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Giuseppe Ungaretti - SENTIMENTO DEL TEMPO (1919-1935)














































Ungaretti
la poetica



Da Il Porto sepolto a L'Allegria
Nel riordinare le sue poesie, dando loro un titolo complessivo, Ungaretti volle sottolineare il carattere autobiografico, proponendole come una sorta di nuova e versificata recherche (il riferimento al titolo del capolavoro di Proust non è casuale, se si pensa che Ungaretti fu forse il primo scrittore a parlare dell'opera di Proust in Italia, nel 1919). Egli stesso, del resto, aveva affermato: «Io credo che non vi possa essere né sincerità né verità in un'opera d'arte se in primo luogo tale opera d’arte non sia una confessione». Ma la componente autobiografica riscontrabile nella poesia ungarettiana è assai diversa da quella di un Saba. Il rapporto fra letteratura e vita è piuttosto quello che verrà codificato a proposito dell'Ermetismo, attribuendo all'arte il significato di un'esperienza assoluta e totale, unica e irripetibile.
Se le poesia pubblicate su «Lacerba», nel 1915, hanno ancora cadenze discorsive e cronachistiche, le liriche del Porto sepolto, uscite alal fine dell’anno successivo, assumono un andamento completamente diverso, che brucia ogni residuo puramente descrittivo o realistico. È questa la fase decisiva della ricerca poetica ungarettiana, esemplificata dai testi che confluiranno poi nell’Allegria (1931). Ricollegandosi alla lezione del Simbolismo, Ungaretti porta alle estreme conseguenze il procedimento dell'analogia, ricollegandosi in questo anche alle indicazioni di Marinetti (del quale respinge tuttavia ogni presupposto di dinamismo meccanicistico). Ecco quanto scriveva in proposito: «Se il carattere dell'800 era quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di fumo, il poeta d'oggi cercherà dunque di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all'innocenza, quale lontananza da varcare; ma in un baleno». Ungaretti usa qui alcuni termini essenziali per intendere la natura del suo linguaggio poetico: se la «memoria» è il fardello dei ricordi personali e storici che l'uomo porta con sé, e che lo collegano alla dimensione contingente della vita, l'«innocenza» rappresenta la ricerca di una purezza edenica (cfr. Girovago, vv. 24-25), la riconquista dell'identità perduta, che metta l'uomo a contatto con la dimensione originaria dell'essere. Ma la «lontananza da varcare» (ritorna il motivo del viaggio) deve essere bruciata «in un baleno», proprio per liberarsi da ogni impurità, portando il contingente nella sfera dell'assoluto. La poesia assume anche, di conseguenza, un valore metafisico e religioso, come afferma ancora Ungaretti: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d'Iddio, anche quando è una bestemmia. Oggi il poeta è tornato a sapere, ad avere gli occhi per vedere, e, deliberatamente, vede e vuole vedere l'invisibile nel visibile».
Sul piano tecnico (che coincide, in ultima analisi, con quello metafisico) l'operazione consiste nella distruzione del verso tradizionale, che, con la sua sintassi ancora naturalistica (in quanto, con evidente ripresa di una terminologia positivistica, stabilisce «legami a furia di rotaie e di ponti» ecc.), è distratto dal vero obiettivo della ricerca poetica. L'innovazione ungarettiana venne certo favorita dalla rivoluzione futurista delle parole in libertà, di cui è tuttavia rifiutato il movimento caotico, ancora immerso nel cuore della materia, con il suo analogismo onomatopeico e naturalistico. La strada da percorrere era quella additata da Mallarmé, nella suprema e più ardua delle sue prove poetiche, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso. E la direzione che attribuisce alla poesia un significato magico ed esoterico, collocandola nell'oscura zona di confine che sta a ridosso dell'inconoscibile e dell'inesprimibile. Resta fondamentale, in questo senso, il significato della «parola», che assume il valore di una improvvisa e folgorante "illuminazione"; essa si identifica con l'«attimo » in cui, attraverso l'immediatezza del rapporto analogico, la poesia sfiora la totalità e la pienezza dell'essere. La parola viene fatta risuonare nella sua autonomia e nella sua purezza (o, se si vuole, nella sua «innocenza»), inserita, in versi brevi o addirittura isolata fino a farla coincidere con la misura del verso, quasi per collocarla nel vuoto e nel silenzio, oltre ogni rapporto contingente con la realtà.
In questo senso va inteso l'autobiografismo su cui lo stesso Ungaretti ha posto l'accento, riscoprendo anche la dimensione della sua preistoria poetica: dall'infanzia e dalla giovinezza trascorse ad Alessandria, con le impressioni di un paesaggio affidato poi alle testimonianze della memoria, fino all'incontro con l'Italia, la «terra promessa» dei suoi genitori. Da questi riscontri sono tratti i temi e i motivi dell'esordio poetico: il deserto, il miraggio, le cantilene arabe, come ricordo degli anni egiziani; il mare, il porto, il viaggio, legati alla vicenda dell' emigrante. Il discorso si approfondisce nel motivo dell'esilio (cfr. In memoria) e dell'estraneità, proprio di Girovago. Un temporaneo -seppure decisivo - momento di approdo è costituito dall'esperienza del fronte, che offre a Ungaretti gli spunti per alcune delle sue liriche più crude e sofferte, spoglie di ogni retorica (Veglia, I fiumi). Ma la guerra gli consente anche di stabilire un contatto con la propria gente e di raggiungere la coscienza di una rinnovata identità, che ricongiunge al presente le esperienze vissute nel passato (cfr. I fiumi). La guerra, infine, costringe a vivere nel precario confine fra la vita e la morte (cfr . Soldati), dove ogni cosa può rovesciarsi nel suo opposto e scomparire per sempre all'improvviso; essa traduce così in immagini concrete, in cui ci si può imbattere in ogni momento, quella " poetica dell'attimo" che costituisce il fondamento della prima ricerca di Ungaretti.
Non a caso la sua ispirazione si definisce proprio in questo periodo, saldando le ragioni dell'autobiografismo esistenziale con la conquista (avvenuta molto rapidamente) della nuova tecnica espressiva, capace di rendere l'assolutezza di una aspirazione metafisica. In questo senso il poeta recupera anche, nell'edizione definitiva de L’Allegria, alcuni testi precedenti (datati Milano 1914-15), dove già si delineava l'oscillazione dialettica tra essere e nulla, realtà e mistero, presenza e assenza, gesto e immobilità (cfr. la lirica che introduce anche l'edizione definitiva delle poesie e che si intitola Eterno: «Tra un fiore colto e l'altro donato / l'inesprimibile nulla»). Particolarmente indicativi risultano, allora, i titoli delle prime due raccolte pubblicate, nel 1916 e nel 1919. Il porto sepolto allude a «ciò che segreto rimane in noi, indecifrabile», ed ha una fonte precisa nel racconto favoloso di due amici francesi: «Mi parlavano di un porto, di un porto sommerso, che doveva precedere l'epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima di Alessandro, che già prima di Alessandro era una città. Non se ne sa nulla. Quella mia città si consuma e s'annienta d'attimo in attimo. Come faremo a sapere delle sue origini se non persiste più nulla nemmeno di quanto è successo un attimo fa? Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d'ogni era d'Alessandria». Il «porto sepolto» equivale così al segreto della poesia, nascosto nel fondo di un «abisso» nel quale deve immergersi il poeta. Per quanto riguarda Allegria di naufragi, lo stesso Ungaretti, in una nota, ha spiegato il carattere ossimorico del sintagma, parlando dell'«esultanza d'un attimo», di un'«allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare». Una sorta di più pregnante spiegazione poetica è data dalla lirica del 1917 dal titolo omonimo: «E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare». Non a caso il motivo del «naufragio» (che richiama subito quello dell'«abisso» ) era stato sviluppato da Mallarmé nell'ultima parte di Un colpo di dadi); esso si collega inoltre al motivo del «viaggio», come simbolo di una presenza della «morte» sempre latente (come dirà Ungaretti in un verso di Lindoro di deserto: «Sino alla morte in balia del viaggio»). Il significato religioso di questa ricerca poetica è suggellato dalla lirica Preghiera, un'invocazione che, richiamandosi allontano esempio del Petrarca, conclude L 'allegria: «Quando mi desterò / dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera // Quando il mio peso mi sarà leggero // Il naufragio concedimi Signore / di , quel giovane giorno al primo grido».

Il Sentimento del tempo
Le poesie scritte a partire dal 1919 e inserite nel Sentimento del tempo (1933) rappresentano un sostanziale mutamento delle prospettive, anche per quanto riguarda le soluzioni stilistiche e formali. Alla poetica dell'attimo si sostituisce una diversa percezione del tempo, che viene adesso inteso come continuità e durata, non per il venir meno del ruolo del soggetto, ma per attuare il recupero di una dimensione più complessa e problematica dell'esistenza. Nella collocazione all'interno del canzoniere, la raccolta appare come la seconda tappa del viaggio ungarettiano o, per usare le parole stesse del poeta, come «secondo tempo d'esperienza umana». Sul piano tecnico, la sua novità essenziale consiste nel recupero delle strutture sintattiche e, soprattutto, delle forme metriche tradizionali (in particolare l'endecasillabo, sulla cui «difesa» Ungaretti scriverà un apposito saggio). Si comprende così il vero significato dell'operazione compiuta ne L’Allegria: una distruzione del verso non polemica e fine a se stessa, ma condotta consapevolmente allo scopo di risentirlo come nuovo, ingenuo, per poi ricomporlo e farlo rinascere dall'interno. Non a caso l'operazione presuppone la rilettura e la rimeditazione di Petrarca e Leopardi, oltre a coincidere con il soggiorno a Roma, che sembra riunire e simboleggiare la loro esperienza: alla base dell'atmosfera romana e della poesia petrarchesco-leopardiana esiste infatti un'analoga percezione della rovina, della decadenza. Leopardi sente la fine di una civiltà giunta al culmine della sua evoluzione; Petrarca si trova di fronte a un mondo da ripristinare: quello della classicità, attraverso la memoria. Ma la memoria, come rinnovata presa di possesso, si identifica in qualche rudere e forma mutilata, in un sentimento dell'esistenza che Roma riassume in quanto città barocca. Per comprendere il suo mistero occorre risalire a Michelangelo e alla sua arte, che è unione di contrari, fusione di Giustizia e Pietà, di Dio e Uomo, in Cristo, giudice e vittima al tempo stesso. In questo senso il Barocco agisce anche a livello religioso: la vita, come incessante processo di distruzione e creazione, genera, per l'uomo, il dramma dell'antinomia tra «l'infallibilità fantastica del facitore» e la «precarietà della propria condizione». La lezione romana, inoltre, induce Ungaretti a registrare i cambiamenti della natura e a ricomporre le fratture in un nuovo mosaico, dal momento che il Barocco distrugge e ricompone dopo l'esplosione.
Nasce di qui la poesia del tempo e delle sue metamorfosi, nell'incessante travaglio delle ore e delle stagioni: dal mattino alla sera, dalla primavera all'autunno. Lo stesso Ungaretti ha dichiarato come la sua attenzione fosse volta, fino a11932, a osservare il paesaggio: soprattutto paesaggi d'estate, essendo l'estate la stagione a lui più congeniale e anche «la stagione del barocco». Ma Roma vale anche in quanto suscitatrice di immagini mitologiche. Nel grande e composito affresco ungarettiano, le figure del mito (da Crono ad Apollo e Giunone) diventano le «voci del vocabolario accorse a evocare i fantasmi», colmando così quella sensazione di vuoto, anch'essa tipicamente barocca, che si prova ad esempio davanti al Colosseo, «enorme tamburo con orbite senz'occhi». Complesse ragioni di poetica sono alla base, come si è visto, della seconda raccolta dei versi ungarettiani. Più in particolare, in un intervento del 1963, Ungaretti commenta Ungaretti, il poeta ne ha così individuato le strutture profonde: «Ci sono tre momenti nel Sentimento del tempo del mio modo di sentire successivamente il tempo. Nel primo mi provavo a sentire il tempo nel paesaggio come profondità storica; nel secondo, una civiltà minacciata di morte mi induceva a meditare sul destino dell'uomo e a sentire il tempo, l'effimero, in relazione con l'eterno; l'ultima parte del Sentimento del tempo ha per titolo L'amore, e in essa mi vado accorgendo dell'invecchiamento e del perire nella mia carne stessa».
La sezione centrale, quasi interamente composta da poesie de11925, si intitola La fine di Crono (Crono, padre di Zeus, è il simbolo del tempo) ed esemplifica più direttamente gli intendimenti dell'intera raccolta, secondo cui «la parabola dell'anno e quella del giorno sono forse eterne figure dell'armonia universale, mentre l'uomo non è che un punto fra due infiniti oblii. Il silenzio della tomba è uguale a quello di prima della culla. È l'eternità. Ma l'uomo in vita, non s'affanna che a volere, invano, percorrer da vivo, cosciente, colla sua intatta persona, la sua patria silenziosa, l'eternità. Ho voluto dire che l'uomo, creatura, fatto temporale, si porta, morendo, con sé il mondo, il quale con lui era nato, cresciuto, con lui era giunto, quando ci arriva, all'apice della salita, e poi, appiè del declivio». Il succedersi di un tempo che è insieme assoluto e individuale si sviluppa dalla Nascita dell'aurora alle immagini apocalittiche della Morte di Crono, fino a riprendere, nella lirica conclusiva Pari a sé, il motivo del viaggio e della nave: « Va la nave sola / nella quiete della sera» (in un simile contesto si colloca anche L'isola, in cui l'andamento mitico-paesaggistico è tutto intessuto di preziosi riferimenti alla tradizione letteraria). Personali rielaborazioni e variazioni di spunti leopardiani si possono considerare L'inno alla morte e Notte di marzo, dove Ungaretti riprende il tema di amore-morte e il motivo dell'invocazione alla luna. Le poesie mitico-primaverili come Apollo e Aprile preludono poi alla violenza paesaggistica delle liriche estive (Di luglio, D'agosto), il cui vitalismo distruttore si risolve, in Giunone, nel torbido grido dei sensi. Il tormento della carne si placa negli inni, che pongono il problema religioso come esigenza decisiva e totale, investendo di una nuova luce le ansie più profonde della poesia ungarettiana. I motivi della preghiera e gli stilemi dell'invocazione a Dio appaiono così come lo sforzo di liberare una tensione contraddittoria (tra la giustizia e la legge, la purezza e il peccato, lo spirito e la materia), per rimarginare una ferita aperta dalle tentazioni, dalle angosce e dalle colpe. Non a caso il sogno ricorrente è quello di una purezza edenica, ormai compromessa dalla memoria (Caino) e sostituita da un perenne destino di espiazione.

Le ultime raccolte
A interrompere la parabola delle stagioni, con gli ardui simboli in cui si compendia la «vita di un uomo», e a farne precipitare gli eventi, interviene nel 1947 la pubblicazione di Il dolore, in cui sono comprese le poesie dell'ultimo decennio. La raccolta si fa voce del tormento personale (la morte del fratello e del figlio di nove anni) e collettivo (la guerra). Per la sofferta partecipazione a queste esperienze, i testi non sono accompagnati da alcuna nota dell'autore, che si limita ad osservare: «So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d'essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi». Entro quest'ottica, Il dolore può essere definito come il libro più petrarchesco, quello che rivela con maggiore evidenza la sua struttura di diario patetico, risolvendosi, quale specchio di vita, in immediata confessione autobiografia. Alle due poesie scritte nel 1937 in memoria del fratello, riunite sotto il titolo della prima, Tutto ho perduto, seguono le sezioni Giorno per giorno (1940-46) e Il tempo è muto (1940-45), dedicate al figlio scomparso. La prima è concepita alla stregua di una cronistoria del proprio dolore, misurato nelle minime ripercussioni. L'assenza della persona fisica è compensata da segni («il volto già scomparso», «gli occhi ancora vivi», «le fiduciose mani», «l'ombra che mi si pone a lato», «l'ingenua voce», «il tuo felice volto»), cui si attribuisce la possibilità di proseguire un colloquio che, nonostante lo strazio («E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...»), si vuole mantenere in vita: «Passa la rondine e con essa l'estate, / e anch'io, mi dico, passerò... / Ma resti dell'amore che mi strazia / non solo segno un breve appannamento / se dall'inferno arrivo a qualche quiete... ». La trasfigurazione del figlio, in una luce di purificazione e di speranza religiosa, diviene così anche sinonimo di innocenza: « Fa dolce e forse qui vicino passi / dicendo: "Questo sole e tanto spazio / ti calmino. Nel puro vento udire / puoi il tempo camminare e la mia voce. / Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso / lo slancio muto della tua speranza. / Sono per te l'aurora e intatto giorno"». Con i versi di Roma occupata (1943-44) e I ricordi (1942-46), la tragedia individuale si risolve in quella dell'intera nazione. Le immagini della guerra danno la dimensione di uno sconvolgimento apocalittico, in cui gli stessi toni biblici ed evangelici del linguaggio ripropongono il valore di una fede religiosa o la richiesta di una umana solidarietà, ora offesa e conculcata, cui affidare le sorti di un'intera civiltà minacciata (cfr . Non gridate più).
La raccolta successiva, La terra promessa, pubblicata nel 1950, comprende i «frammenti» di un più ampio progetto, iniziato nel 1935 ma rimasto a uno stadio di abbozzo: la composizione di un melodramma, con personaggi, musica e cori. La vicenda avrebbe dovuto rappresentare lo sbarco di Enea, le sue imprese gloriose, l'amore di Didone e la morte dell'eroina, con un disegno allegorico capace di riflettere le tematiche di fondo della poesia ungarettiana (la ricerca di una nuova «terra» per sfuggire alla legge del tempo, il contrasto tra il dovere e la passione, con l'approdo finale nella morte). I diciannove Cori descrittivi di stati d'animo di Didone intendono raffigurare «il distacco degli ultimi barlumi di giovinezza da una persona, oppure da una civiltà, perché anche le civiltà nascono, crescono, declinano e muoiono», attraverso il «delirare di una passione che si guarda perire e farsi ripugnante, desolante, deserta». Il taccuino del vecchio (1961) comprende le poesie del periodo 1952-60 ed è per la maggior parte composto dagli Ultimi cori per la terra promessa, che stabiliscono un ideale rapporto di continuità con l'opera precedente. L’opera è tuttavia mutata: da un lato, la «terra promessa» tende sempre più ad identificarsi con la fine delle stagioni e della vita; dall’altro, la proiezione mitica viene a cadere, per lasciare nuovamente il posto alla prima persona del poeta, che, collocato, fra il tempo e la morte, cerca un bilancio definitivo della propria esperienza umana e poetica.

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
Prime

O NOTTE
1919
Dall’ampia ansia dell’alba
Svelata alberatura.

Dolorosi risvegli.

Foglie, sorelle foglie,
Vi ascolto nel lamento.

Autunni,
Moribonde dolcezze.

O gioventú,
Passata è appena l’ora del distacco.

Cieli alti della gioventú,
Libero slancio.

E già sono deserto.

Perso in questa curva malinconia.

Ma la notte sperde le lontananze.

Oceanici silenzi,
Astrali nidi d’illusione,

O notte.

PAESAGGIO
1920
MATTINA
Ha una corona di freschi pensieri,
Splende nell’acqua fiorita.


MERIGGIO
Le montagne si sono ridotte a deboli fumi e l’invadente
deserto formicola d’impazienze e anche il sonno turba e
anche le statue si turbano.

SERA
Mentre infiammandosi s’avvede ch’è nuda, il florido
carnato nel mare fattosi verde bottiglia, non è piú che
madreperla.
Quel moto di vergogna delle cose svela per un momento,
dando ragione dell’umana malinconia, il consumarsi
senza fine di tutto.

NOTTE
Tutto si è esteso, si è attenuato, si è confuso.
Fischi di treni partiti.
Ecco appare, non essendoci piú testimoni,
anche il mio vero viso, stanco e deluso.
LE STAGIONI
192O
1
O leggiadri e giulivi coloriti
Che la struggente calma alleva,
E addolcirà,
Dall’astro desioso adorni,
Torniti da soavità,
O seni appena germogliati,
Già sospirosi,
Colmi e trepidi alle furtive mire,
V’ho
Adocchiati.

Iridi libere
Sulla tua strada alata
L’arcano dialogo scandivano.


È mutevole il vento,
Illusa adolescenza.

2
Eccoti domita e turbata.

È già oscura e fonda
L’ora d’estate che disanima.

Già verso un’alta, lucida
Sepoltura, si salpa.

Dal notturno meriggio,
Ormai soli, oscillando stanchi,

Invocano i ricordi:

Non ordirò le tue malinconie,
Ma sul fosso lunare sull’altura
L’ombra si desterà.

E in sul declivio dell’aurora
La suprema veemenza
Dell’ardore coronerà
Piú calmo, memorando e tenero,
La chioma docile e sonora
E di freschezza dorerà
La terra tormentata.

3
Indi passò sulla fronte dell’anno
Un ultimo rossore.

E lontanissimo un giovane coro
S’udí:


Nell’acqua garrula
Vidi riflesso uno stormo di tortore
Allo stellato grigiore s’unirono.

Quella fu l’ora piú demente.

4
Ora anche il sogno tace.

È nuda anche la quercia,
Ma abbarbicata sempre al suo macigno.

SILENZIO IN LIGURIA
1922
Scade flessuosa la pianura d’acqua.

Nelle sue urne il sole
Ancora segreto si bagna.

Una carnagione lieve trascorre.

Ed ella apre improvvisa ai seni
La grande mitezza degli occhi.

L’ombra sommersa delle rocce muore.

Dolce sbocciata dalle anche ilari,
Il vero amore è una quiete accesa,

E la godo diffusa
Dall’ala alabastrina
D’una mattina immobile.
ALLA NOIA
1922
Quiete, quando risorse in una trama
Il corpo acerbo verso cui m’avvio.

La mano le luceva che mi porse,
Che di quanto m’avanzo s’allontana.

Eccomi perso in queste vane corse.

Quando ondeggiò mattina ella si stese
E rise, e mi volò dagli occhi.

Ancella di follia, noia,
Troppo poco fosti ebbra e dolce.

Perché non t’ha seguita la memoria?

È nuvola il tuo dono?

È mormorio, e popola
Di canti remoti i rami.

Memoria, fluido simulacro,
Malinconico scherno,
Buio del sangue...

Quale fonte timida a un’ombra
Anziana di ulivi,
Ritorni a assopirmi...

Di mattina ancora segreta,
Ancora le tue labbra brami...

Non le conosca piú!
SIRENE
1923
Funesto spirito
Che accendi e turbi amore,
Affine io torni senza requie all’alto
Con impazienza le apparenze muti,
E già, prima ch’io giunga a qualche meta,
Non ancora deluso
M’avvinci ad altro sogno.
Uguale a un mare che irrequieto e blando
Da lungi porga e celi
Un’isola fatale,
Con varietà d’inganni
Accompagni chi non dispera, a morte.

RICORDO D’AFRICA
1924
Non piú ora tra la piana sterminata
E il largo mare m’apparterò, né umili
Di remote età, udrò piú sciogliersi, chiari,
Nell’aria limpida, squilli; né piú
Le grazie acerbe andrà nudando
E in forme favolose esalterà
Folle la fantasia,
Né dal rado palmeto Diana apparsa
In agile abito di luce,
Rincorrerò
(In un suo gelo altiera s’abbagliava,
Ma le seguiva gli occhi nel posarli
Arroventando disgraziate brame,
Per sempre
Infinito velluto).


È solo linea vaporosa il mare
Che un giorno germogliò rapace,
E nappo d’un miele, non piú gustato
Per non morire di sete, mi pare
La piana, e a un seno casto, Diana vezzo
D’opali, ma nemmeno d’invisibile
Non palpita.

Ah! questa è l’ora che annuvola e smemora.

La Fine di Crono

UNA COLOMBA
1925
D’altri diluvi una colomba ascolto.

L’ISOLA
1925
A una proda ove sera era perenne
Di anziane selve assorte, scese,
E s’inoltrò
E lo richiamò rumore di penne
Ch’erasi sciolto dallo stridulo
Batticuore dell’acqua torrida,
E una larva (languiva
E rifioriva) vide;
Ritornato a salire vide
Ch’era una ninfa e dormiva
Ritta abbracciata a un olmo.

In sé da simulacro a fiamma vera
Errando, giunse a un prato ove
L’ombra negli occhi s’addensava
Delle vergini come

Sera appiè degli ulivi;
Distillavano i rami
Una pioggia pigra di dardi,
Qua pecore s’erano appisolate
Sotto il liscio tepore,
Altre brucavano
La coltre luminosa;
Le mani del pastore erano un vetro
Levigato da fioca febbre.

LAGO LUNA ALBA NOTTE
1927
Gracili arbusti, ciglia
Di celato bisbiglio...

Impallidito livore rovina...

Un uomo, solo, passa
Col suo sgomento muto...

Conca lucente,
Trasporti alla foce del sole!

Torni ricolma di riflessi, anima,
E ritrovi ridente
L’oscuro...

Tempo, fuggitivo tremito...

APOLLO
1925
Inquieto Apollo, siamo desti!

La fronte intrepida ergi, déstati!

Spira il sanguigno balzo...


L’azzurro inospite è alto!

Spaziosa calma...

INNO ALLA MORTE
1925
Amore, mio giovine emblema,
Tornato a dorare la terra,
Diffuso entro il giorno rupestre,
È l’ultima volta che miro
(Appiè del botro, d’irruenti
Acque sontuoso, d’antri
Funesto) la scia di luce
Che pari alla tortora lamentosa
Sull’erba svagata si turba.

Amore, salute lucente,
Mi pesano gli anni venturi.

Abbandonata la mazza fedele,
Scivolerò nell’acqua buia
Senza rimpianto.

Morte, arido fiume...

Immemore sorella, morte,
L’uguale mi farai del sogno
Baciandomi.

Avrò il tuo passo,
Andrò senza lasciare impronta.

Mi darai il cuore immobile
D’un iddio, sarò innocente,
Non avrò piú pensieri né bontà.


Colla mente murata,
Cogli occhi caduti in oblio,
Farò da guida alla felicità.

NOTTE DI MARZO
1927
Luna impudica, al tuo improvviso lume
Torna, quell’ombra dove Apollo dorme,
A trasparenze incerte.

Il sogno riapre i suoi occhi incantevoli,
Splende a un’alta finestra.

Gli voli un desiderio,
Quando toccato avrà la terra,
Incarnerà la sofferenza.
APRILE
1925

È oggi la prima volta
Che le può aprire gli occhi,
L’adolescente.

Esiti, sole?

Con brama schiva la bendi d’affanni.

NASCITA D’AURORA
1925
Nel suo docile manto e nell’aureola,
Dal seno, fuggitiva,
Deridendo, e pare inviti,
Un fiore di pallida brace
Si toglie e getta, la nubile notte.


È l’ora che disgiunge il primo chiaro
Dall’ultimo tremore.

Del cielo all’orlo, il gorgo livida apre.

Con dita smeraldine
Ambigui moti tessono
Un lino.

E d’oro le ombre, tacitando alacri
Inconsapevoli sospiri,
I solchi mutano in labili rivi.

DI LUGLIO
1931
Quando su ci si butta lei,
Si fa d’un triste colore di rosa
Il bel fogliame.

Strugge forre, beve fiumi,
Macina scogli, splende,
E furia che s’ostina, è l’implacabile,
Sparge spazio, acceca mete,
È l’estate e nei secoli
Con i suoi occhi calcinanti
Va della terra spogliando lo scheletro.

GIUNONE
1931
Tonda quel tanto che mi dà tormento,
La tua coscia distacca di sull’altra...

Dilati la tua furia un’acre notte!
D’AGOSTO
1925
Avido lutto ronzante nei vivi,

Monotono altomare,
Ma senza solitudine,

Repressi squilli da prostrate messi,

Estate,

Sino ad orbite ombrate spolpi selci,

Risvegli ceneri nei colossei...

Quale Erebo t’urlò?

UN LEMBO D’ARIA
1925
Si muova un lembo d’aria...

Spicchi, serale come sull’abbaglio
Visciole, avida spalla...

OGNI GRIGIO
1925
Dalla spoglia di serpe
Alla pavida talpa
ogni grigio si gingilla sui duomi...

Come una prora bionda
Di stella in stella il sole s’accomiata
E s’acciglia sotto la pergola...

Come una fronte stanca
È riapparsa la notte
Nel cavo d’una mano...
TI SVELERA'
1931
Bel momento, ritornami vicino.

Gioventú, parlami
In quest’ora voraginosa.

O bel ricordo, siediti un momento.

Ora di luce nera nelle vene
E degli stridi muti degli specchi,
Dei precipizi falsi della sete...

E dalla polvere piú fonda e cieca
L’età bella promette:

Con dolcezza di primi passi, quando
Il sole avrà toccato
La terra della notte
E in freschezza sciolto ogni fumo,
Tornando impallidito al cielo
Un corpo ilare ti svelerà.

FINE DI CRONO
1925
L’ora impaurita
In grembo al firmamento
Erra strana.

Una fuligine
Lilla corona i monti,

Fu l’ultimo grido a smarrirsi.

Penelopi innumeri, astri


Vi riabbraccia il Signore!

(Ah, cecità!
Frana delle notti...)

E riporge l’Olimpo,
Fiore eterno di sonno.

CON FUOCO
1925
Con fuoco d’occhi un nostalgico lupo
Scorre la quiete nuda.

Non trova che ombre di cielo sul ghiaccio,

Fondono serpi fatue e brevi viole.

LIDO
1925
L’anima dissuade l’aspetto
Di gracili arbusti sul ciglio
D’insidiosi bisbigli.

Conca lucente che all’anima ignara
Il muto sgomento rovini
E porti la salma vana
Alla foce dell’astro, freddo,
Anima ignara che torni dall’acqua
E ridente ritrovi
L’oscuro,

Finisce l’anno in quel tremito.
LEDA
1925
I luminosi denti spengono
L’impallidita.

È nel presago oblio sparso,
Ricolma di riflessi
La salma stringo colle braccia fredde,
Calda ancora,
Che già tutta vacilla
In un ascoso ripullulamento
D’onde.

FINE
1925
In sé crede e nel vero chi dispera?

PARI A SÉ
1925
Va la nave, sola
Nella quiete della sera.

Qualche luce appare
Di lontano, dalle case.

Nell’estrema notte
Va in fumo a fondo il mare.

Resta solo pari a sé,
Uno scroscio che si perde...

Si rinnova...
Sogni e Accordi

ECO
1927
Scalza varcando da sabbie lunari,
Aurora, amore festoso, d’un’eco
Popoli l’esule universo e lasci
Nella carne dei giorni,
Perenne scia, una piaga velata.

ULTIMO QUARTO
1927
Luna,
Piuma di cielo,
Cosí velina,
Arida,
Trasporti il murmure d’anime spoglie?

E alla pallida che diranno mai
Pipistrelli dai ruderi del teatro.
In sogno quelle capre,
E fra arse foglie come in fermo fumo
Con tutto il suo sgolarsi di cristallo
Un usignuolo?

STATUA
1927
Gioventú impietrita,
O statua, o statua dell’abisso umano...

Il gran tumulto dopo tanto viaggio
Corrode uno scoglio
A fiore di labbra.
OMBRA
1927
Uomo che speri senza pace,
Stanca ombra nella luce polverosa,
L’ultimo caldo se ne andrà a momenti
E vagherai indistinto...

AURA
1927
Udendo il cielo
Spada mattutina,
E il monte che gli sale in grembo,
Torno all’usato accordo.

Ai piedi stringe la salita
Un albereto stanco.

Dalla grata dei rami
Rivedo voli nascere...

STELLE
1927
Tornano in alto ad ardere le favole.

Cadranno colle foglie al primo vento.

Ma venga un altro soffio,
Ritornerà scintillamento nuovo.
SOGNO
1927
Rotto l’indugio sotto l’onda
Torna a rapirsi aurora.

Con un volare argenteo
Ad ogni fumo insinua guance in fiamma.

Ai pagliai toccano clamori.

Ma intorno al lago già l’ontano
Mostra la scorza, è giorno.

Da sonno a veglia fu
Il sogno in un baleno.

FONTE
1927
Il cielo ha troppo già languito
E torna a splendere
E di pupille semina la fonte.

Risorta vipera,
Idolo snello, fiume giovinetto,
Anima, estate tornata di notte,
Il cielo sogna.

Prega, amo udirti,
Tomba mutevole.

DUE NOTE
1927
Inanella erbe un rivolo,

Un lago torvo il cielo glauco offende.
DI SERA
1928
Nelle onde sospirose del tuo nudo
Il mistero rapisci. Sorridendo,

Nulla, sospeso il respiro, piú dolce
Che udirti consumarmi
Nel sole moribondo
L’ultimo fiammeggiare d’ombra, terra!

ROSSO E AZZURRO
1928
Ho atteso che vi alzaste
Colori dell’amore,
E ora svelate un’infanzia di cielo.

Porge la rosa piú bella sognata.

GRIDO
1928
Giunta la sera
Riposavo sopra l’erba monotona,
E presi gusto
A quella brama senza fine,
Grido torbido e alato
Che la luce quando muore trattiene.

QUIETE
1929
L’uva è matura, il campo arato.

Si stacca il monte dalle nuvole.

Sui polverosi specchi dell’estate
Caduta è l’ombra


Tra le dita incerte
Il loro lume è chiaro,
E lontano.

Colle rondini fugge
L’ultimo strazio.

SERENO
1929
Arso tutto ha l’estate.

Ma torni un dito d’ombra,
Ritrova il rosolaccio sangue,
E di luna, la voce che si sgrana
I canneti propaga.

Muore il timore e la pietà.

SERA
1929
Appiè dei passi della sera
Va un’acqua chiara
Colore dell’uliva,

E giunge al breve fuoco smemorato.

Nel fumo ora odo grilli e rane,

Dove tenere tremano erbe.


Leggende

IL CAPITANO
1929
Fui pronto a tutte le partenze.

Quando hai segreti, notte hai pietà.

Se bimbo mi svegliavo
Di soprassalto, mi calmavo udendo
Urlanti nell’assente via,
Cani randagi. Mi parevano
Piú del lumino alla Madonna
Che ardeva sempre in quella stanza,
Mistica compagnia.

E non ad un rincorrere
Echi d’innanzi nascita,
Mi sorpresi con cuore, uomo?

Ma quando, notte, il tuo viso fu nudo
E buttato sul sasso
Non fui che fibra d’elementi,
Pazza, palese in ogni oggetto,
Era schiacciante l’umiltà.

Il Capitano era sereno.

(Venne in cielo la luna)

Era alto e mai non si chinava.

(Andava su una nube)

Nessuno lo vide cadere,
Nessuno l’udí rantolare,
Riapparve adagiato in un solco,
Teneva le mani sul petto.

Gli chiusi gli occhi.

(La luna è un velo)

Parve di piume.

PRIMO AMORE
1929
Era una notte urbana,
Rosea e sulfurea era la poca luce
Dove, come da un muoversi dell’ombra,
Pareva salisse la forma.

Era una notte afosa
Quando improvvise vidi zanne viola
In un’ascella che fingeva pace.

Da quella notte nuova ed infelice
E dal fondo del mio sangue straniato
Schiavo loro mi fecero segreti.

LA MADRE
1930
E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.


Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.

DOVE LA LUCE
1930
Come allodola ondosa
Nel vento lieto sui giovani prati,
Le braccia ti sanno leggera, vieni.

Ci scorderemo di quaggiú,
E del male e del cielo,
E del mio sangue rapido alla guerra,
Di passi d’ombre memori
Entro rossori di mattine nuove.

Dove non muove foglia piú la luce,
Sogni e crucci passati ad altre rive,
Dov’è posata sera,
Vieni ti porterò
Alle colline d’oro.

L’ora costante, liberi d’età,
Nel suo perduto nimbo
Sarà nostro lenzuolo.


MEMORIA D’OFELIA D’ALBA
1932
Da voi, pensosi innanzi tempo,
Troppo presto
Tutta la luce vana fu bevuta,
Begli occhi sazi nelle chiuse palpebre
Ormai prive di peso, 5
E in voi immortali
Le cose che tra dubbi prematuri
Seguiste ardendo del loro mutare,
Cercano pace,
E a fondo in breve del vostro silenzio 10
Si fermeranno,
Cose consumate:
Emblemi eterni, nomi,
Evocazioni pure...

1914-1915
1932
Ti vidi, Alessandria,
Friabile sulle tue basi spettrali
Diventarmi ricordo
In un abbraccio sospeso di lumi.

Da poco eri fuggita e non rimpiansi
L’alga che blando vomita il tuo mare,
Che ai sessi smanie d’inferno tramanda.
Né l’infinito e sordo plenilunio
Delle aride sere che t’assediano,
Né, in mezo ai cani urlanti,
Sotto una cupa tenda
Amori e sonni lunghi sui tappeti.


Sono d’un altro sangue e non ti persi,
Ma in quella solitudine di nave
Piú dell’usato tornò malinconica
La delusione che tu sia, straniera,
La mia città natale.

A quei tempi, come eri strana, Italia,
E mi sembrasti una notte piú cieca
Delle lasciate giornate accecanti.

Ma il dubbio, ebbro colore di perla,
Come avviene nelle ore di tempesta
Spuntò adagio ai limiti,
E s’era appena messo a serpeggiare
Che aurora già soffiava sulla brace.

Chiara Italia, parlasti finalmente
Al figlio d’emigranti.

Vedeva per la prima volta i monti
Consueti agli occhi e ai sogni
Di tutti i suoi defunti;
Sciamare udiva voci appassionate
Nelle gole granitiche;
Gli scoprivi boschiva la tua notte;
Guizzi d’acque pudiche,
Specchi tornavano di fiere origini;
Neve vedeva per la prima volta,
In ultimi virgulti ormai taglienti
Che orlavano la luce delle vette
E ne legavano gli ampi discorsi
Tra viti, qualche cipresso, gli ulivi,
I fumi delle casipole sparse,
Per la calma dei campi seminati

Giú giú sino agli orizzonti d’oceani
Assopiti in pescatori alle vele,
Spiegate, pronte in un leggiadro seno.

Mi destavi nel sangue ogni tua età,
M’apparivi tenace, umana, libera
E sulla terra il vivere piú bello.

Colla grazia fatale dei millenni
Riprendendo a parlare ad ogni senso,
Patria fruttuosa, rinascevi prode,
Degna che uno per te muoia d’amore.

EPIGRAFE
PER UN CADUTO DELLA RIVOLUZIONE
1935
Ho sognato, ho creduto, ho tanto amato
Che non sono piú di quaggiú.

Ma la bella mano che pronta
Mi sorregge il passo già inerme,
Mentre disanimandosi
Mi pesa il braccio che ebbe volontà
Per mille,
È la mano materna della Patria.

Forte, in ansia, ispirata,
Premendosi al mio petto,
Il mio giovane cuore in sé immortala.
Inni

DANNI CON FANTASIA
1928
Perché le apparenze non durano?

Se ti tocco, leggiadra, geli orrenda,
Nudi l’idea e, molto piú crudele,
Nello stesso momento
Mi leghi non deluso ad altra pena.

Perché crei, mente, corrompendo?

Perché t’ascolto?

Quale segreto eterno
Mi farà sempre gola in te?

T’inseguo, ti ricerco,
Rinnovo la salita, non riposo,
E ancora, non mai stanca, in tempesta
O a illanguidire scogli,
Danni con fantasia.

Silenzi trepidi, infiniti slanci,
Corsa, gelose arsure, titubanze,
E strazi, risa, inquiete labbra, fremito,
E delirio clamante
E abbandono schiumante
E gloria intollerante
E numerosa solitudine,

La vostra, lo so, non è vera luce,

Ma avremmo vita senza il tuo variare,
Felice colpa?
LA PIETÀ
1928
1
Sono un uomo ferito.

E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L’uomo che è solo con sé.

Non ho che superbia e bontà.

E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.

Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitú di parole?

Regno sopra fantasmi.

O foglie secche,
Anima portata qua e là...

No, odio il vento e la sua voce
Di bestia immemorabile.

Dio, coloro che t’implorano
Non ti conoscono piú che di nome?

M’hai discacciato dalla vita.

Mi discaccerai dalla morte?


Forse l’uomo è anche indegno di sperare.

Anche la fonte del rimorso è secca?

Il peccato che importa,
Se alla purezza non conduce piú.

La carne si ricorda appena
Che una volta fu forte.

È folle e usata, l’anima.

Dio, guarda la nostra debolezza.

Vorremmo una certezza.

Di noi nemmeno piú ridi?

E compiangici dunque, crudeltà.

Non ne posso piú di stare murato
Nel desiderio senza amore.

Una traccia mostraci di giustizia.

La tua legge qual è?

Fulmina le mie povere emozioni,
Liberami dall’inquietudine.

Sono stanco di urlare senza voce.

2
Malinconiosa carne
Dove una volta pullulò la gioia,
Occhi socchiusi del risveglio stanco,
Tu vedi, anima troppo matura,
Quel che sarò, caduto nella terra?



È nei vivi la strada dei defunti,

Siamo noi la fiumana d’ombre,

Sono esse il grano che ci scoppia in sogno,

Loro è la lontananza che ci resta,

E loro è l’ombra che dà peso ai nomi.

La speranza d’un mucchio d’ombra
E null’altro è la nostra sorte?

E tu non saresti che un sogno, Dio?

Almeno un sogno, temerari,
Vogliamo ti somigli.

È parto della demenza piú chiara.

Non trema in nuvole di rami
Come passeri di mattina
Al filo delle palpebre.

In noi sta e langue, piaga misteriosa.

3
La luce che ci punge
È un filo sempre piú sottile.

Piú non abbagli tu, se non uccidi?

Dammi questa gioia suprema.

4
L’uomo, monotono universo,
Crede allargarsi i beni
E dalle sue mani febbrili

Non escono senza fine che limiti.

Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
Non teme e non seduce
Se non il proprio grido.

Ripara il logorio alzando tombe,
E per pensarti, Eterno,
Non ha che le bestemmie.

CAINO
1928
Corre sopra le sabbie favolose
E il suo piede è leggero.

O pastore di lupi,
Hai i denti della luce breve
Che punge i nostri giorni.

Terrori, slanci,
Rantolo di foreste, quella mano
Che spezza come nulla vecchie querci,
Sei fatto a immagine del cuore.

È quando è l’ora molto buia,
Il corpo allegro
Sei tu fra gli alberi incantati?

E mentre scoppio di brama,
Cambia il tempo, t’aggiri ombroso,
Col mio passo mi fuggi.

Come una fonte nell’ombra, dormire!


Quando la mattina è ancora segreta,
Saresti accolta, anima,
Da un’onda riposata.

Anima, non saprò mai calmarti?

Mai non vedrò nella notte del sangue?

Figlia indiscreta della noia,
Memoria, memoria incessante,

Le nuvole della tua polvere,
Non c’è vento che se le porti via?

Gli occhi mi tornerebbero innocenti,
Vedrei la primavera eterna

E, finalmente nuova,
O memoria, saresti onesta.

LA PREGHIERA
1928
Come dolce prima dell’uomo
Doveva andare il mondo.

L’uomo ne cavò beffe di demòni,
La sua lussuria disse cielo,
La sua illusione decretò creatrice,
Suppose immortale il momento.

La vita gli è di peso enorme
Come liggiú quell’ale d’ape morta
Alla formicola che la trascina.

Da ciò che dura a ciò che passa,
Signore, sogno fermo,
Fa’ che torni a correre un patto.


Oh! rasserena questi figli.

Fa’ che l’uomo torni a sentire
Che, uomo, fino a te salisti
Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Purificante amore,
Fa’ ancora che sia scala di riscatto
La carne ingannatrice.

Vorrei di nuovo udirti dire
Che in te finalmente annullate
Le anime s’uniranno
E lassú formeranno,

Eterna umanità,
Il tuo sonno felice.

DANNAZIONE
1931
Come il sasso aspro del vulcano,
Come il logoro sasso del torrente,
Come la notte sola e nuda,
Anima da fionda e da terrori
Perché non ti raccatta
La mano ferma del Signore?

Quest’anima
Che sa le vanità del cuore
E perfide ne sa le tentazioni
E del mondo conosce la misura
E i piani della nostra mente
Giudica tracotanza,


Perché non può soffrire
Se non rapimenti terreni?

Tu non mi guardi piú, Signore...

E non cerco se non oblio
Nella cecità della carne.

LA PIETA' ROMANA
a Rafaele Contu
1932
In mezzo ai forsennati insorse calma
Ciascuno richiamando a voce dura,
E in giorni schietti cambiò tristi fati.

Nella casa provata
Portò la palma,
Rinfrancò i piangenti.

Come Roma la volle,
Formando senza tregua l’indomani,
È la pietà che rammentando i padri,
Ha la sorte dei figli nel pensiero.

Negli opifici libera speranze,
Le si dorano spighe nelle mani
E porta il proprio altare nel suo cuore.

SENTIMENTO DEL TEMPO
1931
E per la luce giusta,
Cadendo solo un’ombra viola
Sopra il giogo meno alto,
La lontananza aperta alla misura,
Ogni mio palpito, come usa il cuore,

Ma ora l’ascolto,
T’affretta, tempo, a pormi sulle labbra
Le tue labbra ultime.

La morte meditata

CANTO PRIMO
1932
O sorella dell’ombra,
Notturna quanto piú la luce ha forza,
M’insegui, morte.

In un giardino puro
Alla luce ti diè l’ingenua brama
E la pace fu persa,
Pensosa morte,
Sulla tua bocca.

Da quel momento
Ti odo nel fluire della mente
Approfondire lontananze,
Emula sofferente dell’eterno.

Madre velenosa degli evi
Nella paura del palpito
E della solitudine,

Bellezza punita e ridente,

Nell’assopirsi della carne
Sognatrice fuggente,

Atleta senza sonno
Della nostra grandezza,

Quando m’avrai domato, dimmi:


Nella malinconia dei vivi
Volerà a lungo la mia ombra?

CANTO SECONDO
1932
Scava le intime vite
Della nostra infelice maschera
(Clausura d’infinito)
Con blandizia fanatica
La buia veglia dei padri.

Morte, muta parola,
Sabbia deposta come un letto
Dal sangue,
Ti odo cantare come una cicala
Nella rosa abbrunata dei riflessi.

CANTO TERZO
1932
Incide le rughe segrete
Della nostra infelice maschera
La beffa infinita dei padri.

Tu, nella luce fonda,
O confuso silenzio,
Insisti come le cicale irose.

CANTO QUARTO
1932
Mi presero per mano nuvole.

Brucio sul colle spazio e tempo,
Come un tuo messaggero,
Come il sogno, divina morte.
CANTO QUINTO
1932
Hai chiuso gli occhi.

Nasce una notte
Piena di finte buche,
Di suoni morti
Come di sugheri
Di reti calate nell’acqua.

Le tue mani si fanno come un soffio
D’inviolabili lontananze,
Inafferrabili come le idee,

E l’equivoco della luna
E il dondolio, dolcissimi,
Se vuoi posarmele sugli occhi,
Toccano l’anima.

Sei la donna che passa
Come una foglia

E lasci agli alberi un fuoco d’autunno.

CANTO SESTO
1932
O bella preda,
Voce notturna,
Le tue movenze
Fomentano la febbre.

Solo tu, memoria demente,
La libertà potevi catturare.

Sulla tua carne inafferrabile
E vacillante dentro specchi torbidi,

Quali delitti, sogno,
Non m’insegnasti a consumare?

Con voi, fantasmi, non ho mai ritegno,

E dei vostri rimorsi ho pieno il cuore
Quando fa giorno.

L’Amore

CANTO BEDUINO
1932
Una donna s’alza e canta
La segue il vento e l’incanta
E sulla terra la stende
E il sogno vero la prende.

Questa terra è nuda
Questa donna è druda
Questo vento è forte
Questo sogno è morte.

CANTO
1932
Rivedo la tua bocca lenta
(Il mare le va incontro delle notti)
E la cavalla delle reni
In agonia caderti
Nelle mie braccia che cantavano,
E riportarti un sonno
Al colorito e a nuove morti.

E la crudele solitudine
Che in sé ciascuno scopre, se ama,
Ora tomba infinita,

AUGURI
PER IL PROPRIO COMPLEANNO
a Berto Ricci
1935
Dolce declina il sole.
Dal giorno si distacca
Un cielo troppo chiaro.
Dirama solitudine

Come da gran distanza
Un muoversi di voci.
Offesa se lusinga,
Quest’ora ha l’arte strana.

Non è primo apparire
Dell’autunno già libero?
Con non altro mistero

Corre infatti a dorarsi
Il bel tempo che toglie
Il dono di follia.

Eppure, eppure griderei:
Veloce gioventú dei sensi
Che all’oscuro mi tieni di me stesso
E consenti le immagini all’eterno,

Non mi lasciare, resta, sofferenza!

SENZA PIÚ PESO
a Ottone Rosai
1934
Per un Iddio che rida come un bimbo,
Tanti gridi di passeri,
Tante danze nei rami,


Documento autografo di Giuseppe Ungaretti
 
GIUSEPPE UNGARETTI
Da te mi divide per sempre.

Cara, lontana come in uno specchio...

. . .
1932
Quando ogni luce è spenta
E non vedo che i miei pensieri,

Un’Eva mi mette sugli occhi
La tela dei paradisi perduti.

PRELUDIO
1934
Magica luna, tanto sei consunta
Che, rompendo il silenzio,
Poggi sui vecchi lecci dell’altura,
Un velo lubrico.

QUALE GRIDO
1934
Nelle sere d’estate,
Spargendoti sorpresa,
Lenta luna, fantasma quotidiano
Del triste, estremo sole,
Quale grido ridesti?

Luna allusiva, vai turbando incauta
Nel bel sonno, la terra,
Che all’assente s’è volta con delirio
Sotto la tua carezza malinconica,
E piange, essendo madre,
Che di lui e di sé non resti un giorno
Neanche un mantello labile di luna.
Un’anima si fa senza piú peso,
I prati hanno una tale tenerezza,
Tale pudore negli occhi rivive,

Le mani come foglie
S’incantano nell’aria...

Chi teme piú, chi giudica?

SILENZIO STELLATO
1932
E gli alberi e la notte
Non si muovono piú
Se non da nidi.
Documento autografo di Giuseppe Ungaretti