellate volte.

64
Tutti a piedi venían con gli stivali,
armati di balestre a martinelle
che facevano colpi aspri e mortali
e passavano i giacchi e le rotelle:
pelliccioni di lupi e di cinghiali
eran le vesti lor pompose e belle;
spadacce al fianco aveano e stocchi antichi,
e cappelline in testa e pappafichi.

65
Ma chi fu il duce de l'alpina schiera?
Fu Ramberto Balugola il feroce
che portava un fanciul ne la bandiera
che faceva a un Giudeo baciar la croce.
Con armatura rugginosa e nera
e piume in testa di color di noce
venía superbo a passi lunghi e tardi,
con una scure in collo e in man tre dardi.

66
Da Ronchi lo seguía poco lontano
Morovico signor di quella terra:
Palagano e Moccogno e Castrignano
guidava, e quei di Santa Giulia in guerra.
Da quattrocento con spuntoni in mano
co' piedi lor calcavano la terra
dietro a l'insegna d'una barca a vela,
e cantando venían la fa-li-le-la .

67
Un giovinetto di superbo core
che di sua fresca etade in su 'l mattino
non avea ancor segnato il primo fiore
del primo pel, nomato Valentino,
avea dipinto addormentato Amore,
e Medola reggea, Montefiorino,
Mursian, Rubbian, Massa e Povello,
Vedriola e de l'Oche il gran castello.

68
Di giavellotti armati e gianettoni,
di panciere e di targhe eran costoro,
con martingale e certi lor saioni
che chiamavano i sassi a concistoro.
Sotto le scarpe avean tanti tacconi,
che parea il campo d'Agramante moro
che in zoccoli marciasse a lume spento;
e non erano piú che cinquecento.

69
Poiché la fanteria de la montagna
fu veduta passar di schiera in schiera,
il Potta fece anch'egli a la campagna
uscir la gente sua ch'armata s'era.
E già quella di Parma e d'Alemagna
e di Cremona giunta era la sera
da la parte del Po, per la fatica
che da Reggio temea, città nemica.

70
In Garfagnana intanto avea intimato
a' cinque capitan de le bandiere
che non uscisser pria di quello stato
che vi giungesse il Re con le sue schiere:
però ch'anch'ei da Lucca avea mandato
a fare in fretta a la città sapere
ch'ei venía quindi, e domandava gente
da potersi condur sicuramente.

71
E 'l giorno che seguí, posto in cammino
per la diritta via di Gallicano,
tra le coste passò de l'Apennino
e discese al Padul giú dal Frignano;
era con lui Vetidio Carandino
con la bandiera di Camporeggiano,
dove egli avea dipinta una civetta
che portava nel becco una scopetta.

72
Quella di Castelnovo, ov'era un Santo
con le man giunte lavorato a scacchi,
seguía per retroguardia indietro alquanto
sotto la guida di Simon Bertacchi.
Quivi l'arredo regio è tutto quanto,
quivi veníeno i servitori stracchi
e quei che 'l vin di Lucca avea arrestati,
per some in su le some addormentati.

73
Ma le due di Soraggio e di Sillano
da Otton Campora l'una era guidata,
l'altra da Jaconia di Ponzio Urbano,
che porta una fascina incoronata.
La stella mattutina il Camporano
con una cuffia rossa ha figurata:
E queste quattro avean sei volte mille
fanti raccolti da sessanta ville.

74
Ma trecento cavalli avea la quinta
guidata da Pandolfo Bellincino,
ove in campo dorato era dipinta
la figura gentil d'un babuino.
I cavalieri avean la spada cinta,
attaccato a l'arcione un balestrino,
lo scudo in braccio e in mano una zagaglia;
e gíano a destra man de la battaglia.

75
Però che quindi anch'essi i Fiorentini
armatisi in favor de' Bolognesi
costeggiando venían cosí vicini
che poteano i men cauti esser offesi.
Il Re seimila fanti ghibellini,
sardi, pisani, liguri e lucchesi
e due mila cavalli avea con lui,
svevi e tedeschi e parteggiani sui.

76
Intanto il Potta le sue genti avea
divise in terzo, e 'l buon Manfredi avanti
con due mila cavalli in assemblea
se 'n giva, e dopo lui veníano i fanti.
Eran dodicimila e gli reggea
Gherardo, che ne gli atti e ne' sembianti
parea un volpon che conducesse i figli
a dar l'assalto a un branco di conigli.

77
La terza schiera fu di poche genti,
ma piena d'ogni machina murale
e di que' piú terribili instrumenti
che gli antichi trovâr per far del male.
L'architetto maggior de' ferramenti
Pasquin Ferrari, gran zucca da sale,
la conducea con mille balestrieri
e cento carri e ventidue ingegneri.

78
Non si fermò ne l'arrivare al ponte
il Potta, ma passò di là da l'onda,
e dietro a lui tutte le schiere conte
si condussero in fretta a l'altra sponda:
quivi secento a piè con l'armi pronte
trovar, da la fruttifera e feconda
Nonantola venuti, e dal vicino
contado di Stuffione e Ravarino.

79
Gli conducean due cavalier novelli
con armi e piume di color di gigli,
Beltrando e Gherardino, i due gemelli
che de la bella Molza erano figli.
Era l'impresa lor due fegatelli
con la veste a quartier bianchi e vermigli,
le tramezze di lauro e le frontiere:
e queste ultime fur di tante schiere.
CANTO QUARTO

ARGOMENTO
Mentre dal Potta Castelfranco è stretto,
Rubiera assalta il popolo reggiano.
Parte dal campo a quell'impresa eletto
Gherardo, e se ne va notturno e piano.
Muove assalto a la terra, onde costretto
da la fame si parte il capitano.
Cadono i valorosi; e gli altri a patto
fan de la vita lor vile riscatto.

1
Poiché fu sorto in su la destra riva,
si fermò il campo e s'ordinâr le schiere;
ne gli usberghi lucenti il sol feriva
e ne traeva fuor lampi e lumiere:
un venticel che di ponente usciva
facea ondeggiar le piume e le bandiere:
e per le rive intorno e per le valli
romoreggiava il ciel d'armi e cavalli.

2
Il Potta, ch'era un uom molto eloquente
e solito a salir spesso in ringhiera,
montato sopra un argine eminente
che divideva i campi e la riviera,
cinto di capitani e nobil gente,
co 'l capo disarmato e la montiera,
cosí parlava al popolo feroce
con magnanimi gesti e altera voce:

3
- O vero seme del valor latino,
ben aveste l'altrier da Federico
un privilegio in foglio pecorino,
che vi ridona il territorio antico
che terminava già sopra 'l Lavino:
ma il donativo suo non vale un fico,
se con quest'armi che portiamo a canto
non ne pigliamo noi possesso in tanto.

4
Sol Castelfranco ne può far inciampo,
ché rinforzato è di presidio grosso;
ma non avrà da noi riparo o scampo,
se con tant'armi gli giugniamo addosso:
quivi noi fermeremo il nostro campo
contra 'l nemico che non s'è ancor mosso;
e potremo goder sicuri e lieti
de' beni altrui, finché fortuna il vieti.

5
Tutte nostre saran senza sospetti
queste ricche campagne e questi armenti;
la salciccia, i capponi e i tortelletti
da casa ci verran cotti e bollenti,
e dormiremo in quegli stessi letti
dove ora dormon le nemiche genti:
il Re giungerà in campo innanzi sera,
ché già scesa dal monte è la sua schiera.

6
Ma che piú vi trattengo o forti? Andiamo
a trar di bizzaria questi capocchi,
leviamgli Castelfranco; e poi vediamo
ciò che faran con quel fuscel ne gli occhi,
ricco di preda è quel castel, io bramo
ch'ognun ne goda, a ciaschedun ne tocchi;
io per me certo non ne vo' un quattrino,
e dono la mia parte al piú meschino. -

7
Cosí dicendo il fiero campo mosse
con tanta fretta a la segnata impresa,
che l'inimico a pena a tempo armosse,
per correr de le mura a la difesa.
Subito intorno fur cinte le fosse,
e adattate le macchine da offesa:
al primo colpo d'un trabucco vasto
fu arrandellato un asino col basto.

8
La machina mural da sé rimove
con impeto sí fier quella bestiaccia,
che la solleva in aria, e in piazza dove
piú turba avea dentro il castel la caccia.
Trasecolaron quelle genti nove
tutte, e l'un l'altro si miraro in faccia
con le guance di neve e 'l cor di gelo,
ch'un asino cader vider dal cielo.

9
Era con molti armati in quel presidio
un capitan di poca matematica
di Casa Bonason, detto Nasidio
perch'avea un naso contro la prammatica:
questi temendo un general eccidio,
subito co' Potteschi attaccò pratica
d'uscir di quel castel con la sua gente
se non avea soccorso il dí seguente.

10
Fermato il patto, il Re giunse la sera
con trombe e fuochi e segni d'allegrezza;
ma il dí seguente una novella fiera
converse tutto il dolce in amarezza:
venne correndo un messo da Rubiera
ch'aiuto richiedea con gran prestezza
contra il popol reggian, ch'a quella terra
mossa la notte avea improvisa guerra.

11
Il popolo reggian col modanese
professava odio antico e nemicizia,
e avea contra di lui col bolognese
piú volte unita già la sua milizia;
ora, dissimulando il tempo attese,
e per mostrar la solita nequizia,
passato che fu il Re, spinse a' suoi danni
seimila fra soldati e saccomanni.

12
Il Re tosto chiamar fece a consiglio
tutti gli eroi de la città del Potta;
e poi ch'ebbe narrato il gran periglio
ove quella fortezza era ridotta,
rivolse a destra mano il nobil ciglio,
dove sedea l'onor di casa Scotta:
ed ei, poiché fu sorto e si compose
la barba con la man, sputò e rispose:

13
- A voi, signor, come piú degno, tocca
sceglier fra questi un capitano in fretta,
che vada a liberar l'oppressa rocca
e a far su quegli audaci aspra vendetta. -
Volea piú dir, ma no 'l lasciò la bocca
aprir, che si levò da la panchetta
e saltò in mezzo il conte di Culagna
dicendo: - V'andrò io, chi m'accompagna? -

14
Maravigliando il Re si volse e disse:
- Chi è costui sí ardito e baldanzoso? -
Il Potta si guardò ch'ei no 'l sentisse,
e disse: - Questi è un matto glorioso. -
Il Re, che avea disio che si spedisse
a quella impresa un capitan famoso,
rimise quella eletta al Potta stesso
che conosceva ognun meglio da presso.

15
Il Potta, che sapea che i Parmegiani
eran nemici a la tedescheria,
e ch'era un accoppiar co' gatti i cani
se gli uni e gli altri insieme a un tempo unía;
disegnò di mandar contra i Reggiani
gli aiuti che da Parma in campo avía
Giberto da Correggio allor guidati,
tremila a piedi e mille in sella armati.

16
Ma il carico sovran diede a Gherardo
con cinquemila fanti e quella schiera
ch'avea Bertoldo sotto il suo stendardo
condotta da Marzaglia e da Rubiera.
Ripassò il ponte il cavalier gagliardo;
ma non giunse a Marzaglia innanzi sera,
quivi ebbe nuova de la terra presa,
ma che la rocca ancor facea difesa.

17
Stettero in dubbio i cavalier del Potta
se passavano allor quella riviera,
o s'attendean che fulminata e rotta
fosse dal novo sol l'aria già nera.
Ed ecco apparve lor su 'l fiume allotta
Marte, che presa la sembianza fiera
di Scalandrone da Bismanta avea,
bandito e capitan di gente rea;

18
e inalzando una face in su la sponda
che 'l varco indi vicin tutto scopriva,
fe' sí che tragittò di là da l'onda
subito il campo a la sinistra riva.
Spirava il vento e dibattea la fronda
sí ch'a fatica il calpestio s'udiva.
A i capitani allor Marte feroce
volgea lo sguardo e la terribil voce;

19
e dicea lor: - Venite meco, o forti,
ché gl'inimici or vi do vinti e presi,
mentre che ne la terra i male accorti
son quasi tutti a depredar intesi,
aspettando che 'l messo annunzio porti
che si sian quelli de la rocca resi,
dove a l'assedio in su la fossa armato
Foresto Fontanella hanno lasciato.

20
Io la perfidia lor patir non posso,
e vengo a vendicarla ora con voi;
se lor giugniamo a l'improviso addosso,
che potran far, se fosser tutti eroi?
Gira, Gherardo, tu a sinistra il fosso,
e chiudi il passo co' soldati tuoi,
ch'io Giberto e Bertoldo a piè del ponte
condurrò cheti a l'inimico a fronte. -

21
Cosí parlava, e Scalandrone il fiero
creduto fu da ognun ch'era presente.
Gherardo a manca man tenne il sentiero,
Giberto a destra al lato di ponente,
e su gli elmi inalzar fe' per cimiero
un segno bianco a tutta la sua gente,
ché già la squadra udia del Fontanella
cantar non lungi la Rossina bella .

22
Passavan cheti e taciturni avanti
senza ronde scontrar né sentinelle,
quando cessaro a l'improviso i canti
e i gridi e gli urli andar fino a le stelle;
i cavalli lasciaro addietro i fanti
allora, e Marte accese due facelle,
e illuminò cosí l'aer d'intorno
che parve senza sol nascere il giorno.

23
Foresto, che venir sopra si vede
gli stendardi di Parma e di Rubiera,
si lascia dietro anch'ei la gente a piede;
e passa armato innanzi a la sua schiera.
Marte rimira e Scalandrone il crede,
sprona il cavallo e abbassa la visiera;
e 'l coglie a punto al mezo de la pancia,
ma non sente piegar né urtar la lancia.

24
Marte a l'incontro al trapassar percosse
in guisa lui d'un colpo sopramano
che gli abbruciò la barba e 'l viso cosse,
e non parve mai piú fedel cristiano:
ei se la bebbe, e subito scontrosse
con Bertoldo, ch'avea disteso al piano
col braghiero in due pezzi Anselmo Arlotto,
grande alchimista e in medicina dotto.

25
Ruppero l'aste a quell'incontro fiero,
e con le spade incominciâr la guerra.
L'animoso Foresto avea un destriero
che non trovava paragone in terra,
generoso di cor, pronto e leggero;
e se un'antica cronica non erra,
fu de la razza di quel buon Frontino,
fatto immortal da Monsignor Turpino.

26
Bertoldo avea piú forza e piú fierezza,
ed era di statura assai maggiore:
Foresto avea piú grazia e piú destrezza,
picciolo il corpo e grand'era 'l valore.
Ma l'uno e l'altro fa di sua prodezza
mostra al nemico e di suo eccelso core;
e la terra è già tinta e inorridita
di sangue e di bragiole e maglia trita.

27
Giberto intanto avea rotta la lancia
nel ventre a Gambatorta Scarlattino,
e col troncon fatta crepar la pancia
d'un fiero colpo a Stevanel Rossino;
quando tolse una scure a Testarancia
figliuol di Filippon da San Donnino,
e con essa a due man fe' tal ruina,
che tolse il vanto a quei de la tonnina.

28
Uccise Braghetton da Bibianello
ch'un tempo a Roma fece il cortigiano;
e 'l nome v'intagliò co lo scarpello
sotto Montecavallo a manca mano;
avea la pancia come un carratello
e avría bevuta la città d'Albano,
né mai chiedeva a Dio nel suo pregare,
se non che convertisse in vino il mare.

29
Gli divise la pancia il colpo fiero
e una borrachia ch'a l'arcione avea:
cadeano il sangue e 'l vin sopra 'l sentiero,
e 'l misero del vin piú si dolea.
l'alma ch'usciva fuor col sangue nero
al vapor di quel vin si ritraea:
e lieta abbandonava il corpo grasso,
credendo andar fra le delizie a spasso.

30
Uccise dopo questi Alceo d'Ormondo
protonotario e camerier d'onore
ne la corte papal, capo del mondo
e di piú cavalier conte e dottore;
e 'l miser Baccarin da San Secondo
che de le pappardelle era inventore
morto lasciò con gli altri male accorti
sotto Rubiera ad ingrassar quegli orti.

31
Prospero d'Albinea, Feltrin Casola,
Marco Denaglia, Brun da Mozzatella,
Berto da Rondinara, Andrea Scaiola,
Stefano Zobli, Gian da Torricella,
Guglielmo da la Latta e Pier Mazzola
dal feroce guerrier tratti di sella,
con Ugo Brama e Gian Matteo Scaruffa
tutti rimaser morti in quella zuffa.

32
A i colpi de la forza di Giberto
gira gli occhi Foresto; e i suoi soldati
vede da la battaglia al campo aperto
fuggir chi qua chi là tutti sbandati:
e temendo restar quivi diserto,
ché cinto si vedea da tutti i lati,
volge a Bertoldo ed una punta abbassa,
e gli uccide il cavallo e 'n terra il lassa:

33
e dove i suoi fuggían da la battaglia
spronando quel destrier che sembra un vento:
- Dunque, gridava lor, brutta canaglia,
questo è il vostro valore e l'ardimento?
Se non avete tanto cor che vaglia
a sprezzar de la morte ogni spavento
sí che vogliate abbandonar la guerra,
ritiratevi almen dentro la terra. -

34
Cosí disse, e correndo in ver la porta
donde il soccorso omai gli parea tardo,
piena la via trovò di gente morta,
ch'ivi già penetrato era Gherardo.
Allor frenando l'impeto che 'l porta,
s'arresta alquanto il giovane gagliardo,
pensando se dovea quindi fuggire
tra l'ombre de la notte o pur morire.

35
Spiccasi al fine, e là dove difende
il nemico l'uscita, entrar procaccia:
la testa a Furio da la Coccia fende
e nel ventre a Vivian la spada caccia:
il primo avea il cervel fuor di calende
e l'altro era un fanton lungo sei braccia,
l'un nemicizia avea col sol d'agosto
e l'altro rincaría le calde arrosto.

36
Ferí dopo costor, con vario evento,
due Gemignani, l'Erri e 'l Baciliero:
ne l'umbilico l'un subito spento
cadè, tocco d'un colpo assai leggiero:
l'altro, ch'un'ernia avea piena di vento
né potea camminar senza 'l braghiero,
ferito d'una punta in quella parte,
esalò il vento e si sanò contr'arte.

37
Giunto alfin dove l'ultima bandiera
Forcierolo Alberghetti avea fermata,
come che cinta sia di gente fiera
la sforza, e quindi a' suoi trova l'entrata;
né s'accorge che lascia la sua schiera
tra i nemici rinchiusa e abbandonata.
In tanto il conte avea di San Donnino
sentito il fiero suon del mattutino.

38
Questi era de' Reggiani il generale,
grande di Febo e di Bellona amico,
e stava componendo un madrigale
quand'arrivò l'esercito nemico.
Reggio non ebbe mai suggetto eguale
o nel tempo moderno o ne l'antico,
né di lui piú stimato in pace e 'n guerra;
ed era consiglier di Salinguerra.

39
Di Salinguerra il poderoso dico
che tenne già Ferrara e Francolino,
fin che fu poi dal Papa suo nemico
sospinto fuor del nobile domíno,
e tornò a ripigliar lo scettro antico
il seme del superbo Aldobrandino:
Si trova in somma scritto in varie carte,
che 'l conte era grand'uomo in ogni parte.

40
Tosto ch'ode il romor, chiede da bere
a Livio suo scudiero e l'armi chiede;
e beve in fretta, e poi volge il bicchiere
sopra la sottocoppa in su col piede:
s'adatta i braccialetti e le gambiere;
s'affaccia a la finestra; e guarda e vede
a quel romor, senza notizia averne,
saltar di casa ognun con le lanterne.

41
Già avea l'usbergo, e subito s'allaccia
l'elmo con piume candide di struzzo;
cigne la spada e 'l forte scudo imbraccia,
e monta sopra un nobile andaluzzo.
Gli portava dinanzi una rondaccia
e una balestra il sordo Malaguzzo,
era stizzato e gli sapeva male
di non aver finito il madrigale.

42
Giunto a la porta e udito il gran fracasso
montò subitamente in su le mura,
e mirò intorno e vide giú nel basso
d'armi coperto il ponte e la pianura,
vide i nemici aver serrato il passo
e de' soldati suoi l'aspra ventura,
onde pieno d'angoscia e di dispetto
sospirò forte e si percosse il petto.

43
E quivi a canto a lui fatti passare
due mila balestrier ch'in campo avea,
cominciò l'inimico a saettare
che cacciarlo di luogo ei si credea.
Come suol rifuggir l'onda e tornare
fremendo nel furor de la marea,
cosí fremea ondeggiando e i forti scudi
opponea l'inimico a i colpi crudi.

44
Ma non partiva e non mutava loco:
e 'n tanto l'alba uscía de l'oriente,
le cui guancie di rose al sol di foco
mirando il ciel ne divenia lucente.
Gherardo rinfrescò la gente un poco
mutandola a' quartieri, e al dí nascente
dal fosso a basso e da la rocca d'alto
diede principio a un furibondo assalto.

45
De la rocca Bertoldo ebbe l'assunto;
Giberto a manca man, Gherardo a destra.
Vedesi il conte a mal partito giunto,
ch'eran finiti il pane e la minestra:
pur mise anch'egli i suoi soldati in punto,
e Bertoldo dicea da una finestra:
- Ah! Reggianelli, gente da dozzina,
l'unghie vi resteran ne la rapina. -

46
Dove la rocca giú nel pian scendea,
de la piazza era il conte a la difesa:
e sbarrato di travi il passo avea,
facendo quivi i suoi nobil contesa.
Gherardo a destra man forte stringea,
Giberto facea machine da offesa,
mangani e scale, e empía con sorda guerra
la fossa in tanto di fascine e terra.

47
Durò il crudele assalto infino a nona,
sin che stancârsi e intiepidiron l'ire.
Il saggio conte i suoi non abbandona;
ma non avea che dargli a digerire.
Ne la rocca serrata avean l'annona
i terrazzani al primo suo apparire,
e tanti denti in su l'entrar di botto
distrusser ciò che v'era e crudo e cotto.

48
Cerca di qua, cerca di là, né trova
cosa da farvi un minimo disegno:
sbadiglian tutti e fan crocette a prova,
e l'appetito lor cresce lo sdegno.
Fatta avean quivi una chiesetta nova
certi frati di quei dal piè di legno:
il conte al guardian chiese rimedio
per liberarsi dal crudele assedio.

49
Cominciò il frate a dir che Dio adirato
volea il popol reggiano or gastigare:
il conte ch'era mezzo disperato
- Padre, dicea, non stato a predicare,
ma cercate rimedio al nostre stato,
ch'è notte e non abbiam di che cenare:
fateci uscir di queste mura in pace,
e predicate poi quanto vi piace. -

50
Il frate uscí a trattar subito fuora,
e ritornò con l'ultima risposta:
che se i Reggiani andar voleano allora,
lasciasser l'armi e andassero a lor posta.
Alcuni non volean piú far dimora,
ma gli altri si ridean de la proposta,
e dicean che con l'armi era da uscire,
o da pugnar con l'armi o da morire.

51
Onde forzato fu di ritornare
il frate al campo, e 'l conte a lui converso:
- Padre, dicea, vi voglio accompagnare,
datemi una gonella da converso. -
Il frate gliene fece una portare
ricamata di brodo azzurro e perso,
ch'era del cuoco: e 'l conte se la pose,
e tutto nel capuccio si nascose:

52
e rivoltato a' suoi disse ch'ei giva
a procurar anch'ei sorte migliore;
ma se 'l nemico altier non s'ammolliva,
tentato avría di rimaner di fuore;
e che con nuova gente ei s'offeriva
di tornare in soccorso in fra poche ore,
pur ch'a lor desse il cor di mantenerse
un giorno ancor ne le fortune avverse.

53
In suo luogo lasciò Guido Canossa,
e non prese arme, fuor ch'una squarcina
che nascondea quella vestaccia grossa,
con un giacco di maglia garzerina.
Ritrovaron Gherardo in su la fossa,
che facea fabricar per la mattina
contra la porta una sbarrata grande
che chiudeva per fronte e da le bande.

54
Quando Gherardo vide il guardiano,
gli venne incontro; e 'l frate gli dicea,
che troppo duro al popolo reggiano
il partito proposto esser parea;
ch'egli voleva uscir con l'armi in mano,
e che nel resto a lui si rimettea.
Gherardo entrò in furor quand'udí questo
e disse al frate: - Padre, io vi protesto

55
che vo' far nuovi patti e vo' che lassi
l'armi e l'insegne e quanto egli ha da guerra,
e ch'in farsetto e sotto un'asta passi
a l'uscir de la porta de la terra.
Cosí vi giuro, e non perdete i passi
a tornar, se 'l partito non si serra;
perché vi aggiugnerò pene piú gravi,
come son degni i lor eccessi pravi. -

56
Il conte, che tenea l'orecchie intente
dicendo: - A fé non mi ci coglierai, -
s'incominciò a scostar segretamente,
fin che si ritrovò lontano assai.
Pregava il guardian molt'umilmente,
ma non poté spuntar Gherardo mai:
onde tornò dolente al suo camino,
senz'altra inchiesta far di fra' Stoppino.

57
Poiché tornò confuso e sbigottito
da la fiera risposta il guardiano,
e narrò il tutto e che se n'era gito
il conte e già poteva esser lontano;
si consultò s'era miglior partito
il ritorno aspettar del capitano,
o pur co l'armi al ciel notturno e scuro
tentar d'uscir de l'infelice muro.

58
Tutti lodâr che s'aspettasse il conte;
ma quando poi s'andò ben calculando
ch'ei non poteva aver le genti pronte
prima che il nuovo sol fosse ito in bando,
si torser tutti e rincrespâr la fronte,
dicendo che volean morir pugnando:
onde Guido d'uscir fatto disegno,
fe' stare in punto ognun co l'armi a segno.

59
Ma da la rocca diè Bertoldo aviso
a Gherardo ch'usasse estrema cura,
che mostrava il nemico a l'improviso
voler co l'armi uscir di quelle mura.
Preparossi Gherardo; e su l'aviso
fé stare i suoi soldati, e l'aria scura
rallumò con facelle e pece ardente;
e le sbarre piantò subitamente.

60
Ed ecco aprir la porta e a un tempo stesso
de gli affamati il grido e le percosse:
ma ne le sbarre urtar ch'erano appresso;
e 'l rauco suono e l'impeto arrestosse:
Gherardo avea per fianco e 'n fronte messo
vari strumenti di tremende posse:
e a colpi di saette e pietre e dardi
stese quivi i piú arditi e piú gagliardi.

61
Ed egli armato a piè con una mazza
corse a le sbarre, e a tanti diè la morte,
che se non ritraea la turba pazza
in dietro il piede e non chiudea le porte,
perduta quella notte era la razza
de' soldati da Reggio in dura sorte.
Fu de' primi a cader Guido Canossa
in preda a i lucci di quell'empia fossa.

62
Ma l'ardito Foresto urta il destriero,
dove vede la sbarra esser piú bassa;
e tratto disperato il brando fiero
contra Gherardo, il fère a un tempo e passa,
e dovunque al passar drizza il sentiero,
de l'alto suo valor vestigi lassa;
fin ch'in sicura parte al fine arriva,
e i suoi d'aiuto e di speranza priva.

63
L'esercito reggian, fatto sicuro
che la forza adoprar gli valea poco,
e veggendo il nemico in volt'oscuro
scuoter la porta e domandar del foco,
in fretta rimandò fuora del muro
il guardian, ch'ebbe a fatica loco
d'impetrar da Gherardo alcun partito,
ch'era già inviperato e infellonito.

64
Al fin l'ultimo ottenne, e fu giurato
con giunta, che chiunque a l'osteria
con modanese alcun fosse alloggiato
di quello stuol che di Rubiera uscía,
a trargli per onor fosse ubbligato
scarpe o stivali o s'altro in piedi avía;
indi fu aperto un picciolo sportello,
d'onde uscivano i vinti in giubberello.

65
Marte, che la sembianza ancor tenea
di Scalandron, per onorar la festa,
stando a la picca, ove al passar dovea
chinar il vinto la superba testa,
dava a ciascun, nel trapassar che fea
sotto quell'asta, un scappellotto a sesta:
cosí fino a l'aurora ad uno ad uno
andò passando il popolo digiuno.

66
Poi che tutti passâr, Marte disparve
lasciand'ognun di meraviglia muto.
Stupiva il vincitor che le sue larve
conoscer non avea prima saputo:
stupiva il vinto, poi che 'l sole apparve
cinto di luce, e che si fu avveduto
con onta sua che le picchiate ladre
a tutti fatte avean le teste quadre.

67
Sotto Rubiera si trattenne alquanto
Gherardo, e riposar le genti feo,
onorando quel dí sacrato al Santo
Apostolo divin Bartolomeo;
e de le spoglie de' nemici in tanto
su la riva di Secchia alzò un trofeo,
quando volgendo il sol dal mezzo giorno
eccoti un messaggier sonando un corno;

68
e narra ch'attaccata è la battaglia
tra il Re de' Sardi e le città nemiche,
ch'in campo conducean tanta canaglia
che non ha tante mosche Apuglia o spiche;
e lo prega d'aiuto, e che gli caglia
del gran periglio de le schiere amiche.
Trenta peli di rabbia allor strapposse
Gherardo, e bestemmiando il campo mosse.
CANTO QUINTO

ARGOMENTO
È preso Castelfranco: e con auspici
poco fausti a Bologna il Nunzio giunto,
de' Bolognesi e de' paesi amici
vede marciar l'esercito congiunto,
che 'l dí seguente addosso a gl'inimici
giunge improviso e di battaglia in punto.
E 'l Potta anch'ei da l'espugnate mura
tragge e schiera il suo campo a la pianura.

1
Già il termine prescritto era passato,
né la piazza Nasidio ancor rendea,
da contrasegni e lettere avisato
che l'esercito amico uscir dovea.
Il Potta, che si vide esser gabbato,
ne consultò col Re vendetta rea:
e l'alba era ancor dubbia e 'l cielo oscuro,
quando assaltò da cento parti il muro.

2
Rimasero i Tedeschi e i Cremonesi,
che da Bosio Duara eran guidati,
e la cavalleria de' Modanesi
con loro insegne a la campagna armati.
Il Potta avea de' suoi gli animi accesi
con premi utili insieme ed onorati;
promettendo a colui ch'era di loro
primo a salir, due mila scudi d'oro.

3
Mille n'avea al secondo, e cinquecento
promessi al terzo: onde correa a salire
e a far di suo valore esperimento
stimulando ciascun la forza e l'ire.
Ma l'inimico in cosí gran spavento
si difendea con disperato ardire,
sicuro omai di non trovar mercede
dopo l'error de la mancata fede.

4
Pioggia cadea da le merlate mura
di saette e di pietre aspra e mortale:
ma con sembianza intrepida e sicura
movea l'assalitor machine e scale.
I mangani al ferir maggior paura
facean da lunge e irreparabil male,
ché subito ch'alcun scopriva il busto,
mastro Pasquin te l'imbroccava giusto.

5
Non credo ch'Archimede a Siracusa
facesse di costui prove piú leste.
Fra gli altri colpi suoi nota la Musa,
ch'un certo Bastian da Sant'Oreste,
sbracato, lo schernía sí come s'usa,
mostrandogli le parti poco oneste:
ed egli tosto gli aggiustò un quadrello
nel foro a pel de l'ultimo budello.

6
Rinforzossi tre volte il fiero assalto
sottentrando a vicenda ordini e schiere;
e giú nel fosso e su nel muro ad alto
morti infiniti si vedean cadere;
quando il fiero Ramberto ergendo in alto
una scala, di man trasse a l'alfiere
l'insegna, e 'n tanto i suoi con le balestre
disgombravano i merli e le finestre.

7
Sandrin Pedoca e Battistin Panzetta
e Luca Ponticel gli furo appresso:
fu morto il Ponticel d'una saetta
ch'uscí di man di Berlinghier dal Gesso;
ma Ramberto salito in su la vetta
si trovò incontro il capitano istesso,
ch'armato d'una ronca era venuto
correndo in quella parte a dare aiuto.

8
Tosto ch'ei può fermar tra' merli il piede
pianta l'insegna, e oppone il forte scudo
a Nasidio, che l'urta e che lo fiede
con la ronca a due man d'un colpo crudo.
L'aspra percossa ogni riparo eccede,
l'armi distrugge, e lascia il braccio ignudo
e ferito a Ramberto, e 'l cor ripieno
di furor e di rabbia e di veleno.

9
A Nasidio s'avventa, e con le braccia
pria ne la gola, indi ne' fianchi il cigne;
Nasidio ratto anch'ei seco s'abbraccia,
lascia la ronca, e al paragon si strigne:
l'uno di qua, l'altro di là procaccia
d'atterrare il nemico e lo sospigne:
gli avviticchia le gambe e lo raggira,
or l'urta a destra, or a sinistra il tira.

10
Grida Nasidio che 'l guerrier sia preso,
o quivi in braccio a lui di vita casso;
egli di rabbia e di furore acceso,
l'alza su 'l petto e tira in dietro il passo,
e su l'orlo del muro il tien sospeso,
indi si lancia a precipizio a basso:
Giesú chiama per aria in suo sussidio
il discendente del famoso Ovidio.

11
Giú ne la fossa in loco assai profondo
giaceva a piè de l'assalite mura
una gran massa di pantano immondo
e di fracido stabbio e di bruttura:
quivi caddero entrambo, e andaro al fondo,
e d'abito mutati e di figura
tornar senz'altro danno a rivedere
l'almo splendor de le celesti sfere.

12
E di nuovo correan per azzuffarsi,
come due verri d'ira e d'odio ardenti
corron ne la belletta ad affrontarsi
con dispettosi grifi e torti denti:
ma i soldati potteschi intorno sparsi
furon lor sopra a quel fier atto intenti,
e da le man del vincitore altero
trasser Nasidio vivo e prigioniero.

13
Fu condotto Nasidio innanzi al Potta,
che lo fece castrar subitamente
per ricordanza de la fede rotta
e per esempio a la futura gente;
ed a la cima del gran naso a un'otta
con un filo d'acciar fatto rovente
gli fe' attaccare i testimoni freschi
de' mal sortiti suoi tiri furbeschi.

14
La bandiera fra tanto era spiegata
che Ramberto al salir trasse con esso,
da Battistino e da Sandrin guardata,
e da molti altri che saliro appresso;
ma contesa in quel luogo era l'entrata
da l'inimico stuol sí folto e spesso,
che quivi si facea tutta la guerra,
né si potea calar giú ne la terra.

15
Ed ecco in su la fossa al gran Voluce
improvisa apparir la Dea d'Amore
chiusa d'un nembo d'or, cinta di luce,
ed infiammargli a la battaglia il core;
preso gli mostra il miserabil duce,
e l'inimico stuol pien di terrore
tutto rivolto a la bandiera alzata,
e la vicina porta abbandonata.

16
Al magnanimo cor basta sol questo,
e l'usato valor dentro raccende:
volge lo sguardo a' suoi soldati presto,
e seco il fior de' piú lodati prende:
corre a la porta, e ne' compagni è desto
emulo ardor ch'a gli animi s'apprende;
onde Folco, Attolino e Bagarotto
corrono anch'essi, e fanno a gli altri motto.

17
Egli infiammato di feroce sdegno
sta su la soglia minacciando morte,
e con una bipenne il duro legno
percuote, e risonar fa l'alte porte;
mettono gli altri un ariete a segno,
e 'l sospingon con impeto sí forte,
che già l'imposte e le bandelle sono
tutte allentate, e ne rimbomba il suono.

18
Quei pochi, ch'ivi in guardia eran fermati,
lanciano sassi e mettono puntelli,
e di paura afflitti e sconcacati
vanno mirando a questi buchi e a quelli;
ma dal fiero cozzar rotti e spezzati
già cadono le spranghe e i chiavistelli,
e Voluce da i gangheri a fracasso
getta la porta tutt'a un tempo a basso.

19
Come al cader di quella sacra avviene,
ch'ad ogni cinque lustri apre il gran Padre,
quando la gente di lontan se 'n viene
a Roma a riverir l'antica madre;
che non giovan le sbarre e le catene
a trattener le peregrine squadre
ch'inondano a diluvio, e chi s'arresta
lo soffoga la turba e lo calpesta:

20
tale al cader de le nemiche porte,
l'impetuosa turba inonda e passa;
e di pianto, d'orror, di sangue e morte
ogni cosa al passar confusa lassa:
il feroce e l'imbelle ad una sorte
cade, ogn'incontro il vincitor fracassa:
fugge il vinto e s'appiatta, o l'armi cede
e s'inginocchia a domandar mercede:

21
ma non trova mercé né cortesia,
e in van s'inchina e in van la vita chiede:
Il Potta vuol che Castelfranco sia
esempio eterno a non mancar di fede.
furore ha luogo, ogni pietà s'oblía,
veggonsi in ogni parte incendi e prede:
e cade in poca cenere un Castello,
di cui non era in Lombardia il piú bello.

22
E già su le ruine il vincitore
dal lungo faticar stanco sedea,
quand'ecco di lontan s'udí un romore
che rimbombar d'intorno il pian facea:
venía il campo nemico a gran furore,
che 'l periglio de' suoi già inteso avea:
ed era quel che la foresta e i lidi
fea risonar di trombe e corni e gridi.

23
Musa, tu che cantasti i fatti egregi
del re de' topi e de le rane antiche,
sí che ne sono ancor fioriti i fregi
là per le piagge d'Elicona apriche,
tu dimmi i nomi e la possanza e i pregi
de le superbe nazion nemiche,
ch'uniron l'armi a danno ed a ruina
de la città de la salciccia fina.

24
Poscia che gli apparecchi e la contesa
di Bologna la Fama intorno sparse,
trasse il desío di cosí degna impresa
quattordici città seco ad armarse.
Tremò l'Imperio e invigorí la Chiesa,
sentí l'Italia in freddo giel cangiarse;
e credo che 'l Soldan de' Mammalucchi
ne mandasse ragguaglio al re de' cucchi.

25
Il Papa, ch'era padre e protettore
de la parte de' Guelfi e de la Chiesa,
avendo udito in Francia il gran romore
e la cagion di sí crudel contesa,
per aggiungere a' suoi fede e valore,
spedí subito nunzio a quell'impresa
da Vienna un suo domestico prelato
che monsignor Querenghi era nomato.

26
Questi era in varie lingue uom principale
poeta singular tosco e latino,
grand'orator, filosofo morale,
e tutto a mente avea sant'Agostino:
ma il Papa non lo fece cardinale
ché 'n sospetto gli entrò di ghibellino
dopo ch'ei ritornò di nunziatura
e perdé la fatica e la ventura.

27
Nocquegli ancora i' esser padovano
suddito d'Ezzelin, bench'innocente,
non volendo il Pontefice romano
aver fede ad alcun di quella gente:
ma certo ei fu prelato e cortigiano,
fra gli altri in quell'età molto eminente:
e da lo sprezzo d'uom sí saggio e prode
il Papa non ritrasse alcuna lode.

28
Egli partí da Vienna in su le poste,
e nel passar de l'Alpi a un ponte rotto,
il perfido caval per certe coste
lasciò cadersi, e non gli fece motto:
anzi da discortese e bestia d'oste,
stava di sopra e monsignor di sotto,
onde la nunziatura indi levata
con mal augurio fu mezzo spallata.

29
Quivi ei montò in lettiga, e seguitando
con una spalla fuor d'architettura,
giunse a punto a Bologna il giorno quando
l'esercito uscía fuora a la ventura:
si fe' porre il rocchetto, in arrivando,
da don Santi, e salí sopra le mura;
dove a l'uscir de la città le schiere
chinavano a' suoi piè lance e bandiere.

30
Et egli con la man sovra i campioni
de l'amica assemblea, tutto cortese
trinciava certe benedizioni,
che pigliavano un miglio di paese.
Quando la gente vide quei crocioni,
subito le ginocchia in terra stese,
gridando: - Viva il Papa e Bonsignore,
e muora Federico Imperadore. -

31
Ma perché la man destra avea fasciata
e gli benedicea con la mancina,
fu scritto al Papa ch'egli avea mandata
una persona marcia ghibellina.
Or basta, in ordinanza usciva armata
la gente; e prima fu la perugina,
tre mila, che mandati avea la Chiesa
col capitan Paulucci a quell'impresa.

32
Questi di cortegian fatto soldato
disertò gli Ugonotti e i Calvinisti,
fe' vermiglia la Schelda, indi passato
in Francia guerreggiò co' Navarristi;
navigò nel Danubio; e al fin voltato
in occidente a piú sublimi acquisti,
fra i monti Pirenei passò in Ispagna,
e riportò per mar guanti d'Ocagna.

33
L'armatura dorata e rilucente
con sopraveste avea cangiante e varia,
e camminava sí leggiadramente,
che parea ch'ei ballasse una canaria:
disperata guidava e altera gente,
che la fortuna amica e la contraria
egualmente disprezza, e si diletta
sol di sangue, di morte e di vendetta.

34
Seguía l'insegna di Milano, e avea
gran gente in su le scarpe e in su le selle,
ch'ovunque il guardo di lontan volgea,
rincarava le trippe e le fritelle.
Sei mila pacchiarotti a piè reggea
Marion di Marmotta Tagliapelle;
mille cavalli avean per capitani
Galeazzo e Martin de' Torriani.

35
La terza insegna fu de' Fiorentini,
con cinque mila tra cavalli e fanti,
che conduceano Anton Francesco Dini
e Averardo di Baccio Cavalcanti:
non s'usavano starne e marzolini,
né polli d'India allor, né vin di Chianti:
ma le lor vittuaglie eran caciole,
noci e castagne e sorbe secche al sole.

36
E di queste n'avean con le bigonce
mille asinelli al dipartir carcati,
acciò per quelle strade alpestre e sconce
non patisser di fame i lor soldati:
ma le some coperte in guisa e conce
avean con panni d'un color segnati,
che facean di lontan mostra pomposa
di salmeria superba e preziosa.

37
Ma piú di queste numerosa molto
la quarta schiera e bella in vista uscía,
la gran Donna del Po tutto raccolto
quivi di sua milizia il fiore avía.
La ricca gioventú superba in volto
di porpora e di fregi ornata gía.
Fiammeggia l'oro, ondeggiano i cimieri,
passano i fanti armati e i cavalieri.

38
Tre mila i cavalier sono, e due tanti
premon col piè de la gran madre il dorso:
Maurelio Turchi è il capitan de' fanti,
e de' cavalli il Bevilacqua Borso.
Ma splende sovra questi e sovra quanti
vengono di Bologna al gran soccorso,
il magnanimo cor di Salinguerra,
che fa del nome suo tremar la terra.

39
Occupata di fresco avea Ferrara
Salinguerra, e nemico era a la Chiesa;
ma i Petroni l'avean solo per gara
tratto con larghi doni in lor difesa.
Il nunzio che sapea la cosa chiara,
tenne sopra di lui la man sospesa;
lasciò passarlo e poi segnò la croce:
ma se n'avide e rise il cor feroce.

40
Ha seco il fior de la Romagna bassa
che volontaria segue i segni suoi;
Lugo, Bagnacavallo, Argenta e Massa,
Cotognola e Barbian madri d'eroi:
questa gente con l'altra unita passa,
ma sua chiara virtú la scevra poi;
è 'l capitan che la conduce a piede
Faceo Milani, uom d'incorrotta fede.

41
Ravenna e Cervia sotto una bandiera
seguono i Ferraresi a mano a mano,
di lance e spiedi armate a la leggiera;
e Guido da Polenta è il capitano.
Di Cervia sol la numerosa schiera
potea ingombrar per molte miglia il piano,
se non spargeano l'aria e 'l sito immondo
i cittadini suoi per tutto il mondo.

42
Passano in ordinanza i fanti armati,
poscia di cavalier segue un drappello,
due mila a piè, trecento incavallati
(vocabol fiorentino antico e bello).
Va pomposo il signor de' Ravennati
sopra un nobil corsier di pel morello
stellato in fronte, che col piè balzano
par che misuri a passi e salti il piano.

43
Rimini vien con la bandiera sesta,
guida mille cavalli e mille fanti
il secondo figliuol del Malatesta,
esempio noto a gl'infelici amanti.
Il giovinetto ne la faccia mesta
e ne' pallidi suoi vaghi sembianti
porta quasi scolpita e figurata
la fiamma che l'ardea per la cognata.

44
Halli donata al dipartir Francesca
l'aurea catena a cui la spada appende;
la va mirando il misero, e rinfresca
quel foco ognor che l'anima gli accende:
quanto cerca fuggir, tanto s'invesca,
e 'l suo cieco furor in van riprende,
ché già su la ragione è fatto donno,
né distornarlo omai consigli il ponno.

45
- Perché donna, dicea, di questo core
legarmi di tua man di piú catene?
Non stringevano assai quelle, onde Amore
de le bellezze tue preso mi tiene?
Ma tu forse notasti il mio furore
dissimulando il mal che da te viene,
furore è il mio, non nego il mio difetto,
ma mi traesti tu de l'intelletto.

46
Tu co' begli occhi tuoi speranza desti
a la fiamma d'amor viva e cocente,
che sfavillar da questi miei scorgesti
e chiederti pietà del cor languente.
Ma lasso che vo io torcendo in questi
vani pensier l'innamorata mente,
e sinistrando il caro pegno amato
che da sí nobil petto in don m'è dato?

47
Bella de la mia donna e ricca spoglia
che donata da lei meco te 'n vieni,
acciò che dal suo amor non mi discioglia
e mi leghi in piú nodi e m'incateni;
tu sarai refrigerio a la mia doglia,
tu sarai nuovo pegno a le mie speni. -
La bacia e la ribacia in questi accenti,
e va seco sfogando i suoi tormenti.

48
Passa il giovine amante, e dopo lui
la gente di Faenza arriva e passa.
Tutti son cavalier, fuora che dui
staffieri a piè del capitan Fracassa.
Del buon sangue Manfredo era costui,
onor di quella età cadente e bassa;
secento ha seco, e cento, i piú garbati,
di maiolica fina erano armati.

49
Indi Cesena vien sotto l'impero
di Mainardo d'Ircon da Susinana,
che s'è fatto signor di condottiero
di gente disperata empia e scherana.
Ottocento pedoni ha seco il fero
usati a vita faticosa e strana:
non ha cavalleria, ma i fanti sui
vagliono piú ch'i cavalieri altrui.

50
La nona squadra fu de gl'Imolesi
che da Pietro Pagani eran condotti:
mille e cento tra fanti e banderesi,
saccomanni, briganti e stradiotti;
dopo questi venieno i Forlivesi
da gli Ordelaffi in servitú ridotti;
Scarpetta di condurgli ebbe l'onore,
che de gli altri fratelli era il maggiore.

51
Forlimpopoli segue, allor cittade
non men de le vicine illustre e degna;
Sinibaldo, il fratel minor d'etade,
regge la schiera sua sott'altra insegna.
Sono ottocento armati d'archi e spade,
mille son gli altri, e vanno a la rassegna
distinti in guisa, che distinta splende
la gara che fra lor gli animi accende.

52
Con la gente di Fano a tergo a questa
Sagramoro Bicardi il Nunzio inchina,
e guida mille fanti a la foresta
usati a corseggiar quella marina.
A lo scettro ubbidían del Malatesta
Pesaro, Fossombruno e la vicina
Senigaglia: e passâr con la bandiera
di Paulo dianzi entro la sesta schiera.

53
Poiché fu di Romagna il fior passato,
ecco il carroccio uscir fuor de la porta,
tutto coperto d'or, tutto fregiato
di spoglie e di trofei di gente morta;
lo stendardo maggior quivi è spiegato:
e cento cavalier gli fanno scorta,
fra gli altri di valor chiaro e sovrano;
e Tognon Lambertazzi è il capitano.

54
Dodici buoi d'insolita grandezza
il tirano a tre gioghi; e di vermiglia
seta hanno la coperta e la cavezza,
le sottogole e i fiocchi in su le ciglia.
Il pretor di Bologna in grande altezza
sopra vi siede, e intorno ha la famiglia
tutta ornata a livrea purpurea e gialla
con balestre da leva e ronche in spalla.

55
Nomato era costui Filippo Ugone
brescian di quei da la gorgiera doppia:
e di broccato indosso avea un robone
che stridea come sgretolata stoppia.
Secondavano il carro e 'l gonfalone
quattrocento barbute a coppia a coppia,
co' cavalli bardati in fino a terra,
ch'avea mandate Brescia a quella guerra.

56
Seguiva il battaglion dopo costoro
de' Petronici fanti e l'apparecchio:
eran vintisei mila, e 'l duca loro
il buon conte Romeo Pepoli vecchio,
avea l'armi d'argento a scacchi d'oro
fregiate, e Braccalon da Casalecchio
col braccio manco e con la spalla destra
gli portava lo scudo e la balestra.

57
Finita di passar la fanteria
passarono i cavalli in tre squadroni,
guidati da Bigon di Geremia,
ch'era in Bologna in quell'età de' buoni;
e da due figli del Malvezzo Elia,
Perinto e Periteo, che fra i campioni
del petronico stuol piú illustri e chiari
risplendean gloriosi e senza pari.

58
Usciti in armi a la campagna quanti
Petroni e Romagnoli avea la terra,
marciar le schiere; e sette miglia avanti
presero alloggio al solito di guerra.
indi tosto ch'al re de' lumi erranti
le finestre del ciel l'alba diserra,
al suon di mille trombe, al mattutino,
fresco tornò l'esercito in cammino.

59
Né molto andò che da diversi intese
la nuova, che temea, di Castelfranco,
tosto le squadre in ordinanza stese
per giugner sopra l'inimico stanco;
il destro corno Salinguerra prese,
ritennero i Petroni il lato manco,
presaghi ch'il valor tedesco e sardo
dovea quivi pugnar col Re gagliardo.

60
Con Salinguerra a destra i Fiorentini
giunsero l'ordinanze, e i Milanesi,
e la squadra con lor de' Perugini,
e la cavalleria de' Riminesi;
il signor di Ravenna e i Faentini,
Fano, Imola, Cesena e i Forlivesi,
Pesaro, Fossombruno e Sinigaglia
il mezzo ritenean de la battaglia.

61
Il carroccio restò, com'era usanza
tra i Bolognesi, appo il sinistro corno,
con molti cavalier di gran possanza,
e gente a piedi e machine d'intorno.
Indi si mosse il campo in ordinanza;
e giunse che drizzava al mezzo giorno
Febo i cavalli, a l'inimico a fronte,
rintronando di gridi il piano e 'l monte.

62
Da l'altra parte i Gemignani usciti
di Castelfranco a la battaglia in fretta,
col magnanimo Re de' Sardi uniti
fermâr l'insegne a tiro di saetta:
e posti in fronte i piú feroci e arditi
slargaro i fianchi a l'ordinanza stretta
per non esser rinchiusi e circondati
dal numero maggior di tanti armati.

63
A manca man dove un torrente stagna,
con quattro mila suoi mangiafagioli
stava Bosio Duara a la campagna,
né seco aveva i Cremonesi soli,
ma quanti scesi giú da la montagna
eran mazzamarroni in vari stuoli;
e la cavalleria del buon Manfredi
copriva i fianchi de la gente a piedi.

64
Ma incontro a l'austro era nel destro corno
la bandiera real d'Enzio spiegata,
e Garfagnana seco, e quivi intorno
la milizia del pian tutta schierata.
Regiamente pomposo era quel giorno
di sopravesta bianca e ricamata
d'aquile d'oro il Re, con un cimiero
di piume bianche, e sopra un gran corsiero.

65
Diciannov'anni il giovane reale
non compie ancora ed è mezzo gigante.
Bionda ha la chioma, e 'n tutto 'l campo eguale
non trova di valor né di sembiante.
Se maneggia destrier, s'avventa strale,
se move al corso le veloci piante,
se con la spada o con la lancia fiede,
sia in giostra o sia in battaglia ogn'altro eccede.

66
Giva intorno esortando in ogni lato
a ben morir que' poveri villani.
Ma il Potta in mezzo a la battaglia armato
d'ira e di rabbia si mordea le mani
di non trovarsi allor Gherardo a lato;
e consegnando a Tomasin Gorzani
i Gemignani a piè, con cambio secco
in luogo del coltel mettea uno stecco.
CANTO SESTO.

ARGOMENTO
S'accozzano i due campi, e Salinguerra
a destra i suoi contro i nemici oppone:
Enzio il sinistro corno apre, ed atterra
il pretore, il carroccio e 'l gonfalone;
ma da' suoi poscia abbandonato in guerra,
resta de' Bolognesi al fin prigione.
Fa gran prove Perinto, e s'appresenta
Bacco orribile al Potta, e lo sgomenta.

1
Sovra l'arco del ciel col sole in fronte
partiva Astrea con le bilance il giorno,
quando i due campi già condotti a fronte,
mossero a un tempo l'uno e l'altro corno.
Rintronaron le valli, il piano e 'l monte,
gli argini tutti e la foresta intorno,
mugghiâr le selve e 'l fiume indi vicino,
e le balze tremâr de l'Appennino.

2
Qual su lo stretto ove il figliol di Giove
divise l'Oceàn dal nostro mare,
se l'uno e l'altro la tempesta move
vansi l'onde superbe ad incontrare;
cadono infrante, e valle orribil dove
dianzi eran monti, e spaventosa appare;
trema il lido, arde il ciel, tuonano i lampi:
tal fu il cozzar de' due famosi campi.

3
Offuscò il cielo, a i rai del sol fe' scorno
il grandinar de le saette sparte.
Chi si ricorda aver veduto il giorno
del protettor de la città di Marte
da l'alta mole d'Adriano intorno
cader nembi di razzi in ogni parte,
pensi che fosse ancor piú denso il velo
de la pioggia ch'allor cadde dal cielo.

4
Al frangersi de l'aste, al gran fracasso
de l'incontro de l'armi e de' cavalli,
sembran tutte cader le selve a basso
svelte da l'Alpi, e risonar le valli.
Piú non appar da lato alcuno il passo,
fuggono le distanze e gli intervalli;
e son già i prati e le campagne amene
di morte e di terror tutte ripiene.

5
Or preme e incalza, or torna indietro il piede
questa ordinanza e quella; e dove inchina
una schiera talor l'altra succede,
e ripara in altrui la sua ruina:
indi torna la prima e l'altra cede,
come parte e ritorna onda marina.
Van quinci e quindi i capitani accorti,
spingendo i vili e rinfrancando i forti.

6
- Ah, dicea Salinguerra, uomini vani
che gite armati sol per ornamento,
ove sono le spade, ove le mani,
ove il cor generoso e l'ardimento?
Se vi fanno tremar questi villani
rozzi, senz'armi e senza esperimento,
come potrò sperar ch'oggi vi mova
desio di fama a piú lodata prova?

7
Questa è la via dove a la gloria vassi:
chi ha spirito d'onor mi segua appresso.
Ecco v'apro il sentiero; ora vedrassi
chi avrà desio d'immortalar sé stesso. -
Cosí parla il feroce; e volge i passi
dove il nemico stuol vede piú spesso;
urta il caval, la lancia abbassa, e pare
un vento fier che spinga indietro il mare.

8
Qual ferito nel petto e qual nel volto
fa l'incontro cader de l'asta dura:
si dirada d'intorno il popol folto,
ognun scansa che può sua ria ventura,
scontra Stefano e Ghino: e al primo, colto
ne l'occhio destro, il ciel ratto s'oscura:
cade l'altro passato a la gorgiera;
indi uccide Brandan da la Baschiera.

9
Aperta avea la temeraria bocca
Brandano appunto ad oltraggiar quel forte,
quando il ferro crudel giugne, e l'imbrocca
tra denti e denti, e lo conduce a morte.
Ricovra l'asta il valoroso; e tocca
a la cima de l'elmo Ilario Corte,
giovine irresoluto e spensierato,
e 'l fa cader disteso in un fossato.

10
Non lunge il conte di Culagna vede
pomposo d'armi e di bei fregi altero:
e come ardito e poderoso il crede,
gli sprona incontra con sembiante fiero.
Ma il conte lesto si rilancia a piede,
e si ripara dietro al suo destriero:
trascorre l'asta; ed ei subito s'alza,
tocca a pena la staffa, e in sella balza.

11
Chi vide scimia a la percossa infesta
d'importuno fanciul ratta involarsi,
indi tornar d'un salto agile e presta
passato il colpo, e a la finestra farsi;
pensi che contro a quella lancia in resta
tal rassembrasse il conte a l'abbassarsi,
e tale al risalir giusto a pennello
tutto in un tempo e non parer piú quello.

12
E rivoltato a Bernardin Manetta
che 'l rimirava e s'era mosso a riso:
- A fé, dicea, che l'ho giucata netta,
che colui non mi colga a l'improviso.
Io dismontai per orinare in fretta,
e 'l fellon che si stava in su l'aviso,
m'avea spinto il destrier per fianco addosso:
ma guai a lui se riscontrar lo posso. -

13
Cosí dicendo, a man sinistra torse
dove spigneano innanzi i Fiorentini,
credendo uscir de la battaglia forse;
ma quando vide Anton Francesco Dini
da quella parte co' cavalli opporse,
rivolto a' suoi soldati e a' suoi vicini:
- Ritirianci, dicea, da questo sito;
ch'è troppo aperto e non è ben partito. -

14
Roldano, che l'udí, si voltò ratto
e 'l percosse del calcio de la lancia
dicendo: - Codardon, feccia di matto,
non ti si tigne di rossor la guancia?
Se tu quinci non esci o non stai quatto,
giuro a Dio, te la caccio ne la pancia. -
Il conte rispondea: - Non v'adirate,
ché 'l dissi per provar queste brigate. -

15
Torto il mira Roldano; e sol col guardo
gli fa tremar le fibre e le midolle:
indi spronando un corridor leardo,
che 'l pregio al vento e a la saetta tolle,
drizza la lancia al giovine Averardo
che di sangue nemico ei vede molle;
e ferito nel braccio e ne l'ascella
il transporta su i fior giú de la sella.

16
Ma il Dini gli sospinge incontro i sui,
e grida loro: - Ah pinchelloni, e dove
vi rinculate voi da cotestui,
che fuor de gli aitri a battagliar si muove?
Spignete innanzi: a che badate vui?
Testé con alte imaginate prove
affettavate quie come un popone
il mondo: ora v'addiaccia il sollione? -

17
Sprona, cosí dicendo, ove piú stretto
vede lo stuol che conducea Roldano.
È d'un colpo di stocco a mezzo 'l petto
tolta l'indegna vita a Barisano.
Al Teggia che 'l feriva in su l'elmetto
con una mazzaranga ch'avea in mano,
credendolo schiacciar come un ranocchio,
d'un rovescio levò l'uno e l'altr'occhio.

18
Cosí quivi si pugna e si contende;
ma da la parte verso 'l mezzo giorno
il Re con piú fervor gli animi accende,
e spigne i suoi contra 'l sinistro corno.
Ei qual cometa minacciosa splende
d'oro e di piume alteramente adorno:
cinto è de' suo' Germani, e lor rivolto
parla in barbaro suon con fiero volto:

19
- O de l'imperio di Germania fiore,
anime eccelse, eccovi l'ora e 'l campo,
in cui risplenderà vostro valore
di glorioso inestinguibil lampo.
Io confidato in voi mi sento il core
tutto infiammar di generoso vampo;
e su questi papisti oggi disegno
di lasciar con la spada orribil segno.

20
Seguitatemi voi, ché l'empia setta
qui tutte accolte ha le sue forze estreme,
perché possa una sol giusta vendetta
l'ira sfogar di tante ingiurie insieme.
Se vaghezza di fama il cor v'alletta,
se l'onor de la patria oggi vi preme,
se v'è caro mio padre o molto o poco,
quest'è il tempo ch'io 'l vegga e questo è il loco. -

21
Cosí detto, il feroce urta il destriero,
e l'asta a un tempo e la visiera abbassa,
e tra' nemici impetuoso e fiero,
qual fulmine tra cerri incontra e passa.
Baldin Ghiselli e Lippo Ghiselliero
e Antonel Ghisellardi in terra lassa,
e Melchior Ghisellini e Guazzarotto,
bisavo che fu poi di Ramazzotto.

22
Giandon da la Porretta era un Petronio
grande come un gigante, o poco meno,
e in vece d'un caval reggea un demonio,
(cred'io) senza adoprar sella né freno:
un de' mostri parea di Sant'Antonio,
né pasceva il crudel biada né fieno,
ma gli uomini mangiava, e distruggea
co' denti il ferro, e un corno in testa avea.

23
La fera bestia un dopo l'altro uccise
quattro Tedeschi, ed era dietro al quinto:
ma il Re la lancia in mezzo 'l cor gli mise
e gliel fece cader già mezzo estinto.
Ruppesi l'asta e 'l Re non si conquise,
ma tratta fuor la spada ond'era cinto,
divise d'un fendente il capo armato
a Giandon, che già in piedi era levato.

24
Bigon di Geremia, che di lontano
a la strage de' suoi gli occhi rivolse,
per fianco addosso al Re spronò; ma in vano,
ché 'l conte di Nebrona il colpo tolse.
Il conte cadde a quell'incontro al piano,
ma subito fu in piedi e si raccolse,
ché vide il suo signor mover d'un salto
contra Bigone e alzar la spada in alto.

25
Bigone attende il Re ne l'armi stretto,
ma non gli giova alzar né oppor lo scudo,
ché 'l brando il fende e fa balzar l'elmetto
sciolto da' lacci impetuoso e crudo.
Raddoppia il colpo il valoroso, e netto
gli tronca da le spalle il capo ignudo:
esce lo spirto, e in caldo fiato unito
raggirandosi vola ov'è rapito.

26
Morto Bigone, il Re tutta fracassa
la schiera sua, né qui l'impeto arresta;
urta per fianco impetuoso, e passa
tra la gente pedestre e la calpesta.
Ovunque il corso drizza, uomini lassa
uccisi a monti la crudel tempesta
del barbaro furor, che 'l Re seconda,
e di fiumi di sangue i campi inonda.

27
Seguono i Garfagnini, e 'l Re sospinto
da fatale furor, già penetrato
dove il carroccio di sue guardie cinto
fra l'ultime ordinanze era fermato,
con l'urto di mill'aste apre quel cinto.
Cede ogn'incontro al vincitore armato:
e del carroccio è giú tratto di botto
lo stendardo maggior squarciato e rotto.

28
Fu al podestà messer Filippo Ugone,
ch'era rimaso attonito e perduto,
da certi Garfagnin tolto il robone
e la berretta ch'era di veluto;
ei del carroccio si lanciò in giubbone,
pregando in vano e addimandando aiuto;
e da l'impeto fier colto, in un fosso
cadde rovescio col carroccio addosso.

29
Gli asini, che condotte a i Fiorentini
le noci dietro e le castagne aviéno,
a vista del carroccio assai vicini
stavan pascendo in un pratello ameno;
quando i Tedeschi a un tempo e i Garfagnini
trassero quivi tutti a sciolto freno
da l'ingordigia di rubar tirati:
e non restar col Re trenta soldati.

30
Il sagace Tognon, che la vendetta
pronta si vide, uní le genti sparte;
e diede aviso a i due Malvezzi in fretta
che volgessero tosto a quella parte:
indi avendo al tornar la via intercetta
a quei che saccheggiavano in disparte
i fichi secchi e le castagne in forno,
cinse d'armi e cavalli il Re d'intorno.

31
Il Re, che si rivolge e 'l guardo gira
e 'l suo periglio in un momento ha scorto,
dal profondo del cor geme e sospira,
ché senza dubbio alcun si vede morto:
ma il dolor cede e si rinforza l'ira,
né vuol morir senza vendetta a torto;
stringe la spada, urta il destriero, e dove
piú chiuso è il passo, impetuoso il move.

32
Qual tigre in su la preda a la foresta
colta da' cacciatori e circondata,
poi che al periglio suo leva la testa,
volge fremendo i livid'occhi e guata;
indi s'avventa incontra l'armi, e resta
del proprio e de l'altrui sangue bagnata,
tal fra l'armi nemiche il Re s'avventa,
ché 'l magnanimo cor nulla paventa.

33
Mena al primo ch'incontra e a Braganosso
figliuol di Pandragon Caccianemico
l'elmo divide e la cotenna e l'osso,
la faccia, il petto, e giú fino al bellico:
indi toglie la vita a Min del Rosso,
ch'un'armatura avea di ferro antico
da suo bisavo in Francia già comprata,
e tutti la tenean per incantata.

34
Non la poté falsar la buona spada,
ma piegò il cavaliero in su la sella,
e scorrendo a l'in su per dritta strada
passò la gola e uscí da una mascella,
onde convien che Mino estinto cada;
vinto è l'incanto da nemica stella:
non può cozzar col ciel l'ingegno umano,
ch'eterno è l'uno, e l'altro è frale e vano.

35
Di due percosse il Re fu colto intanto
su l'elmo e a sommo 'l petto al gorgerino:
de la seconda ebbe l'onore e 'l vanto
Vanni Maggio figliuol di Caterino:
ma con forza maggior dal destro canto
il ferí Gabbion di Gozzadino
che con un colpo d'alabarda fiero
di testa gli levò tutto il cimiero.

36
A lui si volse il Re con un riverso,
e 'l colse a punto al confinar del ciglio,
tutta la testa gli tagliò a traverso:
balzò un occhio lontan da l'altro un miglio,
per la cuffia il cervel se 'n gío disperso,
stè in sella il tronco e l'alma andò in esiglio;
e 'l destriero, che 'l fren sentía piú lasso,
incognito il portava attorno a spasso.

37
Non ferma qui la furibonda spada
ch'era una lama da la lupa antica.
Ma tronca, svena, fende, apre e dirada
ciò ch'ella incontra, uomini ed armi abbica.
Or quinci, or quindi si fa dar la strada,
ma innumerabil turba il passo intrica:
veggonsi in aria andar teste e cervella,
e nel sangue notar milze e budella.

38
Da mille lance il Re percosso e cinto
e da mille spuntoni e mille dardi,
tutto è molle di sangue, e mezzo estinto
ha il famoso drappel di que' gagliardi.
Tognon rimproccia i suoi da l'ira vinto,
e grida: - Ah feccia d'uomini codardi,
sí vilmente morir, scannaminestre?
Che vi sia dato il pan con le balestre! -

39
Sospinse il rampognar di quell'altiero
ognuno incontro al Re, cui sol restato
vivo de' suoi nel gran periglio è il fiero
Leupoldo conte di Nebrona a lato:
morto da cento lance il buon destriero
sotto il Re cadde, ed egli in piè balzato
fulmina e uccide di due colpi orrendi
Petronio ed Andalò de' Carisendi.

40
Berto Gallucci e 'l Gobbo de la Lira
gli sono sopra, e l'uno e l'altro il fiede;
ma il generoso cor non si ritira,
ben che sieno a cavallo, ed egli a piede.
Il conte che si volge e 'n terra il mira,
balza di sella e 'l suo caval gli cede;
ed ei, perché rimonti il suo signore,
rimansi a piedi, e 'n mezzo a l'armi muore.

41
Il Re prende la briglia e salir tenta,
ma lo distorna il Gobbo e gliel contende;
egli una punta al fianco gli appresenta,
e con la gobba al pian morto lo stende.
Tognon smonta fra tanto, e al Re s'avventa
dietro a le spalle, e ne le braccia il prende,
e Pasotto Fantucci e Francalosso
e Berto e Zagarin gli sono addosso.

42
Il Re si scuote, e a un tempo il ferro caccia
nel ventre a Zagarin che gli è a rimpetto,
ma non può svilupparsi da le braccia
di Tognon che gli cinge i fianchi e 'l petto;
ed ecco Periteo giugne e l'abbraccia
subito anch'egli, e 'l tien serrato e stretto;
ei l'uno e l'altro or tira, or alza, or spigne,
ma da' legami lor non si discigne.

43
Qual fiero toro, a cui di funi ignote
cinto fu il corno e 'l piè da cauta mano,
muggisce, sbuffa, si contorce e scuote,
urta, si lancia e si dibatte in vano;
e quando al fin de' lacci uscir non puote,
cader si lascia afflitto e stanco al piano:
tal l'indomito Re, poiché comprese
d'affaticarsi indarno, al fin si rese.

44
Fu drizzato il carroccio, e fu rimesso
in sedia il Podestà tutto infangato;
non si trovò il robon, ma gli fu messo
in dosso una corazza da soldato;
le calze rosse a brache avea, col fesso
dietro, e dinanzi un braghetton frappato,
e una squarcina in man larga una spanna,
parea il bargel di Caifàs e d'Anna.

45
Ei gridava in Bresciano: - Innanz, innanzi;
che l'è rott'ol nemig, valent soldati:
feghe sbità la schitta a tucch sti Lanzi
maledetti da Dé, scommunegati. -
Cosí dicendo, già vedea gli avanzi
del destro corno andar qua e là sbandati,
e raggirarsi per que' campi aprichi
cercando di salvar la pancia ai fichi:

46
però che 'l buon Perinto avea già rotti
Tedeschi e Sardi e Garfagnini e Corsi
e gli altri ch'al bottin fallace, indotti
da mal cauta speranza, erano corsi.
I Tedeschi, del vino ingordi e ghiotti,
dietro a certi barili eran trascorsi,
che ne credeano far dolce rapina;
e in cambio di verdea trovâr tonnina.

47
Al primo suon de la nemica pesta
il popolo del mar le spalle diede;
si restrinse il tedesco e fece testa;
in dubbio il Garfagnin sospese il piede:
ma la cavalleria giugne e calpesta
con impeto e furor la gente a piede;
né la picca tedesca o l'alabarda
ferma i cavalli armati o li ritarda.

48
A Corrado Roncolfo, il capocaccia
del Re che facea a gli altri animo e scudo,
sovragiugne Perinto, e ne la faccia
mette per visiera il ferro crudo.
A Guglielmo Sterlin, nato in Alsaccia,
tronca d'un man rovescio il collo ignudo,
e Ridolfo d'Augusta e Giorgio d'Ascia
feriti di due punte in terra lascia.

49
Un giovinetto fier nato su 'l Reno,
su 'l Panaro nudrito, Ernesto detto,
che col bel viso e col guardo sereno
potea infiammar qual piú gelato petto,
vedendo i suoi che già le spalle aviéno
volte a fuggir, da generoso affetto
e da nobil desío di gloria mosso
un destriero african gli spinse addosso.

50
Perinto il colpo del garzone attende,
e a l'arrivar ch'ei fa cala un fendente.
il destrier, che di scherma non s'intende,
s'arretra come il suon del ferro sente;
a l'estremo del collo il brando scende;
cade in terra il meschin morto repente.
Ernesto, che mancarsi il destrier mira,
balza in piedi di sdegno acceso e d'ira,

51
e d'una punta ne la coscia il fiede.
Volge Perinto e 'l ferro a un tempo abbassa;
ma ei si ritira, e de l'antico piede
d'un olmo si fa scudo e 'l campo lassa;
quei l'incalza fremendo ed egli cede,
e va girando e fugge e torna e passa.
Cosí corre a la pianta e si difende
il ramarro che 'l bracco a seguir prende.

52
Jaconía capitan de' Soraggini,
ch'amava Ernesto piú de la sua vita,
poi che gli occhi rivolse a i rai divini
onde l'anima accesa era invaghita,
e 'l vide star su gli ultimi confini,
corse precipitoso a dargli aíta
abbandonando i suoi, che mal condotti
in fuga se ne gían sbandati e rotti.

53
In arrivando il ritrovò piagato
nel destro fianco e da la doglia vinto;
spinse il destrier d'un salto, 'l brando alzato
su la fronte a due man ferí Perinto;
e se non che quell'elmo era temprato
per man del saggio Argon, l'avrebbe estinto,
ma di sé tolto e di cader in forse
portato dal destrier qua e là trascorse.

54
Al garzon Jaconía rivolto allora
- Ernesto, gli dicea, la nostra gente
rotta si fugge, e noi facciam dimora,
e perdiamo la vita inutilmente.
Deh non voler che cada insieme a un'ora
mia viva speme e tua beltà innocente. -
- Vattene, rispond'ei, ché 'l destrier mio
vendicar voglio o qui morire anch'io. -

55
- O fanciul troppo ardito e poco accorto
(soggiunge Jaconía) mira che questa
che ci costrigne a ritirarne in porto,
è piú ch'a te non par fiera tempesta;
ma se l'affanno d'un destrier già morto
e la vendetta sua quivi t'arresta,
prenditi in dono il mio. - Né piú s'estese;
ma gli porse la briglia, e giú discese.

56
Quegli 'l ricusa, ed egli pur s'affretta
che 'l prenda; e mentre i prieghi orna e rinforza,
ecco torna Perinto a la vendetta,
e fere Jaconía di tutta forza.
Con quel furor che vien dal ciel saetta,
passa il brando crudel la ferrea scorza
del grave scudo e la corazza forte,
e lascia Jaconía ferito a morte.

57
Cadde il misero in terra, e quasi a un punto
poco lungi da lui cadde Perinto,
cui, passato nel petto e nel cor punto,
restò il cavallo a quell'incontro estinto.
Al suo vantaggio allor non bada punto
Ernesto, e corre da la rabbia vinto
a mezza spada a disperata guerra
poi che l'amico suo vede per terra.

58
Ernesto di due colpi in su l'elmetto
con tanta forza il cavalier percosse,
che ribattendo su l'arcion col petto
sovra il morto destrier tutto piegosse.
Lo sguardo allor drizzando al giovinetto
su le ginocchia Jaconía levosse,
e disse: - Ah non voler perir tu ancora,
lascia ch'io sol per la tua vita mora. -

59
E dicea il ver, s'un ostinato core
fosse stato del ver punto capace:
surse Perinto e strinse con furore
la spada contro il giovinetto audace;
Jaconía con quell'ultimo vigore
che gli somministrò l'alma fugace,
per impedire il colpo al ferro crudo,
lanciò contra Perinto il proprio scudo.

60
Ma quello sforzo aprí la piaga, e sparse
l'alma col sangue, e certo fu peccato;
ch'amico piú fedel non potea darse,
e non bevea giammai vino inacquato.
Lo scudo ch'ei lanciò venne a incontrarse
nel braccio che spingea Perinto irato
e nel volto e nel petto e ne la mano,
e gli fe' rimaner quel colpo vano.

61
Ma che pro, se 'l garzon non si ritira,
e nuova fiamma al vecchio incendio aggiugne?
Colpi raddoppia a colpi, e a ferir mira
dove s'apre la piastra e si congiugne.
Perinto avvampa di disdegno e d'ira,
e d'una punta a mezzo il ventre il giugne;
la panciera d'Ettòr, ch'era incantata,
non gli avrebbe la vita allor salvata.

62
Cade Ernesto morendo in su la piaga,
e chiama Jaconía che nulla sente;
esce un rivo di sangue e si dilaga,
s'oscura de' begli occhi il dí lucente:
l'anima sciolta disdegnosa e vaga
dietro a l'amico suo vola repente.
Salta Perinto in su 'l destrier che trova,
e 'l volge a ricercar battaglia nuova.

63
Né già ritorna ove fuggir vedea
quei ch'ingannò la fiorentina preda,
ché vittoria stimò vile e plebea
cacciar gente che fugga e 'l campo ceda:
ma, dove in mezzo la battaglia ardea,
contra 'l Potta sen va, come se 'l creda
bere in un sorso, e la città sua tutta
ne' sterquilinî suoi lasciar distrutta.

64
Guido scontrò, che de la pugna usciva
con mezza spada e una ferita in testa,
e a medicarsi al padiglion se 'n giva
per man del suo barbier mastro Tempesta.
Indi trovò, che 'l suo signor seguiva
messa in terror la ravignana gesta:
le si fe' incontro, e con superbo grido:
- Tornate, disse, indietro, o ch'io v'uccido. -

65
Ed a l'alfier che 'l rimirava fiso,
senza altro moto far, come chi sdegna,
fulminò d'un man dritto a mezzo 'l viso
- Cosí, dicendo, d'ubbidir s'insegna. -
Riman colui del fiero colpo ucciso,
ed egli di sua man spiega l'insegna.
Alzano i Ravignani allor le grida,
e 'l seguono animosi ove gli guida.

66
Il Potta, che tornar vede la schiera
che dianzi fuor de la battaglia usciva,
rivolto a Tomasin ch'a lato gli era:
- Per vita, gli dicea, de la tua diva,
ad incontrar va' tu quella bandiera,
che se 'n riede a la pugna onde fuggiva,
e mostra il tuo valor, spiega i tuoi vanti
contra quei malandrin scorticasanti. -

67
Nulla risponde, e contra i Ravennati
Tomasin a quel dir, strigne gli sproni
con una compagnia di scapigliati,
dediti al gioco e a far volar piccioni,
che triganieri fur cognominati,
nemici natural de' bacchettoni,
gente che 'l ciel avea posto in oblio,
e l'appetito sol tenea per Dio.

68
Con questi il Gorzanese ardito e franco
ratto si mosse, e al primo incontro uccise
Gaspar Lunardi e Desiderio Bianco,
e a Lamberto Raspon l'elmo divise:
quando Perinto lo ferí per fianco
con l'asta de l'insegna, e in modo arrise
fortuna al suo valor, ch'in terra cade,
e restò prigionier fra mille spade.

69
Perduto il capitan, l'impeto allenta
la gente sua che 'l disvantaggio vede,
ma non fugge però né si sgomenta,
e torna in ordinanza in dietro il piede.
Perinto, poi ch'a Ostasio da Polenta,
che tra' primi il seguía, l'insegna diede,
Jotatan con la spada in terra mette
e Barbante figliol di Mazzasette.

70
Ma intanto il Potta, udito il caso fiero
di Tomasino, e quel che piú gli dolse,
del Re de' Sardi rotto e prigioniero,
santa Nafissa a bestemmiar si volse,
e montato su un'erta col destriero,
pur novella speranza anco raccolse:
ché le bandiere de' nemici sparte
vide fuggir de la sinistra parte.

71
E di vederne il fin già risoluto
scendea da l'alto, e raccendeva l'ire,
quando un gigante orribile e cornuto
gli apparve e l'atterrí con questo dire:
- Che pensi? ogn'ardimento è qui perduto:
pensa di ritirarti o di morire.
ecco ti svelo i lumi, or tu rimira
de la terra e del ciel lo sforzo e l'ira.

72
Vedi là guerreggiar l'empia Bellona
tinta di sangue incontro a le tue schiere,
vedi il superbo figlio di Latona
quanti coll'arco suo ne fa cadere,
Marte, ch'in tuo favor pugna, abbandona
stanco e sudato omai le tue bandiere.
Tu a raccolta le chiama, e le conserva
da lo sdegno di Febo e di Minerva. -

73
Qui tacque il fero mostro, e in un momento,
come sparisce il sogno a l'ammalato,
ritirò il pede e si converse in vento,
e 'l Potta di stupor lasciò ingombrato.
Bacco era questi a generar spavento
in quella forma orribile cangiato
che combattuto avea col dio di Cinto,
e si partía de la battaglia vinto;

74
e giva a ricercar nuovo partito,
perché non fosse il popol suo disfatto.
Rimase il Potta attonito e smarrito,
e si fe' il segno de la croce un tratto,
ch'un demonio il credé, fuor di Cocito
a spaventarlo in quella forma tratto:
stette sospeso un poco, indi fe' quanto
descritto fia da me ne l'altro canto.
CANTO SETTIMO

ARGOMENTO
Rotti i Petroni da la destra parte,
sta in dubbio la vittoria ancor sospesa;
fin che scende dal ciel Iride, e Marte
fa ritirar da la crudel contesa.
Giugne Renoppia, e la smarrita parte
rinvigorisce;e giugne in sua difesa
Gherardo, che dal fiume a l'altra sponda
caccia i nemici e fa vermiglia l'onda.

1
Il conte di Culagna era fuggito,
com'io narrai, di man di Salinguerra,
e quel fiero, da l'impeto rapito,
pedoni e cavalier gittando a terra,
morto Rainero e Bruno avea ferito
e mossa a un tempo a quella squadra guerra
che Voluce in battaglia avea condotta;
e già le prime file erano in rotta.

2
Quando Voluce ode il rumore e vede
Salinguerra ch'i suoi rompe e fracassa,
salta in arcion, ché combatteva a piede,
e l'asta prende e la visiera abbassa,
sprona il cavallo, e tosto intorno cede
ognuno, e gli fa piazza ovunque passa:
Salinguerra a l'incontro i suoi precorre
e minaccioso a la battaglia corre.

3
I magnanimi cor di sdegno ardenti
metton le lance a mezzo 'l corso in resta,
e vannosi a ferir come due venti
o due folgori in mar quand'è tempesta.
Lampi e fiamme gittâr gli elmi lucenti;
mugghiò tremando il campo e la foresta
a quel superbo incontro, e l'aste secche
volaro infrante in mille scheggie e stecche.

4
Si fece il segno de la santa Croce
l'un campo e l'altro, e si fermò guardando
per meraviglia immoto, senza voce,
del periglio comun scordato; quando
l'uno e l'altro guerrier torse veloce
dispettoso la briglia, e tratto il brando,
fulminârsi a gli scudi ambi e a la testa
dritti e rovesci a furia di tempesta.

5
Non stettero a parlar de' casi loro
come soleano far le genti antiche,
né se 'l lor padre fu spagnuolo o moro,
ma fecero trattar le man nemiche.
Le ricche sopraveste e i fregi d'oro,
i cimieri, gli scudi e le loriche
volan squarciati e triti in pezzi e 'n polve,
il vento gli disperge e gli dissolve.

6
Tra mille colpi il conte di Miceno
colse in fronte il signor di Francolino
che gli fece veder l'arco baleno,
la luna, il ciel stellato e 'l cristallino.
D'ira, di sdegno e di superbia pieno
sollevò Salinguerra il capo chino,
e a la vendetta già movea repente
quando rivolse gli occhi a la sua gente.

7
Sotto la scorta di sí chiaro duce
eran trascorsi i Ferraresi tanto,
che dietro a lui come a notturna luce
sconvolto avean tutto il sinistro canto:
ma poi ch'a Salinguerra il buon Voluce
si fece incontro, essi allentâr fra tanto
l'impeto loro: e videsi in figura
che trotto d'asinel passa e non dura.

8
Manfredi, che cacciati i Milanesi
rotti e dispersi avea per la campagna,
e in aiuto venía de' Cremonesi
contra quei di Toscana e di Romagna;
poi che conobbe a l'armi i Ferraresi
ch'incalzavano i suoi de la montagna,
rivolto a lo squadron ch'intorno avea,
gli accennava col brando e gli dicea:

9
- Vedete là quella volubil gente
che vaga ognor di Principi novelli
or piega al Papa e ne la vana mente
seco sognando va mitre e cappelli;
mirate com'è d'or tutta lucente,
come d'armi pomposa e di gioielli:
andiamo, valorosi, urtiam fra loro,
che nostre fien le gemme e l'armi e l'oro. -

10
Cosí dice: e spronando il buon destriero
la spada stringe e 'l forte scudo imbraccia,
e tra le squadre de' nemici altero
con la man fulminando urta e si caccia.
Come al primo attizzar pronto e leggiero
corre stormo di bracchi a dar la caccia
al gregge vil, cosí da quegli arditi
i Ferraresi allor furo assaliti.

11
Manfredi a Pasqualin di Pocointesta
tagliò d'un sottobecco il mento e 'l naso,
e fece rimaner con mezza testa
Piero Simon di Gasparin Pendaso.
Contra Manfredi con la lancia in resta
venía spronando il Mozzarel Tomaso;
quand'ecco l'afferrò con un uncino
Archimede d'Orfeo Cavallerino.

12
Correa l'inaveduto a tutta briglia
senza badar s'alcun gli movea guerra;
e Archimede l'apposta e l'arronciglia
e 'l fa cader d'arcion col culo in terra.
Per la coda il destrier Tomaso piglia
per ritenerlo; ed egli i piè diserra
con grazia tal, ch'in cambio di confetti
gli fa ingoiar dodici denti netti.

13
Giannotto Pellicciar con un'accetta
spaccò la testa a Gabrio Calcagnino;
Obizo Angiari e Baldovin Falletta
uccisi fur da Gemignan Porrino;
con un colpo di mazza Anteo Pinzetta
ammaccò la visiera ad Acarino
nato del seme altier di Giliolo,
e gli fece del naso un raviggiolo.

14
Ma questo è un gioco a quel che fa Manfredi
che tutta fracassata ha quella schiera,
Galasso Trotti ha morto e Gotifredi
Gualengui e Perondel di Boccanera;
e 'l Rosso Riminaldi ha messo a piedi
passato d'una punta a la gorgiera;
onde, d'ardire e d'ordinanza tolta,
la gente di Ferrara in fuga è volta.

15
Salinguerra, ch'i suoi vede fuggire
dal nemico valor che gli sbarraglia,
ferma la spada in atto di ferire,
e dice al conte: - Tua bontà mi vaglia,
sí che la gente mia possa seguire
tanto ch'io la rivolga a la battaglia;
ché s'io resto qui sol cinto da' tuoi,
né tu meco pugnar con laude puoi. -

16
Voluce rispondea: - Signor Marchese,
è morto Orlando e non è piú quel tempo:
ma per non vi parer poco cortese,
se volete fuggir, voi siete a tempo;
seguite pur, ch'io non farò contese,
la gente vostra, e non perdete il tempo,
perché mi par che corra come un vento;
ma vo' venir anch'io per complimento. -

17
- Oh questo no, rispose Salinguerra,
io non partirò mai, s'ella non resta. -
E in questo dire un colpo gli diserra
a mezza lama al sommo de la testa:
perdé le staffe e quasi andò per terra
il conte a quella nespola brumesta;
strinse le ciglia, e vide a un punto mille
lampade accese e folgori e faville.

18
Allora Salinguerra il tempo piglia,
sprona il cavallo e si dilegua ratto,
e là dove Manfredi i suoi scompiglia,
d'ira avvampando e di furor s'è tratto;
grida, rampogna, e or questo e or quel ripiglia,
mena la spada a cerco e a chi di piatto,
a chi coglie di taglio, a chi minaccia;
e non può far ch'alcun volga la faccia.

19
Voluce intanto si risente, e gira
il guardo, e vede il principe lontano.
Tosto dietro gli sprona, e poi che mira
chiusa la strada e che s'affanna in vano,
urta fremendo di disdegno e d'ira
tra i Ferraresi anch'ei col brando in mano,
e fa volare al ciel membra tagliate
e piastre rotte e pezze insanguinate.

20
Tagliò una spalla a Tebaldel Romeo,
e a Buonaguida Fiaschi un braccio netto;
la gamba manca a Niccolin Bonleo
troncò dove finía lo stivaletto;
e mastro Daniel di Bendideo
pieno d'astrologia la lingua e 'l petto
uccise d'una punta, ond'ei s'avvide
che del presumer nostro il ciel si ride.

21
Voluce fe' quel dí prove mirande
e uccise di sua man trenta marchesi,
però che i marchesati in quelle bande
si vendevano allor pochi tornesi;
anzi vi fu chi per mostrarsi grande
si fe' investir d'incogniti paesi
da un tal signor, che per cavarne frutto
i titoli vendea per un presciutto.

22
Come nube di storni, a cui la caccia
lo sparvier dava dianzi o lo smeriglio,
se l'audace terzuol per lunga traccia
le sovraggiugne col falcato artiglio,
raddoppia il volo e quinci e quindi spaccia
le campagne del ciel volta in scompiglio;
or s'infolta, or s'allarga, or si distende
in lunga riga e i venti e l'aria fende:

23
tal la gente del Po, che pria fuggiva
da la tempesta di Manfredi irato,
poiché Voluce anch'ei le soprarriva
e 'n lei doppia il terror freddo e gelato,
con disordine tal fuggendo arriva
tra il popol di Fiorenza a destra armato,
che seco lo trasporta e lo sbarraglia
e lo fa seco uscir de la battaglia.

24
Segue Manfredi, e d'armi e di bandiere
resta coperto il pian dovunque passa;
fende Voluce or queste or quelle schiere
e memorabil segno entro vi lassa,
Pippo de' Pazzi e Cecco Pucci ei fere,
Beco Stradini e Pier di Casabassa.
Seco è il Duara, e per foreste e boschi
fuggon dispersi i Ferraresi e i Toschi.

25
Ma non fuggon cosí già i Perugini
né la cavalleria del Malatesta;
anzi, come fu noto a i pellegrini
fregi il Duara e a la pomposa vesta,
l'arroncigliâr con piú di cento uncini
ne le braccia, né fianchi e ne la testa.
- Fate pian, grida Bosio, aiuto, aiuto;
non stracciate, ché 'l saio è di veluto:

26
fermate i raffi, ch'io mi do per vinto;
non tirate, canaglia maledetta:
che malann'aggia il temerario instinto,
Perugini, ch'avete, e tanta fretta. -
Cosí dicendo fu subito cinto
e fatto prigionier da la cornetta
del capitan Paulucci; indi legato
sopra un roncino a Crespellan menato.

27
La prigionia del duca lor commosse
a furore e vendetta i Cremonesi;
spinsero innanzi e rinforzâr le posse
e s'uniron con loro i Frignanesi;
ma il Perugino audace il piè non mosse
e stettero in battaglia i Riminesi,
dal valor proprio e da l'esempio degno
de' capitani lor tenuti a segno.

28
Il capitan Paulucci a Perdigone,
fratel di Bosio che 'l destrier gli uccise,
tirò d'una balestra da bolzone,
e con due coste rotte in terra il mise.
Indi ammazzò col brando Ercol Pandone
che se l'ebbe per male in strane guise;
perch'era vecchio in guerra e buon soldato
e nissuno mai piú l'avea ammazzato.

29
Aveva in tanto Alessio di Pazzano
il buon Omero Tortora assalito,
istorico famoso e capitano
che le ninfe d'Isauro avean nudrito;
quando d'una zagaglia sopra mano
fu dal signor di Rimini ferito,
e 'l ferro al vivo penetrò di sorte
che 'l trasse de l'arcion vicino a morte.

30
E già per ispogliarlo era smontato,
quando ei si volge e 'n su 'l morir gli dice:
- O tu che godi or del mio acerbo fato,
sappi che morirai via piú infelice,
vicina è la tua sorte, e 'l tuo peccato
già prepara per te la mano ultrice,
dove meno la temi, e quel ch'importa,
teco la fama tua fia spenta e morta. -

31
Qui chiuse i lumi Alessio, e 'l Malatesta
frenò la mano, e ritirando il passo:
- Col mal augurio tuo, disse, ti resta,
e va' giú a profetar con Satanasso:
l'armi e la ricca tua serica vesta
portale teco pur, ch'io le ti lasso
con questi annunzi tuoi sciaurati e rii,
o poeta o stregon che tu ti sii. -

32
E in questo dire in su 'l destrier salito
a la pugna volgea senza soggiorno,
dal magnanimo cor tratto a l'invito
del suon de l'armi che fremea d'intorno:
quando il tergo de' suoi vide assalito
dal feroce Roldan che fea ritorno
da la campagna, e seco avea Ramberto
di sangue e di sudor tutto coperto.

33
Onde contra il furor de le balestre
che scoccava ne' suoi la gente alpina,
subito strinse l'ordinanza equestre
e si ritrasse a un'osteria vicina,
e il capitan Paulucci a la pedestre
sudando e ansando e con la man mancina
dimenando il cappel per farsi vento,
ritrasse anch'egli i suoi, ma con piú stento:

34
ché Betto e Vico e Peppe e Ciancio e Lello
e Tile e Mariotto e Cecco e Bino
e 'l Miccia d'Erculan Montesperello
vi restâr morti e Cittolo Oradino,
e prigioni Binciucco Signorello
e Mede di Pippon Montomelino:
e Fulvio Gelomia cadde di sella,
primo cultor de la natia favella.

35
Vi s'abbatté il dottor da Palestrina,
e fu storpiato anch'ei per mala sorte.
E fu d'un colpo d'una chiaverina
tratto un occhio di testa a Braccioforte,
a Braccioforte a cui quella mattina
cinta la propria spada avea la morte,
e 'l fiero Pluto per altrui spavento
messa gli avea l'orrida barba al mento.

36
Ma intanto che la palma ancor sospesa
pende, e l'un campo e l'altro è omai disfatto,
due politici fanno in ciel contesa
e vengono a l'ingiurie al primo tratto.
Mercurio de' Petroni ha la difesa,
favorisce i Potteschi Alcide matto;
Giove sta in mezzo, e con real decoro
raffrena l'ire e le discordie loro.

37
Ne' gangheri del ciel ferma ogni stella
cessa di variar gl'influssi e l'ore;
cade nel mar tranquillo ogni procella,
rischiara l'aria insolito splendore.
Da l'alto seggio allor cosí favella
de la sesta lanterna il gran Motore:
- Non affrettate, o dei, de gli odii il tempo
ch'ancor verrà per voi troppo per tempo.

38
Vedete là dove d'alpestri monti
risonar fanno il cavernoso dorso
la Turrita col Serchio e fra due ponti
vanno ambo in fretta a mescolare il corso;
due popoli fra questi arditi e pronti
in fiera pugna si daran di morso,
e si faran co' denti e con le mani
conoscer che son veri Graffignani.

39
O quante scorze di castagni incisi
d'intorno copriran tutta la terra!
quanti capi dal busto fian divisi
in cosí cruda e sanguinosa guerra!
Caronte lasso in trasportar gli uccisi
ch'a passar Stige scenderan sotterra,
bestemmierà la maledetta sorte
che gli diè in guardia il passo de la morte.

40
Quinci in aiuto a' suoi correre armato
vedrassi al monte il forte Modanese;
quindi a i passi, ch'in pace avrà occupato,
opporsi l'astutissimo Lucchese.
Entrar potrete allor ne lo steccato
tu Mercurio e tu Alcide a le contese,
e provar se piú vaglia in quella parte
l'accortezza o il vigor, la forza o l'arte.

41
Un Alfonso e un Luigi Estensi a pena
d'un pel segnata mostreran la guancia,
ch'a piú di mille insanguinar l'arena
faranno or con la spada or con la lancia.
Le squadre intere volteran la schiena
dinanzi a i nuovi Paladin di Francia;
e Castiglion fra le percosse mura
sotto si cacherà de la paura;

42
pregando il conte Biglia in ginocchione
che venga a far cessar quella tempesta,
spiegando di Filippo il gonfalone
con una spagnolissima protesta.
Quivi potrete allor con piú ragione
cacciarvi gli occhi e rompervi la testa:
cessate intanto; e la pazzia mortale
resti fra quei che fan là giú del male. -

43
Cosí disse, e chiamando Iride bella
ch'al sole avea l'umida chioma stesa
- Vola, le impone, o mia diletta ancella,
e di' a Marte che ceda a la contesa
fin ch'arrivi Gherardo e sua sorella
a cui si dee l'onor di quest'impresa. -
Iride non risponde e i venti fende,
e giú dal ciel ne la battaglia scende.

44
Vede Marte da lunge e drizza l'ale
dov'ei combatte e l'ambasciata esprime:
indi si parte e fuor de la mortale
feccia ritorna al puro aer sublime.
Marte, che scorge la tenzone eguale,
ritira il piè da l'ordinanze prime
e ne la retroguardia intanto passa,
e 'l Potta incontro ai Romagnoli lassa.

45
Il Potta avea assaliti i Faentini
e fracassata la lor gente equestre,
ché gli scudi dipinti e gli elmi fini
non ressero al colpir de le balestre.
Giacoccio Naldi e Pier de' Fantolini
rimasero feriti e a la pedestre:
e a Mengo Foschi e al cancellier Giulita
il Potta di sua man tolse la vita.

46
Uccise Bastian de' Fornardesi
che sapea tutto a mente il Calepino,
e dal vóto ch'avea d'ir ad Ascesi
lo sciolse e di vestirsi di bertino.
Indi per fianco urtò fra gl'Imolesi,
e s'affrontò col cavalier Vaino,
ch'ucciso avea Pallamidon fornaio
che mangiava la torta col cucchiaio.

47
Il cavalier, che stava in su l'aviso,
d'arena che tenea dentro un sacchetto
gli empiè gl'occhi e la bocca a l'improviso,
poi strinse il brando e gli assaggiò l'elmetto.
- Ah! disse il Potta allor forbendo il viso,
tu me la pagherai Romagnoletto. -
E in questo dir menando con la spada
colpí a la cieca, si fe' dar la strada.

48
Ma poi che Marte il suo favor ritenne
e tornò di quadrato indietro il passo,
e che Perinto in quella parte venne
guidato dal furor di Satanasso,
il modanese stuol piú non sostenne
l'impeto ostil dal faticar già lasso,
e rallentate l'ordinanze e l'ire
cominciò a ritirarsi, indi a fuggire.

49
Il Potta pien di rabbia e disperato
gridava con la bocca e con le mani
ma non potea fermar da nessun lato
lo scompiglio e 'l terror de' Gemignani,
e da l'impeto loro al fin portato
costretto fu d'abbandonar que' piani,
benché tre volte e quattro in volto fiero
spignesse tra i nemici il gran destriero.

50
Correndo in tanto e traversando il lito
senz'elmo e molle e polveroso tutto
il conte di Culagna era fuggito,
e giunto a la città piena di lutto,
narrato avea fra il popolo smarrito
che 'l Re prigione e 'l campo era distrutto;
onde i vecchi e le donne al fiero aviso
fuggían chi qua chi là pallidi in viso.

51
Corsero gli Anzian tutti a consiglio
per consultar ciò che s'avesse a fare;
molti volean nel subito periglio
fuggirsi e la cittade abbandonare;
altri dicean ch'era da dar di piglio
a tutto quel che si potea portare,
e salir su la torre allora allora,
e chi non vi capía stesse di fuora.

52
Surse all'incontro un Bigo Manfredino
che sedea appresso a Carlo Fiordibelli,
e disse: - Senza pane e senza vino
che vogliamo cacar là su, fratelli?
questi sono consigli da un quattrino
che non gli sosterrian cento puntelli,
però i' vorrei, se 'l mio parer v'aggrada,
cavar un pozzo in capo d'ogni strada,

53
e ricoprirlo sí, ch'in arrivando
cadessero i nemici in giú a fracasso. -
Guarnier Cantuti allor rispose: - E quando
sarà finita l'opra e chiuso il passo?
Non è meglio che star quivi indugiando
condur lo stabbio ch'abbiam pronto a basso
ch'ingombra la metà de la cittade,
e con esso serrar tutte le strade? -

54
Ugo Machella a quel parlar sorrise
e disse rivoltato a que' prudenti:
- Se chiudiamo le strade in queste guise,
dov'entreranno poi le nostre genti?
Prendiamo l'armi: il Ciel sovente arrise
a le piú audaci e risolute menti. -
Qui s'alzar tutti, e gridâr senza tema:
- A la fé che l'è vera, andema, andema. -

55
Ma i bottegai correndo in fretta a i passi
che feano la città poco sicura,
con travi e pali e terra e sterpi e sassi
tosto alzaron trinciere, argini e mura;
sbarrâr le strade e gli affumati chiassi,
e i portici d'antica architettura,
e dinanzi a le sbarre in quelle strette
cominciaro a votar le canalette.

56
Quando armata apparir fu vista intanto
Renoppia al suon de la novella fiera,
e correre a la porta, e seco a canto
condurre il fior de la virginea schiera,
diede a gli uomini ardir, riprese il pianto
del sesso femminil con faccia altera;
e rimirando giú per la via dritta
non vide alcun fuggir da la sconfitta.

57
Stette sospesa e addimandò del conte,
ma il conte avea già preso altro sentiero,
onde deliberò di gire al ponte
sovra il Panaro a investigar del vero.
Quivi arrivò che 'l sol da l'orizonte
già poco era lontan nel lito ibero,
e mirò in vista dolorosa e bruna
spettacolo di morte e di fortuna.

58
Ne la parte piú cupa e piú profonda
notavano pedoni e cavalieri;
tutta di sangue uman torbida l'onda
volgea confusi e misti armi e destrieri;
i Gemignani a la sinistra sponda
fuggían cacciati da i Petroni fieri;
stavan Tognone e Periteo lor sopra
e mettea l'uno e l'altro il ferro in opra.

59
Per man di Periteo giaceano morti
Guron Bertani e Baldassar Guirino,
Giacopo Sadoleti e Antonio Porti,
e ferito Antenor di Scalabrino:
ma il superbo Tognone e i suoi consorti
le schiere di Stuffione e Ravarino
avean distrutte, e a gran fatica s'era
salvato Gherardin su la riviera.

60
L'altro fratel ferito e prigioniero
cedeva l'armi al vincitor feroce,
ma su gli archi del ponte un cavaliero
fulminando col ferro e con la voce
cacciava i Gemignani, e a quell'altiero
s'opponea solo il Potta in su la foce
del ponte, e di fermar cercava in parte
l'ordinanze de' suoi già rotte e sparte.

61
Giugne Renoppia, e dove rotta vede
da la ripa fuggir l'amica gente,
volge con l'arco teso in fretta il piede,
e di lampi d'onor nel viso ardente:
- O infamia, grida, ch'ogn'infamia eccede:
tornate, e dite a la città dolente
che moriron le figlie e le sorelle
dove fuggiste voi, popolo imbelle.

62
Noi morirem qui sole e gloriose,
gite voi a salvar l'indegna vita,
non resteran vostre ignominie ascose,
né la fama con noi fia seppellita. -
Seco Renoppia avea le bellicose
donne di Pompeian, schiera fiorita
ch'in Modana arrestò tema d'oltraggio,
e cento de le sue di piú coraggio;

63
e fra queste Celinda e Semidea,
di Manfredi sorelle e sue dilette,
e l'una e l'altra l'asta e l'arco avea
e la faretra al fianco e le saette.
Renoppia, che dal ponte i suoi vedea
tutti fuggir, la cocca a l'occhio mette,
e drizza il ferro a la scoperta faccia
di Perinto, ch'a' suoi dava la caccia.

64
E se non che Minerva il colpo torse
dal segno ove 'l drizzò la bella mano,
il fortissimo eroe periva forse:
ma non uscl però lo strale in vano
ch'al destrier, ch'a quel punto in alto sorse
d'un salto e si levò tutto dal piano,
andò a ferir nel mezzo de la fronte,
onde col suo signor cadde su 'l ponte.

65
Perinto dal destrier ratto si scioglie,
ma lui non mira piú la donna altera
che declina dal ponte e si raccoglie
dove fuggiano i suoi da la riviera.
Quivi a Tognon, che l'onorate spoglie
avea tratte a Engheram da la Panciera,
prende la mira, e fa passar lo strale
dove giunto a la spalla era il bracciale.

66
Ferito il cavalier si ritraea;
quand'un altro quadrel gli sopraggiunge
che da l'arco gli vien di Semidea,
e in una gamba amaramente il punge.
Strinse l'asta Celinda, e giú scendea
là dove Periteo poco era lunge:
quand'ecco col caval cader ne l'onda
rotolando il mirò da l'alta sponda.

67
Avventâr le compagne a l'improviso
cento strali in un punto al cavaliero.
L'armi difeser lui, ma cadde ucciso
a i colpi di tant'archi il buon destriero;
la sembianza real, l'altero viso,
la ricca sopravesta e 'l gran cimiero
trasser gli occhi cosí tutti in lui solo,
che meglio era vestir di romagnolo.

68
Qual Telessilla già dal muro d'Argo
cacciò il campo Spartan vittorioso,
tal fe' Renoppia dal sanguigno margo
ritrarre il piede al vincitor fastoso.
Come uscito di sonno o di letargo
da quell'atto confuso e vergognoso,
il campo che fuggía voltò la fronte,
e fermò le bandiere a piè del ponte.

69
Indi allargati in su la destra mano
correano a gara a custodir la riva,
quando s'udí un rumor poco lontano
che 'l ciel di gridi e di spavento empiva.
Era questi Gherardo il capitano
ch'in soccorso de' suoi ratto veniva;
al giugner suo mutâr faccia le carte,
e ripresero cor Dionisio e Marte.

70
Gherardo in arrivando a destra invia
Bertoldo con due schiere, ed egli dove
vede il Potta pugnar prende la via:
passa su 'l ponte e fa l'usate prove.
Perinto a piedi e sol gli s'opponía,
ma come vide tante genti nuove
che correano del ponte a la difesa,
ritrasse il piede e abbandonò l'impresa.

71
Gherardo sbarra il ponte e 'n guardia il lassa
a Giberto che quivi era con lui,
e torna indietro e su la riva passa
là dove combattean ne l'acqua i sui.
Vede stanco il caval, subito abbassa,
ne fa un altro venir, ché n'avea dui,
né può soffrir di scender da la sponda
ch'a precipizio giú salta ne l'onda.

72
Il signor di Faenza era in battaglia
col capitan Brindon Boccabadati;
e Matteo Fredi e Gemignan Roncaglia
e Beltramo Baroccio avea ammazzati.
Gherardo con la mazza apre e sbarraglia
Faentini, Imolesi e Cesenati,
quei di Ravenna e quei de la Cattolica,
e fa strage di ferro e di maiolica.

73
Al capitan Fracassa in su l'elmetto
menò d'un colpo esterminato e fiero,
che tramortito ne l'ondoso letto
cadendo di Brindon fu prigioniero.
Quindi si volse, e con feroce aspetto
nel petronico stuol spinse il destriero;
e di Panago al conte e a Boniforte
signor di Castiglion diede la morte.

74
Si ritira il nemico a l'altra riva
che 'l disvantaggio suo vede e comprende,
e poi ch'a l'erta in fermo sito arriva,
l'ordinanze restrigne e si difende.
Ma già la notte d'oriente usciva,
e fra l'orror de le sue fosche bende
le lampade del ciel tutte accendea,
e giú in terra a' mortali il dí chiudea.
CANTO OTTAVO

ARGOMENTO
Il corno manco alfin de' Gemignani
giugne a forza pugnando a' suoi steccati.
Vede Ezzelino in mostra a Padovani,
ch'a danno de' Petroni ha ragunati.
Fan tregua i campi: e con partiti vani
son da Bologna ambasciator mandati,
che di Rinoppia fra i ricami e l'armi
del cieco Scarpinello odono i carmi.

1
Già la luce del sol dato avea loco
a l'ombra de la terra umida e nera;
e le lucciole uscían col cul di foco,
stelle di questa nostra ultima sfera,
quando le trombe in suon già lasso e fioco
a raccolta chiamar da la riviera.
Usciro i fanti e i cavalier de l'onda,
e si ritrasse ognuno a la su sponda:

2
e quinci e quindi alzaro incontro al ponte
gli eserciti trinciere e padiglioni.
Tornaro intanto di Miceno il conte
e Manfredi e Roldano, i tre campioni
che le bandiere de' nemici conte
cacciate avean per boschi e per valloni;
e fu da loro in arrivando al lito
il suon de l'armi e de' cavalli udito.

3
E poi che da le spie certificati
del vario fin de la battaglia fòro,
in dubbio se dovean per gli steccati
ripassar de' nemici al campo loro,
o guazzando in disparte i lor soldati
ricondur cheti a ripigliar ristoro;
a guazzo al fin passar fanti e somieri,
e al ponte si drizzâr co' cavalieri.

4
E dato aviso al Potta in diligenza
perché le sbarre a tempo e loco alzasse,
de le spoglie de' vinti in apparenza
di Ferraresi armâr la prima classe;
e acciò che l'arte lor maggior credenza
tra gl'inimici a l'arrivar trovasse,
quando loro parve esser vicini assai
- Viva Frarra, gridar, guardai, guardai. -

5
Gli abiti ferraresi e le favelle
nel fosco de la notte e 'n quel tumulto
ingannaron cosí le sentinelle,
che fu il pensier de' valorosi occulto.
Giunti nel campo, alzar fino a le stelle
i gridi e gli urli, e con feroce insulto
trasser le spade e apersero il cammino
dove piú il ponte a lor parea vicino.

6
Eran confusi ancor gli alloggiamenti,
gli animi incerti e i corpi affaticati,
quando dal suon de' minacciosi accenti
d'improviso terror fur saettati;
come scossi dal ciel folgori ardenti,
venían di sangue e di sudor bagnati;
Manfredi e 'l buon Voluce a la frontiera
e in ultimo Roldan chiudea la schiera.

7
Come pere cadean le genti morte
sotto il furor de le sanguigne spade.
Vede il conte Romeo ch'ad una sorte
pedoni e cavalier sgombran le strade;
onde il nipote suo Ricciardo il forte
chiamando, corre ove la gente cade:
ma l'impeto lo sbalza, e prigioniero
porta seco Ricciardo in su 'l destriero.

8
Come suol nube di vapori ardenti
far ne' campi talor strage e fracassi
vomitando dal sen fulmini e venti,
e portar seco svelti arbori e sassi:
cosí porta il furor di que' possenti
seco ogn'incontro ovunque volge i passi:
cosí, secondo i greci ciurmatori,
porta l'ottavo ciel gli altri minori.

9
Giunto al Potta fra tanto era l'aviso,
e Gherardo su 'l ponte avea mandato:
ma fu l'arrivo lor tant'improviso
che 'l ritrovaro ancor chiuso e sbarrato.
Quivi a Roldano fu il destriero ucciso,
e rimanea da tutti abbandonato,
se non si retraean fuora del ponte
i due guerrier che combatteano in fronte.

10
L'uno di qua, l'altro di là si mosse
dove incalzar vedea l'ultima schiera,
e l'impeto in sé tolse e le percosse,
fin che tutti spuntar su la riviera.
Gherardo in tanto al giugner suo rimosse
le sbarre che piantate avea la sera,
e i suoi raccolse, e lasciò quei dal Sipa
con un palmo di naso a l'altra ripa.

11
De l'orribile pugna il gran successo
sparse intorno la fama in un momento,
onde ne giunse a Federico il messo
che sospirò del figlio il duro evento.
Scrisse a gli amici e maledí sé stesso,
che fosse stato a quell'impresa lento:
ma sopra tutti scrisse ad Ezzelino
che di Padova allor tenea il domino.

12
Ezzelin, come udí che prigioniero
del suo signore era il figliolo, in fretta
armò le sue milizie, e fe' pensiero
di farne memorabile vendetta.
Avea allor seco un principe straniero,
cui per fresco retaggio era suggetta
la nobil signoria de la Morea,
e a cui sposata una nipote avea.

13
In tutto l'Oriente uom di piú core
di lui non era o di miglior consiglio:
fu detto Eurimedonte, e 'l suo valore
fea tremar da l'Eusino al mar vermiglio.
Or a questi Ezzelin diede l'onore
di liberar di Federico il figlio:
e con piú ardor, quand'egli udí, si mosse,
ch'era infreddato e ch'egli avea la tosse.

14
Dieci schiere ordinò, ciascuna d'esse
di ducento cavalli e mille fanti,
e ghibellini capitani elesse,
perché fosser piú fidi e piú costanti.
Musa, tu che migliacci e caldalesse
vendesti lor, déttami i nomi e i vanti
che fer dal piano a gli ultimi arconcelli
l'alta torre tremar de gli Asinelli.

15
Già l'uscio aperto avea de l'Oriente
la puttanella del canuto amante,
e 'n camicia correa bella e ridente
a lavarsi nel mar l'eburnee piante;
spargeasi in onde d'oro il crin lucente,
parea l'ignudo sen latte tremante,
e a lo specchio di Teti il bianco viso
tingea di minio tolto in paradiso:

16
quando a la mostra uscí tutta schierata
la gente. E prima fu l'insegna d'Este
che l'aquila d'argento incoronata
portar solea nel bel campo celeste;
or d'uno struzzo bianco è figurata,
impresa del tiranno e di sue geste;
di Sant'Elena il fiore indi seconda,
terra di rane e di pantan feconda,

17
e Castelbaldo, a cui tributa rena
l'Adige che fa quindi il suo cammino.
Savin Cumani è il duce, e da l'amena
piaggia di Carmignano e Solesino
e dal Deserto e da Valbona mena
gente, dove costeggia il Vicentino:
l'armi ha dorate, ne l'insegna al vento
spiega un nero leon sovra l'argento.

18
Schinella e Ingolfo, onor di Casa Conti,
gemelli e dal tiranno ambiduo amati,
da la Creola e da' vicini monti
guidano dopo questi i lor soldati;
San Daniel, Baone, e le due fronti
che toccano del ciel gli archi stellati,
Venda e Rua, Montegrotto e Montortone
Gazzuolo e Galzignano e Calaone.

19
Abano va con questi in una schiera
e quei di Montagnon seco conduce.
L'aria e la terra affumicata e nera
di sulfureo color gente produce.
Quivi l'orrendo albergo è di Megera,
che di foco infernal tutto riluce,
e v'era Pietro allor, co' fieri carmi
traeva i morti regni al suon de l'armi.

20
A liste di color vermiglio e bianco
segnata de' due conti è la bandiera:
Nantichier di Vigonza è loro al fianco,
e conduce con lui la terza schiera;
Vighezzolo e Vigonza e Castelfranco
seco ha in armi e, di là da la riviera
de la Brenta, le terre ove serpeggia
la Tergola e 'l Muson fremendo ondeggia.

21
Camposanpier, Balò, Sala e Mirano,
Strà, la Mira, Oriago, il Dolo e Fiesso,
Arin, Caltana, Melareo, Stigliano,
e 'l popol di Bogione era con esso.
Ne lo stendardo il cavalier soprano
l'antico segno ha di sua schiatta impresso,
ch'una sbarra di vaio è per traverso
in campo d'oro, e 'l fregio è bianco e perso.

22
Passa il quarto Inghelfredo, uomo che nato
d'ignota stirpe e a ministerio indegno
da prima eletto, a poco a poco alzato
s'è per occulte vie con cauto ingegno.
Tesoriero fu dianzi, or è passato
a grado militar piú illustre e degno:
ma superbo al sembiante e al portamento,
sembra scordato già del nascimento.

23
Dichiarato è baron di Terradura,
e la Battaglia va sotto il suo impero
dove fa risonar l'antiche mura
l'incontro di due fiumi e 'l corso fiero:
tempestata di gigli ha l'armatura,
e un levriere d'argento ha su 'l cimiero:
e 'l tiranno Ezzelin l'ha fatto duce
del patrimonio suo, ch'egli conduce.

24
Le bandiere d'Onara e di Romano,
quelle di Cittadella e Musolente
regge, e di Fontaniva e di Bassano
e de la Bolzanella arma la gente.
Va con questi Campese a mano a mano;
Campese la cui fama a l'occidente
e a' termini d'Irlanda e del Cataio
stende il sepolcro di Merlin Cocajo,

25
latino autor di mantuani versi,
per cui la donna sua Cipada agguaglia
e i monti di Cucagna e i rivi tersi
levan la palma a quei de la Tessaglia.
Erano i Campesani in Lete immersi,
or li solleva al ciel l'onda castaglia:
e forse ancor su questi scartafacci
faran del nome lor diversi spacci.

26
Brunor Buzzaccarini è il quinto, e a gara
vanno seco Conselve e Bovolenta,
Are, Cona, Tribano e l'Anguillara,
quei di Sarmasa e di Castel di Brenta,
di Pontelungo e quei di Polverara,
dov'è il regno de' galli e la sementa
famosa in ogni parte: e questa schiera
dogata a verde e bianco ha la bandiera.

27
L'altra che segue, ove congiunte a stuolo
vanno Pieve di Sacco e Saponara,
Montemerlo, Sanfenzo e di Brazolo
la gente, e seco in un Camponogara,
San Bruson e Cammin, guida un figliolo
de l'antico signor di Calcinara,
che Franco Capolista è nominato,
e porta un cervo rosso in campo aurato.

28
De la Riviera e de la Mandra ha unite
ereditarie e bellicose genti;
quelle di Paluello instupidite
furo ad armarsi allor sí negligenti,
ch'eran le guerre già tutte finite
quando spiegaron la bandiera a i venti:
onde i vicini lor ridono ancora
del soccorso che dier que' sciocchi allora.

29
Con la settima squadra Aicardo passa
Capodivacca, e seco ha Montagnana;
Monterosso e Zoone a dietro lassa,
e guida Revolon, Torreggia e Urbana,
Meggiaino e Merlara in parte bassa,
Luvigliano piú in alto a tramontana,
Seivazzan, Saccolungo e Cervarese,
Saletto e Praia e tutto quel paese.

30
Ma di Teolo la famosa insegna
fra l'altre a grand'onor splender si vede;
Teolo ond'uscí già l'anima degna
che 'l glorioso Livio al mondo diede.
Lo stendardo vermiglio Aicardo segna
di tre spade d'argento; e in guisa eccede
ogn'altro coll'altezza de le membra,
ch'eccelsa torre in umil borgo ei sembra.

31
Vien poi Monselce, incontra l'armi e i sacchi
securo già per frode e per battaglia,
sotto la signoria d'Alviero Zacchi,
e 'l popol di Casale e di Roncaglia.
Ha l'insegna costui dipinta a scacchi
azzurri e bianchi, e Gorgo e Bertepaglia
e Corneggiana e Montericco ha drieto
e Carrara e Collalta e Carpineto.

32
Il nono duce Ugon di Santuliana
de le vicine ville avea la cura,
Terranegra conduce e Brusegana
dove Antenore fe' le prime mura,
Villafranca, Mortise e Candiana,
San Gregorio, Sant'Orsola e Cartura,
le Tombelle, Noventa e Villatora,
ed altre terre che fioríano allora;

33
e de' vassalli suoi non poca parte,
ché Pernumia e Terralba ei signoreggia
e 'l bel colle d'Arquà poco in disparte,
che quinci il monte e quindi il pian vagheggia;
dove giace colui, ne le cui carte
l'alma fronda del sol lieta verdeggia,
e dove la sua gatta in secca spoglia
guarda da i topi ancor la dotta soglia.

34
A questa Apollo già fe' privilegi
che rimanesse incontro al tempo intatta,
e che la fama sua con vari fregi
eterna fosse in mille carmi fatta:
onde i sepolcri de' superbi regi
vince di gloria un'insepolta gatta.
Ugon su l'armi e ne la sopraveste
un pardo d'oro e 'l campo avea celeste.

35
La squadra di Vicenza ultima guida
Naimiero Gualdi, a la sembianza fuore
amico d'Ezzelin che se ne fida,
ma non risponde a la sembianza il core.
Quel campo non avea scorta piú fida,
d'ogni bellica frode era inventore;
ma facea 'l goffo, e si tenea col Papa,
e ne la finta insegna avea una rapa.

36
Egli era un uom d'anni cinquantadui,
dotto e faceto e con le guance asciutte,
solito sempre a dar la baia altrui,
ché sapea tutti i motti di Margutte.
Gran turba di villani avea con lui
con occhi stralunati e ciere brutte,
ch'armati di balestre e ronche e scale
nati a posta parean per far del male.

37
Valmarana, Arcugnan, Pilla e Fimone,
Sacco e Spianzana guida; ove le chiome
de la Betia cantò su 'l Bachiglione
Begotto e 'l volto e l'acerbette pome,
e dove la sampogna di Menone
fe' risonar de la Tietta il nome;
e Montecchio e la Gualda, Olmo e Cornetto,
e trenta ville e piú di quel distretto.

38
Dopo l'ultime squadre il cavaliero
che dovea comandar, solo veniva
sovra un baio corsier macchiato a nero,
con armi di color di fiamma viva;
ondeggiava su l'elmo il gran cimiero,
pompeggiando il caval se stesso giva,
e avea dietro e dinanzi e d'ambo i lati
Greci per guardia e Saracini armati.

39
Mentre s'armano questi a la vendetta
del famoso figliol di Federico,
l'un campo e l'altro su 'l Panaro aspetta
che stanco si ritiri il suo nemico.
Quinci e quindi si veglia; e a la vedetta
stanno continue guardie a l'uso antico
con archi e balestroni a canto a gli argini
che scopano del fiume i nudi margini.

40
L'architetto maggior mastro Pasquino
fe' molte botti empier di maccheroni,
altre di biscottelli, altre di vino,
e ne formò ripari e bastioni;
onde i soldati sempre a capo chino
stavano a custodir le guarnigioni,
fin ch'a trattar del fin de le contese
furon per dieci dí l'armi sospese.

41
Ed ecco comparir due ambasciatori,
l'un con la veste lunga e incappucciato,
e l'altro in su le grazie e in su gli amori
con la spada e 'l pugnal tutto attillato:
il primo è del Collegio e de' Signori,
e 'l dottor Marescotti è nominato;
il secondo di Rodi è cavaliero,
di Casa Barzellin, detto frà Piero.

42
Questi venían per ritentar se v'era
partito alcun di racquistar la Secchia,
avendo udito già per cosa vera
che 'l Tiranno Ezzelin l'armi apparecchia.
Furo onorati e si fermâr la sera,
né trattar piú de la proposta vecchia;
ma di cambiar la Secchia in que' baroni,
eccetto il Re, ch'essi tenean prigioni.

43
Il Potta, che 'l disegno a' cenni intese,
rispose lor ch'era miglior riguardo
finir tutte le liti e le contese,
e barattar la Secchia col Re sardo,
e 'l Duca di Cremona e 'l Gorzanese
col signor di Faenza e con Ricciardo:
e in questo si mostrò sí risoluto,
che d'ogn'altro parlar fece rifiuto.

44
Gli ambasciatori, a' quali era prescritto
quanto dovean trattar, spediro un messo,
ch'andò dal campo a la città diritto
a ragguagliarne il Reggimento stesso:
e in tanto il figlio di Rangone invitto
e 'l buon Manfredi, a cui fu ciò commesso,
condussero a veder le lor trinciere
gli ambasciatori, e l'ordinate schiere.

45
Menârgli a spasso poi dove alloggiate
Renoppia le sue donne avea in disparte,
non quelle tutte, che con lei passate
erano pria, ma la piú nobil parte.
Stavano a' lor ricami intente armate
imitando Minerva in ogni parte:
ma lasciar gli aghi e fêr venir in tanto
il cieco Scarpinel con l'arpa e 'l canto.

46
Questi in diverse lingue era eloquente,
e sapeva in ciascuna a l'improviso
compor versi e cantar sí dolcemente,
ch'avrebbe un cor di Faraon conquiso.
L'arpa al canto accordò subitamente;
e poiché fu d'intorno ogn'un assiso,
col moto de la man ceffi alternando
incominciò cosí tenoreggiando.

47
- Dormiva Endimion tra l'erbe e i fiori
stanco dal faticar del lungo giorno,
e mentre l'aura e 'l ciel gli estivi ardori
gli gían temprando e amoreggiando intorno,
quivi discesi i pargoletti Amori
gli avean discinta la faretra e 'l corno,
ch'a i chiusi lumi e a lo splendor del viso
fu loro di veder Cupído aviso.

48
Sventolando il bel crine a l'aura sciolto
ricadea su le guancie in nembo d'oro;
v'accorrean gli Amoretti, e dal bel volto
quinci e quindi il partían con le man loro;
e de' fiori onde intorno avean raccolto
pieno il grembo, tessean vago lavoro,
a la fronte ghirlanda, al piè gentile
e a le braccia catene, e al sen monile.

49
E talor pareggiando a l'amorosa
bocca o peonia o anemone vermiglio,
e a la pulita guancia o giglio o rosa,
la peonia perdea, la rosa e 'l giglio.
Taceano il vento e l'onda, e da l'erbosa
piaggia non si sentía mover bisbiglio;
l'aria e l'acqua e la terra in varie forme
parean tacendo dire: “Ecco, Amor dorme”.

50
Qual ne' celesti campi, ove il gran toro
s'infiamma a i rai di luminose stelle,
sogliono sfavillar con chioma d'oro
le figliole d'Atlante, alme sorelle;
ch'a la maggiore e piú gentil di loro
brillando intorno stan l'altre men belle:
tal in mezzo agli Amori Endimione
parea tra l'erbe e i fior de la stagione.

51
Quando la bella Dea del primo cielo
tutta cinta de' rai del morto sole,
a la scena del mondo aprendo il velo
le campagne mirò tacite e sole;
e sparsa la rugiada e scosso il gielo
dal lembo sovra l'erbe e le viole,
a caso il guardo in quella piaggia stese,
e vaga di veder dal ciel discese.

52
Sparvero i pargoletti a l'apparire
de la Dea spaventati; ed ella, quando
vide il giovane sol quivi dormire,
ritenne il passo e si fermò guardando.
L'onestà virginal frenò l'ardire:
e ne gli atti sospesa e vergognando,
avea già per tornare il piè rivolto;
ma richiamata fu da quel bel volto.

53
Sentí per gli occhi al cor passarsi un foco
che d'un dolce desio l'alma conquise:
givasi avicinando a poco a poco,
tanto ch'al fianco del garzon s'assise;
e di que' vaghi fior, ch'avean per gioco
gli Amoretti intrecciati in mille guise,
s'incoronò la fronte e adornò il seno,
che tutti fur per lei fiamma e veleno.

54
Trassero i fior la man, la mano i baci
a le guance, a le labbra, a gli occhi, al petto,
che s'impresser sí vivi e sí tenaci,
che si destò smarrito il giovinetto.
Al folgorar de le divine faci
tutto tremò di riverente affetto;
e ad atterrarsi già ratto surgea,
s'ella non l'abbracciava e nol tenea.

55
Anima bella, disse, e dormigliosa,
che paventi? che miri? I' son la Luna
ch'a dormir teco in questa piaggia erbosa
amor, necessità guida e fortuna.
Tu non ti conturbar, siedi e riposa;
e nel silenzio de la notte bruna
pensa occultar l'ardor ch'io ti rivelo,
o d'isperimentar l'ira del cielo.

56
O pupilla del mondo, in cui la face
del sol s'impronta, pastorello indegno
son io, disse il garzon: ma se ti piace
trarmi per grazia fuor del mortal segno,
vivi sicura di mia fé verace;
e questo bianco vel te ne sia pegno,
ch'a mia madre Calice Etlio già diede
mio padre, in segno anch'ei de la sua fede.

57
Cosí dicendo, un vel candido schietto,
che di gigli di perle era fregiato,
e 'l tergo in un gli circondava e 'l petto
giú da la spalla destra al manco lato,
porse in dono a la Dea, ch'ogni rispetto
già spinto avea del cor tutto infiammato,
e come fior che langue allor ch'aggiaccia
si lasciava cader ne le sue braccia.

58
Vite cosí non tien legato e stretto
l'infecondo marito olmo ramoso,
né con sí forte e sí tenace affetto
strigne l'edera torta il pino ombroso;
come strigneansi l'uno a l'altro petto
gli amanti accesi di desio amoroso:
saettavan le lingue in tanto il core
di dolci punte, che temprava Amore.

59
Cosí mentre vezzosi atti e parole
guardi, baci, sospiri e abbracciamenti
facean dolcezze inusitate e sole
a gli amanti gustar lieti e contenti;
levò la diva l'uno e l'altro sole,
accusando le stelle e gli elementi,
poiché con tanti e con sí lunghi errori
seguite avea le fiere e non gli amori.

60
Misera me, dicea, quant'error presi
quel dí ch'io presi l'arco e 'l bosco entrai!
quant'anni poscia ho consumati e spesi,
che di ricoverar non spero mai!
o passi erranti e vani e male intesi,
come al vento vi sparsi e vi gettai!
quant'era meglio questi frutti corre,
ch'a rischio il piè dietro a le belve porre!

61
Or conosco il mio fallo, e farne ammenda
vorrei poter; ma il ciel non me 'l consente:
restami sol che del futuro i' prenda
pensier, di cui mai piú non sia dolente.
Però l'aria, la terra e 'l mare intenda
quel che di terminar già fisso ho in mente,
e la legge, ch'io fo, duri col sole
sovra me stessa e la femminea prole.

62
Io stabilisco che non copra il cielo,
ch'io governo, mai piú femmina bella
(eccetto alcune poche ch'io mi celo
che fien di me maggiori e d'ogni stella),
che sopporti con casto e puro zelo
finir la vita sua d'amor ribella,
e che stia intatta di sí dolce affetto,
se non mentitamente o al suo dispetto. -

63
Volea l'orbo seguir, come dolente
tornò la diva a la sua bella sfera:
se non che lo mirò di sdegno ardente
Renoppia, e in voce minacciosa e altera,
- Accecato de gli occhi e de la mente,
brutta effigie, gli disse, anima nera,
va', canta a le puttane infame e sciocche
queste tue vergognose filastrocche.

64
E se vuoi ch'io t'ascolti e che il tuo canto
ritrovi adito piú per queste porte,
cantami di Zenobia il pregio e 'l vanto
o di Lucrezia l'onorata morte. -
Il cieco allor stette sospeso alquanto;
poscia in tuono di guerra assai piú forte
l'amor di Sesto e gli empii spirti ardenti
incominciò a cantar con questi accenti:

65
- Il Re superbo de' romani eroi
a la regia di Turno il campo avea,
e con fanti e cavalli e servi e buoi
di trinciere e di fosse ei la cingea.
Eran con lui tutti i figlioli suoi:
e quivi si mangiava e si bevea
con gusto tal, che 'l dí di san Martino
bebbero in sette un carratel di vino.

66
Finito il vin, nacque fra lor contesa
chi avesse moglie piú pudica a lato:
e perch'ognun volea per la difesa
combatter de la sua ne lo steccato,
per diffinir la strana lite accesa,
di consenso commun fu terminato
di montar su le poste allora allora,
e andarsene a chiarir senza dimora.

67
Non s'usavano allor staffe né selle:
e quei signor con tanto vino in testa
correndo a lume di minute stelle,
ebbero a rimaner per la foresta.
Chi perdé il valigino e le pianelle,
chi stracciò per le fratte la pretesta,
chi rese il vino per diversi spilli,
e chi arrivò facendo billi billi.

68
Era con lor Tarquino Collatino
che la moglie Lucrezia avea a Collazia:
ei non era fratel, ma consobrino
e lor parente di cognome e grazia.
Tutti in corte smontâr su 'l Palatino
e le mogli trovâr, per lor disgrazia,
che foco in culo avean piú ch'un Lucifero
e stavano ballando a suon di piffero.

69
Fecero una moresca a mostaccioni
la piú gentil che mai s'udisse in corte;
e trovate al camin starne e capponi,
verso Collazia ne portâr due sporte.
giunti colà, di spranghe e di stangoni
d'ogni parte trovar chiuse le porte;
e bussaron piú volte a l'aer bruno,
prima che desse lor risposta alcuno.

70
Una schiavetta al fine in capo a un'ora
affacciatasi a certe balestriere,
e spinto un muso di lucerta fuora,
disse: Chi bussa là? Non c'è messere.
C'è pur, rispose il Collatino allora,
venite a basso e vel farem vedere.
Riconobbero i servi a quelle voci
il padrone, e ad aprir corser veloci.

71
Lucrezia venne in sala ad incontrarlo
con la conocchia senza servidori;
tutta lieta venía per abbracciarlo,
ma vedendo con lui tanti signori,
trasse il pennecchio, ché volea occultarlo,
e dipinse il bel volto in que' colori
ch'abbelliscon la rosa, e fe' chiamare
le donne sue che stavano a filare.

72
Di consenso comun la regia prole
diede il vanto a costei di pudicizia.
Dormiron quivi, e a lo spuntar del sole
ritornarono al campo e a la milizia.
Ma la bella sembianza e le parole
rimasero nel cor pien di nequizia
del fiero Sesto, un de' fratelli regi,
e le caste maniere e gli atti egregi.

73
Onde il dí quinto ripassando il monte
tornò a Collazia sol, là dov'ella era;
e giunto a l'imbrunir de l'orizonte,
disse ch'ivi alloggiar volea la sera.
La bella donna, non pensando a l'onte
ch'ei preparava, gli fe' lieta ciera;
la notte il traditor saltò del letto,
e a la camera sua corse in farsetto.

74
E la porta gittò mezzo spezzata,
entrando col pugnal ne la man destra:
quivi una vecchia, che dormía corcata
in un letto di vinco e di ginestra,
incominciò a gridar da spiritata,
ond'ei la fe' balzar per la finestra;
ed a Lucrezia che facea schiamazzo
disse: Mettiti giuso, o ch'io t'ammazzo.

75
A questo dir chinò Renoppia bella
prestamente la man con leggiadria,
e si trasse di piede una pianella;
ma l'orbo fu avvisato, e fuggí via.
S'alzaron que' signor ridendo, ed ella
gli ringraziò di tanta cortesia,
e con maniera signorile e accorta
gli andò ad accompagnar fino a la porta.
CANTO NONO

ARGOMENTO
Melindo innamorato al ponte viene,
e tutti i cavalieri a giostra appella.
Su l'isola incantata il campo tiene,
e fa mostra di sé pomposa e bella.
Cadono i primi, e fan cader le spene
a gli altri ancor di dirmanere in sella.
Al fin da un cavalier non conosciuto
vinto è l'incanto, e 'l giovine abbattuto.

1
Eran partiti già gli ambasciatori
venuti a procurar la pace in vano;
però ch'insuperbiti i vincitori
non si voleano il Re levar di mano;
e 'l Nunzio anch'egli entrato era in umori
ch'ei si mandasse al gran Pastor romano,
come in possanza di maggior nemico,
per piú confusion di Federico.

2
Ma finita la tregua ancor non era,
quando pel fiume in giú venne a seconda
una barchetta rapida e leggiera,
che portava due araldi in su la sponda.
Giunti al ponte, smontar su la riviera,
l'uno di qua, l'altro dí là da l'onda:
e a giostra, poi che ne le tende entraro,
d'ambidue i campi i cavalier sfidaro.

3
Contenea la disfida: - Un cavaliero,
per meritar l'amor d'una donzella
c'ha sovra quante oggi n'ha il mondo impero
in esser valorosa onesta e bella,
sfida a colpi di lancia ogni guerriero
finché l'un cada e l'altro resti in sella;
da l'abbattuto sol lo scudo ei chiede,
e 'l suo darà se per fortuna cede. -

4
Accettâr la disfida i giostratori,
e quinci e quindi ognun stè preparato
con pensier di dover co' novi albori
del già cadente sol trovarsi armato.
Ma la notte avea a pena i suoi colori
tolti a le cose e 'l mondo attenebrato
spiegando intorno il taciturno velo,
ch'una tromba s'udí sonar dal cielo.

5
Al fiero suon trecento schiere armârse
quinci e quindi confuse e sbigottite,
quando nel fiume una gran nave apparse,
che venía giú per l'onde intumidite,
e tanti razzi e tanti fuochi sparse,
che tolse il vanto a la Città di Dite.
Nave parea, ma in arrivando al ponte
isola apparve, e la sua poppa un monte.

6
Orrido è il monte e di spezzati sassi,
e signoreggia un praticello ameno
che lungo è intorno a centoventi passi
e trenta di larghezza o poco meno;
la prora a combaciar col ponte vassi,
e quivi una colonna al ciel sereno
fiamme spargea con sí mirabil arte
ch'illuminava intorno in ogni parte.

7
Da la colonna pende incatenato
un corno d'oro, e dice una scrittura
di ch'era il marmo lucido intagliato:
Suoni chi vuol provar l'alta ventura.
Piú in alto sovra il corno era attaccato
un ricco scudo, in cui da la scoltura
tolto era al puro argento il primo onore,
e scritto avea di sopra: Al vincitore.

8
Avea l'egregio artefice ritratto
in esso la battaglia di Martano
col signor di Seleucia; e stupefatto
parea tutto Damasco al caso strano:
sta Griffone in disparte accolto in atto
d'uom di dolore e di vergogna insano;
ride la corte, Norandin si strugge,
ma il buon Martan facea come chi fugge.

9
Era coperto il pian di verde erbetta,
e la riva di mirti ombrata intorno.
Smontâr molti guerrier ne l'isoletta
passeggiando il pratel di fiori adorno,
ma poiché la trovâr tutta soletta
trassero a gara a la colonna e al corno:
e quivi infra di lor nacque contesa
chi dovesse primier tentar l'impresa.

10
Giucaro al tocco, e sopra Galeotto
cadde la sorte, il giovinetto ardito;
quegli il bel corno d'ôr prese di botto,
e sonò sí ch'ognun ne fu stordito.
Tremò l'isola tutta, e tremò sotto
il letto e l'onda, e tremò intorno il lito:
sparve il foco ch'ardea, sparver le stelle,
e perdé il ciel le sue sembianze belle.

11
E mentre ancor durava il gran tremore,
ricoperse ogni cosa un nuvol denso,
e balenò improviso, e a lo splendore
seguí uno scoppio orribile ed immenso
che strignendo gli spirti e 'l sangue al core
fe' rimanere ognun privo di senso;
e giú col tuono un fulmine discese,
che percosse nel monte, e quel s'accese.

12
S'accese il monte, e tutto in fiamma viva
fu convertito in un girar di ciglio,
e in mezzo de la fiamma ecco appariva
mirabilmente un padiglion vermiglio.
Il nobil lin, di cui già tele ordiva
l'antica età d'incombustibil tiglio;
tal fra le pompe regie in oriente
fu visto rosseggiar nel foco ardente.

13
Lasciò la fiamma il monte incenerito,
e 'l ciel tornò seren com'era pria;
e in tanto fu di cento trombe udito
un misto suon di guerra e d'armonia.
Il lume ritornò, ch'era sparito,
su la colonna; e 'l padiglion s'apría,
e n'uscían cento paggi in bianca vesta,
tutta di fiori d'ôr sparsa e contesta.

14
Bruni i fanciulli avean le mani e 'l viso,
e parean tutti in Etiopia nati;
un poeta gli avrebbe a l'improviso
a le mosche nel latte assomigliati.
Fuor di due porte il nero stuol diviso
uscí con torce accese; e in ambo i lati
si distinse con lunga e dritta schiera,
e lasciò vota in mezzo una carriera.

15
Su l'altro capo intanto avea portato
copia di lance un provido scudiero;
e Galeotto era comparso armato
con sopravesta verde, armi e cimiero;
maneggiando un cavallo in Tracia nato,
da tre piedi balzàn, di pelo ubero,
che curvettando alzava da l'arena
al tocco de lo spron salti di schiena.

16
Era ogni cosa in punto, e solamente
mancava il cavalier de la ventura;
quando iterâr le trombe, immantinente
uscí del padiglion su la pianura.
di bianca sopravesta e rilucente
di gemme era vestito, e l'armatura
di puro argento avea, bianco il cimiero,
ma nero piú che corvo era il destriero.

17
Alta avea la visiera, e giovinetto
d'età di sedici anni esser parea:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
e grazia in lui quell'abito accrescea.
Salutò intorno ognun con grato affetto,
e 'l feroce destrier che sotto avea,
su l'orme fe' danzar che pria distinse
col piè ferrato, indi la lancia strinse.

18
Abbassò la visiera, e attese intento
che la canora tromba il moto accenne;
ed ecco suona, e come fiamma o vento
l'uno di qua l'altro di là se 'n venne.
Scontrarsi a mezzo il campo, e rotte in cento
tronchi e scheggie volâr le sode antenne,
gittò faville l'uno e l'altro elmetto,
e Galeotto uscí di sella netto.

19
Vago di contemplar vista sí bella
stava l'un campo e l'altro in ripa al fiume,
e le due podestà sotto l'ombrella
miravano la giostra al chiaro lume.
Videro Galeotto uscir di sella,
e vider l'altro con gentil costume
stendere al fren la generosa mano
e tenergli il destrier che gía lontano.

20
Galeotto confuso e vergognoso
lo scudo al vincitor partendo cesse,
nel cui lembo dorato e luminoso
subito il nome suo scritto si lesse.
In tanto un cavalier tutto pomposo
d'azzurro e d'oro una gran lancia eresse,
e un leardo corsier di chioma nera
spronò contra il campion de la riviera.

21
Ruppe la lancia al sommo de lo scudo,
e fe' i tronchi ronzar per l'aria scura;
ma fu colto da lui d'un colpo crudo
che lo stese tra i fiori e la verdura:
cadde a pena, che trasse il ferro ignudo
e volle vendicar sua ria ventura;
ma l'altro si ritrasse, ed ecco un vento,
e fu ogni lume intorno a un soffio spento:

22
e tremò l'isoletta, e fiamma viva
vomitando e tonando a un tempo fuore,
quindi un gigante orribile n'usciva
ch'a la terra ed al ciel mettea terrore;
questi al guerrier che contra lui veniva
s'aventò dispettoso, e con furore
lo ghermí come un pollo, e a spento lume
lui col cavallo arrandellò nel fiume;

23
onde a fatica ei si salvò notando:
restò lo scudo, e 'n lui si lesse: Irneo.
Allor di nuovo l'isola tremando
s'aperse, e il gran gigante in sé chiudeo:
e 'l chiaro lume, ch'era gito in bando,
tornò a le torce spente e l'accendeo;
tacque il tremito e 'l vento: e nuova giostra
chiamando, il cavalier fe' di sé mostra.

24
Il terzo giostrator fu Valentino,
che passeggiando venne un destrier sauro:
e 'l quarto il valoroso Giacopino
sopra un ginetto altier del lito mauro,
ch'avea ferrato il piè d'argento fino
e sella e fren di perle ornati e d'auro:
ma l'uno e l'altro uscí de l'isoletta
senza lo scudo, e dileguossi in fretta.

25
Il quinto fu il signor di Livizzano;
ch'innamorato di Celinda altera,
e per lei colto in fronte e messo al piano,
ebbe a perir de la percossa fiera.
L'asta rotta si fesse, e 'l colpo strano
fe' le scheggie passar per la visiera;
ond'ei cadde trafitto il destro ciglio,
de l'occhio e de la vita a gran periglio.

26
Il Potta rivoltato a Zaccaria
che gli sedea vicin, disse: - Messere,
quest'è certo un incanto e una malía
ognun quel cavalier farà cadere. -
Rispose il vecchio allor: - Per vita mia
ch'a me l'istesso par, né so vedere
che possan guadagnar questi briganti
a cozzar col demonio e con gl'incanti;

27
però se stesse a me, farei divieto
che nessuno de' miei con lui giostrasse. -
Prese il Potta il consiglio, e fe' un decreto
che ne l'isola alcun piú non entrasse,
e se ne stette poscia attento e cheto
mirando ciò che l'inimico oprasse,
e vide due, vestiti a bruno ed oro
appresentarsi co' cavalli loro.

28
L'un d'essi corse, e tócco a pena fue
ch'uscí di sella e si distese al piano;
e pur mostrava a le sembianze sue
d'esser di core indomito e di mano.
Secondò l'altro, e per la groppa in giue
restò cadendo al suo caval lontano.
Risorse il primo, e a quel de la riviera
disse con voce e con sembianza altera:

29
- Guerrier, se tu non sei per via d'incanto
prode con l'asta, or de l'arcion discendi
e con la spada che tu cigni a canto
a trarmi in cortesia d'inganno imprendi;
e s'hai timor di non turbar fra tanto
la giostra, a tuo piacer pugna e contendi;
pur ch'io ti provi un colpo o due col brando:
ecco lo scudo e piú non t'addimando. -

30
Rispose il cavalier de l'isoletta:
- A dismontar sarei forse ubbligato,
s'a combatter per odio o per vendetta
fossi venuto in questo campo armato.
A giostrar venni e solo amor m'alletta,
e 'l mio disegno a tutti ho palesato:
sí ch'io non son tenuto a uscir di questa,
per variar tenzone a tua richiesta.

31
Ma perché non m'imputi a codardia
il rifiutar la prova de la spada,
lasciami terminar l'impresa mia,
poi ti risponderò come t'aggrada.
Lo scudo se 'l mi chiedi in cortesia
io lo ti lascierò; per altra strada
non ti pensar di ritenerlo, o ch'io
a tuo voler sia per cangiar desio. -

32
- Il cangerai, soggiunse, al tuo dispetto, -
l'altro guerrier, malvaggio incantatore. -
E del tronco de l'asta in su l'elmetto
ferillo, e trasse a un tempo il brando fuore;
tremò l'isola al colpo, e tremò il letto
del fiume, e sparve tosto ogni splendore;
balenò il cielo, e con orrendo scoppio
s'aprí la terra e n'uscí un fumo doppio.

33
Sfavillò il fumo; ed ecco immantenente
due tori uscir d'insolita figura
che con occhi di foco e fiato ardente
parean seccare i fiori e la verdura.
S'uniro i due guerrier, tratte repente
le spade, e non mostrâr di ciò paura.
Vengono i tori, e l'uno e l'altro campo
trema de gli occhi al formidabil lampo.

34
Il cavalier de l'isoletta s'era
tratto in disparte a rimirar la guerra;
come saetta, l'una e l'altra fera
col biforcuto piè trita la terra.
S'apre a l'arrivo lor la coppia altera;
passa il corno incantato e non gli afferra;
menano entrambi, e 'l taglio de la spada
par che su lana o molle piuma cada.

35
Tornano i tori, e i cavalier rivolti
son loro incontro e menano a la testa;
lampeggiaron le fronti ove fur colti:
ma l'impeto e 'l furor per ciò non resta:
i cavalier su 'l corno a forza tolti
fur portati nel fiume a gran tempesta;
restar gli scudi, e scritti i nomi loro
Perinto e Periteo ne gli orli d'oro.

36
Balzâr ne l'onda a precipizio i tori
co i cavalieri; e quivi uscîr di vista:
si ravvivaro i soliti splendori,
depose il ciel quella sembianza trista;
l'isoletta cessò da' suoi tremori,
lieta tornando come prima in vista;
e 'l cavalier che ritirato s'era,
tornò a mettersi in capo a la carriera.

37
E nuova giostra in vano un pezzo attese,
ch'ognuno era confuso e spaventato,
fin che dal ponte un cavalier discese
maneggiando un corsier falbo dorato
che la briglia d'argento e 'l ricco arnese
avea d'oro trapunto e ricamato.
Questi in pensier di cambiar lancia venne,
e ne fe' inchiesta, e la richiesta ottenne.

38
Diede il segno la tromba: e come vanno
per gli campi de l'aria i lampi ardenti
ch'a terra e cielo e mar dar luogo fanno
e portano con lor grandine e venti;
tal vannosi i guerrier, con l'aste c'hanno
abbassate, a ferir gli elmi lucenti.
Volâr le scheggie e le faville al cielo,
né vi fu cor che non sentisse gielo.

39
Cozzarono i destrier fronte con fronte;
e quel del cavalier de l'isoletta
lasciò col suo signor l'altro in un monte,
e via dritto passò come saetta.
Tosto risorse il cavalier del ponte
bramando far del suo caval vendetta:
e a nuova lancia il giostrator richiese,
ed ei gli fu di ciò molto cortese.

40
Venne un altro corsier di pel roano,
e su montovvi il cavalier d'un salto;
sospese il fren con la sinistra mano
e con lo sprone il fe' guizzare in alto;
e poiché si rimise in capo al piano
lo sospinse di corso al fiero assalto:
ma nell'incontro fu toccato a pena
che si trovò rovescio in su l'arena.

41
Levossi e disse: - Ecco lo scudo mio,
ch'or veggio che se' mago e incantatore,
né teco vo' né col demonio rio
mettere in compromesso il mio valore:
forse avverrà ch'ancor tu paghi il fio
per altre mani, e con tuo poco onore,
del mal acquisto; or qui ti resta intanto
col diavolo, ch'eletto hai per tuo santo. -

42
De l'isola partissi in questo dire,
e ne lo scudo suo Tognon fu letto.
Dopo costui si vider comparire
due cavalier di generoso aspetto
che 'l giostratore andarono a ferire
l'un dopo l'altro con sembiante effetto:
rupper le lance ne l'argento terso,
e l'uno e l'altro si trovò riverso.

43
Restar gli scudi, e Paolo e Sagramoro
ne gli orli impressi. Indi a giostrar si mosse
sovra un corsier di pel tra bigio e moro
un cavalier con piume bianche e rosse
e sopravesta di teletta d'oro
ricamata a troncon di perle grosse,
ch'una mano di paggi intorno avea
vestiti a superbissima livrea.

44
Questi era un cavalier non piú nomato,
figlio d'un romanesco ingannatore
che pria fu rigattier, poi s'era dato
in Campo Merlo a far l'agricoltore,
e 'l grano e le misure avea falsato
tanto che divenuto era signore;
e per aggiugner gloria al figlio altiero,
quivi dianzi il mandò per venturiero.

45
Costui se 'n venía gonfio come un vento,
teso ch'un pal di dietro aver parea:
fu conosciuto a l'armi e al guarnimento
e a la superba sua ricca livrea.
Potrei rassomigliarlo a piú di cento
di non forse inegual prosopopea;
ma toccherei un mal vecchio decrepito,
e la zerbineria farebbe strepito.

46
Ninfeggiò prima e passeggiò pian piano,
poi maneggiò il destriero a terra a terra;
in fin che si ridusse in capo al piano
dove s'avea da incominciar la guerra.
Ecco la tromba; ecco con l'asta in mano
vien l'uno e l'altro, e fa tremar la terra:
risonarono i lidi a le percosse;
né a quell'incontro alcun di lor si mosse.

47
Fu il primo cavalier ch'in sella stette
contra il campion mantenitor costui:
e ben maravigliar fe' piú di sette
che non credean giammai questo di lui.
Il cavalier de l'isola ristette
pensoso un poco, e favellò co' sui,
indi a le mosse ritornando, fôro
lance piú sode appresentate loro.

48
Ma come l'altre si fiaccaro e fero
salire i tronchi a salutar le stelle:
piegossi l'uno e l'altro cavaliero
e fur per traboccar giú de le selle.
Perdé le staffe il romanesco altiero,
e vide l'armi sue gittar fiammelle;
ma rinfrancossi al suon ch'intorno udiva
del nome suo da l'una e l'altra riva.

49
Come si gonfia a l'Euro in un momento
il Mar Tirreno, e sbalza e fortuneggia,
cosí il cor di costui si gonfia al vento
del populare applauso, e ne folleggia:
va tronfio e pettoruto, e bada intento
a i saluti, a gli sguardi, e paoneggia;
e fatta c'ha di sé pomposa mostra,
nuova lancia richiede e nuova giostra.

50
Fremean Perinto e Periteo di sdegno
che durasse costui tanto in arcione;
quando diede la tromba il terzo segno
da la parte che guarda il padiglione,
poser le lance i cavalieri a segno,
e venner furiosi al paragone:
ma ne l'elmo colpito, il romanesco,
finalmente caddé su l'erba al fresco.

51
Di terra si levò tutto arrabbiato;
trasse la spada e sbudellò il destriero,
come fosse il meschin del suo peccato,
de la caduta sua l'autor primiero:
indi al guerrier de l'isola voltato,
- Ti sarà, disse, d'aspettar mestiero,
ch'uno scudo i' ti dia d'altro lavoro;
ché questo i' nol darei per un tesoro. -

52
Sorrise il giostratore, e disse: - Questo
teco giostrando ho vinto, e questo voglio.
Il mio val piú del tuo, né saria onesto
che ti volessi anch'io cambiare il foglio. -
Rispose il romanesco: - I' ti protesto
che lo difenderò sí come i' soglio. -
E tratto il brando, al solito costume
si scosse il suol, ma non si spense il lume.

53
E un asinello uscí, che due stivali
per orecchie e una trippa avea per coda;
con l'orecchie fería colpi mortali,
e la coda inzuppata era di broda:
terribil voce avea, calci mortali,
la pelle d'un diamante era piú soda;
e sempre che ferir potea d'appresso,
balestrava col cul pallotte a lesso.

54
Parean polpette cotte ne l'inchiostro,
e appestavano un miglio di lontano.
Titta di Cola s'affrontò col mostro,
(che tal nomossi il cavalier romano),
e gli fu d'altro che di perle e d'ostro
ricamato il vestito a piena mano.
Egli del brando a quella bestia mena,
a segna il pelo ove lo coglie a pena.

55
L'asino un par di calci gli appresenta,
indi mena la coda agile e presta;
apre a un tempo la canna, e lo sgomenta
co i ragli che tremar fan la foresta;
sbatte l'orecchie, e di ferir non lenta
or le spalle, or i fianchi, ora la testa;
volta la poppa e tuona, e a l'improviso
fulmina, e a fresco gli dipinge il viso.

56
Il buon roman, che la tempesta sente,
getta lo scudo ed a fuggir si pone:
rise il mantenitor dirottamente,
e tornò in su le mosse al padiglione.
Ma già la notte il carro a l'occidente
volgea, né compariva altro campione:
ond'ei si chiuse ne la tenda, e 'n tanto
dieron principio i galli al primo canto.

57
Il dí seguente il giostrator si stette
nel padiglione, e non fe' mostra alcuna;
ma poi ch'usciro i gufi e le civette
su per gli tetti a salutar la luna,
a suon di trombe con nov'armi elette
anch'egli fe' vedersi in veste bruna:
bruno il cimiero e bruno il guarnimento,
ma bianco era il destrier piú che l'argento.

58
E i paggi, che servian per candelieri,
dove dianzi parean de la Guinea,
parean scesi dal cielo angeli veri,
e come i visi ancor cangiâr livrea.
Tutti comparver con vestiti neri
in calze a tagli; onde a veder correa
con voglia ingorda la milizia Tosca
tirata dal favor de l'aria fosca.

59
E 'l giovine Averardo, il qual non s'era
fin allor visto appresentarsi in mostra,
fu il primo a comparir su la riviera
e 'l primo a uscir di sella in quella giostra.
Diede lo scudo e alzossi la visiera,
e si fermò nella fiorita chiostra
a ragionar co' paggi e a fare inchiesta
del nome del guerriero e di sua gesta.

60
Da molti lumi intanto accompagnata,
de l'isola era uscita una donzella
in abito stranier candido ornata,
e di maniere accorte e 'n viso bella:
e venne ove Renoppia era attendata,
con due scudieri e con due paggi in sella,
e gli acquistati scudi appresentolle,
e in nome del guerrier poscia narrolle:

61
che la fama l'avea del suo valore,
quel dí ch'armata in su la riva corse
e l'esercito ostil già vincitore
sostenne, e mise la vittoria in forse,
quivi condotto a far sol per suo amore
la bella giostra e in avventura a porse;
onde chiedea che non s'avesse a sdegno
che gli scaldasse il cor foco sí degno.

62
Vergognosa Renoppia e sdegnosetta:
- Ruffianella mia, disse, a l'aria, a i venti
meco il vostro guerrier l'arti sue getta,
ch'io non fui vaga mai d'incantamenti.
Ma voi che siete bella e giovinetta,
e che con lui vi state a lumi spenti,
perché lasciate voi che i premi vostri
v'escan di mano e che per altra giostri? -

63
- Serva son io, rispose la donzella,
e troppa per me fôra alta mercede;
possiede il mio signor terre e castella,
né inchinerebbe a la mia sorte il piede. -
Renoppia allora, astuta come bella:
- Se questo è, soggiungea, fategli fede
ch'io mi chiamo ubbligata a quel valore,
che mostra con la lancia in farmi onore.

64
E se ben forse avrei piú caro avuto
ch'in soccorso de' nostri a vero marte
con l'armi per mio amor fosse venuto
senza apparecchio alcun di magic'arte;
pur l'affetto gradisco e lo saluto:
e questa gli darete da mia parte. -
E di seno, a quel dir, senza intervallo
si trasse una crocetta di cristallo,

65
dov'era un dente di san Gemignano,
e Papa Onorio l'avea benedetta,
e finse porla a la donzella in mano,
che la desse al guerrier de l'isoletta:
ma quella sparve come un sogno vano
al subito toccar de la crocetta,
e sparvero con lei paggi e scudieri,
e rimasero sol gli scudi veri.

66
Lesse i nomi Renoppia, e quelli rese
ch'esser trovò de' cavalieri amici;
gli altri di ritener consiglio prese
come spoglie e trofei de' suoi nemici.
Intanto il giostrator seguía sue imprese
con gli usati successi ognor felici:
quand'un guerriero ignoto in veste gialla
al ponte capitò su una cavalla.

67
La lancia lunga piú d'ogn'altra avea
due palmi, e una pantera in su l'elmetto:
ma sospeso venía sí che parea
ch'andasse a quell'impresa al suo dispetto.
Sonâr le trombe, e 'l suon che gli altri fea
dentro brillar, fe' in lui contrario effetto:
corre, ma sembra a i timidi atti fuore
portato dal destrier, non già dal core.

68
Pur si ristrigne ne gli arcioni, e abbassa
la lancia in su la resta, e gli occhi serra
in arrivando, e i denti strigne, e passa
come chi va sol per vergogna in guerra:
e a quell'incontro l'inimico lassa,
con maraviglia de' due campi in terra.
Allor tutta s'udí quella riviera
gridar: - Viva il campion de la pantera. -

69
Ed ei maravigliando al suon rivolto
vide l'emulo suo giacer disteso:
onde di sé per allegrezza tolto
fermossi a riguardar tutto sospeso.
Ma l'abbattuto, a l'infiammato volto
mostrando il cor di fiero sdegno acceso,
ratto risorse, e con un piè percosse
la terra e 'ntorno il pian tutto si scosse:

70
e s'estinsero i lumi, e 'l padiglione
sparve fra tuoni e lampi in un baleno,
e l'isoletta diventò un barcone
colmo di stabbio, di fascine e fieno;
né rimasero in esso altre persone
di tante, onde pur dianzi era ripieno,
che 'l cavalier vittorioso e un nano
ch'avea uno scudo e una lanterna in mano.

71
E lo scudo porgendo al cavaliere
- Questo è il premio, dicea, del vincitore
tratto da la colonna, e in tuo potere
lasciato al dipartir dal mio signore;
che per ragion di cortesia ti chere
che, come l'hai de l'alto tuo valore,
cosí ti piaccia ancor farlo avisato
del nome e de la patria onde se' nato. -

72
Ringalluzzossi il cavaliero e al nano
rispose: - Al tuo signor riferir puoi
che la mia stirpe vien dal lito ispano,
ed è famosa oltre i confini eoi.
Quel Don Chisotto in armi sí sovrano,
principe de gli erranti e de gli eroi,
generò di straniera inclita madre
don Flegetonte il bel, che fu mio padre.

73
Questi in Italia poscia ebbe domíno
e si fe' in ogni parte memorando;
solo a la gloria sua mancò Turpino
che scrivesse di lui come d'Orlando:
eroe non l'agguagliò né paladino,
e sol cedé al valor di questo brando;
e perché cosa occulta non rimagna,
digli ch'io sono il conte di Culagna.

74
Ma poi ch'ho soddisfatto al tuo desío
e t'ho dato di me notizia intera,
resta ch'ancor tu soddisfaccia al mio
in dirmi il nome e la sua stirpe vera. -
Rispose il nano: - Informerotti anch'io
di quel che brami, usciam de la riviera
ché tanti cavalier che colà vedi
bramano anch'essi quel che tu mi chiedi. -

75
Giunser del fiume in su la destra sponda
dove molti guerrier facean soggiorno;
che, subito che 'l nano uscí de l'onda,
gli furon tutti a interrogarlo intorno.
Egli che lingua avea pronta e faconda,
fermando il piede: - A voi, disse, ritorno
per sodisfare a la comune voglia:
state or a udir, né alcun di me si doglia.

76
Poi che de la città cacciati foro
gli Aigoni dal furor de' Ghibellini,
e 'l conte di Vallestra capo loro
uscí con gli altri anch'ei fuor de' confini,
trovò per arte magica un tesoro,
e fe' ne' monti al suo castel vicini
una grotta incantata, ove gran parte
del tempo stassi esercitando l'arte.

77
Quivi un figliol di tenerella etate
ch'unico egli ha, detto Melindo, e' tiene;
le cui maniere nobili e lodate
destan nel vecchio padre amor e spene.
Questi, uditi i costumi e la beltate
e 'l valor che mostrò su queste arene
una donzella in questo proprio loco,
arse per lei d'inestinguibil foco;

78
e con prieghi e sospir dal padre ottenne
di comparire a far qui di sé mostra;
onde su l'isoletta in campo venne
armato a mantener la bella giostra.
Ma il timoroso vecchio, a cui sovvenne
l'età ineguale a la possanza vostra,
fece un incanto ch'esser perditore
per forza non potea né per valore.

79
Fu l'incanto ch'ei fe' con tal riguardo
che non potea cader Melindo a terra,
se non venía un guerrier tanto codardo
che non trovasse paragone in terra;
e quanto piú l'incontro era gagliardo,
tanto meglio il fanciul vincea la guerra;
come il ferir del fulmine che spezza
con piú furor dov'è maggior durezza.

80
L'aste, il cavallo e l'armi onde guernito
era il fanciul, tutte incantate avea:
e chi traea la spada era spedito,
ché de l'isola a forza uscir dovea.
Il cambiar lancia era miglior partito;
ma non per questo il cavalier vincea,
se non era di forza e di valore
piú d'ogn'altro a Melindo inferiore. -

81
Qui tacque il nano: e 'n giubilo fu volto
de gli abbattuti il mal concetto sdegno.
Ma il conte di Culagna increspò il volto,
e ritirando il passo e d'ira pregno
trasse la spada, e a quel piccin rivolto
che di timore alcun non facea segno
- Tu menti, disse, menzognier villano,
e te lo manterrò con questa in mano.

82
Tu vorresti macchiar la mia vittoria;
ma non la macchierai, brutto scrignuto,
ché già nota per tutto è la mia gloria,
né scusa ha il tuo signor vinto e abbattuto. -
Non volle il Nano entrar seco in istoria;
ma fatto a que' signori umil saluto,
al conte che seguiva il suo costume
rispose: - Buona notte - e spense il lume.
CANTO DECIMO

ARGOMENTO
A Napoli se 'n va la Dea d'amore,
e 'l principe Manfredi a l'armi accende.
Al conte di Culagna infiamma il core
Renoppia, che di lui gioco si prende.
E d'uccider la moglie entra in umore
con veleno, e sé stesso incauto offende.
Fugge la moglie al campo, e si procaccia
d'amante, e fagli al fin le corna in faccia

1
Il carro de la Notte era già fuora
del cerchio che divide Africa e Spagna,
e non dormiva e non posava ancora
il glorioso conte di Culagna.
Va tra sé rivolgendo ad ora ad ora
con quant'onore in campo egli rimagna,
poiché mercé di sua felice stella
l'incantato guerrier tratto ha di sella.

2
Quindi pensando a la cagion che spinto
Melindo avea su 'l favoloso legno,
pargli non pur del ricco scudo vinto,
ma de la bella donna esser piú degno.
Gli somministra il naturale istinto
e la ragion del suo elevato ingegno,
che poiché 'l campo il cavalier gli cede,
d'ogn'onor, d'ogni premio il lascia erede.

3
E su questo pensier vaneggia in guisa,
che di Renoppia già si finge amante,
e le bellezze sue fra sé divisa
cupidamente, e n'arde in un istante.
Or ne' begli occhi suoi tutto s'affisa,
or ne gli atti leggiadri, or nel sembiante;
e come lusingando il va la speme,
or gioisce, or sospira, or brama, or teme.

4
Moglie giovane e bella ei possedea,
ma ogni pensier di lei se n'è fuggito;
e in questo nuovo amor s'interna e bea
tanto, che pargli il ciel toccar col dito.
Cosí la carne già ch'in bocca avea
su 'l fiume il can d'Esopo, un dí schernito
lasciò cader nel fuggitivo umore,
per prender l'ombra sua ch'era maggiore.

5
Tutta la notte andò girando il conte
le piume, senza mai prender riposo;
e Febo già con l'infiammata fronte
rimovendo dal ciel l'aer ombroso,
colta l'Aurora avea su l'orizonte
ignuda in braccio al suo Titon geloso;
ond'ella rossa in volto, alzando il petto
con la camicia in man fuggia del letto.

6
Quand'il conte levato anch'egli mosse
colà dove Renoppia era attendata,
cantando a l'improviso a note grosse
sopra una chitariglia discordata:
e giudicando che la lingua fosse
di gran momento a intenerir l'amata,
s'affaticava in trovar voci elette
di quelle che i Toscan chiamano prette.

7
- O, diceva, bellor de l'universo,
ben meritata ho vostra beninanza;
ché 'l prode battaglier cadde riverso,
e perdé l'amorosa e la burbanza.
Già l'ariento del palvese terso
non mi brocciò a pugnar per desianza;
ma di vostra parvenza il bel chiarore,
sol per vittoriare il vostro quore. -

8
Cosí cantava il conte innamorato
a lei che del suo amor fra sé ridea.
Ma Venere fra tanto in altro lato
le campagne del mar lieta scorrea:
un mirabil legnetto apparecchiato
a la foce de l'Arno in fretta avea;
e movea quindi a la riviera amena
de la real città de la Sirena,

9
per incitar il Principe novello
di Taranto ad armar gente da guerra,
e liberar di prigionia il fratello
che chiuso sta ne la nemica terra.
Entra ne l'onda il vascelletto snello,
spiega la vela un miglio o due da terra;
siede in poppa la Dea, chiusa d'un velo
azzurro e d'oro a gli uomini ed al cielo.

10
Capraia adietro e la Gorgona lassa,
e prende in giro a la sinistra l'onda;
quinci Livorno, e quindi l'Elba passa
d'ampie vene di ferro ognor feconda;
la distrutta Faleria in parte bassa
vede, e Piombino in su la manca sponda,
dov'oggi il mare adombra il monte e 'l piano
l'aquila del gran re de l'Oceàno.

11
Tremolavano i rai del sol nascente
sovra l'onde del mar purpuree e d'oro;
e in veste di zaffiro il ciel ridente
specchiar parea le sue bellezze in loro:
d'Africa i venti fieri e d'Oriente
de le fatiche lor prendean ristoro;
e co' sospiri suoi soavi e lieti
sol Zefiro increspava il lembo a Teti.

12
Al trapassar de la beltà divina
la Fortuna d'amor passa e s'asconde.
L'ondeggiar de la placida marina
baciando va l'inargentate sponde.
Ardon d'amore i pesci, e la vicina
spiaggia languisce invidiando a l'onde;
e stanno gli amoretti ignudi intenti
a la vela, al governo, a i remi, a i venti.

13
Quinci e quindi i delfini a schiere a schiere
fanno la scorta al bel legnetto adorno;
e le ninfe del mar pronte e leggiere
corron danzando e festeggiando intorno.
Vede l'Umbrone ove sboccando ei père
e l'isola del Giglio a mezzogiorno;
e in dirupata e ruinosa sede
monte Argentaro in mezzo a l'onde vede.

14
Quindi s'allarga in su la destra mano,
e lascia il porto d'Ercole a mancina;
vede Civitavecchia, e di lontano
biancheggiar tutto il lido e la marina.
Giaceva allora il porto di Traiano
lacero e guasto in misera ruina;
strugge il tempo le torri e i marmi solve
e le machine eccelse in poca polve.

15
Già la foce del Tebro era non lunge,
quando si risvegliò Libecchio altiero
che 'n Libia regna, e dove al lido giunge,
travalca sopra il mar superbo e fiero:
vede l'argentea vela, e come il punge
un temerario suo vano pensiero,
vola a saper che porti il vago legno,
e intende ch'è la Dea del terzo regno.

16
Onde orgoglioso, e come invidia il muove,
a Zefiro si volge e grida: - O resta,
o io ti caccierò nel centro dove
non ardirai mai piú d'alzar la testa.
A te la figlia del superno Giove
non tocca di condur: mia cura è questa,
va' tu a condur le rondini al passaggio,
e a far innamorar gli asini il maggio. -

17
Zefiro, ch'assalito a l'improviso
da l'emulo maggior quivi si mira,
ne manda in fretta al suo fratello aviso,
che su l'Alpi dormiva, e 'l piè ritira:
corre Aquilon, tutto turbato in viso,
ch'ode l'insulto, e freme di tant'ira
che fa i tetti cader, gli arbori svelle,
e la rena del mar caccia a le stelle.

18
Libecchio che venir muggiando insieme
i due fratelli di lontano vede,
si prepara a l'assalto, e già non teme
del nemico furor, né il campo cede:
tutte raguna le sue forze estreme,
e dal lido african sciogliendo il piede,
chiama in aiuto anch'ei di sua follía
Sirocco regnator de la Soria.

19
Vien Sirocco veloce, onde s'accende
una fiera battaglia in mezzo a l'onde.
Si turba il ciel, si turba l'aria, e stende
densa tela di nubi e 'l sol nasconde:
fremono i venti e 'l mar con voci orrende,
risonano percosse ambe le sponde:
e par che muova a' suoi fratelli guerra
l'ondoso scotitor de l'ampia terra.

20
Si spezzano le nubi e foco n'esce
che scorre i campi del celeste regno:
il foco e l'aria e l'acqua e 'l ciel si mesce;
non han piú gli elementi ordine o segno;
s'odono orrendi tuoni, ognor piú cresce
de' fieri venti il furibondo sdegno,
increspa e inlividisce il mar la faccia
e l'alza contra il ciel che lo minaccia.

21
Già s'ascondeva d'Ostia il lido basso,
e 'l Porto d'Anzio di lontan surgea,
quando sentí il romor, vide il fracasso
che 'l ciel turbava e 'l mar, la bella Dea:
vide fuggirsi a frettoloso passo
le Ninfe dal furor de la marea;
onde tutta sdegnosa aperse il velo
e dimostrò le sue bellezze al cielo.

22
E minacciando le tempeste algenti
e le procelle e i turbini sonanti,
cacciò del ciel le nubi, e gli elementi
tranquillò co' begli occhi e co' sembianti.
Corsero tutti ad inchinarla i venti
a le minacce sue cheti e tremanti;
ella in Libecchio sol le luci affisse,
e mordendosi il dito irata disse:

23
- Moro, can, senza legge e senza fede,
t'insegnerò, con queste tue contese,
come si tratta meco e si procede,
e ti farò tornare in tuo paese. -
Quel s'inginocchia e bacia il divin piede
chiede perdon de l'impensate offese;
e fa partendo in Africa passaggio:
segue la navicella il suo viaggio.

24
Le donne di Nettun vede su 'l lito
in gonna rossa e col turbante in testa:
rade il porto d'Astura, ove tradito
fu Corradin ne la sua fuga mesta:
or l'esempio crudele ha Dio punito
ché la terra distrutta e inculta resta;
quindi Monte Circello orrido appare
col capo in cielo e con le piante in mare.

25
S'avanza, e rimaner quinci in disparte
vede Ponzia diserta e Palmarola,
che furon già de la città di Marte
prigioni illustri in parte occulta e sola.
Varie torri su 'l lido erano sparte:
la vaga prora le trascorre e vola;
e passa Terracina, e di lontano
vede Gaeta a la sinistra mano.

26
Lascia Gaeta, e su per l'onda corre
tanto ch'arriva a Procida e la rade,
indi giugne a Puzzòlo, e via trascorre,
Puzzòlo che di solfo ha le contrade;
quindi s'andava in Nisida a raccorre,
e a Napoli scopría l'alta beltade:
onde dal porto suo parea inchinare
la Regina del mar, la Dea del mare.

27
Da Nisida la Dea spedisce un messo
al principe Manfredi, e 'n terra scende;
e cangia volto, e 'l bel sembiante espresso
de la contessa di Caserta prende.
Il principe e costei d'un padre stesso
nacquero, se la fama il vero intende,
ma di madri diverse, e fur nudriti
per alcun tempo in differenti liti.

28
Condotti in corte poi fanciulli ancora
ne l'albergo real crebbero insieme
senza riguardo, in fin che venne l'ora
che 'l fior di nostra età spunta col seme;
erano gli anni quasi uguali, e allora
de l'uno e l'altro le bellezze estreme;
onde il fraterno amor, non so dir come,
strano incendio divenne e cangiò nome.

29
Sospettonne osservando i gesti e i visi
il padre, e maritò la giovinetta:
ma i corpi fur, non gli animi divisi,
e restò l'alma in servitú ristretta.
Or che vede venir con lieti avisi
Manfredi il messaggier da l'isoletta,
cuopre la poppa d'una navicella,
e solo e chiuso va da la sorella.

30
Trovolla a piè d'una distrutta ròcca,
che passeggiava in un giardino ameno.
Subito scende; e, come Amore il tocca
corre e l'abbraccia e la si strigne al seno,
e la bacia ne gli occhi e ne la bocca,
e da la Dea d'amor tanto veleno
con que' baci rapisce e tanto foco,
che tutto avvampa e non ritrova loco.

31
Volea iterar gli abbracciamenti e i baci,
ma con la bella man la Dea s'oppose,
e respignendo l'avide e mordaci
labbia, si tinse di color di rose.
- Frenate, signor mio, le mani audaci
e le voglie, dicea, libidinose;
ché non son questi a gli andamenti, a i cenni
baci fraterni, e udite perch'io venni. -

32
Il principe ristette: ed ella, poi
che d'Enzio il fiero caso ebbe narrato,
ch'estinto il fior de' cavalieri suoi
prigioniero pugnando era restato,
le lagrime asciugando: - Or, disse, a voi
che mio padre in sua vece ha qui lasciato,
tocca mostrar, s'in voi non mente il sangue,
che la destra di Svevia ancor non langue.

33
Voi che reggete il fren di questo regno
potete vendicar di nostro padre
e di nostro fratel l'obbrobrio indegno,
armando in terra e in mar diverse squadre.
Né già piú glorioso o bel disegno,
né piú famose prove e piú leggiadre
poteva in terra o in mar da parte alcuna
al valor vostro appresentar fortuna.

34
Io, se non fossi donna, andrei con questa
mano a spianar le temerarie mura;
né vorrei che giammai l'iniqua gesta
si vantasse d'aver parte sicura,
se prima non venisse in umil vesta
con una fune al collo o la cintura
a chiedermi perdono e a consegnarmi
il mio fratello e la cittade e l'armi.

35
Ah Dio! perché fui donna, o non usai
a l'armi, al sangue anch'io la destra molle? -
Qui sfavillò di sí cocenti rai,
che trafisse il meschin ne le midolle.
Trema il cor come fronda; e tutto omai
fuor di ghiaccio rassembra e dentro bolle:
vorría stender la man, vorría rapire;
ma un segreto terror smorza l'ardire.

36
Al fin con voce tremula risponde:
- Sorella mia, reina mia, Dea mia,
andrò nel foco, andrò per mezzo a l'onde,
e nel centro per voi, s'al centro è via.
Lo scettro di mio padre in queste sponde,
con libero voler, tutto ho in balía:
disponetene voi come v'aggrada,
ché vostro è questo core e questa spada. -

37
Cosí dicendo apre le braccia e crede
strigner de la sorella il vago petto:
ma l'amorosa Dea che 'l rischio vede,
subito si ritira e cangia aspetto.
Ne la forma immortal sua prima riede;
e alzandosi ne l'aria, al giovinetto
versa, al partir, dal bel purpureo grembo
sopra di rose e d'altri fiori un nembo.

38
- O bellezza del ciel viva immortale,
dove fuggi da me? perché mi lassi?
Né mi concedi almen, che in tanto male
io possa in te sbramar quest'occhi lassi? -
Cosí parlava il giovane reale;
e intanto rivolgea gli afflitti passi
a l'onda giú dove l'attende il legno,
disegnando d'armar tutto quel regno.

39
Ma il conte di Culagna avendo intanto
vista Renoppia uscir del padiglione,
rassettato il collar, la barba e 'l manto
e tiratosi in fronte un pennacchione,
l'era gita a incontrar da un altro canto,
salutandola quasi in ginocchione;
ond'ella instrutta di sue degne imprese
l'avea chiamato a sé tutta cortese.

40
E avendo il suo valor molto esaltato,
la dispostezza e 'l fior de l'intelletto,
giurato avea di non aver trovato
chi piú paresse a lei degno suggetto
de l'amor suo, quand'ei non fosse stato
in nodo marital congiunto e stretto:
onde il burlar de la donzella avía
posto il meschino in strana frenesia.

41
Trovollo Titta in un solingo piano
ch'ei passeggiava a l'ombra d'una noce,
e gía fra sé con la corona in mano
parlando, a passo or lento, ora veloce.
Come egli vide il cavalier romano,
gli si fece a l'orecchia, e a mezza voce
- Frate, gli disse, per uscir di doglie
io son forzato avvelenar mia moglie.

42
A me certo ne spiace in infinito,
ma cosí porta la crudel mia stella. -
Quindi gli narra quanto era seguito,
e quel che detto gli ha Renoppia bella.
Mostra di rimaner Titta stupito,
e lo chiama felice in sua favella:
- Conte, tu se' nu Papa, e t'aio detto
che no' ce che te pozza stare a petto. -

43
Gli va poscia di bocca ogni pensiero
cacciando a poco a poco, e lo millanta:
ed ei, com'è di cor pronto e leggiero,
si ringalluzza e si dimena e canta.
Gli scuopre de l'interno il falso e 'l vero,
e del disegno rio si gloria e vanta.
Nota Titta ogni cosa, e lo conforta
ch'alcun non saprà mai chi l'abbia morta.

44
Era Titta per sorte innamorato
de la moglie del conte, e mentre fue
ne la città, con atti a lei mostrato
l'avea e con voci a le serventi sue.
Or che si vede il modo apparecchiato
di far che resti il mal accorto un bue,
scrive il tutto a la donna, e in che maniera
il pazzo rio d'attossicarla spera.

45
Lo ringrazia la donna, e cauta osserva
gli andamenti del conte in ogni parte,
e informa del periglio ogni sua serva,
perché sieno a guardarla anch'esse a parte.
Il conte, fisso già ne la proterva
sua voglia, tratto avea solo in disparte
il medico Sigonio, e in pagamento
offertogli in buon dato oro ed argento,

46
se gli prepara un tossico provato,
cui rimedio non sia d'alcuna sorte:
dicendo che di fresco avea trovato
la moglie che gli fea le fusa torte,
e ch'avea risoluto e terminato
di darle di sua man condegna morte.
Lungamente pregar si fe' il Sigonio,
e al fin gli diè una presa d'antimonio.

47
Per tossico se 'l piglia il conte; e passa
a Modana improviso una mattina;
saluta la moglier che non si lassa
conoscer sospettosa, e gli s'inchina.
Va scorrendo la casa e al fin s'abbassa,
per dispensare il tossico, in cucina;
ma la trova guardata in tal maniera
che non sa come fare, e si dispera.

48
Torna a salir su per l'istessa scala
tutto affannato e conturbato in volto:
e aspetta fin che sian portati in sala
i cibi, e su la mensa il pranzo accolto.
Allora corre, e la minestra sala
de la moglier col cartoccin disciolto,
fingendo che sia pepe, e a un tempo stesso
scuote la peparola ch'avea appresso.

49
La cauta moglie e sospettosa viene,
e mentre ch'ei le man si lava e netta,
gli s'oppone co' fianchi e con le rene,
e la minestra sua gli cambia in fretta:
mostra che s'è lavata, e siede e tiene
l'occhio pronto per tutto, e non s'affretta
a mettersi vivanda alcuna in bocca
che non abbia il marito in prima tocca.

50
Il conte in fretta mangia e si diparte,
ché non vorria veder la moglie morta.
Vassene in piazza ov'eran genti sparte
chi qua, chi là, come ventura porta.
Tutti, come fu visto, in quella parte
trassero per udir ciò ch'egli apporta.
Egli cinto d'un largo e folto cerchio
narra fandonie fuor d'ogni superchio.

51
E tanto s'infervora e si dibatte
in quelle ciance sue piene di vento,
ch'eccoti l'antimonio lo combatte
e gli rivolta il cibo in un momento.
Rimangono le genti stupefatte;
ed egli vomitando, e mezzo spento
di paura, e chiamando il confessore,
dice ad ognun ch'avvelenato more.

52
Il Coltra e 'l Galiano, ambi speziali,
correan con mitridate e bollarmeno,
e i medici correan con gli orinali
per veder di che sorte era il veleno.
Cento barbieri e i preti co i messali
gl'erano intorno e gli scioglieano il seno,
esortandolo tutti a non temere
e a dir devotamente il Miserere .

53
Chi gli ficcava olio o triaca in gola,
e chi biturro o liquefatto grasso;
avea quasi perduta la parola,
e per tanti rimedi era già lasso:
quand'ecco un'improvisa cacarola
che con tanto furor proruppe a basso,
che l'ambra scoppiò fuor per gli calzoni
e scorse per le gambe in su i taloni.

54
- O possanza del ciel, che cosa è questa?
disse un barbier quando sentí l'odore;
questo è un velen mortifero ch'appesta,
io non sentii giammai puzza maggiore.
Portatel via, che s'egli in piazza resta,
appesterà questa città in poche ore. -
Cosí dicea, ma tanta era la calca,
ch'ebbe a perirvi il medico Cavalca.

55
Come a Montecavallo i Cardinali
vanno per la lumaca a concistoro
stretti da innumerabili mortali
per forza d'urti e con poco decoro;
cosí i medici quivi e gli speziali
non trovando da uscir strada né fòro,
urtati e spinti, senza legge e metro
facean due passi innanzi e quattro indietro.

56
Ma poiché l'ambracane uscí del vaso
e 'l suo tristo vapor diffuse e sparse;
cominciò in fretta ognun co' guanti al naso
a scostarsi dal cerchio e a ritirarse;
e abbandonato il conte era rimaso,
se non ch'un prete allor quivi comparse,
ch'avea perduto il naso in un incendio,
né sentia odore; e 'l confessò in compendio.

57
Confessato che fu, sopra una scala
da piuoli assai lunga egli fu posto,
e facendo a quel puzzo il popol ala,
il portâr due facchini a casa tosto:
quivi il posaro in mezzo de la sala,
chiamaro i servi, e ognun s'era nascosto;
fuor ch'una vecchia, che v'accorse in fretta
con un zoccolo in piede e una scarpetta.

58
Già pria la nuova in casa era venuta
che 'l conte si moriva avvelenato:
onde la moglie accorta e proveduta
aveva in fretta il suo destrier sellato:
e in abito virile e sconosciuta
con un cappello in testa da soldato
tacitamente già s'era partita,
e a trovar Titta al campo era fuggita.

59
A cui fatto saper con lieto aviso
che l'attendea del conte un paggio in sella
per cosa di suo gusto, a l'improviso
l'avea fatto venir dove stav'ella.
Com'egli alzò le luci al vago viso,
tosto conobbe la sua donna bella,
onde s'avventa, e de l'arcion la prende,
e la si porta in braccio a le sue tende.

60
E baciandola in bocca avidamente
or la strigne or la morde or la rimira;
ed ella in lui, fra cupida e dolente,
le belle luci sue languida gira.
Parve l'atto ad alcun poco decente
che l'ebbero per maschio a prima mira:
né distinguendo ben dal pèsco il fico,
dicevano di lui quel ch'io non dico.

61
Stette tutto quel giorno il conte in letto,
tutta la notte e la seguente ancora,
sempre con gran timor, sempre in sospetto
di doversi morire ad ora ad ora:
ond'ebbero gli amanti agio a diletto
di star anch'essi e l'una e l'altra aurora,
giunti a goder de le sciocchezze sue,
discorrendo fra lor com'ella fue.

62
Già Titta dal Sigonio intesa avea
la beffa del veleno, e l'avea detta
a la donna gentil che ne ridea
e godeva fra sé de la vendetta,
disegnando di star, s'ella potea,
col nuovo amante e non mutar piú detta:
poiché questa le par tanto sicura
che sarebbe pazzia cangiar ventura.

63
Ma il conte poi che fu certificato
dal collegio de' medici ch'egli era
fuor di periglio, a la campagna armato
uscí per ritrovar la sua mogliera.
Al campo venne: e quivi indizio dato
gli fu del suo caval da la sua schiera,
cui sopra un giovinetto era venuto,
né l'un né l'altro piú s'era veduto.

64
Il conte di trovarlo entra in pensiero,
e vuol saper chi 'l giovinetto sia;
e promette gran premio a chi primiero
indizio gli ne porta o gli ne invia.
La mattina seguente uno scudiero
gli dice che 'l caval veduto avía
ne le tende di Titta, e 'l premio chiede,
ma il conte ride e 'l suo parlar non crede.

65
E manda un uomo suo, ch'a Titta dica
quel che gli fa saper l'accusatore.
Giura Titta che questa è una nemica
fraude per sciorre un sí leale amore:
ma fra tanto si studia e s'affatica
di far tignere il pel del corridore
con un color di sandali alterato,
e di leardo il fa sauro bruciato.

66
Poi chiama il conte, e fa vedergli in prova
tutti i cavalli suoi cosí al barlume.
Il conte che 'l candor del suo non trova
e che di Titta ciò mai non presume,
si scusa che non gli era cosa nuova
de la sua limpidezza il chiaro lume.
ma tace che da lui fuggita sia
la donna che trovar cerca e desia;

67
e gli giura ch'un paggio gli ha rubato
il suo caval né sa dove sia gito;
ma se può ritrovarlo in alcun lato,
che 'l tristo ladroncel farà pentito.
Titta, che già si vede assicurato,
comincia a ruminar nuovo partito
di ritenersi ancor la donna appresso,
senza che ne sospetti il conte stesso.

68
Con lei s'accorda, e trova acqua stillata
da scorza fresca di matura noce;
e 'l bel collo e la faccia dilicata
de la donna e le man bagna veloce;
si disperde il candore, e sembra nata
in Mauritania, là dove il sol cuoce:
d'un leonato scuro ella diviene,
ma grazia in quel colore anco ritiene.

69
Come panno di grana in bigio tinto
ritiene ancor de la beltà primiera,
e nel morto color d'un nero estinto
purpureggiar si vede in vista altera;
cosí di quella faccia il color finto
ritiene ancor de la bellezza vera,
splende nel fosco, e de' begli occhi il lume
folgoreggia anco al solito costume.

70
D'una giubba azzurrina ornata d'oro
quindi ei la veste e le ricopre il seno;
e tutta d'un leggiadro abito moro
l'adorna sí, che non gli piace meno.
Indi la mostra al conte e dice: - I' moro
per questa ingrata schiava e spasmo e peno;
e a lei di me non cal, né so che farmi:
pregala conte mio che voglia amarmi. -

71
Il conte la saluta in candiotto,
ed ella gli risponde in calabrese:
- Bella mora, ei dicea, deh fate motto
al signor vostro e siategli cortese. -
Ella volgendo a Titta un guardo ghiotto,
sporge la bocca, ed ei con voglie accese
que' baci incontra, e da' bei labbri sugge
l'alma di lei che sospirando fugge.

72
Teneva il conte immoto e stupefatto
a gli amorosi baci i lumi intenti,
e gli parea che Titta fosse matto
a sentir per colei pene e tormenti.
Durava quella beffa lungo tratto:
se non che de la giovane i parenti
seppero il tutto e fer saperlo al Potta,
e subito la tresca fu interrotta.

73
Il Potta fe' condur segretamente
la donna fuor del campo; e perché Titta
percosse in quella mena un insolente
birro e gli fu grave querela scritta,
fe' pigliarlo anche lui subitamente,
e in carcere condur per la via dritta
a la città per metterlo in palazzo,
quand'egli cominciò fiero schiamazzo:

74
ch'era pariente de gliu Papa, e ch'era
baron romano, e gir bolea en castello.
Ma il buon fiscal Sudenti e 'l Barbanera
giudice criminale, e Andrea Bargello
gli mostrar con destrissima maniera
che l'albergo in palazzo era piú bello,
e che l'avrian parato e ben fornito;
onde a la fin d'andar prese partito.
CANTO UNDECIMO

ARGOMENTO
Il conte di Culagna entra in furore,
e sfida a duellar Titta prigione.
Ma, sciolto che lo vede, ci perde il core,
e cerca di fuggir dal paragone.
Vi si conduce al fine: e perditore
un nastro rosso il fa de la tenzone.
De la vittoria sua spande la nuova
Titta, e pentito poi se ne ritrova.

1
Poiché la fama al fin con mille prove
mostrò l'infamie sue scoperte al conte,
e gli fece veder come si trove
con la corona d'Atteone in fronte,
contra la moglie irato in forme nuove
si volse a vendicar l'ingiurie e l'onte;
e per farla morir con vituperio
l'accusò di veleno e d'adulterio.

2
Per tutto il campo allor si fe' palese
quel ch'era prima occulto o almeno in forse.
La donna francamente si difese,
e le querele in lui tutte ritorse;
e fe' rider ognun quando s'intese
com'ella seppe al suo periglio opporse,
e d'inganno pagar l'ingannatore,
ch'ebbe poscia a cacar l'anima e 'l core.

3
Il conte, che si vede andar fallato
contra la moglie il suo primier disegno,
pensa di vendicarsi in altro lato,
e volge contra Titta ogni suo sdegno.
sa che per ritrovarsi imprigionato,
per forza ha da tener le mani a segno.
lo chiama traditor solennemente
e aggiugne che se 'l nega, ei se ne mente;

4
e che gliel proverà con lancia e spada
in chiuso campo a publico duello;
e perché la disfida attorno vada,
la fa stampar distinta in un cartello;
e vantasi d'aver trovata strada
da non potere in qual si voglia appello
d'abbattimento o giusto o temerario
sottoporsi al mentir de l'avversario.

5
Ma gli amici di Titta avendo intesa
la disfida, s'uniro in suo favore;
e feron sí che la sua causa presa
e terminata fu senza rigore:
anzi, perch'ei serviva in quella impresa
contra Bologna e 'l Papa suo signore,
fu scarcerato come ghibellino
senza fargli pagar pur un quattrino.

6
Sciolto ch'ei fu, rivolse ogni pensiero
a la battaglia pronto e risoluto;
preparò l'armi e preparò il destriero,
né consiglio aspettò, né chiese aiuto.
Poco avanti da Roma un cavaliero
nel campo modanese era venuto,
di casa Toscanella, Attilio detto:
e fu da lui per suo padrino eletto.

7
Questi era un tal piccin pronto ed accorto,
inventor di facezie e astuto tanto,
che non fu mai Giudeo sí scaltro e scorto
che non perdesse in paragone il vanto.
Uccellava i poeti, e per diporto
spesso n'avea qualche adunata a cantO;
ma con modi sí lesti e sí faceti,
che tutti si partían contenti e lieti.

8
In armi non avea fatto gran cose,
però ch'in Roma allor si costumava
fare a le pugna, e certe bellicose
genti il governator le castigava.
ma egli ebbe un cor d'Orlando, e si dispose
d'ire a la guerra, perché dubitava
de' birri, avendo in certo suo accidente
scardassata la tigna a un insolente.

9
Il conte allor che vide al vento sparsi
tutti i disegni e 'l suo pensier fallace,
cominciò con gli amici a consigliarsi
se v'era modo alcun di far la pace.
vorrebbe aver taciuto, e ritrovarsi
fuor de la perigliosa impresa audace;
ché sente il cor che teme e si ritira,
e manca l'ardimento in mezzo a l'ira.

10
Ma il conte di Miceno e 'l Potta stesso
e Gherardo e Manfredi e 'l buon Roldano
gli furo intorno, e 'l vituperio espresso,
dov'ei cadea, gli fêr distinto e piano.
indi promiser tutti essergli appresso,
e la pugna spartir di propria mano;
ond'ei riprese core, e per padrino
s'elesse il conte dI San Valentino.

11
Questi, che ne la scherma avea grand'arte,
subito gl'insegnò colpi maestri
da ferire il nemico in ogni parte,
e modi da parar securi e destri;
indi rivide l'armi a parte a parte
del cavaliero e i guernimenti equestri.
ma un petto, senza cor, che l'aria teme,
non l'armerían cento arsenali insieme.

12
La notte a la battaglia precedente,
che fra i due cavalier seguir dovea,
volgendo il conte l'affannata mente
al periglio mortal ch'egli correa,
ricominciò a pensar tutto dolente
di nol voler tentar, s'egli potea;
e innanzi l'alba i suoi chiamò fremendo,
un gran dolor di ventre aver fingendo.

13
Il padrin, che dormía poco lontano,
tutto confuso si destò a quell'atto;
con panni caldi e una lucerna in mano
Bertoccio suo scudier v'accorse ratto:
e 'l barbier de la villa e 'l sagrestano
di Sant'Ambrogio v'arrivaro a un tratto;
e 'l provido barbier, ch'intese il male,
gli fe' subitamente un serviziale.

14
Ed egli per non dar di sé sospetto,
cheto se 'l prese e si mostrò contento;
ma fingendo che poi non fésse effetto,
né prendesse il dolore alleggiamento,
chiamò gli amici e i servidori al letto,
e disse che volea far testamento;
onde mandò per Mortalin notaio,
che venne con la carta e 'l calamaio.

15
La prima cosa lasciò l'alma a Dio,
e lasciò il corpo a quell'eccelsa terra
dov'era nato, e per legato pio
danari in bianco e quantità di terra.
indi tratto da folle e van desio
a dispensar gli arredi suoi da guerra,
lasciò la lancia al Re di Tartaria
e lo scudo al Soldan de la Soria;

16
la spada a Federico Imperatore
ed al popol romano il corsaletto;
a la reina del mar d'Adria, onore
del secol nostro, un guanto e un braccialetto;
l'altro lasciollo a la città del Fiore,
e al greco Imperator lasciò l'elmetto:
ma il cimier, che portar solea in battaglia,
ricadeva al signor di Cornovaglia.

17
Lasciò l'onore a la città del Potta,
poi fe' del resto il suo padrino erede.
D'intorno al letto suo s'era ridotta
gran turba intanto, chi a seder, chi in piede;
fra' quali stando il buon Roldano allotta,
che non prestava a le sue ciance fede,
gli dicea a l'orecchia tratto tratto:
- Conte, tu sei vituperato a fatto.

18
Non vedi che costor t'han conosciuto
che per tema tu fai de l'ammalato?
Salta su presto, e non far piú rifiuto;
ché tu svergogni tutto il parentato.
Noi spartiremo e ti daremo aiuto
subito che l'assalto è incominciato. -
Il conte si ristrigne e si lamenta,
e si vorría levar, ma non s'attenta.

19
Di tenda in tenda in tanto era volata
la fama di quell'atto, e ognun ridea.
Renoppia, che non era ancor levata,
un paggio gli mandò che gli dicea
che stava per servirlo apparecchiata,
e accompagnarlo in campo; e ben credea
ch'egli si porterebbe in tal maniera
ch'ella n'avrebbe poscia a gire altiera.

20
Quest'ambasciata gli trafisse il core
e destò la vergogna addormentata:
e cominciaro in lui viltà ed onore
a combatter la mente innamorata.
S'alza a sedere, e dice che 'l dolore
mitigato ha il favor de la sua amata,
e s'adatta a vestir, ma la viltade
finge che 'l dolor torni, e giú ricade.

21
E la pittrice già de l'oriente
pennelleggiando il ciel de' suoi colori
abbelliva le strade ad dí nascente,
e Flora le spargea di vaghi fiori;
quindi usciva del sole il carro ardente,
e di raggi e di luce e di splendori
vestiva l'aria, il mar, la piaggia e 'l monte,
e la notte cadea da l'orizonte:

22
quando comparve il conte di Miceno
col medico Cavalca in compagnia.
Il medico a l'orina in un baleno
conobbe il mal che l'infelice avía;
e fattosi recare un fiasco pieno
di vecchia e dilicata malvagía,
gli ne fece assaggiar tre gran bicchieri;
ed ei pronto gli bebbe e volontieri.

23
Cominciò il vino a lavorar pian piano,
e a riscaldar il cor timido e vile,
e a mandar al cervel piú di lontano
stupido e incerto il suo vapor sottile:
onde il conte gridò ch'era già sano,
che 'l dolor gli avea tolto il vin gentile,
e balzando del letto i panni chiese,
e tosto si vestí l'usato arnese.

24
Indi tratto fremendo il brando fuora,
tagliò Zefiro in pezzi e l'aura estiva,
e se non era il suo padrino, allora
a la battaglia senz'altr'armi ei giva.
L'almo liquor che i timidi rincora
puote assai piú che la virtú nativa;
ben profetò di lui l'antica gente
ch'era sovra ogni re forte e possente.

25
Or mentre s'arma, ecco Renoppia viene
e 'l coraggio gli adoppia e la baldanza,
che con dolci parole e luci piene
d'amor gli fa d'accompagnarlo instanza.
Egli che 'l foco acceso ha ne le vene,
commosso da desio fuor di speranza
e da furor di vino, ambo i ginocchi
a terra inchina; e dice a que' begli occhi:

26
- O del cielo d'Amor ridenti stelle
onde de la mia vita il corso pende;
d'amorosa fortuna ardenti e belle
ruote dove mia sorte or sale, or scende;
imagini del sol , vive facelle
di quel foco gentil che l'alme incende,
il cui raggio, il cui lampo, il cui splendore
ogn'intelletto abbaglia, arde ogni core:

27
occhi de l'alma mia, pupille amate,
lucidi specchi ove beltà vagheggia
sé stessa; archi celesti ond'infocate
quadrella aventa Amor ch'in voi guerreggia;
de le vostre sembianze onde il fregiate,
cosí splende il mio cor, cosí lampeggia,
ch'ei non invidia al ciel le stelle sue,
benché sian tante, e voi non piú che due.

28
Come a i raggi del sole arde d'amore
la terra e spiega la purpurea veste;
cosí a i vostri be' raggi arde il mio core,
e di vaghi pensier tutto si veste.
Quest'alma si solleva al suo fattore,
e ammira in voi di quella man celeste
le meraviglie, e dal mortal si svelle,
o degli occhi del ciel luci piú belle.

29
Rimiratemi voi con lieto ciglio
del cieco viver mio lumi fidati,
siate voi testimoni al mio periglio,
e scorgetemi voi co' guardi amati;
ché fia vana ogni forza, ogni consiglio:
cadrà l'empio e fellon ne' propri aguati,
e non che di pugnar con lui mi caglia,
ma sfiderò l'inferno anco a battaglia. -

30
Cosí detto risorge, e 'l destrier chiede
tutto foco ne gli atti e ne' sembianti;
e fa stupire ognun che l'ode e vede
sí diverso da quel ch'egli era innanti.
Ma Titta armato già dal capo al piede
con armi e piume nere e neri ammanti
in campo era comparso, accompagnato
dal solo suo padrin senz'altri a lato.

31
La desïosa turba intenta aspetta
che venga il conte, e mormorando freme;
s'empiono i palchi intorno, e folta e stretta
corona siede in su le sbarre estreme;
e da i casi seguiti omai sospetta
che 'l conte ceda, e la sua fama preme.
Quando a un tempo s'udîr trombe diverse
da quella parte, e 'l padiglion s'aperse.

32
Ed ecco, da cinquanta accompagnato
de' primi de l'esercito possente,
il conte comparir ne lo steccato
con sopravesta bianca e rilucente,
sopra un caval pomposamente armato
che generato par di foco ardente:
sbuffa, anitrisce, il fren morde, e la terra
zappa col piede e fa col vento guerra.

33
Disarmata ha la fronte, armato il petto,
nude le mani, e sopra un bianco ubino
gli va innanzi Renoppia, e 'l ricco elmetto
gli porta; e 'l buon Gherardo il brando fino,
il brando famosissimo e perfetto
di Don Chisotto; e 'l fodro ha il suo padrino.
Ha Voluce lo scudo, e seco a canto
Roldan la lancia, e Giacopino un guanto;

34
l'altro ha Bertoldo, e l'uno e l'altro sprone
gli portano Lanfranco e Galeotto,
e 'l conte Alberto in cima d'un bastone
la cuffia da infodrar l'elmo di sotto:
ma dietro a tutti fuor del padiglione
l'interprete Zannin venía di trotto
sopra d'un asinel, portando in fretta
l'orinale, una ombrella e una scopetta.

35
Armato il cavalier di tutto punto
e compartito il sole a i combattenti,
diede il segno la tromba, e tutto a un punto
si mossero i destrier come due venti.
Fu il cavalier roman nel petto giunto,
ma l'armi sue temprate e rilucenti
ressero, e 'l conte a quell'incontro strano
la lancia si lasciò correr per mano.

36
Ei fu colto da Titta a la gorgiera
tra il confin de lo scudo e de l'elmetto
d'una percossa sí possente e fiera
che gli fece inarcar la fronte e 'l petto.
Si schiodò la goletta, e la visiera
s'aperse, e diede lampi il corsaletto;
volaro i tronchi al ciel de l'asta rotta,
e perdé staffe e briglia il conte allotta.

37
Caduta la visiera il conte mira,
e vede rosseggiar la sopravesta:
e - Oimé son morto, - e' grida; e 'l guardo gira
a gli scudieri suoi con faccia mesta;
- Aita, che già 'l cor l'anima spira,
replica in voce fioca, aita presta. -
Accorrono a quel suon cento persone,
e mezzo morto il cavano d'arcione.

38
Il portano a la tenda, e sopra un letto
gli cominciano l'armi e i panni a sciorre,
il chirurgo cavar gli fa l'elmetto,
e 'l prete a confessarlo in fretta corre.
Tutti gli amici suoi morto in effetto
il tengono: e ciascun parla e discorre
che non era da porre a tal cimento
un uom privo di forza e d'ardimento.

39
Ma Titta poi che l'avversario vede
per morto riportar ne le sue tende,
passeggia il campo a suon di trombe, e riede
dove la parte sua lieta l'attende;
fastoso è sí che di valor non cede
a Marte stesso; e de l'arcion discende,
e scrive pria che disarmar la chioma,
e spedisce un corriero in fretta a Roma.

40
Scrive ch'un cavalier d'alto valore
di quelle parti, uom tanto principale
che forse non ve n'era altro maggiore
né ch'a lui fosse di possanza eguale,
avuto avea di provocarlo core,
e di prender con lui pugna mortale;
e ch'esso de gli eserciti in cospetto
gli avea passato al primo incontro il petto.

41
Spedí il corriero a Gaspar Salviani
decan de l'Accademia de' Mancini,
che ne desse l'aviso a i Frangipani
signor di Nemi e a i loro amici Ursini,
e al Cavalier del Pozzo e a i due romani
famosi ingegni, il Cesi e 'l Cesarini,
et al non men di lor dotto e cortese
Sforza gentil Pallavicin Marchese;

42
che tutti disser poi ch'egli era matto,
quando s'intese ciò ch'era seguito.
Intanto avean spogliato il conte, a fatto
dal terror de la morte instupidito;
e gían cercando due chirurghi a un tratto
il colpo onde dicea d'esser ferito:
né ritrovando mai rotta la pelle
ricominciâr le risa e le novelle.

43
Il conte dicea lor: - Mirate bene,
perché la sopravesta è insanguinata;
e non dite cosí per darmi spene,
ché già l'anima mia sta preparata:
venga la sopravesta. - E quella viene,
né san cosa trovar di che segnata
sia, né ch'a sangue assomigliar si possa,
eccetto un nastro o una fetuccia rossa

44
ch'allacciava da collo, e sciolta s'era
e pendea giú per fino a la cintura.
Conobber tutti allor distinta e vera
la ferita del conte e la paura.
Egli accortosi al fin di che maniera
s'era abbagliato, l'ha per sua ventura,
e ne ringrazia Dio levando al cielo
ambe le mani e 'l cor con puro zelo.

45
E a Titta e a la moglier sua perdonando
si scorda i falli lor sí gravi e tanti,
e fa voto d'andar pellegrinando
a Roma a visitar que' luoghi santi,
e dare in tanto a la milizia bando
per meglio prepararsi a nuovi vanti.
Cosí il monton che cozza, si ritira
e torna poi con maggior colpo ed ira.

46
Ma come a Roma poi gisse e trattasse
in camera col Papa a grand'onore,
e l'alloggio per forza ivi occupasse
ne l'albergo real d'un mio signore,
e quindi poscia in Bulgaria levasse
co la possanza sua, col suo valore
a quel becco del Turco un nuovo stato,
fia da piú degno stil forse cantato:

47
ché versi non ho io tanto sonori
che bastino a cantar sí belle cose.
E torno a Titta, che già uscendo fuori,
poi che a la tenda sua l'armi depose,
pel campo se ne gía sbuffando orrori
con sembianze superbe e dispettose;
quando accertato fu che la ferita
del conte nel cercar s'era smarrita.

48
Qual leggiero pallon di vento pregno
per le strade del ciel sublime alzato,
s'incontra ferro acuto o acuto legno,
si vede ricader vizzo e sfiatato;
tale il Romano altier, che fea disegno
d'essersi con quel colpo immortalato,
sgonfiossi a quell'aviso, e di cordoglio
parve un topo caduto in mezzo a l'oglio.

49
Ma il padrin ch'era accorto, il confortava
e dicea: - Titta mio, non dubitare:
non è bravo oggidí se non chi brava,
e, come diciam noi, chi sa sfiondare.
Se per vinto e per morto or or si dava
il conte e al padiglion si fea portare:
perché non possiam noi per tale ancora
nominarlo a le genti in campo e fuora?

50
A te deve bastar ch'egli sia vinto
al primo colpo tuo; ché s'ei non muore,
non fu il tuo fin ch'ei rimanesse estinto,
ma sol di rimaner tu vincitore.
Lascia correr la fama, o vero o finto
che sia questo successo, egli è a tuo onore;
ed io farò che immortalato resti
da la musa gentil di Fulvio Testi.

51
Fulvio col conte ha non vulgari sdegni,
e canterà di te l'armi e gli amori;
dirà l'alte bellezze e i fregi degni
ch'ornan colei ch'idolatrando adori;
le compagnie d'ufficio, i censi e i pegni
che per lei festi già su i primi fiori;
e i casali e le vigne e gli altri beni
c'hai spesi in vagheggiar gli occhi sereni.

52
Gran contento a gli amanti e gran diletto
che possano veder le luci amate,
che portano squarciati i panni al petto
per godere il tesor di lor beltate!
Povero e ignudo Amor senza farsetto
dipinse con ragion l'antica etate,
ché spoglia chi per lui s'affligge e suda,
e lo fa vago sol di carne ignuda.

53
Fra i successi d'amor canterà l'armi
e l'imprese ch'hai fatte in questa guerra;
e con sonori e bellicosi carmi
eternerà la tua memoria in terra.
E già di rimirar la Fama parmi
trombeggiando volar di terra in terra,
e contra 'l papa di tua mano a i venti
la bandiera spiegar de' malcontenti. -

54
Cosí ragiona il Toscanella e ride,
e Titta ride anch'ei per compagnia;
ma l'amaro dal cor non si divide,
ché non sa ricoprir sí gran bugia.
Stette pensando un pezzo, e poi che vide
di non poter scusar la sua follia,
di far morire il conte entrò in pensiero
per sostener ch'egli avea scritto il vero.

55
S'armò d'un giacco e con la spada a lato
l'andò subitamente a ritrovare.
Il conte a Sant'Ambrogio era passato
e stava con que' preti a ragionare;
Titta gli fece dir per un soldato
ch'uscisse fuor, che gli volea parlare;
il conte caricò la sua balestra,
e s'affacciò di sopra a una finestra.

56
E a Titta domandò quel che chiedea,
ed ei rispose che venisse giuso;
il conte si scusò che non potea;
e vedendo che l'uscio era ben chiuso,
disse che se trattar seco volea,
trattasse quivi, o ch'egli andasse suso.
Titta allor furiando si scoperse,
e l'oltraggiò con villanie diverse.

57
Ma il conte rispondea con lieta ciera:
- Voi siete un uom di pessima natura,
a tener l'ira una giornata intiera;
io deposi la mia con l'armatura.
Non occorre a far qui l'anima fiera
con spampanate per mostrar bravura;
io v'ho reso buon conto in campo armato
e son stato con voi ne lo steccato.

58
Quand'anch'io irato fui con l'armi in mano,
voi dovevate allor sfogarvi a fatto.
Or, Titta mio, voi v'affannate in vano,
ch'io non ho tolto a sbizzarrire un matto.
Andate, e come avrete il cervel sano
tornate, e so che mi farete patto.
Io non ho da partir nulla con voi,
però dormite e riparlianci poi. -

59
Titta ricominciò: - Becco e poltrone,
t'insegnerò ben io,;vien fora, vieni. -
Piú non rispose il conte a quel sermone,
ma destò anch'egli al fine i suoi veleni;
e scoccò la balestra, e d'un bolzone
il colse a punto al sommo de le reni
sí fieramente che lo stese in terra,
e saltò fuori a discoperta guerra,

60
gridando: - Per la gola te ne menti,
romaneschetto, furbacciotto, spia. -
Titta aveva offuscati i sentimenti,
e a gran fatica il suo parlar sentía.
Ma saltaron color ch'eran presenti
subito in mezzo, e ognun gli dipartía:
e condussero Titta al padiglione
dilombato e che gía quasi carpone.

61
Quivi dal Toscanella ei fu burlato
che dovendo levare al ciel le mani
d'aver l'emulo suo vituperato,
fosse entrato in umor bizzarri e strani
di volerlo ancor morto; e stuzzicato
sí l'avesse con atti e detti insani,
che d'una rana imbelle e senza morso
l'avesse al fin mutato in tigre, in orso.

62
- Se tu disprezzi la vittoria, disse,
che puoi tu dir s'ella da te s'invola?
Chi va cercando e suscitando risse,
non sa che la fortuna è donna e vola. -
Tenea Titta le luci in terra fisse
mesto ed immoto, e non facea parola.
Ma tempo è omai di richiamar gli accenti
a i fatti de gli eserciti possenti.
CANTO DUODECIMO

ARGOMENTO
Cessa la tregua, e la vittoria pende.
Il papa in Lombardia manda un Legato.
Sprangon su 'l ponte a guerreggiar discende,
onde sospinto poi resta affogato.
Sono rotti e Petroni entro le tende,
e ammolliscono il cor duro ostinato.
S'interpone il Legato a tanti mali;
e si fa pace alfin con patti uguali.

1
Le cose de la guerra andavan zoppe,
i Bolognesi richiedean danari
al papa, ed egli rispondeva coppe,
e mandava indulgenze per gli altari.
Ma Ezzelino i disegni gl'interroppe
col soccorso che diede a gli avversari:
allora egli lasciò di fare il sordo,
e scrisse al Nunzio che trattasse accordo.

2
Indi spedí Legato il Cardinale
messer Ottavian de gli Ubaldini,
uomo ch'in zucca avea di molto sale
ed era amico a i Guelfi e a i Ghibellini;
e gli diede la spada e 'l pastorale
che potesse co' fulmini divini
e con l'armi d'Italia opporsi a cui
rifiutasse la pace e i preghi sui.

3
Fece il Legato subito partita
con bella corte e numerosa intorno.
Ma la tregua fra tanto era finita,
e a l'armi si tornò senza soggiorno.
Facevano i guerrier su 'l ponte uscita
per guadagnarlo: e quivi notte e giorno
si combattea con sí ostinato ardire
che 'l fior de' cavalier v'ebbe a morire.

4
Fra gli altri giorni quel di San Matteo,
de l'uno e l'altro esercito avvocato,
sí fieramente vi si combatteo
che tutto 'l fiume in sangue era cangiato.
Prove eccelse Perinto e Periteo
feron col brando; ma da l'altro lato
minori non le fe' Renoppia bella,
d'alto pugnando a colpi di quadrella.

5
Su la torre vicina armata ascese,
che fu di Sant'Ambrogio il campanile;
e per compagne sue seco si prese
Celinda e Semidea coppia gentile.
Quivi l'arco fatal l'altera tese:
e sdegnando ferir bersaglio vile,
furon da lei le piú degne alme sciolte,
e votò la faretra cinque volte.

6
Paride Grassi e 'l cavalier Bianchini
su 'l ponte uccise e Alfeo degli Erculani;
su la riva l'alfier de' Lambertini,
Pompeo Marsigli e Cosimo Isolani;
Lapo Bianchetti e Romulo Angelini,
Gabrio Caprari e Barnaba Lignani
giú nel fondo trafisse, e due cognati
Fulgerio Cospi e Lambertuccio Grati.

7
A Petronio Sampier, ch'innanzi al ponte
facea la strada a quei de la Crocetta,
drizzò l'arco Celinda e ne la fronte
gli affisse la mortal fera saetta.
Nel collo Semidea ferí Bonconte
Beccatelli, ch'uccisi in quella stretta
avea Anton Borghi e Gemignan Colombo,
e lo fece cader nel fiume a piombo.

8
Fu Girolamo Preti anch'ei ferito,
poeta degno d'immortali onori
che quindici anni in corte avea servito
nel tempo che puzzar soleano i fiori.
Col collare a lattughe era vestito,
tutto di seta e d'òr di piú colori:
ond'al primo apparir ch'ei fece in campo,
Renoppia di sua man trasse a quel lampo.

9
Tra 'l collo e le lattughe andò a ferire,
e pelle pelle via passò lo strale.
Ei si sentí la guancia impallidire,
ché dubitò la piaga esser mortale.
L'accortezza e 'l saver nocque a l'ardire
che gli affissò la mente al proprio male,
e in cambio di pensare a la vendetta,
correre il fece a medicarsi in fretta.

10
Ei nondimen scusandosi dicea
che pugnar con le dame era atto vile,
ma pazzo ardir contra colei ch'avea
la sua franchigia in cima a un campanile.
In tanto da uno stral di Semidea
fu morto a piè del ponte Andrea Caprile
ch'avea quella mattina un frate ucciso:
la balestra del ciel scocca improviso.

11
E se non che la notte intorno ascose
l'aurea luce del sol col nero manto,
imprese vi seguían maravigliose
ch'avrebbon desti i primi cigni al canto.
Taciute avria quell'armi sue pietose
il Tasso, e 'l Bracciolino il legno santo,
il Marino il suo Adon lasciava in bando,
e l'Ariosto di cantar d'Orlando.

12
Giunto a Genova in tanto era il Legato;
e 'l Nunzio da Bologna gli avea scritto
ch'egli sarebbe ad incontrarlo andato
prima ch'ei fesse a Modana tragitto.
Ma egli, ch'a lo studio avea imparato
che fa la maestà poco profitto
se le manca il poter, senza intervallo
assoldando venía gente a cavallo.

13
E 'l papa già co' Genovesi avea
d'un mezzo million fatto partito,
talché sicuramente egli potea
ragunar soldatesca a suo appetito.
Ma il trascorrer qua e là ch'egli facea
il trasse fuor del camin dritto e trito,
fin che con lunga ed onorata schiera
egli arrivò ne' prati di Solera.

14
Quivi stanco dal caldo e fastidito
fermossi a l'ombra, e d'aspettar dispose
il Nunzio, a cui già un messo avea spedito
per intender da lui diverse cose.
In tanto i servi suoi su 'l verde lito
vivande apparecchiâr laute e gustose,
ed egli in fretta trattisi gli sproni
mangiò per compagnia cento bocconi.

15
Mangiato ch'ebbe, sté sovra pensiero
rompendo certi stecchi di finocchi;
indi venner le carte e 'l tavoliero,
e trasse una manciata di baiocchi,
e Pietro Bardi e Monsignor del Nero
si misero a giucar seco a tarocchi;
e 'l conte d'Elci e Monsignor Bandino
giucarono in disparte a sbarraglino.

16
Poi ch'ebbero giucato un'ora e mezzo
levossi, e que' prelati a sé chiamando,
con gusto andò con lor cacciando un pezzo
i grilli che per l'erba ivan saltando.
Cosí l'ore ingannava, e al fresco orezzo
la venuta del Nunzio attendea; quando
di persone e di bestie ecco un drappello
guastò la caccia ch'era in su 'l piú bello.

17
Eran questi una man d'ambasciatori
da Modana mandati ad invitarlo
con muli e carri e cocchi e servidori
e molta nobiltà per onorarlo;
ben ch'avesse Innocenzio e i decessori
data lor poca occasion di farlo,
essendo i Modanesi a quella corte
esclusi da ogni onor d'infima sorte;

18
non perché avesse alcun mai tradimento
usato nel servir la Santa Sede,
ma perché avean con lungo esperimento
a Cesare serbata ottima fede.
Quel che dovea servir d'incitamento
per onorar di nobile mercede
la costanza e 'l valor, servía d'ordigno
per accendere i cor d'odio maligno.

19
Or al Legato que' signor portaro
rinfrescamenti di diverse sorte,
di trebbian perfettissimo un quartaro,
e in sei canestre ventiquattro torte,
e una misura, che tenea un caldaro,
di sughi d'uva non piú visti in corte,
e per cosa curiosa e primaticcia
quarantacinque libre di salciccia.

20
Ringraziolli il Legato, e que' regali
dividendo fra' suoi l'invito tenne;
e fra tanto col feltro e gli stivali
il Nunzio per la posta sopravenne;
e informandol di tutti i principali
motivi, seco a la città se 'n venne:
la qual s'affaticò con ogni onore
di trarre il papa del passato errore.

21
Si rinovò la tregua, e ad incontrarlo
uscí de la città tutto il Consiglio,
e fin le dame uscir per onorarlo
fuor de la porta inverso il fiume un miglio.
Preparossi il castel per alloggiarlo
con paramenti di tabbí vermiglio:
corsesi un palio, e fessi una barriera,
e in maschera s'andò mattina e sera.

22
Il Nunzio ragunar fece il Senato
ne la sala maggiore il dí seguente,
dove con pompa grande entrò il Legato
benedicendo nel passar la gente.
Sotto un gran baldacchino di broccato
stava la sedia sua molto eminente;
e quindi ei cominciò, grave e severo
a parlare a quei vecchi dal braghiero:

23
- Il papa, ch'è signor de l'universo
e del gregge di Dio padre e pastore,
veduto fra le cure ov'egli è immerso
d'una favilla uscir cotanto ardore,
al ben comun da quel desio converso
che spira e muove in lui l'eterno amore,
pace vi manda; o vi dinunzia guerra,
se voi la ricusate, in cielo e in terra.

24
Quello che io dico a voi, dico al nemico
vostro, ché 'l papa a tutti è giusto Padre:
e se ben voi per retto e per oblico
foste sempre ribelli a la gran Madre,
e novamente a l'empio Federico
congiunti avete e gli animi e le squadre;
non vuol però che d'alcun vostro gesto
s'abbia memoria o sentimento in questo.

25
E mi manda a trattar pace fra voi
con patti uguali; e mi comanda ch'io
in armi debba aver fra un mese o doi
dieci mila cavalli al voler mio
per rintuzzar chi fia ritroso a i suoi
santi disegni, al suo voler restio:
e a Genova i contanti hammi rimesso,
e trenta compagnie già son qui appresso:

26
e promette di darmi il re di Francia
dodici mila fanti infra due mesi,
sí che 'l fondarsi in altro aiuto è ciancia.
Né piú sia detto a voi che a i Bolognesi.
Il Papa sa che a correr questa lancia
i danari di Dio fien meglio spesi
ch'in erger torri e marmi in sua memoria
d'armi e nomi scolpir, fumi di gloria. -

27
Era capo di banca allor per sorte
un Giacopo Mirandola, uom feroce,
nemico aperto a la romana corte,
turbulento di cor, pronto di voce.
Questi volgendo a le ragioni accorte
del romano Legato il dir veloce,
con quella autorità ch'avuta avea,
cosí parlò dal luogo ove sedea:

28
- Il papa è papa e noi siam poveretti,
nati, cred'io, per non aver che mali;
e però siam da lui cosí negletti
e al popol fariseo tenuti eguali.
Se per tiepidità noi siam sospetti,
per diffidenza voi ci fate tali;
ma se per troppo ardor, che possiam dire
se non che 'l vostro giel nol può soffrire?

29
Fra i divoti di Dio noi siamo soli
che non godiam di quel ch'a gli altri avanza,
né possiamo ottener come figlioli
nel paterno retaggio almen speranza.
vengono genti da gli estremi poli
e trovano appo voi felice stanza:
noi soli siam da gli avversari nostri
per esempio di scherno a dito mostri.

30
Se in lupi si trasformano i pastori,
gli agnelli diverran cani arrabbiati:
che fra gli oltraggi quei sono i peggiori
che ci fanno color ch'abbiamo amati.
Ma da noi Federico armi ed onori
però ch'in libertà ci ha conservati:
egli tratta con noi con cor sincero,
e noi serbiamo fede al sacro Impero.

31
Né deve minor lode esser a nui,
il conservar la libertade antica,
ch'a gli altri l'occupar gli stati altrui
e la fede ingannar di gente amica.
Questo dico a chi tocca e non a vui,
che se 'l papa si studia e s'affatica
di porne in pace con paterno zelo,
ne debbiamo levar le mani al cielo;

32
quantunque non rispondano a le prove
quel terzo ch'ei mandò di Perugini,
e questo monsignor che fa da Giove
co i fulmini ch'avventa a i Ghibellini;
però s'amor, se carità lo muove,
se lo spirto di Dio spira i suoi fini,
deh cessi il mal influsso a questa terra,
e faccia il Papa a gl'infedeli guerra:

33
ché noi siam pronti a riverire i suoi
santi pensieri e far ciò ch'egli impone,
e a por liberamente in mano a voi
ogn'arbitrio di pace, ogni ragione.
L'onore intatto resti, e sia di noi
quel che v'aggrada, acciò ch'al paragone
piú non abbiamo a rassembrar bastardi
tra i vostri figli a gli altrui biechi sguardi.

34
Ché quell'armi ch'or voi depor ci fate,
se verrà tempo mai ch'uopo ne sia,
se verrà tempo mai che le chiamiate
o in Mauritania o a i regni di Soria,
vi seguiran nel mar fra l'onde irate,
vi seguiran per solitaria via,
saran le prime a disgombrarvi i passi,
onde a la gloria e a la salute vassi. -

35
Qui il Mirandola tacque, e 'l concistoro
tutto levossi a gridar - Pace, pace. -
- E pace sia, rispose a un tempo loro
il discreto pastor, s'ella vi piace,
per me non fia che di sí bel tesoro
questa vostra città resti incapace:
né i Tedeschi, cred'io, l'impediranno,
ch'omai confusi e mal condotti stanno.

36
E 'l papa contra lor mosse in battaglia,
non contra voi, la gente perugina,
se non era con voi questa canaglia,
egli impedita avría tanta ruina.
Or ha segnata Dio giusta la taglia
e versata ha su 'l mal la medicina.
Siate voi piú devoti e men bizzarri,
e camminate per la via de' carri. -

37
Col fin de le parole in piè levato
uscí dov'eran dame e cavalieri:
poi fe' chiamare i primi del senato,
e consultò con loro i suoi pensieri.
In Modana due dí stette il Legato
fra giostre e feste e musiche e piaceri:
il terzo se n'andò verso Bologna
per dar l'ultimo unguento a tanta rogna.

38
Gli donò la città trenta rotelle,
e una cassa di maschere bellissime,
e due some di pere garavelle,
e cinquanta spongate perfettissime,
e cento salcicciotti e due cupelle
di mostarda di Carpi isquisitissime,
e due ciarabottane d'arcipresso,
e trenta libre di tartufi appresso.

39
Fu da mille cavalli accompagnato
da la città fino a i vicini lidi,
dove trovò l'esercito schierato
che 'l ricevé con suon di trombe e gridi.
Il ponte e la riviera indi passato,
da i Bolognesi e loro amici fidi
fu ricevuto, e circa le vent'ore
giunse a la lor città con grande onore.

40
Il dí che venne, per trattenimento
le spoglie gli mostrâr del campo rotto,
prigioni, armi, bandiere e ogni stormento,
e fu in trionfo anch'egli il Re condotto.
Indi per allegrezza il Reggimento
gittò dalle finestre un porco cotto,
ordinando che 'l dí de la vittoria
cosí si fesse ogn'anno in sua memoria.

41
Fece il Legato poi la sua ambasciata
nel publico Consiglio, e non fu intesa
con quella attenzion ch'imaginata
s'era nel cominciar di quella impresa.
Parea strano a ciascun che terminata
fosse con pari onor quella contesa,
e rivolean la Secchia ad ogni patto,
e non volean che 'l Re fésse riscatto.

42
Proponeva il Legato un mezzo onesto,
che ritenendo il Re ch'avean prigione,
rimettessero poscia in quanto al resto
ne l'arbitrio del Papa ogni ragione.
E quando ancor gli trovò sordi in questo,
né gli poté mutar d'opinione:
- Dunque, disse sdegnato, i nostri amici
han minor fede in noi che gli nemici?

43
Or vi farò veder quello ch'importe
il disprezzar l'autorità papale. -
Cosí disse, e non pur fuor de le porte
che chiudean le superbe e ricche sale,
ma di Bologna uscí con la sua corte;
e volgendo il cammin verso il Finale,
il Paulucci avisò ch'immantenente
il seguisse al Bonden con la sua gente;

44
dove dovea trovarsi il giorno appresso
Azio d'Este figliol d'Aldobrandino,
e quivi esser da lui poscia rimesso
nel ferrarese antico suo domino;
come gli avea ordinato il Papa stesso
con un breve, da poi ch'ei fu in cammino:
e a un tempo fur da lui tutti chiamati
i cavalli ch'adietro avea lasciati.

45
Salinguerra, ch'intese il suo periglio,
tosto del ponte abbandonò l'impresa,
e tornando a Ferrara, in iscompiglio
ritrovò la città già mezza presa.
Ma risoluti a non mutar consiglio
s'ostinaron via piú ne la contesa
i Petroni, e stimâr cosa leggiera
l'aver perduta e l'una e l'altra schiera.

46
Da l'altra parte i Gemignani volti
al lor vantaggio, avean con segretezza
danari a cambio da i Lucchesi tolti
e assoldata milizia a l'armi avezza;
e avendo i Padovani in campo accolti
senza segno di tromba e d'allegrezza,
si mostravan d'ardir, di forze impari
per crescer confidenza a i temerari.

47
E 'n tanto preparar feano in disparte
ordigni da trattar notturno assalto,
ponti da tragittar da l'altra parte,
saette ardenti da lanciar in alto,
fuochi composti in varie guise ad arte
ch'ardean ne l'acqua e su 'l terreno smalto,
falci dentate e machine diaboliche
che non trovaron mai le genti argoliche.

48
Tre giorni senza uscir de la trinciera
stettero i Padovani e i Modanesi:
ed ecco il quarto con sembianza altiera
fuor de' ripari uscir de' Bolognesi,
e su 'l ponte calar da la riviera,
tutto coperto di ferrati arnesi,
un fanton di statura esterminata
nominato Sprangon da la Palata.

49
Un celaton di legno in testa avea
graticciato di ferro, e al fianco appesa
una spada tedesca, e in man tenea
imbrandita una ronca bolognesa.
Quindi volto a i nemici egli dicea:
- O Pavanazzi da la panza tesa,
quando volidi uscir di quelle tane
valisoni da trippe trevisane?

50
Fra tanti poltronzon j n'è neguno
ch'apa ardimento de vegnir qua fora
a far custion con mi, fina che l'uno
sipa vittorios e l'altro mora? -
Cosí dicea, né rispondeva alcuno
a la superba sua disfida allora:
ma non tardò ch'a rintuzzar quel fiero
da l'antenoree tende uscí un guerriero.

51
Lemizio fu nomato o Lemizzone,
piccolo e grosso e di costumi antico,
avea ne la man destra un rampicone,
e sopra la celata un pappafico;
ne la manca una targa di cartone
foderata di scotole di fico:
del resto in giubberel con le gambiere
parea un saltamartin proprio a vedere.

52
Rise Sprangon vedendolo su 'l ponte,
e motteggiollo e dileggiollo assai,
chiamandolo aguzzin di Rodomonte,
stronzo d'Orlando, ambasciator de' guai.
Volgendo Lemizzon l'ardita fronte
rispose: - Al cospettazzo, e che dirai
burto porco arlevò col pan de sorgo,
se te fazzo sbalzar zoso in quel gorgo? -

53
Alza la ronca a quel parlar Sprangone,
e mena per dividergli le ciglia;
Lemizzone la targa al colpo oppone,
v'entra un palmo la punta e vi s'impiglia:
ei la targa abbandona, e 'l rampicone
gli avventa a l'elmo, e ne' graticci il piglia;
e tira con tant'impeto a traverso,
che 'n riva al ponte il fa cader riverso.

54
Sprangon tocca del cul su 'l ponte a pena,
che balza in piedi, e la sua ronca gira
con quella targa infitta, e su la schiena
ferisce Lemizzon che si ritira.
Lemizzon de l'uncino a un tempo mena,
ma non va il colpo ove drizzò la mira;
segnava a la visiera, e giú discese,
e ne la stringa de' calzoni il prese.

55
Con le ginocchia e con le mani in terra
Lemizzon cade, e fa cader con esso
le brache di Sprangon, ch'a sorte afferra
col raffio ch'abbassò nel tempo stesso:
ma da la ronca a quel colpir si sferra
lo scudo del carton spezzato e fesso:
onde l'ardito Lemizzon che vede
il rischio, salta in un momento in piede;

56
e Sprangon, ch'a sbrigar le gambe attende,
urta per fianco e giú da l'orlo il getta.
Sprangon cadendo in una mano il prende,
e 'l rapisce con lui per sua vendetta.
ravviluppato l'un con l'altro scende;
ma nel cader si distaccaro in fretta:
batton su l'onda e vanno al fondo insieme;
l'acqua rimbalza e 'l lido intorno freme.

57
Lemizzon, ch'è piú sciolto e piú spedito,
soffia le spume e 'l volto alza da l'onda,
e poi ch'ha scorto ov'è sicuro il lito,
passa notando in su l'amica sponda:
ma da le brache sue l'altro impedito
e da l'armi, restò ne la profonda
voragine affogato e quivi giacque,
cibo de' pesci e impedimento a l'acque.

58
Ramiro Zabarella, un cavaliero
il piú gentil che fosse a' giorni sui
ma disdegnoso e furibondo e fiero
con chi volea pigliar gara con lui,
comparve armato sopra un gran destriero,
dopo che Lemizzon chiarí colui;
e disse: - O Bolognesi, oggi la vostra
disfida féste, e noi farem la nostra.

59
Però doman su questo ponte stesso
tutti vi sfido a singolar battaglia
con lancia e spada, acciò che meglio espresso
si vegga chi di noi piú in armi vaglia. -
Qui tacque il Zabarella, e seguí appresso
il grido universal de la canaglia:
e fu accettata la disfida altiera
da i cavalier de la contraria schiera.

60
Era ne la stagion ch'i sensi invita
a ristorarsi omai la notte bruna,
e con luce scemata e scolorita
s'era congiunta al sol l'umida luna:
la gente di Bologna, insuperbita
dal passato favor de la fortuna,
dormía secura in aspettando l'ora
ch'esca Ramiro a la battaglia fuora.

61
Quand'ecco a l'arma a l'arma, e d'oriente
volando il grido a mezzogiorno arriva,
a l'arma a l'arma s'ode a l'occidente,
rimbomba l'aria e fa tremar la riva.
La sonnacchiosa e spaventata gente
sorgea confusa; e quinci e quindi giva,
ravvolgendo e intricando ordini e schiere,
e cercando a lo scuro armi e bandiere.

62
Avean taciuto i Modanesi un pezzo
per cogliere il nemico a l'improviso,
e da piú parti riserrarlo in mezzo
per farlo rimaner vie piú conquiso,
parendo lor che la vittoria avezzo
l'avesse a trascurar quasi ogn'aviso.
Presero il tempo e 'l ritrovâr distratto
e da simil pensier lontano affatto.

63
Correano a gara i capitani al ponte,
dove maggior periglio esser parea:
e quivi il furibondo Eurimedonte
col destriero ingombrato il varco avea;
e in minacciosa e formidabil fronte,
con la spada a due man ferendo, fea
smembrati e morti giú da l'alta sponda
cavalli e cavalier cader ne l'onda.

64
A Petronio Casal divise il volto
fra l'uno e l'altro ciglio in fino al petto;
a Gian Pietro Magnan, ch'a lui rivolto
già tenea per ferirlo il brando eretto,
troncò la mano e aperse il fianco, e sciolto
trasse lo spirto fuor del suo ricetto;
e partito dal collo a una mammella
Ridolfo Paleotti uscí di sella.

65
Ma di gente plebea n'uccide un monte
che s'erge sovra l'onda e innanzi passa;
seguono i Padovani; e già del ponte
le steccate e le sbarre addietro lassa.
Quindi ne le trinciere urta per fronte
e le rompe, le sparge e le fracassa;
si rinforza il nemico, e fa ogni prova
contra tanto furor, ma nulla giova;

66
ché da levante vien per fianco il forte
Gherardo a un tempo, e da ponente viene
Manfredi, e l'uno e l'altro ha in man la morte,
e fa di sangue rosseggiar l'arene.
trasser le genti lor con pari sorte
di là da l'onda, e per le rive amene
taciti costeggiando a un punto furo
sopra i nemici incauti al ciel oscuro.

67
A prima giunta in cento parti e cento
acceso fu ne' palancati il foco:
crebbe la fiamma e la diffuse il vento,
e l'inimico a quel terror diè loco.
Urtando i Gemignani, e al violento
impeto loro ogni riparo è poco.
Da l'altra parte i Padovani anch'essi
hanno già i primi in su l'entrata oppressi.

68
Varisone, fratel di Nantichiero,
che Barisone ancor fu nominato,
uccise Urban Guidotti e Berlinghiero
dal Gesso, e 'l Manganon da Galerato.
Seco avea Franco e 'l valoroso Alviero
e don Stefano Rossi, a cui fu dato
il cognome a l'uscir di quel periglio,
perché tutto di sangue era vermiglio.

69
Al pretor di Bologna intorno stanno
tutti i primi guerrier del campo armati:
egli che vede la ruina e 'l danno
e non può riparar da tanti lati
esce da tramontana; e se ne vanno
di Castelfranco a i muri abbandonati:
e si riparan quivi, e quivi accolte
sono le genti rotte in fuga volte.

70
Il popolo di Fano e di Cesena
restò col fior de' Milanesi estinto;
de' Ravennati e Forlivesi a pena
fu ricondotto a Castelfranco il quinto;
preso il carroccio, ogni campagna piena
di morti, ogni sentier di sangue tinto;
gli alloggiamenti e la nemica preda
restaro al foco e a le rapine in preda.

71
Piú non tornaro al ponte i Modanesi,
ma a Castelfranco fêr passar la gente:
e quivi furo i padiglioni tesi
poco distanti al lato di ponente,
dove ancor sono i margini difesi
da una trinciera quadra ed eminente,
che può veder passando in su la strada
qualunque dal castello al fiume vada.

72
Tiraro il dí seguente una trinciera
i Bolognesi fuor de la muraglia,
e quivi usciro armati a la frontiera
contra i nemici in atto di battaglia:
ma stetter poi cosí fino a la sera,
per mostrar di non ceder la puntaglia.
E in tanto il Reggimento avea mandato
un messo in fretta al Cardinal Legato;

73
cui chiedendo perdon del folle eccesso,
d'aiuto il supplicava e di consiglio
con libero e assoluto compromesso,
pur che levasse i suoi fuor di periglio.
Egli, dissimulando il gusto espresso
di vedergli abbassato il superciglio,
mostrò dolersi de l'avuta rotta;
e fe' ritorno a la città del Potta.

74
Quivi accolto in Senato ei disse: - Amici,
io torno a voi con quell'istessa fede
ch'io ritrassi l'altrier, che i benefici
non mi faceano ancor sperar mercede.
Voi, ch'io credea di ritrovar nemici,
féste donna di voi la Santa Sede;
e i nostri amici vecchi insuperbiti
mutaron fede e ne lasciar scherniti.

75
Or ha l'orgoglio lor Dio rintuzzato:
io che 'l sentiero a la vittoria ho fatto,
che 'l terzo di Perugia ho lor levato,
che Salinguerra fuor del campo ho tratto,
l'arbitrio che da voi pria mi fu dato
vi ridomando, ma però con patto
che debba l'onor vostro esser securo;
e cosí vi prometto e cosí giuro. -

76
Il Mirandola allora alzato in piede
gli rispose: - Signor, la patria mia
né per incontro a la fortuna cede,
né per felicità sé stessa oblía.
L'arbitrio che da prima ella vi diede,
l'istesso or vi conferma, e sol desía
che siate voi magnanimo in usarlo,
com'ella è pronta e generosa in darlo. -

77
Ringraziò que' signori, e fe' partita
da Modana il Legato il giorno stesso:
e conchiusa la pace e stabilita
fra le parti in virtú del compromesso,
con gaudio universal, con infinita
sua lode publicolla il giorno appresso;
riserbando ne' patti a i Modanesi
la Secchia e 'l Re de' Sardi a i Bolognesi.

78
Nel resto si dovean tutti i prigioni
quinci e quindi lasciar liberamente,
e le terre e i confini e lor regioni
ritornar come fur primieramente.
Cosí finîr le guerre e le tenzoni,
e 'l giorno d'Ogni Santi al dí nascente
ognun partí da la campagna rasa,
e tornò lieto a mangiar l'oca a casa.

79
Voi buona gente che con lieta ciera
mi siete stati intenti ad ascoltare,
crediate che l'istoria è bella e vera;
ma io non l'ho saputa raccontare.
Paruta vi sar?ia d'altra maniera
vaga e leggiadra, s'io sapea cantare;
ma vaglia il buon voler, s'altro non lice,
e chi la leggerà viva felice.

FINE
DICHIARAZIONI
Dl GASPARE SALVIANI
ALLA SECCHIA RAPITA
[dall'edizione del 1630, attribuite ad A. Tassoni]

CANTO PRIMO
Stanza 1a, verso 4.
I Bolognesi sono chiamati Petronii e i Modanesi Gemignani per la moltitudine de' cittadini dell'una parte e dell'altra che hanno questi nomi; non per disprezzo alcuno, poiché per altro sono nomi de' Santi protettori di quelle due città.

S. 2a, v. 8.
Accenna la conformità, che è tra il rapimento d'Elena e quello della Secchia.

S. 4a, v. 1.
Veramente la Republica di Venezia in quel tempo, veggendo ruinare l'imperio greco, attendeva a profittarsi della caduta sua, e non premeva molto nelle cose d'Italia. Rebuelta de rio, gananza de pescador.

S. 5a v. 4
Questa è moneta che spende ordinariamente la Corte di Roma. Diceva prima: Ma non avran dal Papa altro che messe. Fu mutato, perché il satirizzare su l'imperfezioni de' religiosi pecca in moralità e scandalizza gli uomini pii.

S. 10a, v. 8.
Usò questa voce [pitale] il poeta e molt'altre della Corte di Roma, sí per la licenza, che concede Aristotile ai poeti epici d'usar varie lingue; ma molto piú perché egli ebbe opinione che la favella della Corte romana fosse cosí buona, come la fiorentina, e meglio intesa per tutto.

S. 12a, v. 2.
I Modanesi portano per impresa della città loro una trivella: col motto: Avia pervia.

S. 12a, v 5.
Questo non è capriccio del poeta, come l'hanno tenuto alcuni, ma istoria vera cavata dalle croniche del Lancillotto: il quale aggiugne anco di piú, che occorse un giorno che sementando certi agricoltori fagioli dietro le rive del Panaro, il podestà di Modana uscí con gente armata a far loro la scorta, perché non fossero impediti dai nemici ch'erano anch'essi in campagna: onde i Bolognesi, come faceti, inventarono poi che 'l Potta di Modana sementava i fagioli stando a cavallo.

S. 13a, v. 1.
Questi è figurato pe 'l conte Lorenzo Scotti amico del poeta, che morí poi alla corte dell'imperatore Mattias.

S. 13a, v. 8.
Gherardo figlio di Rangone Rangoni fu veramente in quel tempo; e secondo l'istorie del Campanaccio e del Sigonio, furono egli e Tomasino Gorzani capitani del popolo modanese in quella guerra e insieme col re Enzio rimasero ambidue prigioni.

S. 14a, v. 2.
Marrabisi: è voce lombarda, e significa uomini di mal affare: è propria de' Bolognesi.

S. 14a, v. 5.
La Fossalta è un passo d'un torrente tra Modana e 'l fiume Panaro, che si passa a guazzo co' piedi asciutti.

S. 16a, v. 1.
Questo è nome finto.

S. 16a, v. 5.
Aristotile insegnò all'epico ch'egli poteva usare la varietà delle lingue; onde il poeta qui si serve della regola per introdurre il ridicolo.

S. 25a, v. 3.
Bedano appresso i Bolognesi significa quello che appresso i Sanesi significa besso, scemo, balordo.

S. 26a, v. 5.
Il capitan Curzio Saracinelli fu uomo bravissimo, ma milantatore al possibile; non s'era fatta guerra in cent' anni, dove egli non fosse intervenuto; e non era intervenuto in guerra, dove di sua mano non avesse tagliato a pezzi almeno cent'uomini, e particularmente nelle guerre di Fiandra e di Portugallo.

S. 28a, v. 1.
Questi fu un dottore senza naso; ma il colpo era stato piuttosto di guaina che di spada.

S. 29a, v. 1.
Qui è forza narrare un accidente ridiculoso intervenuto al poeta mentre era allo Studio di Bologna, che forse diede materia a questi versi. Era di carnevale, e standava in maschera; e 'l poeta era vestito da Zanni dottore con una zimarra e una beretta di velluto. Incontrossi in tre altri mascheri vestiti da Zanni, in San Mammolo, i quali toltolo in mezzo il cominciarono a urtare; e uno di loro, che portava un formaggetto vecchio legato con una corda, gli diede con esso una botta su lo stomaco, e 'l fece cadere in terra; e un altro gli levò la beretta che gli era caduta nel fango, e gliela portò via trafugandosi fra gli altri mascheri, e 'l fece rimanere un Zanni da dovero. Egli seppe dappoi che quello che l'aveva fatto cadere era stato uno de' Zambeccari, e quello che gli aveva tolta la beretta era stato un tal Dal Gesso che morí poi la state seguente, e 'l terzo era uno de' Scadinari.

S. 31a, v. 1.
Questa è un'osteria fuor di porta San Felice a Bologna, dove sempre suol essere buonissimo moscadello.

S. 39a, v. 3.
Alcuni vogliono che Bologna fosse anticamente detta Boionia, dai Galli Boi, che abitarono quivi.

S. 41a, v. 4.
Manfredi Pio non fu molto distante a quei tempi; fu capo delia fazione ghibellina e vicario imperiale in quelle parti.

S. 43a, v. 7.
La secchia, che tuttavia si conserva in Modana, è veramente d'abete; e mostra che fosse nuova con tre cerchi e il manico di ferro. È anticaglia degna d'esser veduta, come quella che tiene il terzo luogo dopo la nave d'Argo e l'arca di Noè.

S. 48a, v. 3
Chi desidera di sapere il successo di questa vergine, legga il Leonico, De varia historia etc.

S. 52a, v. 1.
Bonadamo Boschetti era veramente vescovo di Modana in quei tempi, e come uomo di fazione era stato cacciato dai ghibellini. Questa ottava si leggeva prima così:

Era vescovo allor per aventura
de la città messer Adam Boschetti,
che celebrava con solenne cura
quando i suoi preti li facean banchetti.
Non dava troppo il guasto a la scrittura,
le starne gli piacevano e i capretti,
e in cambio di dir vespro e matutino
giucava i benefici a sbarraglino.

Ma perché al poeta parve d' aver ecceduto nel motteggiare la persona d'un vescovo per altro di nobilissima famiglia e molto sua amorevole, non ostante che avesse motteggiata la persona sola e non la dignità né la famiglia, la corresse come si vede. I difetti delle persone eminenti s'ascoltano con gusto, perché servono di scusa agli inferiori delle loro imperfezioni: ma il motteggiare le persone sacre non si può ammettere in buona politica, perché scema la riverenza alla religione. E per questo furono mutati eziandio quei versi dell'ottava 62a:
Sotto la porta stava Monsignore
dimenando il cotal dell'acqua santa.
S. 61a, v. 1.
Cataline sono chiamate qui le contadine del modanese, perché dicono Catalina in cambio diCaterina, e infinite di loro hanno questo nome, ma il proferiscono alla spagnola, e i Bolognesi le beffeggiano.

S. 63a, v. 7.
Molti credono, che questa sia favola; ed è istoria verissima. e in passando da Modana se ne posson chiarire.

CANTO SECONDO

S. 7a, v. 3
Questo Rarabone, che 'l poeta finge qui per autore della sua famiglia, non si sa che veramente fosse allora capo di banca; ma si trova però nelle croniche di quella città scritto fra gli anziani e conservatori di essa ventott'anni appresso.

S. 11a, v. 2.
Equivoca e scherza sopra il nome di Marcello, che in Venezia è una moneta da dodici soldi.

S. 13a, v. 3.
Il dottor Camillo Baldi fu principal lettore dello Studio di Bologna, e amico del poeta; e avea le sue possessioni a Grevalcore terra palustre; dove, alle prime rane che si veggono, sogliono i Modanesi motteggiare che quei di Grevalcore non possono piú perir di quell' anno, perché quivi ne nascono e se ne mangiano assai.

S. 15a, v. 7.
Veramente Appiano Alessandrino, descrivendo il luogo dove Pansa console fu ucciso dalle genti di Marc'Antonio, pare che additi le valli di Grevalcore; dove tanto gli uomini quanto le rane nascono verdi e gialli.

S. 27a, v. 6.
Veggansi l'istorie di quei tempi, e troverassi che i Modanesi, i Parmegiani e i Cremonesi erano sempre uniti in lega.

S. 28a, v. 1.
Finge il poeta che la Fama porti gli avisi e le gazzette de' menanti d'ltalia alla corte di Giove.

S. 35a, v. 4.
Intende delle maremme di Siena, i cui cervelli hanno fama d'avere occulta intelligenza con questa Dea.

S. 35a, v. 8.
Le meretrici invecchiate e dismesse sogliono per l'ordinario applicarsi a cosí fatti lavori.

S. 36a, v. 2.
Rappresenta certe mogli indiavolate e traverse, che sempre aggiustano tutte le faccende loro a disgustare il marito. S'egli ha forestieri, esse vogliono fare il bucato; se vuol mangiar per tempo, esse vanno all' ultima messa; s'egli ha bisogno di loro, vanno a lavarsi il capo: altre non si mettono mai ad intrecciarsi i capegli, se non quando si vuole andare a tavola, per farsi aspettare un pezzo: strebbiatrici, insolenti, picchiapetti.

S. 36a, v. 8.
È galanteria, che s'usa nelle corti di Roma, acciò che i servidori non s'imbriachino. Sono di quei beneficii non ricercati, che sogliono usare i moderni caritativi.

S. 43a, v. 1.
Il signor Guglielmo Moons, agente del serenissimo elettor di Colonia, paragonò questo luogo con quelli d'Omero e di Vergilio; ma non gli parvero da competere: ma io so che 'l poeta non ebbe intenzione di concorrer con essi.

S. 43a,v. 7.
Chi non intende il poeta, legga le veridiche istorie di Luciano, dove tratta delle battaglie seguite tra Endimione e Fetonte ne' campi della Luna.

S. 44a, v. 2.
Dante disse [Inf. XVIII, 61]: Tra Savna e 'l Ren dove si dice Sipa.

S. 45a, v. 8.
Saturno, pianeta maligno, che agli uomini co' suoi influssi sempre minaccia danni, risponde qui conforme alla sua natura. E Marte applaude alla sua risposta, per esser anch'egli pianeta di mala qualità.

S. 46a, v. 7.
Parla astrologicamente: perciò che, se la stella di Marte è mirata d'aspetto opposto o quadrato da quella di Venere, a' suoi cattivi infiussi vien scemato il vigore.

S. 50a, v. 1.
A Modana si fanno e s'adoprano le maschere piú che in città del mondo; e 'l carnevale vi sono continue danze e tornei e giostre e bagordi. E quivi parimenti sono trebbiani dolcissimi ed altri vini in copia grande.

S. 50a, v. 8.
Allude al proverbio far la barba di stoppa; e motteggia le statue degli Dei de' gentili ch'avevano la barba d'oro: onde Dionisio tiranno la levò ad Esculapio, dicendo ch'era indecenza che 'l figlio avesse la barba e 'l padre, ch'era Apollo, fosse sbarbato.

S. 57a, v. 8.
Piú modestamente non si poteva dichiarare l'oscenità, né con piú acutezza schernire il gentilesimo. Alcuni si credettero d'imitar questi dileggiamenti degli Dei de' gentili, e diedono nelle seccagini e nelle freddezze: Ma ognun del suo saper par che s'appaghi.

S. 60a, v. 1.
La plebe di Bologna suol essere astutissima: aggiuntovi poi l'esser oste e l'esser guerzo, affina la tristizia a ventiquattro carati.

S. 63a, v. 2.
Chiama il poeta fetente Modana per rispetto delle sue strade lorde, dominate piú dalla dea Merdarola che dal dio Febo. Un altro poeta disse:

Modana e una città di Lombardia
Tra 'l Panaro e la Secchia in un pantano,
Dove si smerda ogni fedel cristiano
Che s'abbatte a passar per quella via.

I Modanesi sogliono con tutto ciò dire che la città loro ha due strade per tutto: una per gli uomini e l'altra per le bestie; intendendo che i portici, che sono in tutte le contrade, servano per gli uomini.

S. 65a, v. 3.
Bacco non poteva chiamar gente piú sua affezionata e divota, né invitarla in luogo dove fosse meglio trattata; perciò che a Modana ci sono bonissimi vini, e in tanta quantità che si vende a tre giulii il barile: onde si può dire che quivi sia la regia di Bacco, e la terra di promissione de' Tedeschi.

S. 65a,v. 7.
Questi è il primo Santo che venga dopo le vendemmie; e suole essere la sua festa destinata ad assaggiare i vini nuovi. Oltre di ciò Gregorio Turonese fra' miracoli di questo Santo conta alcune moltiplicazioni di vino; sí che per tutti questi rispetti i Tedeschi deono avere in venerazione particolare questo gran Santo.

CANTO TERZO

S. 4a, v. 1.
È promessa simile a quella che già fece l'istessa dea a Paride; e accenna l'origine de' signori Bentivogli, che tengono di esser discesi dal re Enzio.

S. 11a, v. 8.
Culagna è una rocca smerlata su le montagne di Reggio, famosa come a Roma Capodibove.

S. 13a, v. 8.
Le corna erano anticamente segno di corona, e oggidí ancora in Germania si portano sui cimieri in segno di nobiltà. Però niuno interpreti a sinistro il cimiero di questo eroe, che porta corna ch'ognuno le vede, e tal le porta che non se le crede.

S. 14a, v. 1.
Ad un cavaliero de' Montecuccoli parve che questo fosse il suo ritratto: ma molte cose dette a caso paiono alle volte dette a posta.

S. 15a,v. 7.
Quando Balduino imperator di Costantinopoli venne in Italia, nel passar per Modana fece veramente alcuni cavalieri tra' quali furono Attolino e Guidotto Rodea, Forte Livizzano e Rainero de' Denti di Balugola.

S. 18a, v. 1.
Camillo del Forno fu veramente uomo arrischiato e bravo ma in ultimo essendosi fatto capo di banditi, la sua temerità il precipitò.

S. 20a, v. 2.
Questo arciprete fu ribello del comune di Modana, e gli occupò la terra del Finale, e gli fece di molti danni.

S. 24a, v. 1.
Questa fu istoria vera: e chi desidera di saperla, legga quel che ne scrive il conte Giovan Paulo Caisotto nell'istorie di Nizza.

S. 30a, v. 1 .
Corleto e Grevalcore furono detti a contraposizione Cor laetum et Grave cor; questo dai soldati di Pansa ucciso quivi; e quello dai soldati d'Ottaviano vittorioso in quel luogo, quando liberò Modana dall'assedio.

S. 30a, v. 7.
Quest'era un maestro di scuola famoso, a cui essendo venuto uno de' suoi contadini a dargli nuova che gli era morta una vacca, il rimandò in villa e gl'insegnò che gli facesse un beverone che sarebbe guarita.

S. 31a, v. 1.
Questo dottore si maritò con una giovinetta in età matura e morí subito. I vecchi, che si maritano a donne giovani, sono giubboni vecchi che s'attaccano a calzoni nuovi, che subito si schiantano.

S. 32a, v. 1.
Ebbe nome Bartolomeo, e fu appunto quale il poeta il descrive.

S. 35a, v. 2.
L'arma de' signori Boschetti è una grattugia con certe sbarre; ma il poeta la finge una gradella, perché veramente i pittori la rappresentano piuttosto in forma di gradella che di grattugia.

S. 39a, v. 1.
Questo si chiama San Martino de' Ruberti, famiglia nobile reggiana, che vanta la sua origine d'Africa; e per questo il poeta le dà per impresa un Saracino.

S. 40a, v. 1.
Questa fu antica e nobil famiglia oggidí estinta. Zaccaria fu signor di Carpi; ma da Manfredi Pio, ch'era allora vicario imperiale, gli ne fu levato il dominio.

S. 46a, v. 1.
Intende della famosa Accademia della Crusca di Firenze, che porta l'istessa impresa.

S. 46a, v. 8.
Gli finge unti, perché quivi nasce l'olio di sasso famoso, intorno al quale faticano.

S. 47a, v. 2.
I vini di Sassuolo sono perfettissimi.

S. 48a, v. 1.
Quei della Rosa furono in quel tempo signori di Sassuolo; e chiamavansi egualmente quei della posa e quei di Sassuolo. Oggi è famiglia estinta

S. 49a, v. 1.
Scherza su 'l nome e su le bellezze della signora Laura Cesi contessa di Pompeiano. Sol che tramonta.

S. 50a, v. 2.
Il conte Ercole Cesi aveva assuefatte alcune giovani di quelle terre, che tiravano co' moschetti a segno, come gli uomini.

S. 51a, v. 1.
Cioè avea il cognome e'l dominio della terra di Cervarola e di Saltino e del Pigneto e di Morano paese vicino.

S. 54a, v. 3
Rappresenta nell'insegna un uomo collerico.

S. 57a, v. 2.
Questo cavaliere aveva una sorella bellissima, che poi si fece monaca

S. 57a, v. 4.
Settecento uomini che guardavano un passo stretto d'una montagna, veggendo apparire certi cavalli nella pianura, a quella vista sola tutti si misero in fuga, perché avevano per capo il conte di Culagna. È istoria antica che sente del moderno.

S. 59a, v. 1.
Allude al conte Fabio Scotti, conte di Miceno, detto corrottamente Muceno.

S. 64a, v. 1.
Niuna cosa vien istimata piú abile a muovere il riso che gli abiti contrafatti; e però il poeta arma questi popoli montagnuoli così alla scapigliata.

S. 65a, v. 2.
Alberto ebbe nome, e fu giovane valoroso nell'armi, che poi si fece frate cappuccino.

S. 65a, vv. 3- 4.
Questi due versi si leggono guasti in alcuni testi, non so da chi, né perché, essendo rappresentazione d'un atto ridiculo che sogliono ordinariamente fare i putti cristiani in disprezzo del giudaismo. Ma alle volte taluno si fa scrupolo a sputare in chiesa, che poi ruberebbe la sagrestia.

S. 66a, v. 2.
Cioè Morovico signor di Ronchi, e di casa Ronchi.

S. 67a, v. 8.
Chiamasi la Torre dell'Oche grande, non rispetto al luogo, ma al numero di quelli che hanno il cervello d'oca.

S. 73a, v. 4.
La bizzaria di queste insegne par fatta a caso; ma nelle piú di loro vi sono degli artificii occulti, i quali si tacciono per non offendere.

S. 75a, v. 1.
Fu verissimo che in quella guerra i Fiorentini anch'essi aiutarono i Bolognesi: e il commessario loro fu messer Botticella degli Orciolini.

CANTO QUARTO

S. 2a, v. 6
La montiera è un cappelletto alla spagnola da portare in casa, che usavano anche gli antichi; onde Svetonio in Augusto: Domi quoque non nisi petasatus sub dio spatiabatur. Augusto per rispetto de' crepuscoli non passeggiava in casa allo scoperto senza la montiera.

S. 3a, v. 1.
Chiama seme de' Latini i Modanesi, perché Modana era stata colonia de' Romani.

S. 3a, v. 4.
Gli scrittori antichi mettono il Lavino fiume nel territorio di Modana. Ma Carlo Magno, nella divisione che fece de' confini d'ltalia, divise col Panaro i confini di Modana e di Bologna, perché in quel tempo Modana era distrutta e spopolata e Bologna populatissima. Succederono poi Federico Barbarossa e Federico Secondo, i quali avendo i Bolognesi per difidenti e per nemici tenevano un presidio a Modana, e non lasciavano goder loro quel territorio in pace per le ragioni antiche.

S. 4a, v. 1.
È castello su la strada maestra ne' confini de' Bolognesi, oggidí aperto.

S. 15a, v. 1.
Furono veramente i Parmegiani aspri nemici di Federico Secondo. Veggansi l'istorie.

S. 21a, v. 8.
La Rossina è una canzone triviale che si canta in Lombardia; e cominciando dalle chiome dice:  Le belle chiome c'ha la mia Rossina, Rossina bella fa la li le lá: Viva l'amore e chi morir mi fa: e cosi va seguendo.

S. 28a, v. 1.
Il testo primo diceva: Uccise d'an gran taglio Angel Rasello. Et era un ritratto cavato dal naturale d'un personaggio ora morto, che quadrava a puntino.

S. 39a, v. 1.
Avendo i Ferraresi cacciato Aldobrandino da Este per l'alterigia sua, s'elessero per signor Salinguerra Torelli, o Garamonti com'altri vogliono. Ma poco dopo Salinguerra fu anch'egli cacciato, e fu restituito il dominio ad Azio da Este figliuolo d'Aldobrandino. Vogliono nondimeno alcuni speculativi che qui il poeta alluda alla cacciata di qualche altro signor piú moderno. Salinguerra, secondo l'istorie del Biondo, fu aiutato da Ezzelino tiranno di Padova ad acquistare il dominio di Ferrara, perché era suo cognato e gli Estensi erano suoi nemici.

S. 40a, v. 3.
Questo è un contrasegno del marchese Fontanella conte di San Donnino, che soleva far quell' atto.

S. 61a, v. 7.
La famiglia Canossa era fino a quel tempo molto nobile e gli storici dicono che Guido Canossa fu veramente capo del popolo reggiano in quella guerra, e che, trasportato dall'impeto del cavallo e ferito, s'affogò in una fossa.

S. 64a, v. 1.
Questa potrebbe esser giudicata da qualcheduno invenzione del poeta per ischernire i Reggiani; e non è cosí: perciò che veramente nell'archivio de'signori Pii si trova una sentenza data in Rubiera l'anno 1255 alli 20 di febbraro, regnando Federico Secondo imperatore, ed essendo suo vicario in Modana il signore Alberto Pio; e tal sentenza fu data dal dottore Andrea Canossa da Parma, giudice deputato da esso Signore Alberto nella controversia che allora si disputava tra la comunità di Reggio e quella di Modana, la quale per esser cosa lunga non la riporterò qui tutta, ma le parole e clausule solamente che contengono il punto di questo accidente. E sono quelle che seguono:
Christi nomine repetito, etc.
Dicimus, sententiamus et pronuntiamas et diffinimus, et iudex quietamus liberamus et
absolutos, quietos et liberatos esse iubemus et condemnamus et ut arbiter arbitramur et sententiatum
esse volumus et condemnamus ut intra, videlicet:
Dictos de Reggio, sea praædictam communitatem Reggii teneri et obligatos seu obligatam esse
extrahere videlicet cothurnos, stivalia, soturales et crepidas, in signum hanoris et reverentiæ debitæ et
debendæ prædictis Mutinensibus, in itinere pedestri, equestri et navali, in quibascumque domibus
hospitiis et ad omnem quamcumque volantatem prædictorum Mutinensium requirentium et etentium
sibi calciamenta extrahi debere et stivalia cothurnos sotalaria vel crepidas, sic extractas vel extracia
purgare, mundare, lavare et ezsdem et quibuscumque eorum, ut dominis suis eos vel ra præsentare. Et
ita pronunciamus omni meliori modo etc.
Præsentibus ambobus prædictis procuratoribus seu mandatariis D. D. Pietro de Nava et
Francisco Regino etc.
Actum in Castro Herberiæ etc.
A questa scrittura precedono e seguono le solite clausole, le quali, come ho detto, per brevità si tralasciano, bastandoci avere accennata qui la sostanza del fatto. Se poi tale scrittura sia cosa vera e
reale o pur finta, me ne rimetto all'altrui giudicio, bastandomi aver significato che 1' originale è in casa de' signori Pii di Savoia, e che non è invenzione del poeta.

S. 65a, v. 6.
A sesta, cioè a misura. Ma questa pur anco parrà ad alcuno invenzione del poeta contra i medesimi Reggiani: e nondimeno nell'istorie del regno d'ltalia sotto l'anno 1152 e in altri autori ancora, si legge ch'essendo in lega i Modanesi co' Parmegiani ruppero l'esercito de' Reggiani e ne menarono a Parma un gran numero di prigioni; e che'l giorno seguente, mostrando di volerli arder vivi, accesero in piazza un gran foco; poi trattili di prigione con una canna in mano per ciascheduno, che aveva in cima una banderola di carta, li facevano passare per certo luogo stretto, e nel passar che facevano davano a ciascheduno uno scappezzone o scappellotto su la nuca; e in cambio d'arderli facevano loro degli soffioni e ardevano loro la barba, e poi li mandavano via cosí svergognati e spauriti.

S. 66a, v. 7.
I Reggiani oppongono ai Modanesi che mirano la luna nel pozzo, perché veramente i Modanesi hanno in costume, quando veggono un pozzo, di correr subito a mirarci dentro. E i Modanesi oppongono ai Reggiani che abbiano le teste quadre, perché realmente molti di loro non l'hanno né tonde né ovate, come anche si dice de' Genovesi che abbiano le teste acute, perché molti di loro l'hanno cosí. Però come questo è accidente di molti, non di tutti, il poeta finse che quelli solamente che patteggiati uscirono di Rubiera avessero le teste quadre, e che i medesimi soli fossero ubbligati a cavar gli stivali o le scarpe ai Modanesi quando s'incontravano per viaggio. In ogni evento è da considerare che i capricci de' poeti non fanno caso, e tanto piú de' poeti burleschi, che hanno per fine loro il diletto e non la verità; perché ben si sa che per altro li signori Reggiani sono molto onorati.

CANTO QUINTO

S. 2a, v. 2.
Bosio Duara signor di Cremona fu veramente allora in aiuto de' Modanesi, e vi rimase prigione.

S.23a, v. 8.
A Modana i pizzicagnoli si pregiano vanamente di far salciccia fina, perciò che non val nulla rispetto a quella di Lucca detta perciò latinamente lucanica da Lucca.

S. 24a, v. 4.
Nelle croniche di Modana si legge, che le città che s'armarono in favore de' Bolognesi contra Modana furono appunto quattordici, e quell'istesse che nomina il poeta, da Perugia in fuori, che fu introdotta da lui a contemplazione del signor Baldassare Paulucci.

S. 25a, v. 7.
Il papa era allora in Francia nel Lionese Veggasi il Biondo sotto l'anno 1218, nel quale seguí la battaglia e la rotta e la presa del re Enzio.

S. 28a, v. 3.
Questa è vera istoria e non pecca in altro che in anacronismo. L'accidente occorse a questo prelato a Scarperia, mentre da Roma andava a Parma.

S. 32a, v. 1-8.
È ritratto cavato dal naturale e fu vero che ritornando portò guanti agli amici.

S. 36a, v. 1.
È descrizione della salmeria che portarono quei Toscani, che l'anno 1613 passarono in aiuto de' Mantuani contra i Savoiardi, che si servirono d'asini per bagagli.

S. 40a, v. 4.
Il dice per gli Sforzeschi e per quelli da Barbiano, che furono eroi.

S. 41a, v. 4.
Guido da Polenta fu padre della Francesca da Rimini, di cui si favella ne' seguenti versi.

S. 43a, v. 3.
Paulo: fu questi fratello di Lanciotto, da cui fu ucciso perché il trovò con la moglie Francesca. Vedi Dante.

S. 48a, v. 3.
Accenna quello che si dice de' Faentini, che l'imperator Carlo Quinto, essendo stato molto onorato da quei cittadini nel giugnere alla piazza creasse cavalieri tutti quelli che vi si trovarono; onde perciò i Faentini quasi tutti si chiamino cavalieri.

S. 49a, v. 2.
Mainardo da Susinana fu veramente tiranno di Cesena, come anco Pietro Pagano d'Imola e gli Ordelafi di Forlí e Forlimpopoli. Leggi il Villani, che ne favella.

S. 53a, v. 2.
I prirni ch'usassero il carroccio furono i Milanesi. Era un gran carro tirato da molte paia di buoi, dove si mettevano tutte l'insegne quando si combatteva, e dove si ricoveravano i feriti sotto la guardia d'una grossa banda di soldati, i piú vaiorosi del campo.

S. 53a, v. 8.
Antonio Lambertazzi e Lodovico di Geremia furono i due capi principali del popolo di Bologna nella giornata d'Enzio.

S. 55a, v. 1.
Quest'era veramente il podestà. di Bologna in quel tempo. La gorgiera in questo loco è detta per gozzo; e dicesi che nel bresciano quando le genti s'ammogliano, non le vogliono se non hanno il gozzo, perché dicono che le sgozzate non hanno tutti i loro membri.

S. 55a, v. 8.
I Bresciani sono contati anch'essi fra le città collegate con Bologna. Le parole delle croniche di Modana sono le seguenti: De anno 1247 die 4 octobris Bononienses cum suo carroccio et cum amicis suis Faventinis, Imolensibus, Forliviensibus, Ariminensibus, Pisauriensibus, Fanensibus, Mediolanensibus, Brixianis, Forlimpopolensibus, Cesenatibus, Ravennatibus, Ferrariensibus, Florentinisque faerunt in obsidionem Bazani et ceperunt castrum Vignolæ et cum eis fait Come Albertus de Mangona, etc. Eodem tempore die 24 octobris Mutinenses equitaverunt comburendo omnia usque ad Rhenum, et tunc fait magnum prælium apud Sanctam Mariam de Strata, et ex parte Bononiensium captus fuit dominus Thomasinus Salinguerra, et vulneratus est dominus Paulus Traversarus de Ravenna, et multi Florentini et Bononienses capti sunt. Ex parte vero Mutinensium mortuus est dominus Ponzanatus de Cremona... Et de anno 1248 inter Bononienses et Mutinenses fait magnum prælium in die Mercurii apud Fossaltam: in quo Mutinenses vieti sunt, et capti fuerunt septem de populo, et circa centum milites de Mutina. Et in dicto prælio captus fuit Henricus rex Sardiniæ, qui tunc erat cum Mutinensibus, et multi milites Germanici, qui cum dicto rege militabant etc. E questo può servire a mostrare che ne'successi di quella guerra i Bolognesi non sono stati aggravati dal poeta, come forse taluno si crede; poiché le rotte furono vicendevoli.

S. 56a, v. 4.
Il conte Romeo Pepoli è moderno: ma vi fu un altro Romeo Pepoli che non era conte, del quale fa menzione il Biondo, e fu vicino a quei tempi; e i suoi nipoti furono poi signori di Bologna, e la venderono all'arcivescovo Giovanni Visconti per ducento mila scudi.

S. 63a, v. 6.
I marroni in Lombardia si chiamano le castagne grosse col guscio: e mazzamarroni significa l'istesso che mangiamarroni,perciò che i montanari ne sogliono distruggere e mangiare una gran quantità. Cosí chiamò anche i Cremonesi mangiafagioli.

S. 66a, v. 6.
Questo Tomasino Gorzani fu uno de' capitani del popolo in quella guerra, e fu fatto prigione anch'egli col re Enzio.

CANTO SESTO

S. 1a, v. 1.
Questo poeta non fu rubatore: ma le cose sue sono trovate da lui, e particolarmente le descrizioni, come questa del mezzogiorno e tant'altre dell'aurora e della notte. A Vergilio e al Tasso scema gran parte della lode l'essersi serviti delle invenzioni degli altri.

S. 16a, v. 2.
Dell'istessa lingua fiorentina riputata per ottima si serve a generare il ridicolo, sindacando la cattiva pronuncia d'alcune voci.

S. 17a, v. 5
Introduce personaggi noti a molti e aggiustati all'azioni che lor fa fare. Il Teggia fu uomo di lettere, e cognito nella corte di Roma; e morí cieco: onde finge che fosse acciecato in questa guerra.

S. 21a, v. 5.
Sono cognomi di famiglie nobili bolognesi de' nostri tempi.

S. 33a, v. 5.
Min del Rosso, Gabbion di Gozzadino, Carlon Cartari, Ruffin dalla Ragazza ed altri cosí fatti sono nomi notissimi tra i vecchi di Bologna.

S. 45a, v. 3.
Lanzi in Lombardia si chiamano i Tedeschi: sbittare in bresciano significa saltar fuora e scappare, e schitta nello stesso linguaggio è l'istesso che cacarella o cacaiola.

S. 64a, v. 1.
Guido da Polenta signor di Ravenna e padre della Francesca da Rimini, di cui si ragionò di sovra, fioriva anch'egli in que' tempi.

S. 66a, v. 8.
È detto da un nemico, che oppone ai Romagnoli due pecche; cioè che sieno facili, quando sono banditi, a mettersi a rubare alla strada, e che scorticassero san Bartolomeo; ch'è una fama vana, perciò che san Bartolomeo morí in India.

S. 67a, v. 5.
In Modana sono veramente queste due fazioni. I triganieri sono una mano di scapigliati oziosi, che, non sapendo che farsi, si dànno a far volar colombi ch'essi chiamano trigani, e gli avezzano non solamente a condurne alle loro colombaie de' forestieri, ma a portar anche delle lettere da luoghi distanti cinquanta e sessanta miglia: usanza conservata in quella città fin dalla sua prima origine; onde leggiamo in Plinio che, quando era assediata da Marc'Antonio con tanta strettezza che non ne poteva uscire uomo alcuno, furono mandate fuora colombe con lettere al collo, che furono cagione che'l senato romano affrettasse il soccorso.

S. 67a, v. 6.
La campagnia de' Bacchettoni ha preso questo nome da'Fiorentini, che chiamano bacchettoni certi che 'l giorno vanno baciando le tavoloccie e la sera s'adunano a disciplinarsi a calzoni calati. Ma l'origine di tal nome io non l'ho potuta sapere.

S. 69a, v. 7.
Questi sono i nomi di due triganieri famosi nella città di Modana e conosciuti da tutti gli osti e bettolieri.

S. 70a, v. 4.
Chi vuol sapere chi fosse santa Nafissa, o per dir meglio chi fosse la Nafissa riverita per santa dai maomettani, legga il Leoni nella descrizione dell'Africa, dove tratta delle curiosità e novità che sono nella gran città del Cairo. E questo sia detto per rispondere a chi oppose già al poeta che questo era un miscere sacra profanis, e che questo poema era una calza d'uno svizzero di due assise; non avendo mai letto Plinio secondo, nell'epistola XXI dell'ottavo libro ove egli favellò nella forma seguente: Ut in vita sic in studiis pulcherrimam et humanissimum existimo severitatem comitatemque miscere, ne illa in tristitiam, hæc in petulantiam excedat, etc.

CANTO SETTIMO

S. 5a, v. 1.
Omero finge ragionamenti tra colpo e colpo, e in particolare fa narrare la stirpe loro agli stessi combattenti nell'atto del menar le mani. Però se Aristotile fosse stato soldato non l'avrebbe lodato né in questo né in molte altre cose, dove parla della milizia bamboleggiando.

S. 9a, v.1
Parla come nemico; e attribuisce a mancamento ai Ferraresi quello ch'era lode loro, cioè il tener col papa. Cosí Enzio nel canto precedente come nemico chiama papisti i guelfi; e il poeta deve imitare chi favella.

S. 16a, v. 1.
Nel poema dell'innamoramento d'Orlando si legge che combattendo quel paladino col re Agricane, e vedendo quel barbaro i suoi che fuggivano, pregò Orlando che glieli lasciasse rimettere in battaglia, che poi ritornerebbe a duellare con esso lui: e Orlando se ne contentò. Ma qui Voluce dice ch'Orlando è morto, e non è piú quel tempo.

S. 21a, v. 8.
Un tal principe greco, che si vantava della stirpe di Costantino Magno, e mostrava privilegi di cartapecora vecchia, veggendo l'ambizione degl'ltaliani, dava loro titoli a decine senza risparmio per ogni minima mercede. E a Ferrara fe' gran profitto, dove infeudò le terre del Turco.

S. 27a, v. 1.
Veramente Bosio Duara signor di Cremona rimase anch'egli prigionièro de' Bolognesi in quella guerra.

S. 29a , v. 2.
Questi versi non diceano cosí nella prima stampa, ma il poeta volse onorare Omero Tortora istorico amico suo e gli mutò.

S. 34a,v. 1.
Nomi perugini accorciati.

S. 34a, v. 8.
Questi professava di parlar peruginissimamente secondo il volgare del popolo, e si poteva imparar da lui il parlar perugino.

S. 39a, v. 1.
Favella della guerra della Garfagnana tra i Lucchesi e i Modanesi, nella quale que' popoli montagnoli per odio si tagliavano le viti e si scorticavano i castagni l'un l'altro con vendetta montanaresca.

S. 42a, v. 1.
Questi era un personaggio mandato dal governator di Milano per veder d'acquetar que' popoli; e salvò la piazza di Castiglione spiegando una bandiera del re Cattolico, alla quale i Modanesi fecero di berretta.

S. 42a, v. 3.
Alcuni dicono che fu un pezzo di tela rossa, e che i Modanesi si lasciarono ingannare dal colore. Nella edizione di Parigi i versi furono mutati da un Lucchese che assisteva alla stampa, e voltati a favore della sua nazione. Ognuno procura suo vantaggio.

S. 48a,v 1.
Parla secondo gli astrologi. L'aspetto quadrato è infelice, e tanto piú ne' pianeti maligni come Marte.

S. 53a, v. 1.
Questo è un consiglio imitato in Petronio Arbitro, dove i consiglieri contendono a chi dice peggio.

S. 53a, v. 6.
A quel tempo Modana era stata tutta piena di masse di stabbio: oggidí le strade ne sono meno adorne, ma non però in tutto prive. Da Omero sarebbe stata detta urbs bene stabalata.

S. 54a, v. 8.
È un verso di lingua pretta modanese.

S 55a, v. 5.
L'antichità di Modana si conosce dalle fabbriche particularmente de' portici su i balestri, che mostrano d'esser stati fatti assai prima che Vitruvio scrivesse d'architettura.

S. 55a, v. 8.
Le canalette sono le cloache, delle quali è piena quella città: e quando le votano, non si può passar per le strade per rispetto della lordura che si diffonde, oltre il puzzo che appesta.

S. 68 a, v. 1.
Chi desidera di saper meglio l'istoria di Telessilla, legga il Leonico, De varia historia.

S. 74a, v. 7.
Séguita l'opinione di coloro che dissero che i pianeti erano come lampade attaccate al cielo.

CANTO OTTAVO

S. 1a, v. 3.
Chiama il poeta le lucciole stelle della terra, e le stelle lucciole del cielo, perché fanno l'istesso effetto di volar per l'aria e di non risplendere se non di notte.

S. 8a, v. 7.
Chiama ciurmatori i filosofi greci, che persuasero al popolo che ogni pianeta avesse un cielo da sé, e che gl'inferiori fossero rapiti dall'ottava sfera da oriente in occidente. Perciò che il poeta fu sceptico, e tenne che le cose de' cieli, quanto a noi, consistessero tutte in opinione e probabilità. E ne portò egli ancora una nuova nel terzo libro de' suoi Pensieri.

S. 11a, v. 7.
Ezzelino da Romano era allora signor di Padova, e dipendente da Federico imperatore. Veggansi l'istorie di quei tempi.

S. 15a, v. 7.
È descrizione dell' aurora fatta a concorrenza di quella di Dante nel IX del Purgatorio: La concubina di Titone antico Già s'imbiancava al balzo d'oriente Fuor de le braccia del suo dolce amico. Veggasi l'una e l'altra.

S. 19a, v. 7.
Parla di Pietro d'Abano, tenuto per mago; il quale, se allora fosse stato quivi, avrebbe armata qualche compagnia di demoni in favore de' Modanesi.

S. 22a, v. 1.
Dicono che veramente costui fosse uno de' favoriti d'Ezzelino, e alzato da lui a' primi gradi d'onore, d'uomo basso ch'egli era.

S. 25a, v. 2.
La donna di Cipada è Mantova, illustrata dai versi di Vergilio, come Cipada da quei di Merlino poeta sepolto nella terra di Campese con famosa sepoltura fabbricatagli dal padre don Angelo Grillo, poeta famoso anch'egli, e principalissimo soggetto della religione benedettina.

S. 26a, v. 6.
Le galline di Polverara e la razza loro e famosa per tutta Italia.

S. 28a. v. 7.
In quelle parti, quando si vuol significare qualche aiuto fuora di tempo e tardo, si dice il soccorso di Paluello, come in Toscana il soccorso di Pisa.

S. 30a, v. 3.
È opinione che Tito Livio istorico fosse da Teolo.

S. 32a, v. 3.
Quivi dicono che Antenore fondasse la sua prima città chiamata Urbs euganea, che poi è stato corrotto dagl'idioti in Brusegana.

S. 33a, v. 7.
La pelle della gatta del Petrarca s'è conservata fino a' tempi nostri, e continuamente viene illustrata dai versi e dai componimenti de' begli ingegni.

S. 36a, v. 1.
Descrive l'arciprete Gualdi amico suo.

S. 37a, v. 5.
Le rime burlesche in lingua padovana di Menone e Begotto sono assai note in tutto lo stato veneto.

S. 41a, v. 7.
Non erano veramente ancora signori di Rodi i cavalieri di san Giovanni, ma furono poco dopo: e 'l poeta parla secondo quello che fu poi.

S. 47a, v. 1.
Il poeta fu poco amico d'Omero, e disprezzò le sue invenzioni come rozze e di cattivo costume: nondimeno, per mostrare -che conobbe il buono e'l cattivo di quel poeta, introduce questo cieco a cantare all'omerica.

S. 51a, v. 4.
Le compagne mirò ecc. Cosí è stampato in tutte le copie: nondimeno il testo manuscritto di mano del poeta dice Le campagne e non Le compagne; e cosí dev'essere scritto e stampato, non ostante che anche si possa intendere che Le compagne significhi le stelle compagne della Luna. Ma il poeta vuol significare che la Luna mirò in terra, e non in cielo.

S. 57a, v. 1.
Finge il poeta ch'Endimione donasse a Diana una benda bianca che portava armacollo fregiata di perle, per adornare il dono che finsero i poeti antichi esserle stato donato da quel pastore, e per mostrar che le femmine, comunque innamorate, sempre vogliono qualche cosa dall'amante.

S. 65a, v. 7.
Gli anacronismi, quando sono lontanissimi e cadono opportunamente come questo, parturiscono anch'essi il ridiculo.

S. 68a, v. 4.
I poveri d'una famiglia hanno sempre per grazia che i ricchi gli vogliano riconoscere per parenti: perciò che la povertà è un argomento di demerito, e per questo i poveri sono sprezzati.

S. 71a, v. 8.
Vedi Livio, ché '1 poeta sta su 1'istoria.

CANTO NONO

ARGOMENTO.
Questo canto par avere poco del comico, e nondimeno tutto è comico: perciò che tien sospeso l'uditore sino al fine; poi in aspettazione di cosa grave e seria finisce in un ridicolo.

S. 8a, v. 2.
Vedi l'Ariosto.

S. 10a, v. 1.
Questi è Galeotto figliolo del signore della Mirandola, di cui si favellò di sopra nel canto 111.

S. 12a, v. 5
Questo è il lino asbestino, di cui favella Plinio. Gli antichi ne filavano tele incombustibili, che, quando si voleano imbiancare, si gittavano nel foco; ed erano stimate al pari delle gioie piú preziose. Il cavalier Gualdi ne ha mostra in Roma tra le sue curiose anticaglie. È pietra venata con certa lanugine per le vene,simile all'allume di piuma che non si consuma nel foco. Ma la maniera di filar tal materia noi non l'abbiamo, benché forse non mancherebbe l'industria quando se ne trovasse quantità sufficiente e che ci fosse il premio. Tiglio e tiglioso significa materia atta a filarsi.

S. 25a, v. 7.
Questo fu accidente vero, accaduto al signor Ippolito Livizzani nel giostrar contra il conte Alfonso Molza in Modana.

S. 44a, v. 1.
Qui si descrive il ritratto d'un zerbino affettato romanesco, nato di casa nuova, arricchito per strada obliqua, che fa del cavalierazzo e del bravo mentre conosce d'aver a fare con persona inferiore e di poco polso.

S. 58a, vv. 6-8.
Questi versi dicevano prima cosí:

. . onde a veder correa
la fiorentina e perugina gente,
tratta da natural impeto ardente.

Ma i vizii quanto piú si diffondono nel generale, tanto meno offendono i particolari; e però fu mutato.

S. 67a, v. 2.
La pantera è bellissimo animale; ma dicono che sia d'animo molto vile.

S. 72a, v. 5.
Le prodezze di don Chisotto della Mancia cavalier errante impazzito sono note per l'istorie delle sue geste.

S. 76a, v. 1.
Gli Aigoni e i Grisolfi erano in quel tempo capi delle fazioni. I Grisolfi erano imperiali, e avevano cacciati gli Aigoni eh'erano ecclesiastici e guelfi: oggidí si chiamano gl'Ingoni, e ce ne sono pochi; ma i Grisolfi sono annullati.

S. 76a, v. 3.
È fama che nel monte di Vallestra sia un tesoro guardato dai diavoli; però il poeta si serve dell' opinione del vulgo a formare questo episodio.

S. 80a, v. 5.
Per questo fu finto che quando Tognone cambiò lancia non cadesse, perché aveva la lancia incantata, e Melindo non l'avea.

S. 81a, v. 5.
Il maggior segno di codardia è insuperbire e fare il bravo con le genti che non possono competere. Vedi appresso il Boccaccio le prove che faceva maestro Simone quand' era scolare.

CANTO DECIMO

S. 7a, v. 1.
In quel tempo s'usava questa lingua, come si può vedere dalle storie e dai versi de' litterati che fiorivano allora, assai rozzi. Ma qui il poeta picca coloro che oggidí chiamano questa 1a lingua del buon secolo, e la vorrebbero rimettere in uso; mostrando loro come riuscirebbe alla prova. Le cose cadute dall'uso è vanità il volerle sostentare. Il sale della satira è il condimento della comedia. Ma il poeta sfuggí di chiamare questa sua invenzione nuova di poetare eroisatiricomica, sapendo quanto il nome di satira sia odioso in questi tempi e sospetto .a quelli particolarmente che dominano.

S. 10a, v. 8.
Chiama gran re dell'oceano il re Cattolico per lo vasto dominio ch'egli ha nell'oceano, che è dominato da lui dalle colonne d'Ercole fin sotto il polo antartico: onde a riguardo del mare il sole nasce e tramonta ne' regni suoi.

S. 23a, v. 1.
Chiama Venere moro Libecchio, perché nasce in Mauritania il chiama cane, perché quivi i popoli vivono senza politica, e il chiama senza fede, perché gli africani hanno sempre avuto per uso il mancar di fede.

S. 24a, v. 3.
Della prigionia di Corradino di Svevia seguita ad Astura per tradimento del signore di quella terra leggi il Villani: e veramente quella terra oggidi è distrutta e tutto il territorio è diserto, che pare appunto vendetta celeste.

S. 26a, v. 8.
Chiama dea del mare Venere, perché nacque dal mare, e reina del mare la città di Napoli perché domina tutto quel mare.

S. 27a, v. 3.
Manfredi principe di Taranto e poi re di Napoli fu veramente innamorato della contessa di Caserta sua sorella. Veggansi l'istorie di Napoli e le lettere di Paulo Manuzio ove porta uno squarcio di questa istoria. Qui alcuni hanno richiesto perché il poeta non séguiti a narrare quel che facesse Manfredi per liberare il fratello dalle mani de' Bolognesi. E non s'avveggono che il poeta finisce la favola della Secchia alla quale è obbligato, e che questa è un'altra istoria, e che seguíta la pace, il lettore dee imaginarsi o che Manfredi non facesse altro o che cominciasse un'altra guerra da sé. Neanco il Tasso descrive ciò che avvenisse d'Armida e d'Erminia dopo la presa di Gerusalemme, perché erano cose fuora della favola proposta da lui.

S. 36a, v. 2.
Napoletanamente.

S. 42a, v. 7.
Versi romaneschi.

S. 53a, v. 7.
Questa è quella sorta di ridicolo che propriamente vien chiamata da Aristotile nella Poetica: Turpitudo sine dolore, che fa nascere il riso dalle azioni: ma del riso che nasce dalle parole non ne favellò Aristotile.

S. 60a, v. 7.
Questi versi dicevano prima cosí:

né distinguendo ben dal fico il pesco,
scusavanlo col dir: gli è romanesco.
Ma fu giudicato troppo satirico e fu corretto.

S. 74a, v. 1.
Cava il ridicolo dalla cattiva pronuncia romanesca, come di sopra a ottave 42. Ma qui è contrasegno d'un personaggio noto in Roma.

S. 74a, v. 3.
Questo fu veramente fiscal di Modana, ma ne' tempi piú moderni, e scontrando una volta certi banditi, si cacò ne' calzoni di paura: ma essi nol conobbero e 'l lasciarono andare cosí merdoso: che se l'avessero conosciuto, guai a lui. — È nondimeno da avvertire che questa di Titta, come ho detto, fu veramente azione d'un romanesco; il quale vantandosi d'esser parente del papa, non voleva esser condotto prigione in Torre di Nona, ma in Castello Sant' Angelo.

CANTO UNDECIMO

S. 1a, v. 4.
La favola d'Atteone convertito in cervo da Diana è notissima a tutti

S. 4a, v. 8.
I duellisti sfuggono quanto possono il tirarsi addosso le mentite per non divenire attori.

S. 6a, v. 5.
Diceva prima poco dianzi. Ma l'autore l'ha mutato per isfuggire le dispute. Perciò che dianzi vuol dire poco prima, e alcuni tengono che sia un reiterar lo stesso. Con tutto ciò l'autore tiene che si possa reiterar l'istesso per significare un tempo assai prossimo, e dire poco poco prima e per conseguenza poco dianzi. Il Petrarca disse par dianzi, che fu quasi il medesimo.

S. 8a, v. 8.
Con certe buone coltellate levò l'insolenza a un cocchiero di Roma, che è una dell'eroiche azioni che si possano contare in quella corte, dove l'insolenza de' cocchieri, de' birri, de' barilari e de' carrattieri non può esser rappresentata con alcun superlativo.

S. 14a, v. 7.
I visi che i pittori cavano dal naturale dilettano sempre piú che gl'imaginati.

S. 17a, v. 1.
Alcuni s'hanno creduto che il poeta fingendo di burlare dica da dovero.

S. 20a, v. 1.
Inventa tutti i mezzi che possano animare un cuor vile.

S. 22a, v. 5.
Questo buon medico usa il rimedio che si suole usare con gli cavalli barberi che corrono al palio; i quali, per animarli maggiormente acciò che non abbiano da correre con timidità, si sogliono abbeverar di buon vino. Gli spiriti riscaldati dal calor del vino non istimano i pericoli o non gli conoscono.

S. 26a, v. 1.
Qui il conte poeteggia assai meglio che non fece nell'altro canto, quando non avea bevuto: perciò che qui poeteggia commosso da furor di vino, e là compone di suo natural talento. Ennio, Orazio e Torquato Tasso non sapeano comporre, se prima non avevano ben bevuto: e 'l Tasso in particulare soleva dire che la malvagia sola era quella che lo faceva comporre perfettamente.

S. 32a, v. 1.
A' veri paladini della poltroneria non bastano i rimorsi dell'onore, né la vergogna, né i rinfacciamenti degli amici, né l'ingiurie de' nemici, né l'esortazioni de' confidenti, né gli stimoli della dama, né il calore del vino; che finalmente vogliono anch'essere accompagnati da cinquanta difensori.

S. 34a, v. 8.
Questa e la salmeria del conte portatagli dietro in campo da un suo padrino parziale.

S. 41a, v. 1.
Nol poteva spedire a persona piú informata né piú diligente di me.

S. 41a, v. 5.
Intende del cavalier Cassiano del Pozzo, del principe Federico Cesi e del signor don Virginio Cesarini, famosi ingegni della loro età, come altri ancora ne fanno fede.

S. 41a, v. 8.
Il poeta ha mutato marchese, perché il primo per comparire in scena aveva promessi certi guanti d'ambra, che poi per esser cosa odorosa andarono in fumo. E realmente il luogo meritava d'essere occupato da un altro ingegno mirabile, come quello del marchese Sforza Pallavicino. E l'altro, che stimava piú due paia di guanti che l'immortalità, meritava d'esser levato da tappeto.

S. 44a, v. 7.
Gli animi vili, purché salvino la pancia, non si curano di perder l'onore.

S. 46a, v. 3.
S'andò a mettere in casa d'un cardinale suo paesano senza essere invitato, e convenne, volesse o no, ch'egli 1'alloggiasse; perciò che non bastarono né parole né fatti a farlo uscire di quella casa.

S. 46a, v. 7.
Il manuscritto dice: A quel becco del Tarco un marchesato. E veramente fu vero ch'egli da un principe greco si fece investire d'un marchesato nelle provincie del Turco, e pagò il titolo, chi dice una mano di scudi, e chi dice una dozzina di salami.

S. 51a, v. 4.
Alcuni interpretano costei per una certa spagnuola detta Dogna Maria di Ghir, che stette un tempo in Roma puttaneggiando, e mandò fallito questo eroe romanesco.

S. 57a, v. 1.
La flemma nel petto de' poltroni resiste alla collera in maniera che prima che la collera si riscaldi ci bisognano dieci guanciate. E veramente succedé un giorno che trovandosi il conte alla finestra, e passando due spagnoli, uno con la spada e l'altro prete, ed essendo la strada piena di sole, egli chiamando un suo uomo di casa, disse: Mira come questi marrani godono d'andare al sole. Gli spagnoli l'intesero: e quel dalla spada sopra la voce marrano gli diede una mentita e lo sfidò a venire a basso a duello: ma egli ridendosi di lui rispose che aveva burlato e che a Roma non si faceva quistione; e non si mosse dalla finestra, veggendo che l'uscio era chiuso.

S. 60a, v. 2.
L'intacca di que' vizii ne'quali per l'ordinario suole incorrere la plebe di Roma.

S. 61a, v. 3.
Si vituperò da se stesso: perché veramente fu vero ch'egli accusò la moglie d'adulterio, e la fece metter prigione insieme con l'adultero, ch'era persona assai vile.

CANTO DUODECIMO

S. 1a, v. 4.
Il vero testo stampato in Parigi e 'l manuscritto dell' autore dicono: E mandava indulgenze per gli altari, In Roma fu corretto per non parer che si dileggiassero le azioni d'un papa e le sue indulgenze: ma si guastò il ridicolo che cadeva a tempo.

S. 2a, v. 2
Il cardinale Ottaviano degli Ubaldini era allora vescovo di Bologna, e fu egli veramente quello che s' interpose, e che trattò la pace.

S. 4a, v. 2.
Diceva prima con un poco piú di piccante: De l'uno e l'altro esercito avocato.

S. 11a, v. 5.
Motteggia questi poeti, l'uno d'aver usato pietose per pie e l'altro d'aver usato il legno santo per la croce, facendo equivoco col legno d'lndia che guarisce il mal francese.

S. 16a, v. 3.
È trasportato da persona a persona: perciò che non fu I'Ubaldino, ma un altro dell'istesso ordine, che ne' prati di Solera andò un giorno dopo desinare a pigliar de' grilli.

S. 17a, v. 5.
Innocenzo Secondo era allor papa; ma non era già egli nemico de' Modanesi; come parve che poi si mostrasse qualche altro suo successore.

S. 18a, v. 4.
È un equivoco acuto.

S. 19a, v. 3.
Un quartaro tiene due barili, cioè la quarta parte di una botte. I saghi sono una certa composizione che si fa di mosto bollito con farina, e s'usa in molte città di Lombardia cominciando a Bologna.

S. 26a, v. 8.
Cosí fatte memorie sono veramente piuttosto fumo di gloria che gloria vera; mentre che l'altre azioni non corrispondano.

S. 40a, v. 8.
Ogn'anno veramente il giorno della festa di San Bartolomeo i Bolognesi dalle finestre del palazzo del Legato gettano in piazza un porcello cotto con altri diversi animali vivi; ma essi nondimeno dicono di farlo per altro rispetto.

S. 51a, v. 1.
Questo è cognome di famiglia antica di Padova oggidí estinta.

S. 52a, v. 7.
Parlano questi due ciascuno nel linguaggio suo naturale, ma villanesco. Sorgo in padovano significa la saggina.

S. 68a, v. 1.
Barisone da Vigonza fu il fondatore della famiglia Barisoni di Padova.

S. 79a, v. 8.
In Lombardia per Ogni Santi moltissime famiglie sono solite di mangiare un'oca, massimamente gli artigiani e la plebe.

- FINE -


A CHI LEGGE

La Secchia Rapita, poema di nuova spezie inventata dal Tassone, contiene una impresa mezza eroica e mezza civile, fondata su l'istoria della guerra, che passò tra i Bolognesi e i Modanesi al tempo dell'imperador Federico Secondo, nella quale Enzio re di Sardigna, figliuolo del medesimo Federico, combattendo in aiuto de' Modanesi, restò prigione e prima d'esser liberato morí in Bologna, come oggidi ancora può vedersi dall'epitafio della sua sepoltura nella chiesa di S. Domenico. La secchia di legno, per cagion della quale è fama che nascesse tal guerra, si conserva tuttavia nell' archivio della Catedrale di Modana, appesa alla volta della stanza, con una catena di ferro, quale dicono che servisse a chiudere la porta di Bologna, per onde entrarono i Modanesi quando rapiron la Secchia.
Di tal guerra ne trattano il Sigonio e 'l Campanaccio istorici, e alcune Croniche in penna della città di Modana, d'onde si può vedere che 'l Poema della Secchia Rapita ha per tutto ricognizione d'istoria e di verità.
L'impresa è una e perfetta, cioè con principio, mezzo e fine; e se non è una d'un solo, Aristotile non prescrisse mai ai compositori cosi fatte strettezze. E oggidí è chiaro che le azioni di molti dilettano piú che quelle d'un solo, e che è piú curiosa da vedere una battaglia campale di qual si voglia duello.
Perciò che il diletto della poesia epica non nasce dal vedere operare un uomo solo, ma dal sentir rappresentare verisimilmente azioni maravigliose; le quali quanto sono piú, tanto piú dilettano. Ma facendosi operare un sol uomo, non si può rappresentare in una impresa sola gran numero d'azioni; adunque sarà sempre piú sicuro l'introdurre piú d'uno. E per questo veggiamo che l'Ariosto, tutto che non abbia unità di favola e introduca gran moltiplicità di persone, diletta molto piú dell'Odissea d'Omero per la quantità e varietà delle azioni maravigliose ben collegate insieme.
Ma comunque si sia, quando l'autore compose questo Poema (che fu una state nella sua gioventú) non fu per acquistar fama in poesia, ma per passatempo e per curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme, grave e burlesco; imaginando che se ambidue di lettavano separati avrebbono eziandio dilettato congiunti e misti, se la mistura fosse stata temperata con artificio tale che dalla loro scambievole varietà tanto i dotti quanto gli idioti avessero potuto cavarne gusto.
Perciò che i dotti leggono ordinariamente le poesie per ricreazione e si dilettano piú delle baie, quando sono ben dette, che delle cose serie; e gl'idioti, oltre a gusto che cavano dalle cose burlesche, sono eziandio rapiti dalla maraviglia, che le azioni eroiche sogliono partorire.
Or questa nuova strada, come si vede, è piaciuta comunemente. All'autore basta averla inventata e messa in prova con questo saggio. Intanto, com'è facile aggiugnere alle cose trovate, potrà forse qualch'altro avanzarsi meglio per essa.
Egli nel rappresentare le persone passate s'è servito di molte presenti, come i pittori che cavano dai naturali moderni le faccie antiche; perciò che è verisimile che quello che a' dí nostri veggiamo, altre volte sia stato. Però dove egli ha toccato alcun vizio, è da considerare che non sono vizi particolari, ma comuni del secolo. E che per esempio il Conte di Culagna e Titta non sono persone determinate, ma le idee d'un codardo vanaglorioso e d'un zerbin romanesco. E tanto basti etc.

[dall'edizione del 1624 a firma Il Bisquadro, di A. Tassoni]


PAULINO CASTELVECCHIO
Al LETTORI.

Questo poema della Secchia rapita non ha bisogno d'esser lodato per accreditarsi, perciò che quale egli sia il giudicio commune il dimostra; benché non vi sieno mancati de' cervelli stravolti, che l'hanno giudicato col giudicio dell'asino il quale sentenziò che cantava meglio il cucco del rusignolo.
Ma non è maraviglia, poiché anche alla nostra età abbiamo veduti ingegni che hanno anteposto il Morgante del Pulci alla Gierusalemme del Tasso; e l'antica vide l'imperatore Adriano che anteponeva Ennio a Virgilio e Celio a Salustio; ma bench'egli fosse imperatore, il suo giudicio depravato il fe' riputare un maligno. Io non so se i morti godano dell'applauso, che danno i vivi all'opere loro; ma stimo ben gran ventura che i vivi veggano date all'opere loro quelle lodi che cosi di rado e con tanta difficultà a quelle de' morti vengono concedute. L'invidia e la malignità sono due vizii immascherati, che senza esser conosciuti danno ferite mortali, benché non sempre i colpi loro abbiano effetto, perciò che trovano anch'essi dell'armature incantate.
Ma passiamo alle dichiarazioni del Salviani. Gli argomenti de' Canti sono del signore Abbate Albertino Barisoni, come si può veder dalle prime copie stampate in Parigi.

[dall'edizione del 1630 di A. Tassoni]