CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Untitled











































































LUDOVICO ARIOSTO


LA LENA
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
LA LENA
_________

da Wikipedia
LUDOVICO ARIOSTO  - LA LENA

FINE

La Lena è la più felice commedia di Ludovico Ariosto.
Di ambientazione ferrarese, fu composta subito dopo il sacco di Roma e rappresentata per la prima volta nel Castello Estense nel 1528.

Trama
La storia è improntata su una fabula amorosa a lieto fine. La protagonista è una mezzana, Lena, donna cinica e arrivista, sposata con Pacifico, ma ha come amante il ricco e avaro Fazio, la cui figlia Licinia apprende l'arte del ricamo da Lena.
Il giovane Flavio, figlio del rivale di Fazio, ama la ragazza e dopo alcune peripezie e con l'aiuto di Lena i due riescono a coronare il loro sogno d'amore.
Come al solito e come anche nelle maggiori commedie del teatro latino e italiano, le peripezie, le vicissitudini e l'intreccio della storia sono orditi da un astuto servitore ai danni del proprio padrone e alle volte anche contro gli stessi protagonisti. In questa commedia il servo è Corbolo, famiglio di Flavio, che si mette in accordo con Lena, la ruffiana, per dare un po' di filo da torcere a Fazio, padre della protagonista Licinia. Infatti pare che tempo prima che Flavio e Licinia s'innamorassero il nobile Fazio abbia ingannato Lena durante un incontro e ora questa vuole vendicarsi assieme a Corbolo. L'inizio di questo inganno è stato progettato per far guadagnare a Lena un po' di soldi per il suo bordello, inoltre Corbolo continuando a creare disordine tra le varie identità, conduce nella matassa anche il padre di Flavio: Ilario, approfittando del fatto che Fazio è un vecchio avaro e gelosissimo. Corbolo fa in modo che questi sorprenda Ilario che sta pagando la Lena dopo un incontro, facendolo montare su tutte le furie. Proprio all'apice dell'intrigo, nel momento di massima tensione, tutti i personaggi vengono a sapere che Flavio e Licinia si sono dichiarati fidanzati, perciò tutto si rimette a posto e Lena si tiene i suoi soldi.

___________

IL NEGROMANTE
Il Negromante è una commedia di Ludovico Ariosto scritta nel 1509 in prima stesura abbozzata, poi terminata nel 1520 per spedirne il testo a Papa Leone X ed ulteriormente riscritta nel 1528. Il primo allestimento è avvenuto a Ferrara tra il 1528 ed il 1529, mentre la pubblicazione avvenne nel 1535. L'azione della commedia è ambientata a Cremona.
Narra le vicende di un mago, un impostore ovviamente. L'unico scopo è di prendere in giro i costumi popolari e le tradizioni legate ai tarocchi.
Il Negromante, la terza commedia di Ariosto, fu compiuta nel gennaio del 1520 e narra degli espedienti impiegati da un giovane per penetrare nella casa dell'amata. Ma al centro della trama è un praticone di arti magiche che si prende gioco della credulità del prossimo. Nel disegnare il personaggio Ariosto ricorre a fonti moderne come ad esempio: - il Ruffo della commedia del Cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, la Calandria; - Callimaco, il finto medico della Mandragola di Niccolò Machiavelli. Il Negromante viene messo in scena soltanto nel 1528.

TRAMA

Presso Cremona Cintioo è stato costretto dal patrigno a sposarsi con la ricca Emilia, figlia di un suo amico, affinché la famiglia potesse risollevarsi economicamente grazie alla grande dote. Tuttavia Cintio si era già sposato segretamente con la povera Livinia, non per altri interessi che per amore, ed ora si ritrova in un gran bel guaio. Per cercare di sfuggire dalla situazione, Cintioo per qualche mese si finge impotente e nega qualsiasi soddisfazione alla sua ricca sposa che se ne lamenta col padre Abondio. Così il genitore convoca in casa un famoso "negromante" (un fattucchiero da due soldi) per risolvere la situazione. Altra stangata per il povero Cintio il quale questa volta per cacciarsi dai guai corrompe il mago affinché dichiari ai genitori e ad Emilia l'impotenza inguaribile del coniuge, vittima di un oscuro sortilegio, a meno che egli non si separi per sempre dalla ricca sposa. Così avviene e il negromante, ottenuta ora grande fama, riceve molti clienti compreso il fidanzato cornificato di Emilia. Tuttavia le cose iniziano a complicarsi quando due servi di Cintio, assolutamente cattivi e meschini, scoprono l'inganno e la situazione sembra precipitare quando Massimo, patrigno di Cintio, scopre di essere il vero padre di Livinia, concepita da un incontro extraconiugale, e così permette le nozze tra lei e Cintio; mentre il negromante e il servitore Nibbio, uno dei due che aveva smascherato l'imbroglio del padrone e di Cintio, se la danno a gambe per non essere linciati.

_______________

LE SATIRE

Introduzione

Ludovico Ariosto compone le Satire a partire dal 1517, anno in cui abbandona il servizio presso il cardinale Ippolito d’Este, e prosegue fino al 1525. Si tratta di sette componimenti in terzine che nascono come una riflessione sull’esperienza personale del poeta. Le Satire partono, quindi, da un dato autobiografico per poi allargarsi ad una riflessione socio-culturale e politica sulla realtà delle corti del Cinquecento, intrecciando osservazioni psicologiche, considerazioni morali e appunti di riflessione che corrono paralleli al lavoro di revisione e di riscrittura dell’Orlando furioso. Ogni satira è indirizzata ad amici e parenti, assumendo quindi una struttura e una funzione quasi epistolare.

Modelli e stile

Diversi sono i modelli letterari di questa raccolta, ma colui che ha il ruolo principale è sicuramente l’autore latino Orazio (65-27 a.C.), con le Epistole e le Satire. Orazio, noto soprattutto per le Odi, viene recuperato da Ariosto come modello esemplare di medietas e di ironia, ovvero di capacità di affrontare le vicende umane secondo una prospettiva bilanciata tra distacco divertito e reazione ai toni troppo accesi o quelli eccessivamente seri e drammatici. Il modello classico si adatta pure bene alla finzione epistolare, per cui ogni satira, come una sorta di lettera privata ad un amico o a un confidente, è indirizzata ad un particolare destinatario, cui il poeta svela - non senza ironia - la propria visione del mondo. L’altro modello di riferimento, dal punto di vista metrico, è Dante e la sua Commedia; la terzina assicura lo sviluppo narrativo e quasi “colloquiale” dell’epistola, e si adatta assai bene allo stile medio del genere.

Lo stile di Ariosto è medio e molto controllato, non scadendo mai nella polemica, ma mantenendo sempre un tono pacato e leggero, attraverso l’ironia e una notevole vivacità stilistica. Nonostante questo dominio nello stile, emergono tra le righe le dure critiche del poeta alla società e all’ambiente della corte; nella Satira I, in cui Ariosto spiega il suo abbandono del cardinale Ippolito d'Este, per esempio, il poeta esprime le sue considerazioni sul servizio prestato presso l’ecclesiastico, rappresentandolo come un uomo duro, volubile, avaro e insensibile all’arte poetica, che lo ha trattato come un cameriere, sfruttandolo per i compiti più mediocri ed umilianti.

Il livello stilistico trova un suo parallelo strutturale e contenutistico: ogni satira ariostesca parte da un evento autobiografico (spesso semplice e modesto) per poi allargare la riflessione alla morale, ai vizi umani, alla realtà contemporanea, nell’elogio costante di una vita serena ed appartata. Le Satire appaiono allora come un’opera innovativa nel panorama letterario italiano del Cinquecento. Innanzitutto per aver ripreso lo stile di Orazio, le cui Satire non godettero di grande fortuna nel secolo precedente. In secondo luogo per la struttura epistolare e l’utilizzo del dato autobiografico per esprimere considerazioni generali sulla società.

Satira I (1517): Indirizzata ad Alessandro Ariosto, suo fratello e alll’amico Ludovico da Bagno, anch’essi al servizio di Ippolito d’Este. Il poeta spiega, tra il serio e il faceto, i motivi per cui, nonostante le difficoltà economiche, ha rifiutato il trasferimento in Ungheria al seguito del cardinale. Oltre alle scelte personali, spicca soprattutto l’ideale di libertà dell’umanista e dell’uomo rinascimentale, che, alle ambizioni professionali e ai tranelli della vita cortigiana, antepone la ricerca della serenità e la cura della passione letteraria.

Satira II (1517):
Rivolgendosi al fratello Galasso, il poeta chiede un modesto alloggio nella città di Roma, dove dovrà recarsi per degli impegni connessi al suo ruolo di ecclesiastico. La contingenza serve per contrapporre la frenesia della vita di città alla pace del locus amoenus di campagna, lontano da falsità ed ipocrisie delle corti dei potenti.

Satira III (1518):
il cugino Annibale è il destinatario di una riflessione dell’autore che, partendo dal passaggio alla corte di Alfonso d’Este, sviluppa il tema della libertà e l’amore per la vita domestica. Il ragionamento è esemplificato con due apologhi: prima, un pastore, in un periodo di siccità, fa dissetare la famiglia e gli animali secondo la loro utilità al sostentamento di tutti. Una gazza, simbolo del poeta di corte, rimane per ultima, in quanto la poesia non è ritenuta attività fondamentale a corte. Nel secondo, dei valligani vogliono toccare la luna che splende sopra la loro valle, e si dedicano così ad un’inutile scalata. Attraverso questa storiella, Ariosto denuncia ancora la superficialità e la sciocchezza delle ambizioni umane.

Satira IV (1523):
Scrivendo al cugino Sigismondo, Ariosto racconta la sua esperienza in Garfagnana, che si presenta difficile sia per la natura ostile del luogo sia per il fenomeno del brigantaggio.

Satira V (1519-1523):
Rivolta al cugino Annibale (destinatario anche della terza satira), questa satira tratta del tema del matrimonio, cui il parente si sta appunto accingendo. Il tono è prevalentemente scherzoso.

Satira VI (1524-1525):
destinatario dell’epistola è Pietro Bembo, cui il poeta si rivolge in cerca di un maestro di lingua greca per suo figlio Virginio. Il tono però è ironico ed autoironico, in quanto il poeta torna agli anni della giovinezza, e alla scelta di interrompere gli studi per trasformarsi da “poeta” a “cavallaro”.

Satira VII (1524):
il destinatario dell’ultima satira è Bonaventura Pistofilo (1470-1543), segretario del duca Alfonso. Ariosto rifiuta cortesemente la proposta di diventare ambasciatore per papa Clemente VII, riconfermando il suo ideale di vita sereno e lontano dalle inquietudini e dai problemi della vita politica e di corte.

_____________________________


LE ALTRE OPERE

La produzione lirica [1502-1532]
Le poesie in latino
Sono componimenti per lo più epigrammatici di argomento vario, in particolare autobiografico e amoroso. Hanno valore documentario più che artistico, come testimonianza degli studi, dei gusti e dell’apprendistato poetico dell’autore.

Le poesie in volgare

Sono versi d’occasione dedicati per lo più all’amore per Alessandra Benucci e, in rari casi, a tematiche politiche o celebrative, e si segnalano per una dipendenza non esclusiva dal modello petrarchesco, integrato con la lezione dei classici. Ariosto non riunì mai questi materiali poetici in un canzoniere, selezionando e ordinando le liriche secondo un disegno tematico. L’autore pensò di stampare alcuni componimenti, ma il progetto non fu mai portato a termine.

La produzione teatrale [1493-1529]

Ariosto esordì come autore di teatro nel 1493 con la perduta Tragedia di Tisbe. Successivamente mise in scena per la corte volgarizzamenti di commedie di Plauto e Terenzio; fu anche attore, scenografo e regista. Per il carnevale del 1508 fece rappresentare una commedia originale, La cassaria, e l’anno seguente I suppositi, ambientati a Ferrara. Seguirono, tra il 1520 e il 1532, Il negromante, I studenti (incompiuta) e La Lena, composte in endecasillabi sdruccioli, e la riscrittura in versi delle commedie precedenti. L’autore rinuncia alle celebrazioni encomiastiche per mettere in scena un mondo subalterno di servi, prostitute e furfanti. L’ultima commedia, in particolare, offre un impietoso ritratto della società ferrarese del tempo, tesa al profitto e affetta da diffidenza ed egoismo. Con queste opere Ariosto dettò il canone della drammaturgia rinascimentale: struttura regolare del testo suddiviso in cinque atti, apparato scenografico spettacolare e sfarzoso, caratterizzato dal concorso di tutte le arti (letteratura, pittura, scultura, musica, danza), contaminazione e rielaborazione di testi della tradizione classica.

L’epistolario
[1498-1532]

Di Ariosto ci rimangono 214 lettere di carattere professionale e dettate per lo più da urgenze pratiche. Si tratta di preziosi documenti biografici, da cui emerge non tanto il letterato, quanto piuttosto il funzionario di corte.

L’Orlando furioso [1507-1533]

La genesi

L’inizio della scrittura del Furioso risale al 1502, al 1505 il disegno generale dell’opera e al 1507 la prima notizia sicura relativa alla sua avanzata composizione. In quei medesimi anni molti altri autori si stavano cimentando con la prosecuzione dell’Orlando innamorato di Boiardo, rimasto incompiuto per la morte dell’autore e pubblicato postumo in edizione definitiva nel 1495.
L’opera, pubblicata infine in quaranta canti nel 1516 e dedicata al cardinale Ippolito, ebbe un immediato e vasto successo. Negli anni successivi Ariosto ebbe diversi contatti con Pietro Bembo e iniziò a riflettere sul problema della lingua. La seconda edizione del 1521 fu il frutto di una revisione sostanzialmente stilistica, finalizzata a eliminare i tratti più scopertamente dialettali e “padani” per accogliere un modello linguistico “italiano” di matrice toscaneggiante. La terza edizione del 1532, in quarantasei canti, evidenzia una dilatazione della materia narrativa, una revisione storica e ideologica (in relazione alla mutata situazione contemporanea) e un’ulteriore revisione stilistica per adeguare la lingua del poema al canone petrarchesco, secondo il modello proposto da Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). La morte di Ariosto nel 1533 vanificò il progetto di una quarta edizione e lasciò come opera a sé stante i Cinque canti, lungo episodio connesso con la materia narrativa del Furioso ma da esso autonomo e distinto, anche per il tono cupo e amaro.

L’argomento

I personaggi e le vicende sono attinti dall’Orlando innamorato di Boiardo. Al motivo amoroso si intreccia quello guerresco, l’autore contamina così tradizione carolingia e tradizione arturiana. Innamorato di Angelica, il paladino Orlando ha abbandonato la guerra; respinto e tradito, finisce per impazzire. Parallelamente viene sviluppata la storia d’amore tra Ruggiero e Bradamante, all’origine della famiglia degli Este. Al blocco narrativo principale si intrecciano altre vicende ispirate a fonti diverse: romanzi francesi, cantari, tradizione novellistica, autori classici. Questo eterogeneo repertorio viene organizzato in un’opera organica e coerente, in cui l’invenzione è sempre attentamente sorvegliata.

La trama

Angelica fugge da Parigi inseguita dai suoi spasimanti (cristiani e saraceni); dopo diverse avventure è catturata dai pirati che la offrono in pasto a un’orca marina. Nel frattempo la guerriera cristiana Bradamante, con l’aiuto della maga Melissa, ha sottratto l’amato Ruggiero, cavaliere saraceno, agli incanti del mago Atlante, che lo fa però rapire dall’ippogrifo; trasportato sull’isola della maga Alcina, è sedotto dai suoi sortilegi, e solo un nuovo intervento di Melissa gli permette di fuggire. In groppa al cavallo alato Ruggiero giunge appena in tempo per salvare Angelica. Successivamente Ruggiero, Bradamante e Orlando, che a sua volta ha dimenticato la guerra e i suoi doveri verso il re per cercare Angelica, vengono fatti prigionieri da Atlante in una dimora incantata [canti I-XIII]. Agramante guida l’esercito saraceno all’assalto di Parigi, approfittando dell’assenza dei paladini di Carlo Magno. Angelica, giunta sul campo di battaglia, salva la vita al giovane guerriero saraceno Medoro e se ne innamora; dopo averlo sposato nella casa di un pastore, intraprende con lui il viaggio di ritorno verso la sua terra, il Catai. Quando Orlando viene a saperlo, impazzisce dal dolore. Nel frattempo la gelosia inquina la storia d’amore fra Ruggiero e Bradamante, che sospetta un tradimento con la bella guerriera Marfisa; dopo avere affrontato e vinto molteplici duelli, Bradamante scopre però che Marfisa è in realtà la sorella di Ruggiero [canti XIV-XXX]. Astolfo in groppa all’ippogrifo sale sulla Luna guidato da san Giovanni Evangelista; qui finisce infatti tutto ciò che si perde sulla Terra, e in particolare il senno di Orlando. Rinsavito, il paladino attacca il regno di Agramante costringendolo ad abbandonare l’assedio di Parigi. L’esito della guerra è affidato a un duello fra tre campioni saraceni e tre campioni cristiani: la vittoria va a questi ultimi, ma la gioia è funestata dalla morte di Brandimarte, amico fraterno di Orlando. Nel frattempo Ruggiero si è convertito al cristianesimo e ha conquistato il regno di Bulgaria; può così sposare Bradamante: dalla loro unione avrà origine la casata degli Este. Anche in questo caso però la festa è funestata dal sopraggiungere del guerriero saraceno Rodomonte, che sfida Ruggiero a duello e viene ucciso. Con la sua morte si conlcude il poema [canti XXXI-XLVI].

La struttura e l’impianto narrativo
Dai tre filoni narrativi principali – la guerra tra franchi e saraceni, la pazzia di Orlando, l’amore fra Ruggiero e Bradamante – si genera una serie di storie secondarie, digressioni accidentali ma dotate di una propria autonomia e compiutezza. Il poema appare così policentrico: Ariosto offre al lettore una molteplicità di azioni che avvengono contemporaneamente in spazi diversi. Uno dei caratteri strutturali del testo è dunque la simultaneità: il racconto è continuamente interrotto per consentire all’autore di passare dall’una all’altra delle storie che si svolgono parallelamente. Ariosto riprende dalla tradizione arturiana, canterina e boiardesca la tecnica dell’intrecciamento – entrelacement – che consiste nel legare armonicamente fra loro episodi tematicamente e stilisticamente diversi, passando con leggerezza ed eleganza dall’uno all’altro, così da mantenere sempre desta l’attenzione del lettore, ma assieme esercitando un costante controllo sui vari intrecci, per evitare che il tutto appaia come un coacervo disordinato.
Dall’impiego sistematico di questa tecnica deriva la struttura labirintica dell’opera, in cui i personaggi si perdono e si ritrovano inaspettatamente, gli episodi si interrompono sul più bello per essere ripresi successivamente da un punto di vista diverso e sorprendente.

L’ideologia
L’intrattenimento del pubblico è uno ma non l’unico scopo del poema. Ariosto attraverso i suoi personaggi costruisce una brillante allegoria dell’uomo che si ostina a riporre il senso della vita e la realizzazione di sé nel perpetuo inseguimento dei propri desideri. Il dramma dell’esistenza sta tutto nell’incapacità dell’uomo di rinunciare ai propri sogni, per i quali è pronto anche alla sopraffazione e all’inganno, e insieme nella perenne insoddisfazione di chi è destinato a non raggiungere mai la felicità cui disperatamente aspira, perché agli sforzi dell’individuo si oppone la sorte, capricciosa e imprevedibile. Sete di gloria, amore, denaro, potere non sono altro che le maschere della follia che domina il mondo. A questa follia si oppone la saggezza, che consiste nella rinuncia e nell’autocontrollo. Il dissimulato pessimismo che caratterizza l’opera, al di là della superficie giocosa e brillante, appare come una messa in guardia contro la forza, attraente quanto devastante, delle illusioni, prima fra tutte l’amore.

Il punto di vista
del narratore

Leggendo la vita e la realtà attraverso il filtro dell’ironia, Ariosto intende smascherare le false certezze e denunciare gli inganni e le ipocrisie dell’umanità. Mantenendo un atteggiamento distaccato e dissacrante nei confronti dei propri personaggi, il poeta mette a nudo i limiti e le contraddizioni del pensare e dell’agire umano. In particolare negli esordi dei vari canti, Ariosto si riserva uno spazio per esplicite e personali riflessioni e giudizi in campo morale, storico e antropologico. Così pure la voce dell’autore interviene sovente nel corso della narrazione con osservazioni e commenti che ricollegano la materia romanzesca alla realtà contemporanea, sollecitando la riflessione del lettore.

La lingua e lo stile
Il distacco nei confronti dei personaggi e delle vicende consente uno stile narrativo estremamente oggettivo. Immediatezza, naturalezza e trasparenza, le peculiarità dello stile ariostesco individuate da Francesco De Sanctis, fanno del poema un’opera decisamente “visiva”, i cui episodi sembrano svilupparsi quasi cinematograficamente davanti ai nostri occhi. Tutto ciò è il risultato di una complessa e raffinata elaborazione stilistica, riconoscibile a più livelli: linguisticamente, nella progressiva rinuncia a una connotazione idiomatica, dialettale e locale, a vantaggio di un respiro nazionale e “classico”; stilisticamente, nella ricerca sistematica di forme espressive fluide, armoniose e musicali, per quanto riguarda in particolare la sintassi e le soluzioni metriche; per quanto concerne i registri espressivi, nella tendenza a “giocare” sull’armonizzazione degli opposti, variando continuamente il tono (realistico, fiabesco, comico, tragico, lirico, grottesco, sentimentale, macabro ecc). Questo registro in apparenza caotico, in realtà polifonico e bilanciato, vuole essere specchio fedele della varietà inesauribile della vita.

___________________







PERSONE

Corbolo famiglio di Flavio
Flavio patrone giovane
Lena ruffiana
Fazio vecchio
Ilario padre di Flavio
Egano vecchio
Pacifico marito di Lena
Cremonino famiglio
Giuliano
Torbido perticatore
Gemignano
Bartolo
Magagnino sbirro
Spagnuolo sbirro
Menica massara di Fazio
Staffieri dui
Menghino famiglio di Fazio

[La scena è in Ferrara.]

Prologo primo de La Lena inanzi
che fusse ampliata di due scene

Dianzi ch'io viddi questi gentilomini
Qui ragunarsi, e tante belle gioveni,
Io mi credea per certo che volessino
Ballar, che 'l tempo me lo par richiedere;
E per questo mi son vestito in maschera.
Ma poi ch'io sono entrato in una camera
Di queste, e ho veduto circa a sedici
Persone travestite in diversi abiti,
E che si dicon l'un l'altro, e rispondono
Certi versi, m'avveggio che far vogliono
Una de le sciocchezze che son soliti,
Ch'essi comedie chiamano e si credono
Di farle bene. Io che so quel che detto mi
Ha il mio maestro, che fra le poetiche
Invenzïon non è la piú difficile,
E che i poeti antiqui ne facevano
Poche di nuove, ma le traducevano
Dai Greci, e non ne fe' alcuna Terenzio
Che trovasse egli; e nessuna o pochissime
Plauto, di queste ch'oggidí si leggono;
Non posso non maravigliarmi e ridere
Di questi nostri, che quel che non fecero
Gli antiqui loro, che molto piú seppono
Di noi in questa e in ogni altra scïenzia,
Essi ardiscan di far. Tuttavia, essendoci
Già ragunati qui, stiamo un po' taciti
A riguardarli. Non ci può materia,
Ogni modo, mancar oggi da ridere,
Che, se non rideremo de l'arguzia
De la comedia, almen de l'arroganzia
Del suo compositor potremo ridere.






ATTO PRIMO.

Scena Prima.

Corbolo, Flavio

CORBOLO
Flavio, se la dimanda è però lecita,
Dimmi: ove vai sí per tempo? che suonano
Pur ora i matutini; né debbe essere
Senza cagion, che ti sei con tal studio
Vestito e ben ornato, e come bossolo
Di spezie tutto ti sento odorifero.
FLAVIO
Io vo qui, dove il mio Signor gratissimo,
Amor mi mena, a pascere i famelici
Occhi d'una bellezza incomparabile.
CORBOLO
E che bellezza vuoi tu in queste tenebre
Veder? Se forse veder non desideri
La stella amata da Martin d'Amelia;
Ma né quella anco di levarsi e solita
Cosí per tempo.
FLAVIO
Né cotesta, Corbolo,
Né stella altra del cielo, né il sol proprio,
Luce quanto i begli occhi di Licinia.
CORBOLO
Né gli occhi de la gatta; questo aggiungere
Dovevi ancora: che saria piú simile
Comparazion, perché son occhi, e lucono.
FLAVIO
Il malanno che Dio te dia, che cómpari
Gli occhi d'animal bruto a lumi angelici!
CORBOLO
Gli occhi di Cuchiolin piú confarebbonsi,
Di Sabbatino, Marïano e simili,
Quando di Gorgadello ubriachi escono.
FLAVIO
Deh, va' in malora!
CORBOLO
Anzi in buon'ora a stendermi
Nel letto, et a fornire un suavissimo
Sonno che tu m'hai rotto.

==>SEGUE


FLAVIO
Or vien qua et odimi,
E pon da lato queste sciocche arguzie.
Corbol, che sempre abbia avuta grandissima
Fede in te, te ne sei potuto accorgere
A molti segni; ma maggiore indizio
Ch'io te n'abbia ancor dato, son per dartene
Ora, volendo farti consapevole
D'un mio segreto di tale importanzia
Che la roba vorrei, l'onore e l'anima
Perder prima che udir che fusse publico.
E perché credo aver de la tua opera
Bisogno in questo, ti vo' far intendere
Che a patto alcun non te ne vo' richiedere,
Se prima di tacerlo non mi t'oblighi.
CORBOLO
Non accade usar meco questo prologo:
Che tu sai ben per qualche esperïenzia,
Ch'ove sia di bisogno so star tacito.
FLAVIO
Or odi: io so che sai, senza ch'io 'l replichi,
Ch'amo Licinia, figliuola di Fazio
Nostro vicino, e che da lei rendutomi
È il cambio; che piú volte testimonio
Alle parole, ai sospiri, alle lacrime
Sei stato, quando abbiamo auto commoda
Di parlarci, stando ella a quella picciola
Finestra, io ne la strada; ne mancatoci
È mai, se non il luogo, a dar rimedio
A' nostri affanni. Il quale ella mostratomi
Ha finalmente, che fare amicizia
M'ha fatto con la moglie di Pacifico,
La Lena: questa che qui a lato si abita,
Che le ha insegnato da fanciulla a leggere
Et a cucire; e séguita insegnandole
Far trapunti, riccami, e cose simili:
E tutto il dí Licinia, fin che suonino
Ventiquattr'ore, è seco, sí che facilemente,
e senza ch'alcun possa avedersene,
La Lena mi potrà por con la giovane.
E lo vuol fare, e darci oggi principio
Intende: e perché li vicin, vedendomi
Entrar, potriano alcun sospetto prendere,
Vuol ch'io v'entri di notte.

==>SEGUE


CORBOLO
È convenevole.
FLAVIO
Verrà a suo acconcio e tornerà la giovane,
Come andarvi e tornarne ogni dí è solita.
Ma non me ne son oggi io piú per muovere
Insin a notte. Questa notte tacitamente
uscironne.
CORBOLO
Con che modo volgere
Hai potuto la moglie di Pacifico,
Che ruffiana ti sia de la discepola?
FLAVIO
Disposta l'ho con quel mezzo medesimo
Con che piú salde menti si dispongono
A dar le rocche, le città, gli eserciti,
E talor le persone de' lor principi:
Con denari; del qual mezzo il piú facile
Non si potrebbe trovar. Ho promessole
Venticinque fiorini, et arrecarglieli
Ora meco dovea, perché riceverli
Anch'io credea da Giulio, che promessomi
Li avea dar ieri, e m'ha tenuto all'ultimo.
Iersera poi ben tardi mi fe' intendere
Che non me li dava egli, ma servirmene
Facea da un suo, senza pagargliene utile
Per quattro mesi; ma dovendo darmeli
Quel suo, voleva il pegno, il qual sí subito
Non sapendo io trovare, e già avend'ordine
Di venir qui, non ho voluto romperlo,
E son venuto; ancor ch'io stia con animo
Molto dubbioso se mi vorrà credere
La Lena, pur mi sforzarò, dicendole
Come ita sia la cosa, che stia tacita
Fino a diman.
CORBOLO
Se ti crede, fia un'opera
Santa che tu l'inganni. Porca! ch'ardere
La possa il fuoco! Non ha conscïenzia,
Di chi si fida in lei la figlia vendere!
FLAVIO
E che sai tu che ragione non abbia?
Acciò tu intenda, questo vecchio misero
Le ha voluto già bene, e il desiderio
Suo molte volte n'ha avuto.

==>SEGUE


CORBOLO
Miracolo!
Gli è forse il primo!
FLAVIO
Ben credo, patendolo
Il marito, o fingendo non accorgersi.
Imperò che piú e piú volte Fazio
Gli ha promesso pagar tutti i suoi debiti,
Perché il meschin non ardisce di mettere
Piè fuor di casa, acciò che non lo facciano
Li creditori suoi marcire in carcere;
E quando attener debbe, niega il perfido
D'aver promesso, e dice: - Dovrebbe esservi
Assai d'aver la casa, e non pagarmene
Pigione alcuna -; come nulla meriti
Ella de l'insegnar che fa a Licinia!
CORBOLO
Veramente se fin qui nulla merita,
Meritarà per l'avvenir, volendole
Insegnar un lavoro il piú piacevole
Che far si possa, di menar le calcole
E batter fisso. Ella ha ragion da vendere.
FLAVIO
Abbia torto o ragion, ch'ho da curarmene?
Poi che mi fa piacer, le ho d'aver obligo.
Or quel che da te voglio, è che mi comperi
Fin a tre paia o di quaglie o di tortore;
E quando aver tu non ne possa, pigliami
Due paia di piccioni, e fagli cuocere
Arrosto, e fammi un cappon grasso mettere
Lesso: e gli arreca ad ora convenevole,
E con buon pane e meglior vino; e siati
A cuor ch'abbian da bere in abondanzia.
Questo è un fiorino, te': non me ne rendere
Danaio in dietro.
CORBOLO
Il ricordo è superfluo.
FLAVIO
Io vo' far segno alla Lena.
CORBOLO
Sí, faglilo,
Ma su la faccia, che per Dio lo merita.
FLAVIO
Perché, se mi fa bene, ho io da offenderla?

==>SEGUE




CORBOLO
Il farti ella suonar, come un bel cembalo,
Di venticinque fiorini, tu nomini
Bene? Ma dimmi: ove sarà, pigliandoli
Tu in presto, poi provision di renderli?
FLAVIO
Ho quattro mesi da pensarci termine;
Che sai che possa in questo mezzo nascere?
Non potrebbe morir, prima che fossero
Li tre, mio padre?
CORBOLO
Sí; ma potria vivere
Ancor: se vive, come è piú credibile,
Che modo avrai di pagar questo debito?
FLAVIO
Non verrai tu sempre a prestarmi un'opera,
Che gli vorrò far un fiocco?
CORBOLO
Te n'offero
Piú di diece.
FLAVIO
Ma sento che l'uscio aprono.
CORBOLO
E tu aprir loro il borsello apparecchiati.

SCENA SECONDA

Flavio, Lena, Corbolo

FLAVIO
Buon dí, Lena, buon dí.
LENA
Saria piú proprio
Dir buona notte. Oh molto sei sollecito!
CORBOLO
Risalutar ben lo dovevi, et essere
Piú cortese.
LENA
Con buoni effetti vogliolo
Risalutar, non con parole inutili.
FLAVIO
So ben che 'l mio buon dí sta nel tuo arbitrio.
LENA
E 'l mio nel tuo.

==>SEGUE


   

CORBOLO
Tu cianci, Lena, sí?
LENA
Non ciancio: dicogli
Del miglior senno ch'io m'abbia.
CORBOLO
Può essere
Che essendo bella, tu non sia piacevole
Ancora?
LENA
O bella o brutta, il danno e l'utile
È mio: non sarò almen sciocca, che volgere
Mi lassi a ciancie.
FLAVIO
Mi sia testimonio
Dio.
LENA
Testimonio non vo', che all'esamine
Io non possa condur.
CORBOLO
Sí poco credito
Abbiamo teco noi?
LENA
Non stia qui a perdere
Tempo, ch'io gli conchiudo, ch'egli a mettere
Non ha qua dentro il piede, se non vengono
Prima questi danari, e l'uscio gli aprino.
FLAVIO
Tu temi ch'io te la freghi?
CORBOLO
Sí, fregala.
Padron, che poi ti sarà piú piacevole.
LENA
Io non ho scesa.
CORBOLO
(Un randello di frassino
Di due braccia ti freghi le spalle, asina!)
LENA
Io voglio, dico, danari, e non frottole.
Sa ben che 'l patto è cosí; né dolersene
Può.
FLAVIO
Tu di' il vero, Lena; ma può essere
Che sii sí cruda, che mi vogli escludere
Di casa tua?

==>SEGUE

LENA
Può esser che sí semplice
Mi stimi, Flavio, che ti debba credere,
Che in tanti dí, che siamo in questa pratica,
Tu non avessi trovato, volendoli,
Venticinque fiorini? Mai non mancano
Danari alli par tuoi. Se non ne vogliono
Prestar gli amici, alli sensali volgiti,
Che sempre hanno tra man cento usurarii.
Cotesta vesta di velluto spogliati,
Levati la berretta, e all'Ebreo mandali,
Che ben dell'altre robe hai da rimetterti.
FLAVIO
Facciàn, Lena, cosí: piglia in deposito
Fino a doman questa roba, et impegnala
Se, prima che doman venti ore suonino,
Non ti do li danari, o fo arrecarteli
Per costui.
LENA
Tu pur te ne spoglia, e mandala
Ad impegnar tu stesso.
FLAVIO
Mi delibero
Di compiacerti, e di farti conoscere
Che gabbar non ti voglio. Piglia, Corbolo,
Questa berretta e questa roba: aiutami,
Che la non vada in terra.
CORBOLO
Che, vuoi trartela?
FLAVIO
La vo' ogni modo satisfar; che diavolo
Fia?
CORBOLO
Or vadan tutti li beccai e impicchinsi,
Che nessun ben come la Lena scortica.
FLAVIO
Voglio che fra le quindici e le sedici
Ore, da parte mia, tu vada a Giulio,
E che lo preghi che mi trovi subito
Chi sopra questi miei panni m'accommodi
De li danar che sa che mi bisognano.
E se ti desse una lunga, rivolgiti
Al banco de' Sabbioni, e quivi impegnali
Venticinque fiorini; e come avuto li
Abbi, o da un luogo o da un altro, qui arrecali.

==>SEGUE
    

CORBOLO
E tu starai spogliato?
FLAVIO
Che piú? Portami
Un cappino e un saion di panno.
LENA
Spacciala;
Che ancor ch'egli entri qui, non ha da credere
Ch'io voglia che di qua passi la giovane,
Prima che li contanti non mi annoveri.
FLAVIO
Entrarò dunque in casa.
LENA
Sí ben, entraci;
Ma con la condizion ch'io ti specifico.

SCENA TERZA

Corbolo solo.

CORBOLO
Potta! che quasi son per attaccargliela.
Ho ben avuto a' miei dí mille pratiche
Di ruffiane, bagascie, e cotal femine
Che di guadagni disonesti vivono
Ma non ne vidi a costei mai la simile,
Che, con sí poca vergogna, e tanto avidamente
Facesse il suo ribaldo offizio.
Ma si fa giorno: per certo non erano
Li matutini quelli che suonavano;
Esser dovea l'Ave Maria o la predica;
O forse i preti iersera troppo aveano
Bevuto, e questa matina erant oculi
Gravati eorum. Credo che anco Giulio
Non potrò aver, che la matina è solito
Di dormir fino a quindici ore o sedici.
In questo mezzo sarà buono andarmene
Fin in piazza, a veder se quaglie o tortore
Vi posso ritrovare; e ch'io le comperi.



    


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Fazio, Lena

FAZIO
Chi non si leva per tempo, e non opera
La matina le cose che gl'importano,
Perde il giorno, e i suoi fatti non succedono
Poi troppo ben. Menghin, vo' ch'a Dugentola
Tu vada, e che al castaldo facci intendere
Che questa sera le carra si carchino,
E che doman le legna si conduchino;
E non sia fallo, ch'io non ho piú ch'ardere.
Né ti partir, che vi vegghi buon ordine;
E dir mi sappi come stan le pecore,
E quanti agnelli maschi e quante femine
Son nate; e fa' che li fossi ti mostrino
C'hanno cavati, e che conto ti rendano
De' legni verdi c'hanno messo in opera;
E quel che sopravanza, fa' che annoveri.
Or va', non perder tempo. Odi: se avessino
Un agnel buono... Eh no, fia meglio venderlo.
Va', va'... Pur troppo...
LENA
Sí, era un miracolo
Che diventato voi foste sí prodigo!
FAZIO
Buon dí, Lena.
LENA
Buon dí e buon anno, Fazio.
FAZIO
Ti levi sí per tempo? Che disordine
È questo tuo?
LENA
Saria ben convenevole
Che, poi che voi mi vestite sí nobilemente,
e da voi le spese ho sí magnifiche,
Che fino a nona io dormissi a mio commodo,
E 'l dí senza far nulla io stessi in ozio.
FAZIO
Fo quel ch'io posso, Lena: maggior rendite
De le mie a farti cotesto sarebbono

==>SEGUE



Bisogna; pur, secondo che si stendono
Le mie forze, mi studio di farti utile.
LENA
Che util mi fate voi?
FAZIO
Questo è il tuo solito,
Di sempremai scordarti i benefizii.
Sol mentre ch'io ti do, me ne ringrazii;
Tosto c'ho dato, il contrario fai subito.
LENA
Che mi deste voi mai? Forse repetere
Volete ch'io sto qui senza pagarvene
Pigione?
FAZIO
Ti par poco? Son pur dodici
Lire ogni anno coteste, senza il commodo
C'hai d'essermi vicina; ma tacermelo
Voglio, per non parer di rinfacciartelo.
LENA
Che rinfacciar? Che se talor v'avanzano
Minestre o broda, solete mandarmene?
FAZIO
Anch'altro, Lena.
LENA
Forse una o due coppie
Di pane il mese, o un poco di vin putrido?
O di lassarmi torre un legno picciolo,
Quando costí le carra se ne scarcano?
FAZIO
Hai ben anch'altro.
LENA
Ch'altro ho io? deh, ditelo:
Cotte di raso o di velluto?
FAZIO
Lecito
Non saria a te portarle, né possibile
A me di darle.
LENA
Una saia mostratemi,
Che voi mi deste mai.
FAZIO
Non vo' risponderti.
LENA
Qualche par di scarpaccie o di pantofole,

==>SEGUE


Poi che l'avete ben pelate e logore,
Mi donate alcuna volta per Pacifico.
FAZIO
E nuove ancor per te.
LENA
Non credo siano
In quattro anni tre paia. Or nulla vagliono
Le virtuti ch'io insegno, e che continuamente
Ho insegnato a vostra figlia?
FAZIO
Vagliono
Assai, nol voglio negar.
LENA
Ch'a principio
Ch'io venni a abitar qui, non sapea leggere
Ne la tavola il pater pure a compito,
Né tener l'ago.
FAZIO
È vero.
LENA
Né pur volgere
Un fuso: et or sí ben dice l'offizio,
Sí ben cuce e riccama, quanto giovane
Che sia in Ferrara: non è sí difficile
Punto, ch'ella nol tolga da l'esempio.
FAZIO
Ti confesso ch'è il vero: non voglio essere
Simile a te, ch'io neghi d'averti obligo
Dov'io l'ho; pur non starò di risponderti,
Se tu insegnato non le avessi, avrebbele
Alcun'altra insegnato, contentandosi
Di dieci giulii l'anno: differenzia
Mi par pur grande da tre lire a dodici!
LENA
Non ho mai fatto altro per voi, ch'io meriti
Nove lire di piú? In nome del diavolo,
Che se dodici volte l'anno dodici
Voi me ne dessi, non sarebbe premio
Sufficïente a compensar la infamia
Che voi mi date; che i vicini dicono
Publicamente ch'io son vostra femina.
Che venir possa il morbo a mastro Lazaro,
Che mi arrecò alle man questa casipula!
Ma non ci voglio piú star dentro: datela
Ad altri.

==>SEGUE

FAZIO
Guarda quel che tu di'.
LENA
Datela.
Non vo' che sempre mai mi si rimproveri
Ch'io non vi paghi la pigione, et abiti
In casa vostra: s'io dovessi tormene
Di dietro al Paradiso una, o nel Gambaro,
Non vo' star qui.
FAZIO
Pensaci bene, e parlami.
LENA
Io ci ho pensato quel ch'io voglio: datela
A chi vi pare.
FAZIO
Io la truovo da vendere,
E venderolla.
LENA
Quel che vi par fatene:
Vendetela, donatela, et ardetela,
Anch'io procacciarò trovar recapito.
FAZIO
(Quanto piú fo carezze, e piú mi umilio
A costei, tanto piú superba e rigida
Mi si fa; e posso dir di tutto perdere
Ciò ch'io le dono; cosí poca grazia
Me n'ha: vorria potermi succhiar l'anima.)
LENA
(Quasi che senza lui non potrò vivere!)
FAZIO
(E veramente, oltreché non mi pagano
La pigion de la casa, piú di dodici
Altre lire ella e 'l marito mi costano
L'anno.)
LENA
(Dio grazia, io son anco sí giovane,
Ch'io mi posso aiutar).
FAZIO
(Spero d'abbattere
Tanta superbia: io non voglio già vendere
La casa, ma sí ben farglielo credere.)
LENA
(Non son né guercia, né sciancata.)

==>SEGUE
   

FAZIO
(Voglioci
Condurre o Biagiolo o quel da l'Abbaco
A misurarla, e terrò in sua presenzia
Parlamento del prezzo, e saprò fingere
Un comprator. Non han danar, né credito
Per trovarne alcun'altra: si morrebbono
Di fame altrove. Vo' con tanti stimoli
Da tanti canti punger questa bestia,
Che porle il freno e 'l basto mi delibero.)

SCENA SECONDA

Lena sola

LENA
Vorrebbe il dolce senza amaritudine:
Ammorbarmi col fiato suo spiacevole,
E strassinarmi come una bell'asina,
E poi pagar d'un «gran mercè». Oh che giovene,
O che galante, a cui dar senza premio
Debbia piacere! Oh! fui ben una femina
Da poco, ch'a sue ciancie lasciai volgermi
E a sue promesse; ma fu il lungo stimolo
Di questo uom da nïente di Pacifico,
Che non cessava mai: - Moglie, compiacelo;
Sarà la nostra aventura: sapendoti
Governar seco, tutti i nostri debiti
Ci pagarà. - Chi non l'avria a principio
Creduto? Maria in monte (come dicono
Questi scolari) promettea; poi datoci
Ha un laccio, che lo impicchi come merita.
Poi ch'attener non ha voluto Fazio
Quel che per tante sue promesse è debito,
Farò come i famigli che 'l salario
Non ponno aver, che coi padroni avanzano,
Che li ingannano, rubano, assassinano.
Anch'io d'esser pagata mi delibero
Per ogni via, sia lecita o non lecita:
Né Dio né 'l mondo me ne può riprendere.
S'egli avesse moglier, tutto il mio studio
Saria di farlo far quel che Pacifico
È da lui fatto; ma ciò non potendosi,
Perché non l'ha, con la figliuola vogliolo
Far esser quel ch'io non so come io nomini.



   
Particolare di un affresco
del Ghirlandaio


PROLOGO.

Ecco La Lena, che vuol far spettacolo
Un'altra volta di sé, né considera
Che se l'altr'anno piacque, contentarsene
Dovrebbe, né si por ora a pericolo
Di non piacervi: che 'l parer de gli uomini
Molte volte si muta, et il medesimo
Che la matina fu, non è da vespero.
E s'anco ella non piacque, che piú giovane
Era alora e piú fresca, men dovrebbevi
Ora piacer. Ma la sciocca s'imagina
D'esser piú bella, or che s'ha fatto mettere
La coda dietro; e parle che, venendovi
Con quella inanzi, abbi d'aver piú grazia
Che non ebbe l'altr'anno, che lasciòvisi
Veder senz'essa, in veste tonda e in abito
Da questo, ch'oggi s'usa, assai dissimile.
E che volete voi? La Lena è simile
All'altre donne, che tutte vorrebbono
Sentirsi dietro la coda, e disprezzano
(come sien terrazzane, vili e ignobili)
Quelle ch'averla di rietro non vogliono,
O per dir meglio, ch'aver non la possono:
Perché nessuna, o sia ricca o sia povera,
Che se la possa por, niega di porsela.
La Lena, in somma, ha la coda, e per farvila
Veder, un'altra volta uscirà in publico;
Di voi, donne, sicura, che laudarglila
Debbiate; et è sicura anco de i giovani,
Ai quali sa che le code non spiaceno,
Anzi lor aggradiscono, e le accettano
Per foggia buona e da persone nobili.
Ma d'alcuni severi et increscevoli
Vecchi si teme, che sempre disprezzano
Tutte le fogge moderne, e sol laudano
Quelle ch'al tempo antico si facevano.
Ben sono ancora de i vecchi piacevoli,
Li quai non hanno le code a fastidio
Et han piacer de le cose che s'usano.
Per piacer, dunque, a questi e a gli altri che amano
Le foggie nuove, vien La Lena a farvisi
Veder con la sua coda. Quelli rigidi
Del tempo antico faran ben, levandosi,
Dar luogo a questi, che la festa vogliono.





CORBOLO
Anch'io il mio nel tuo mettere
Vorrei.
LENA
O che guadagno! Dimmi, Flavio:
Hai tu quella faccenda?
CORBOLO
Ben puoi credere
Che non saria venuto, non avendola.
Vi so dir che l'ha bella e bene in ordine.
LENA
Non gli dico di quella; ma dimandogli
S'egli arreca danar.
FLAVIO
Credea arrecarteli
Per certo...
LENA
Tu credevi? Mal principio
Cotesto!
FLAVIO
… ch'un amico mio servirmene
Dovea fin ieri, e poi mi fece intendere
Iersera, ch'era già notte, che darmeli
Farebbe oggi o doman senza alcun dubbio.
Ma sta sopra di me: doman non fieno
Vent'ore, che gli avrai.
LENA
Diman, avendoli,
Farò che l'altro dí, a questa medesima
Ora, entrarai qua dentro. In tanto renditi
Certo di star di fuora.
FLAVIO
Lena, reputa
D'averli.
LENA
Pur parole, Flavio: reputa
Ch'io non son, senza danari, per crederti.
FLAVIO
Ti do la fede mia.
LENA
Saria mal cambio
Tôr per danari la fede, che spendere
Non si può; e questi, che i dazi riscuoteno,
Fra le triste monete la bandiscono.

==>SEGUE

SCENA TERZA

Corbolo, Lena

CORBOLO
(Un uom val cento, e cento un uom non vagliono.
Questo è un proverbio che in esperïenzia
Questa matina ho avuto.)
LENA
Parmi Corbolo
Che di là viene: è desso.
CORBOLO
(Che partendomi
Di qui per far quanto m'impose Flavio,
Vo in piazza, e tutta la squadro, e poi volgomi
Lungo la loggia, e cerco per le treccole,
Indi inanzi al Castello, e i pizzicagnoli
Vo domandando s'hanno quaglie o tortore.)
LENA
Vien molto adagio: par che i passi annoveri.
CORBOLO
(Nulla vi trovo: alcuni piccion veggovi
Sí magri, sí leggieri, che parevano
Che la quartana un anno avuto avessino.)
LENA
Pur ch'egli abbia i danari!
CORBOLO
(Un altro toltoli
Averia, e detto fra sé: non ce n'erano
De' megliori; c'ho a far che magri siano
O grassi, poiché non s'han per me a cuocere?)
LENA
Vien col braccio sinistro molto carico.
CORBOLO
(Ma non ho fatt'io cosí: che gli ufficii,
E non le discrezïoni, dar si dicono.
Anzi alla porta del Cortil fermandomi,
Guardo se contadini o altri appaiono,
Che de' megliori n'abbian. Quivi in circulo
Alcuni uccellator del duca stavano,
Credo, aspettando questi gentiluomini
Che di sparvieri e cani si dilettano,
Che a bere in Gorgadello li chiamassero.
Mi dice un d'essi, ch'è mio amico: - Corbolo,

==>SEGUE



Che guardi? - Io glielo dico, e insieme dolgomi
Che mai per alcun tempo non si vendono
Salvadigine qui, come si vendono
In tutte l'altre cittadi; e penuria
Ci sia d'ogni buon cibo, né si mangino
Se non carnacce, che mai non si cuocono;
E perché non son care! Si concordano
Tutti al mio detto.)
LENA
Io vo' aspettarlo, e intendere
Quel ch'egli ha fatto.
CORBOLO
(Io mi parto: mi séguita
Un d'essi, e al canto ove comincian gli Orafi,
Mi s'accosta, e pian pian dice: - Piacendoti.
Un paio di fagian grassi per quindici
Bolognini gli avrai. - Sí sí, di grazia -;
Rispondo; et egli: - In Vescovato aspettami;
Ma non cantar -; et io: - Non è la statua
Del duca Borso là di me piú tacita. -
In questo mezzo un cappon grasso compero
Ch'avea adocchiato, e tolgo sei melangole,
Et entro in Vescovato; et ecco giungere
L'amico coi fagian sotto che pesano
Quanto un par d'oche. Io metto mano, e quindici
Bolognin su l'altar quivi gli annovero.
Mi soggiunge egli: - Se te ne bisognano
Quattro, sei, sette, diece paia, accennami,
Pur che tra noi stia la cosa. - Ringraziolo...)
LENA
Par che molto fra sé parli e fantastichi.
CORBOLO
…(E gli prometto la mia fede d'essere
Secreto; ma mi vien voglia di ridere:
Che 'l Signor fa con tanta diligenzia
E con gride e con pene sí terribili
Guardar la sua campagna; e li medesimi
Che n'hanno cura, son quei che la rubano.)
LENA
Spiccati, che spiccata ti sia l'anima!
CORBOLO
(Non ponno a nozze et a conviti publici
Li fagiani apparir sopra le tavole,

==>SEGUE



Che le grida che sono; e ne le camere
Con puttane i bertoni se li mangiano.
Questi arrosto, e 'l cappone ho fatto cuocere
Lesso; e qui nel canestro caldi arrecoli.
Ecco la Lena.)
LENA
Hai tu i danari, Corbolo?
CORBOLO
Io li avrò.
LENA
Non mi piace udir rispondere
In futuro.
CORBOLO
Contraria all'altre femine
Sei tu, che tutte l'altre il futuro amano.
LENA
Piaceno a me i presenti.
CORBOLO
Ecco, presentoti
Cappon, fagiani, pan, vin, cacio: portali
In casa. Parmi che saria superfluo
Aver portati piccioni, vedendoti
Averne in seno dui grossi bellissimi.
LENA
Deh, ti venga il malanno!
CORBOLO
Lascia pormivi
La man, ch'io tocchi come sono morbidi.
LENA
Io ti darò d'un pugno. I denar, dicoti.
CORBOLO
Finalmente ogni salmo torna in gloria.
Tu non tel scordi: tra mezz'ora arrecoli.
Io trovai ch'in letto anch'era Giulio:
Gli feci l'imbasciata, et egli mettere
Mi fe' li panni s'una cassa, e dissemi
Ch'io ritornassi a nona. Intanto cuocere
Il desinare ho fatto, e posto in ordine.
Ma le fatiche mie, Lena, che premio
Hanno d'aver? ch'io son cagion potissima
Che i venticinque fiorin ti si diano.
LENA
Che vòi tu?

==>SEGUE

CORBOLO
Ch'io tel dica? Quel che dandomi,
E se ne dessi a cento, non pòi perdere.
LENA
Io non intendo.
CORBOLO
Io 'l dirò chiaro.
LENA
Portami
I danar, ch'io non so senz'essi intendere.
CORBOLO
Son dunque i danar buoni a fare intendere?
LENA
Me sí, e credo anco non men tutti gli uomini.
CORBOLO
Saria, Lena, cotesto buon rimedio
A far ch'udisse un sordo?
LENA
Differenzia
Molta è, babbion, tra l'udire e l'intendere.
CORBOLO
Fa' che anch'io sappia questa differenzia.
LENA
Gli asini ragghiar s'odono alla macina.
Né s'intendon però.
CORBOLO
A me par facile
Sempre ch'io gli odo, intenderli: vorrebbono
A punto quel che anch'io da te desidero.
LENA
Tu sei malizioso piú che 'l fistolo.
Or che l'arrosto è in stagion, vieni, andiamone
A mangiar.
CORBOLO
Vengo. Dimmi: ov'è la giovane?
LENA
Dove sono i danari?
CORBOLO
Credo farteli
Aver fra un'ora.
LENA
Et io credo la giovane
Far venir qui, come i danar ci siano.
Andian, che le vivande si raffreddano.

==>SEGUE

CORBOLO
Va' là, ch'io vengo. - (Possino esser l'ultime
Che tu mangi mai piú; ch'elle t'affoghino!
Mi debbo dunque esser con tale studio
Affaticato a comperarle e a cuocere,
Perché una scrofa e un becco se le mangino?
Ma non avran la parte che si pensano:
Che anch'io me ne vo' il grifo e le mani ungere).

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Corbolo solo.

CORBOLO
Or ho di due faccende fatto prosperamente
una, e con satisfazione d'animo,
Che 'l cappone e i fagiani grassi e teneri
Son riusciti, e 'l pan buono, e 'l vin ottimo;
Non cessa tuttavia lodarmi Flavio
Per uom, che 'l suo danaio sappia spendere.
Farò ancor l'altra, ma non con quel gaudio
C'ho fatto questa: m'è troppo difficile
Ch'io vegga a costui spendere, anzi perdere
Venticinque fiorini, e ch'io lo toleri.
Facile è 'l tôr: sta la fatica al rendere.
Come farà non so, se non fa vendita
De i panni al fin; ma se i panni si vendono
(Che so ch'a lungo andar nol potrà ascondere
Al padre), li rumori, i gridi, i strepiti
Si sentiran per tutto, e sta a pericolo
D'esser cacciato di casa. Or l'astuzia
Bisognaria d'un servo, quale fingere
Vedut'ho talor ne le comedie,
Che questa somma con fraude e fallacia
Sapesse del borsel del vecchio mungere.
Deh, se ben io non son Davo né Sosia,
Se ben non nacqui fra Geti né in Siria,
Non ho in questa testaccia anch'io malizia?
Non saprò ordir un giunto anch'io, ch'a tessere
Abbia Fortuna poi, la qual propizia
(Come si dice) a gli audaci suol essere?
Ma che farò, che con un vecchio credulo

==>SEGUE



Non ho a far, qual a suo modo Terenzio
O Plauto suol Cremete o Simon fingere?
Ma quanto egli è piú cauto, maggior gloria
Non è la mia, s'io lo piglio alla trappola?
Ieri andò in nave a Sabioncello, e aspettasi
Questa matina: convien ch'io mi prépari
Di quel c'ho a dir, come lo vegga. Or eccolo
A punto! questo è un tratto di comedia:
Che nominarlo, et egli in capo giungere
De la contrada, è in un tempo medesimo.
Ma non vo' che mi vegga prima ch'abbi la
Rete tesa, dove oggi spero involgerlo.

SCENA SECONDA

Ilario, Egano, Corbolo

ILARIO
Non si dovrebbe alcuna cosa in grazia
Aver mai sí, che potendo ben venderla,
Non si vendesse, solo eccettuandone
Le mogli.
EGANO
E quelle ancor, se fusse lecito
Per legge o per usanza.
ILARIO
Non che in vendita,
Ma a baratto, ma in don dar si dovrebbeno.
EGANO
Di quelle che non fan per te, intelligitur.
ILARIO
Ita: non è già usanza che si vendano,
Ma darle ad uso par che pur si toleri.
D'un par di buoi, per tornare a proposito
Parlo, che trenta ducati, e tutti ungari...
CORBOLO
(Questi al bisogno nostro supplirebbono.)
ILARIO
…Ieri io vendei a un contadin da Sandalo.
EGANO
Esser belli dovean.
ILARIO
Potete credere...

==>SEGUE

CORBOLO
(Io li voglio, io li avrò.)
ILARIO
…che son bellissimi.
CORBOLO
(Son nostri.)
ILARIO
Belli a posta lor: mi piaceono
Molto piú questi denar.
CORBOLO
(È impossibile
Che non stia forte.)
ILARIO
Almen non avrò dubbio
Che 'l giudice alle fosse me li scortichi.
EGANO
Fêste bene. quest'è la via. potendovi
Far piacer, commandatemi.
ILARIO
A Dio, Egano.
CORBOLO
(La quaglia è sotto la rete; io vo' correre
Inanzi, e far ch'ella s'appanni, e prendasi.)
Io non so che mi far, dove mi volgere,
Poi che non c'è il patron.
ILARIO
(Oh! che può essere
Questo?)
CORBOLO
E che accadea partirsi a Flavio?
ILARIO
(Questa fia qualche cosa dispiacevole.)
CORBOLO
Molto era meglio aver scritto una lettera
Al patre, e aver mandato un messo súbito...
ILARIO
(Ohimè, occorsa sarà qualche disgrazia!)
CORBOLO
…Ch'andarvi egli in persona.
ILARIO
(Che può essere?)
CORBOLO
Meglio era ch'egli stesso il fêsse intendere
Al duca.

==>SEGUE

ILARIO
(Dio m'aiuti!)
CORBOLO
Come Ilario
Lo sa, verrà volando a casa.
ILARIO
Corbolo!
CORBOLO
Non lo vorrà patire, e farà il diavolo.
ILARIO
Corbolo!
CORBOLO
Ma che farà anch'egli?
ILARIO
Corbolo!
CORBOLO
Chi mi chiama? O patron!
ILARIO
Che c'è?
CORBOLO
V'ha Flavio
Scontrato?
ILARIO
Ch'è di lui?
CORBOLO
Non eran dodici
Ore, ch'uscí de la cittade, e dissemi
Che veniva a trovarvi.
ILARIO
Che importanzia
C'era?
CORBOLO
Voi non sapete a che pericolo,
Egli sia stato!
ILARIO
Pericolo? Narrami:
Che gli è accaduto?
CORBOLO
Può dir, padron, d'essere
Un'altra volta nato: quasi morto lo
Hanno alcuni giottoni; pur, Dio grazia,
Il male...
ILARIO
Ha dunque mal?

==>SEGUE


CORBOLO
Udite.
ILARIO
Séguita.
CORBOLO
Non è ferito nel corpo.
ILARIO
Ne l'anima
Dunque?
CORBOLO
È ferito in una cosa simile.
Flavio con una brigata di giovani
Si trovò iersera a cena; e a me, andandovi,
Disse che, come cinque ore suonavano,
Andassi a tôrlo con lume; ma (rendere
Non ne so la cagion) prima che fossero
Le quattro, si partí, e solo venendone,
E senza lume, come fu a quei portici
Che al dirimpetto son di Santo Stefano,
Fu circondato da quattro, et aveano
Arme d'asta, ch'assai colpi gli trassero.
ILARIO
E non l'hanno ferito? Oh che pericolo!
CORBOLO
Com'è piaciuto a Dio, mai non lo colsero
Ne la persona.
ILARIO
O Dio, te ne ringrazio.
CORBOLO
Egli voltò loro le spalle, e messesi,
Quanto piú andar poteano i piedi, a correre.
Un gli trasse alla testa.
ILARIO
Ohimè!
CORBOLO
Ma colselo
Ne la medaglia d'or ch'aveva, e caddegli
La berretta.
ILARIO
E perdella?
CORBOLO
Non: la tolsero
Quelli ribaldi.

==>SEGUE

ILARIO
E non gliela renderono?
CORBOLO
Renderon, eh?
ILARIO
Mi costò piú di dodici
Ducati coi pontal d'oro che v'erano.
Lodato Dio, che peggio non gli fecero.
CORBOLO
La roba fra le gambe aviluppandosi,
Che gli cadea da un lato, fu per metterlo
Tre volte o quattro in terra; al fin, gettandola
Con ambedue le mani, sviluppossene.
ILARIO
Insomma l'ha perduta?
CORBOLO
Pur la tolsero
Quei ladroncelli ancora.
ILARIO
E se la tolsero
Quei ladroncelli, non ti par che Flavio
L'abbia perduta?
CORBOLO
Non credea che perdere
Si dicesse alle cose ch'altri trovano.
ILARIO
Oh, tu sei grosso! mi vien con la fodera
Ottanta scudi. In somma, non è Flavio
Ferito?
CORBOLO
Non, ne la persona.
ILARIO
U' diavolo
In altra parte ferir lo poteano?
CORBOLO
Ne la mente: che si pon gran fastidio,
Pensando, oltr'al suo danno, alla molestia
Che voi ne sentirete risapendolo.
ILARIO
Vide chi fusser quei che l'assalirono?
CORBOLO
Non, che la gran paura, e l'oscurissima
Notte non gli ne lasciò alcun conoscere.

==>SEGUE

ILARIO
Por si può al libro de l'uscita.
CORBOLO
Temone.
ILARIO
Frasca! perché non t'aspettar, dovendolo
Tu gire a tôr?
CORBOLO
Vedete pur...
ILARIO
Ma un asino
Sei tu però, che non fosti sollecito
Ad ir per lui.
CORBOLO
Cotesto è il vostro solito:
Me de gli errori suoi sempre riprendere.
Aspettar mi dovea, o non volendomi
Aspettar, tôr compagnia, che sarebbono
Tutti con lui venuti, dimandandoli.
Ma non si perda tempo: ora prendeteci,
Padron, che 'l male è fresco, alcun rimedio.
ILARIO
Rimedio? E che rimedio poss'io prenderci?
CORBOLO
Parlate al podestade, a i segretarii,
E se sarà bisogno, al Duca proprio.
ILARIO
E che diavolo vuoi che me ne facciano?
CORBOLO
Faccian far gride.
ILARIO
Acciò ch'oltre alla perdita
Sia il biasmo ancora. Non direbbe il populo
Che colto solo e senza armi l'avessino,
Ma che assalito a paro a paro, e toltogli
Di patto l'armi e li panni gli fossero
Stati. Or sia ancor ch'io vada al duca, e contigli
Il caso; che farà, se non rimettermi
Al podestade? E 'l podestade subito
M'avrà gli occhi alle mani; e non vedendoci
L'offerta, mostrerà che da far abbia
Maggior faccende: e se non avrò indizii,
O testimoni, mi terrà una bestia.

==>SEGUE

Appresso, chi vuoi tu pensar che siano
Li malfattori, se non li medesimi,
Che per pigliar li malfattor si pagano?
Col cavallier dei quali o contestabile,
Il podestà fa a parte; e tutti rubano.
CORBOLO
Che s'ha dunque da far?
ILARIO
D'aver pazienzia.
CORBOLO
Flavio non l'avrà mai.
ILARIO
Converrà aversela,
O voglia o non: poi ch'è campato, reputi
Che gli abbia Dio fatto una bella grazia.
Egli è fuor del timore e del pericolo
Senz'altro mal; ma son io, che gravissima-
Mente ferito ne la borsa sentomi.
Mio è il danno, et io, non egli ha da dolersene.
Una berretta gli farò far súbito,
Com'era l'altra, e una roba onorevole;
Ma non sarà già alcuno ch'a rimettere
Mi venga ne la borsa la pecunia
Ch'avrò speso, perch'egli non stia in perdita.
CORBOLO
Non saria buon che i rigattieri fossino
Avisati, e gli Ebrei, che se venisseno
Questi assassini ad impegnare o vendere
Le robe, tanto a bada li tenessino,
Che voi fosse avisato, sí che, andandovi,
Le riavessi, e lor facessi prendere?
ILARIO
Cotesto piú giovar potria che nuocere;
Pur non ci spero, che questi che prestano
A usura, esser ribaldi non è dubbio;
E quest'altri, che compran per rivendere,
Son fraudolenti, e 'l ver mai non ti dicono;
Né altre cose piú volentier pigliano
De le rubate, perché comperandole
Costan lor poco; e se danar vi prestano
Sopra, fanno che mai non si riscuoteno.
CORBOLO
Avisiamoli pur: facciamo il debito
Nostro noi.
ILARIO
Se 'l ti par, va' dunque, avisali.


SCENA TERZA

Corbolo, Pacifico.

CORBOLO
La cosa ben procede, e posso metterla
Per fatta: non mi resta altro a conchiuderla
Che farmi i pegni rendere da Giulio,
E poi mandarli per persona incognita
Ad impegnar quel piú che possa aversene.
Il vecchio, so, li riscuoterà subito
Che saprà dove sien; ma vo' che Flavio
L'intenda, acciò governar con Ilario
Si sappia e i nostri detti si conformino.
Ecco Pacifico esce.
PACIFICO
Ti vuol Flavio.
CORBOLO
A lui ne vengo, e buone nuove apportogli.
PACIFICO
Le sa, che ciò c'hai detto, dal principio
Al fine abbiamo inteso; ch'ambi stati te
Siamo a udir dietro all'uscio, né perdutane
Abbiàn parola.
CORBOLO
Che ve ne par?
PACIFICO
Demmoti
La gloria e 'l vanto di saper me' fingere
D'ogni poeta una bugia. Ma fermati,
Che non ti vegga entrar qua dentro Fazio;
Come sia in casa e volga le spalle, entraci.

SCENA QUARTA

Fazio, Pacifico.

FAZIO
Perché non vi vorrei giunger, Pacifico,
Improviso, fra un mese provedetevi
Di casa, che cotesta son per vendere.
PACIFICO
Gli è vostra: a vostro arbitrio disponetene.
FAZIO
Il comprator et io ci siàn nel Torbido
Compromessi, ch'è andato a tôr la pertica

==>SEGUE

Per misurarla tutta: non mi dubito
Che si spicchi da me senza conchiudere.
PACIFICO
L'avessi ier saputo, che assettatola
Un po' l'avrei: mi cogliete in disordine.
FAZIO
Or va', e al me' che puoi, tosto rassettala,
Che non può far indugio che non venghino.
PACIFICO
Non oggi, ma diman fate che tornino.
FAZIO
Non ci potrebbe costui che la compera
Esser domane, che vuol ire a Modena.

SCENA QUINTA

Pacifico, Corbolo.

PACIFICO
Come faremo, Corbolo, di ascondere
Il tuo padron, che costor non lo vegghino?
Che senza dubbio, se lo vede Fazio,
S'avisarà la cosa, e sarà il scandolo
Troppo grande.
CORBOLO
Ecci luogo ove nasconderlo?
PACIFICO
Che luogo in simil casa (misurandola
Tutta) esser può sicur, che non lo trovino?
CORBOLO
Or non c'è alcuna cassa, alcun armario?
PACIFICO
Non ci son altre che due casse piccole,
Che Santino in giubbon non capirebbono.
CORBOLO
Dunque facciànlo uscir prima che venghino.
PACIFICO
Cosí spogliato?
CORBOLO
Io vo a casa, et arrecogli
Un'altra veste.
PACIFICO
Or va' e ritorna súbito,
Che qui t'aspetto.
CORBOLO
Io veggo uscire Ilario.



SCENA SESTA

Ilario, Corbolo, Cremonino.

ILARIO
Non sarà se non buono, oltre che Corbolo
V'abbia mandato, s'anch'io vo; che credere
Io non debbo ch'alcun piú diligenzia
Usi ne le mie cose, di me proprio.
Ma eccol qui. C'hai fatto?
CORBOLO
Isaac e Beniami
Da i Sabbioni ho avisato: ora vo' volgermi
A i Carri; quei da Riva saran gli ultimi.
ILARIO
Che dimanda colui che va per battere
La nostra porta?
CORBOLO
È Il Cremonino. (Oh diavolo,
Siamo scoperti!)
ILARIO
Che domandi, giovane?
CREMONINO
Domando Flavio.
ILARIO
Oh, quella mi par essere
La sua veste.
CORBOLO
A me ancor: vedete similemente
La sua berretta. (Or aiutatemi,
Bugie; se non, siamo spacciati.)
ILARIO
Corbolo,
Come va questa cosa?
CORBOLO
Li suoi proprii
Compagni avran fatto la beffa, e toltosi,
Credo, piacer d'averlo fatto correre.
ILARIO
Bel scherzo in verità!
CREMONINO
Mio padron Giulio
Gli rimanda i suoi pegni, e gli fa intendere
Che quel suo amico...

==>SEGUE

CORBOLO
Che amico? Odi favola!
CREMONINO
…Quel che prestar su questi pegni...
CORBOLO
Chiacchiare!
CREMONINO
…Gli dovea li danari, che tu Corbolo...
CORBOLO
O che finzion!
CREMONINO
…venisti oggi a richiedergli.
CORBOLO
Io?
CREMONINO
Tu, sí.
CORBOLO
Guata viso! come fingere
Sa bene una bugia!
ILARIO
Corbolo, pigliali
E riponli: va', va' tu, va' e di' a Giulio
Che questi scherzi usar non si dovrebbono
Con gli amici...
CREMONINO
Che scherzi?
ILARIO
…e convenevoli
Non sono alli par suoi.
CREMONINO
Non credo ch'abbia
Mio padron fatto... Che m'accenni, bestia?
Vo' dir la verità...
CORBOLO
Accenno io?
CREMONINO
… e difendere
El mio padron, ch'a torto tu calunnii.
S'avesse avuto egli i danar, prestatogli
Li avrebbe, e volentier.
CORBOLO
Danari? Pigliati
Piacer! Ti sogni forse? O noi pur scorgere
Credi per ubriachi o per farnetichi?

==>SEGUE



CREMONINO
Or non portasti questa veste a Giulio,
Tu, questa mane?
CORBOLO
A piè o a cavallo? Abbiamoti
Inteso.
CREMONINO
Pur anco m'accenni?
CORBOLO
Accennoti?
ILARIO
Oh, che ti venga il mal di santo Antonio!
Non t'ho veduto io che gli accenni?
CORBOLO
Accennoli
Per certo, a dimostrar che le malizie
Sue conosciamo, e che a noi non può venderle.
CREMONINO
Malizie son le tue.
ILARIO
La voglio intendere.
Onde hai tu avute queste robe?
CORBOLO
Giulio
Ieri stette alla posta.
ILARIO
Da lui vogliolo,
E non da te saper.
CORBOLO
Ti darà a intendere
Qualche baia, che sa troppo ben fingere.
CREMONINO
Fingi pur tu.
CORBOLO
Or guatami, e non ridere.
CREMONINO
Che rider, che guatar?
CORBOLO
Va', va', di' a Giulio
Che Flavio sarà un dí buono per renderli
Merto di questo.
ILARIO
Non andar, no: lievati
Pur tu di qui, ch'io vo' da lui informarmene,

==>SEGUE




E non da te.
CORBOLO
Non fia vero ch'io toleri
Mai che costui vi dileggi.
ILARIO
Che temi tu
Che le parole sue però m'incantino?
Ma dimmi: queste robe... Va' via, levati
Tu di qui.
CORBOLO
Pur volete dargli udienzia?
Quanti torcoli son per la vendemia
Non gli potrebbon fare un vero esprimere.
CREMONINO
Dirò la verità.
CORBOLO
Cosí è possibile,
Come che dica il Paternostro un asino.
ILARIO
Lascialo dire.
CREMONINO
Io vi dirò il Vangelio.
CORBOLO
Scoprianci il capo, perché non è lecito
Udire a capo coperto il Vangelio.
ILARIO
Per ogni via tu cerchi d'interrompere;
Ma se tu parli piú... Deh vien, lasciamolo
Di fuora: entra là in casa. Mi delibero
Di saper questa giunteria, ch'altro essere
Non può; ma serriàn fuor questa seccaggine.

SCENA SETTIMA

Corbolo, Pacifico

CORBOLO
Noi siàn forniti: a quattro a quattro correno
Li venticinque fiorini, ma e' correno
Tanto, che piú non c'è speme di giungerli.
Come n'ha fatto un bel servigio Giulio!
Per Dio! sempre gli abbiamo d'aver obligo.
Mi dice: - Tornerai fra un'ora a intendere
Quanto sia fatto -; e poi m'ha, contra all'ordine,

==>SEGUE



Mandato questo pecorone a rompere
Le fila ordite, e ch'io stavo per tessere.
PACIFICO
Che sei stato costí tanto a contendere?
Dove è la veste che tu arrechi a Flavio?
Non indugiàn, cancar ti venga, a metterlo
Fuor di casa. Ch'aspetti? ch'entri Fazio,
E che lo vegga?
CORBOLO
S'io non posso in camera
Entrar! se m'ha di fuor serrato Ilario!
PACIFICO
Come faremo?
CORBOLO
Vedi di nasconderlo
In casa.
PACIFICO
Non c'è luogo.
CORBOLO
Dunque mettilo
Fuor in giubbon. Di due partiti prendene
L'uno: o l'ascondi in casa o in giubbon mandalo
Di fuor.
PACIFICO
Né l'un né l'altro voglio prendere.
CORBOLO
Che farai dunque?
PACIFICO
Or mi torna in memoria
C'ho in casa una gran botte, che prestatami
Quest'anno al tempo fu de la vendemia
Da un mio parente, acciò che adoperandola
Per tino, le facessi l'odor perdere
Che avea di secco: egli di poi lasciatami
L'ha fin adesso. Io ve lo vo' nascondere
Tanto che questi, che verran con Fazio,
Cercato a lor bell'agio ogni cosa abbiano.
CORBOLO
Vi capirà egli dentro?
PACIFICO
Sí, a suo commodo;
E già piú giorni io la nettai benissimo,
E posso a mio piacer levarne e mettere
Un fondo.

==>SEGUE



CORBOLO
Andiamo dunque: consigliamoci
Con essolui.
PACIFICO
Credo che questi siano
A punto quei ch'entrar qua dentro vogliono:
Son dessi certo, ch'io conosco il Torbido.
Forniàn noi quel ch'abbiamo a far.
CORBOLO
Forniamolo.
PACIFICO
Dunque vien dentro.
CORBOLO
Va' là, ch'io ti séguito.

SCENA OTTAVA

Torbido, Gemignano, Fazio

TORBIDO
Poi ch'io l'avrò misurata, la pertica
Mi dirà quanto ella val, fino a un picciolo.
GEMIGNANO
Dunque tal volta le pertiche parlano?
TORBIDO
Sí ben, e spesso fan parlare, fanno, stendendole
Tin su le spalle altrui. Ma ecco Fazio.
Ch'abbiamo a far?
FAZIO
Quel ch'è detto: mettetevi
A misurar quando vi par: cominciano
Qui le confine, e quel segno non passano.
TORBIDO
Cominciaren qui dunque.
FAZIO
Cominciateci.
TORBIDO
Una, méttevi in capo il coltello.
GEMIGNANO
Eccolo.
TORBIDO
E dua, e questo appresso: a punto mancano
Dui sesti, che tre piedi non ponno essere.
Andiamo or dentro.

==>SEGUE



FAZIO
La matita prendere
Potete, e notar questo.
TORBIDO
Io lo noto, eccolo.

SCENA NONA

Giuliano solo.

GIULIANO
Or ora su in palazzo ritrovandomi,
Ho veduto segnare una licenzia
Dal Sindico, di tôr pegni a Pacifico
Per quarantatre lire, ch'egli è a Bartolo
Bindello debitore; e son certissimo
Che non si trovi tanto ch'abbia ascendere
Alla metà né al terzo di tal debito.
Per questo sto in timor che non gli toglino
Una mia botte, di che alla vendemia
Per bollire il suo vin gli feci commodo.
Meglio è, prima che i sbirri gli la lievino,
E ch'io abbi a litar poi e contendere,
E provar che sia mia, s'io vo a pigliarmela.
E poi che l'uscio è aperto, alla dimestica
Entrarò. Vien, facchin, vien dentro, seguime.




ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Cremonino solo.

CREMONINO
Or vedo ben ch'io son stato mal pratico;
E me n'ha gravemente da riprendere
Il mio padron, come lo sa, ch'a Ilario
Abbia scoperti gli aguati, che Corbolo
Posti gli avea, perché avesse Flavio
Da lui danari; e per inavertenzia
Solo ho fallito, e non già per malizia.
Ma che poteva io saper, non essendomi
Stato detto altro? Da doler s'avrebbeno
Di mio patron, che dovea avertirmene.
Pur è stata la mia grande ignoranzia,
Che de l'error non mi sapesse accorgere,
Se non poi quando non c'era rimedio.
Ma dove van questi sbirri? Ir debbono
A dar mala ventura a qualche povero
Cittadin. Mala razza! feccia d'uomini!

SCENA SECONDA

Bartolo solo,

BARTOLO
Io gli ho mandato dieci volte o dodici
Li messi, acciò che li pegni gli tolgano;
Ma questi manigoldi, pur che siano
Pagati del viaggio, poco curano
Di fare essecuzione alcuna. Il credito
Mio primo era quaranta lire e quindici
Soldi; e di questo tenuto in litigio
M'ha quattro anni, e ci son ben due sentenzie
Date conformi; et ho speso in salarii
D'avvocati, procuratori e giudici,
Duo tanti; e poco men le citatorie,
Le copie de scritture e de capitoli
Mi costan. Metti appresso intolerabile
Fatica, e gravi spese de gli essamini,
Del levar de' processi e de sentenzie;
Le berrette, che a questo e a quel traendomi,

==>SEGUE

Le scarpe, c'ho su pel palazzo logore
Dietro ai procurator, che sempre corrono:
Piú di quaranta lire credo vagliano.
Poi dopo le fatiche e spese, i giudici
Solo in quaranta lire lo condannano;
E chi ha speso si può grattar le natiche.
Ve' le ragion che in Ferrara si rendono!
Quelle quaranta lire almen s'avessino!
Ma quando sopra a certe masserizie
Poi rivaler mi penso, che non vagliono
Quaranta lire quante son tutte, eccoti
La moglie comparir con l'inventario
De la sua dote, che tutte me l'occupa.
Non voglio, né per certo posso credere
Che sia in la povertà che referiscono

SCENA TERZA

Bartolo, Magagnino.

BARTOLO
Magagnin, vien inanzi e fa' il tuo officio;
Batti quell'uscio.
MAGAGNINO
Perché debbo batterlo,
Se non m'ha offeso?
BARTOLO
Offende me, vietandomi
Per li statuti che costui, che ci abita
Non posso far pigliar.
MAGAGNINO
Tu te ne vendica;
E poi ch'averne altro non puoi, disfogati
Sopra di lui: con mani e con piè battilo.
BARTOLO
Spero pur d'averne altro ancora: entriamoci.
Ma sento ch'egli s'apre.
MAGAGNINO
Ha fatto saviamente
a ubidirti, e non lasciarsi battere.
BARTOLO
Molta gente mi par: qua su tiriamoci
Da parte un poco: credo che fuor portino
Le massarizie, et ogni cosa sgombrino.





SCENA QUARTA

Giuliano, Pacifico, Bartolo.

GIULIANO
E se la botte è mia, perché vietarmela
Vuoi tu ch'io non la pigli?
PACIFICO
Perché, avendola
Lasciata qui sei mesi, ora di tormela
Ti nasce questa voglia cosí súbita?
GIULIANO
Perché, lasciandola oggi, sto a pericolo,
Per la cagion che t'ho detto, di perderla.
BARTOLO
(Esser doveano avisati, né giungere
Ci potevàn piú a tempo.)
GIULIANO
Né comprendere
Posso, se non mel narri, il danno o l'utile
Che far ti possa, tortela o lasciartela.
PACIFICO
Tollendola ora, tu mi fai grandissimo
Danno.
GIULIANO
Tu pure a me.
PACIFICO
Mezz'ora piacciati
Di lasciarmela ancora.
GIULIANO
E s'ora vengono
Per vuotarti la casa i birri? Et eccoli,
Eccoli certo. Non senza contendere
Ora l'avrò: ve' s'io dovea lasciartela!

SCENA QUINTA

Bartolo, Magagnino, Spagnolo, Giuliano.

BARTOLO
Cotesta vo' per parte del mio credito.
Falcione, e tu Magagnino, pigliatela
In spalla, e tu Spagnuolo.
MAGAGNINO
Io non soglio essere
Facchino.

==>SEGUE

SPAG.
Et io tampoco.
BARTOLO
Un bel servizio
C'ho da voi!
GIULIANO
Non sia alcun che di toccarmela
Ardisca, se non vuol...
BARTOLO
Dunque vietarmi tu
Vuoi, che non si esequisca la licenzia
C'ho di levargli i pegni?
GIULIANO
Li suoi togliere
Non vi divieto; ma 'sta botte dicovi
Che gli è mia.
BARTOLO
Come tua?
GIULIANO
Gli è mia verissimamente,
che uguanno fu da me prestatali.
BARTOLO
Deh, che ciancie son queste? Ritrovandola
Uscir di casa sua, come sua tolgola.
GIULIANO
La tolli? Sí, s'io tel comporto: lasciala,
Se non ch'io te...
BARTOLO
Siatemi testimonii
Che costui vieta...
GIULIANO
Che vieta? Lasciatela.

SCENA SESTA

Fazio, Giuliano, Pacifico, Bartolo, Colombo.

FAZIO
Oh che rumor fate voi qui? Che strepito
È questo?
GIULIANO
È mia la botte, e riportarmela
Voglio a casa; e costui crede vietarmelo
PACIFICO
Dice il ver: sua è per certo.

==>SEGUE



BARTOLO
Anzi non dicono
Il vero.
GIULIANO
Tu pur menti.
FAZIO
Senza ingiuria
Dirvi, parlate.
BARTOLO
Tu mi menti.
GIULIANO
Menti tu,
Che tu di' ch'io non dico il vero.
BARTOLO
Fazio,
Vi par, se di casa esce di Pacifico,
Ch'io mi debba lasciar dare ad intendere
Che la sia se non sua?
GIULIANO
Se di Pacifico
Fusse, fuor ne la strada non trarrebbesi.
BARTOLO
Anzi la traevate per nasconderla.
PACIFICO
Non già, per Dio! La traevo per rendere
A lui, che uguanno me ne fe' servizio.
FAZIO
Ch'io dica il mio parer.
BARTOLO
Sí ben, rimettere
Mi voglio in voi.
GIULIANO
Io ancora.
FAZIO
Lascia, Bartolo,
Che questa botte io mi chiami in deposito,
E se Giulian fra due dí mi certifica
Che sia sua, l'averà; ma non facendomi
Buona prova, vorrò ch'abbi pazienzia.
GIULIANO
Son ben contento.
BARTOLO
Et io contento.

==>SEGUE



GIULIANO
Possovi
Che gli è mia facilmente far conoscere.
BARTOLO
Se prova gliene fii vera e legitima,
Sia tua: tu, dove e quando vuoi, via portala.
PACIFICO
Tu mi par poco savio a compromettere
E lasciar turbidar la chiara e liquida
Ragion che v'hai.
CORBOLO
Dice il vero: lasciatela
Piú tosto ov'era, in casa di Pacifico.
BARTOLO
Questo consiglio non mi sarebbe utile.
FAZIO
Che tocca a te? Che v'hai tu da intrometterti,
O tu, se non è tua?
CORBOLO
Per me rispondere
Voglio, che forse ci ho parte.
GIULIANO
Concederti
Non voglio già cotesto.
CORBOLO
Et appertiemmisi
Vie piú che non ti pare.
FAZIO
Et appertengasi.
GIULIANO
Come appertien? non è vero.
FAZIO
Appertengagli.
E non ti par che in casa mia debbia essere
Sicura dunque? come sol con Bartolo,
E non con Giulian anco, abbi amicizia!
GIULIANO
Ci siamo un tratto compromessi in Fazio:
Sia il depositario egli, egli sia il giudice.
BARTOLO
E cosí dico anch'io.
FAZIO
Dunque spingetela
Qua dentro in casa; e non abbiate dubbio

==>SEGUE



Che, in fin ch'io non son ben chiaro e certissimo
Di chi sia di ragion, la lasci muovere.
PACIFICO
(Flavio c'è dentro: or ve' s'ogni disgrazia,
Or ve' s'ogni sciagura mi perseguita!)
FAZIO
Pacifico, faresti meglio attendere
A casa, che gli sbirri non ti tolghino
Altro, e ti faccin peggio.
PACIFICO
E che mi possono
Tôrre? Il poco che ci è, sanno tutto essere
Di mógliema; ben altre volte stati ci
Sono. Pur vo'...; ma ecco che fuor escono.

SCENA SETTIMA

Sbirri, Torbido, Gemignano, Giuliano, Fazio.

MAGAGNINO
Altro in somma non ci è, che quel che soliti
Siamo trovare, e ch'è su l'inventario.
TORBIDO
Ah ladri, ribaldoni, che involatomi
Avete il mio mantello!
MAGAGNINO
Fai grandissimo
Male accusarci a torto e dirci ingiuria.
TORBIDO
Brutto impiccato, che ti venga il cancaro!
Che è questo che tu hai sotto?
MAGAGNINO
Tolto avevolo
Per le mie spese, e non per involartelo.
TORBIDO
Io ti darò ben spese, se la pertica
Non mi vien meno.
GEMIGNANO
Io vo' prestarti un'opera.
GIULIANO
Non mi vo' anch'io tener le mani a cintola.
TORBIDO
Ve' lí quel sasso, Gemignano? piglialo,
Spezzali il capo: tu sei pur da Modena.

==>SEGUE



SBIRRI
Gli ufficial del signor cosí si trattano?
TORBIDO
Il signor non tien ladri al suo servizio.
Via, ladri; via, poltroni; via col diavolo.
Poco piú ch'io indugiava ad avedermene,
Era fornito: bisognava andarmene
In bel farsetto; e mi venia a proposito
L'aver meco portato questa pertica,
Che in spalla, ad uso d'una picca, avendola,
Sarei paruto un Lanzchenech o Svizaro.
FAZIO
Resta a misurar altro?
TORBIDO
Fin all'ultimo
Mattone ho misurato, e fin all'ultimo
Legno che ci è, l'ho scritto, e meco portolo;
Poi ne leverò il conto, e farò intendere
Ad ambi, a quanto prezzo possa ascendere.
GEMIGNANO
Quando?
TORBIDO
Oggi ancora. Commandi altro, Fazio?
FAZIO
Non, ora.
TORBIDO
A Dio.
FAZIO
Son vostro. - Olà, Licinia,
S'alcun mi viene a dimandar, rimettilo
Alla bottega qui di mastro Onofrio;
Fino ad ora di cena potrà avermici.

SCENA OTTAVA

Lena sola.

LENA
Nel male è grande aventura che Fazio
Uscito sia di casa; che difficilemente,
Se non si partiva, potevasi
Oggi piú trar di quella botte Flavio.
Com'io lo vidi in quella casa spingere,
M'assalse al cuore una paura, un tremito,

==>SEGUE

Che non so come io non mi morii súbito.
Potuto non s'avria sí poco muovere,
Che di sé non avesse fatto accorgere:
Un sospirar, un starnutire, un tossere
Ne rovinava. Or, poi che senza nuocerne
Questa sciagura è passata, proveggasi
Ch'altra non venga; ora non s'ha da attendere
Ad altra cosa, che di tosto metterlo
Di fuor, ch'alcun nol vegga. Vada Corbolo
A proveder di veste; ma fuor mandisi
Però prima la fante: che pericolo
Saria, stand'ella qui, che fosse il giovine
Da lei veduto o sentito. - Odi, Menica:
A chi dich'io? Licinia, di' alla Menica
Che tolga il velo, et a me venga. Or eccola.

SCENA NONA

Menica, Lena, Corbolo, Pacifico.

MENICA
Lena, che vuoi?
LENA
Piacciati, cara Menica,
Di farmi un gran servigio, da dovertene
Esser sempre tenuta.
MENICA
Che vuoi?
LENA
Vuo' mi tu
Farlo?
MENICA
Io 'l farò, pur che far sia possibile.
LENA
Va', madre mia, se m'ami, fin a gli Angeli.
MENICA
Ora?
LENA
Ora sí.
MENICA
Lasciami prima mettere
La cena al fuoco.
LENA
No, va' pur, che mettere
Io saprò senza te al fuoco una pentola.

==>SEGUE



Va': come sei dritto la chiesa, piegati
Tra l'orto de li Mosti e 'l monasterio;
E va' su al dritto, fin che giungi al volgerti
A man sinistra, alla contrada dicono
Mirasol, credo. Or va'.
MENICA
Che vi vuoi, domine,
Ch'io vada a far?
LENA
Vedi cervello! Informati
Quivi (credo sia il terzo uscio) dove abita
La moglie di Pasquin, che insegna a leggere
Alle fanciulle: Dorotea si nomina.
Va' quivi, e dille: - A te, Dorotea, mandami
La Lena a tôr li ferri suoi da volgere
La seta sopra li rocchetti -; e pregala
Che me li mandi, perché mi bisognano.
Or va', Menica cara: donar voglioti
Poi tanta tela, che facci una cuffia.
MENICA
La carne è nel catin lavata, e in ordine;
Non resta se non porla ne la pentola.
LENA
Troppo cred'io ch'ella sia ben in ordine;
Ma non è già per porla ne la pentola
Se venticinque fiorini non s'abbino.
Conosco io ben l'amor di questi giovani,
Che dura solamente fin che bramano
Aver la cosa amata, e spenderebbono,
Mentre che stanno in questo desiderio,
Non che l'aver, ma il cuor. Fa' che possegghino:
Va l'amor come il fuoco, che spargendovi
De l'acqua sopra, suol subito spegnersi:
E mancato l'ardor, non ti darebbono
Di mille l'un, che già ti promesseno.
Per questo voglio ir dentro, et interrompere
S'alcuna cosa senza me disegnano.
Corbolo, or su, spacciati tosto, arrecali
Alcuna veste; che lo possiàn mettere
Fuor, mentre l'agio ci abbiamo.
CORBOLO
Anzi, pregoti,
Mentre abbiamo agio, fa' che possa mettere
Dentro, e dategli luogo tu e Pacifico.

==>SEGUE



LENA
In fé di Dio, non farà: né ti credere
Ch'io gli lassi aver cosa che desideri,
Se prima li danari non mi annovera;
Et esser guardiana io stessa voglione.
CORBOLO
Guardala sí che gli occhi vi rimanghino.
(Debb'io patir che Flavio da Licinia
Cosí si debba partir, senza prenderne
Piacere; et abbia avuto questo incommodo
Di levarsi, che dieci ore non erano;
Di star qui dentro chiuso come in carcere;
D'esser portato con tanto pericolo
Serrato in una botte, come proprio
Fansi l'anguille di Comacchio e i mugini?
Ma che farò, vedendomi contraria
Col becco suo questa puttana femina,
Con li quali li preghi nulla vagliono,
Né luogo han le minaccie; né potrebbesi
Usar forza, che pur troppo è il pericolo,
Stando cosí, senza levar piú strepito?
Venticinque fiorini, in fin, bisognano,
Ne li qual siamo condennati; e grazia
Non se n'ha a aver, né voglion darci credito.
Dove trovar li potrò? Far prestarmeli
Su la fede è provato, et è stato opera
Vana: su i pegni non si può, che Ilario
Ne gli ha intercetti. A lui di nuovo tendere
Un'altra rete saria temeraria
Impresa: non si lasciaria piú cogliere.
E pur talor de gli augelli si colgono,
Che caduti alla rete altre volte erano,
E n'erano altre volte usciti liberi.
Forse sarà lo ingannarlo piú facile
Or che gli par, che mal successe essendomi
Le prime, rinfrancar sí tosto l'animo
Non debba a porgli le seconde insidie.
Ma che farò? Che farò infin? Delibera
Tosto, che di pensar ci è poco termine.
Io farò... che? Io dirò... sí bene; e credere
Mi potrà? Crederammi. Ma Pacifico
Vien fuora).
PACIFICO
Ov'è la veste?

==>SEGUE



CORBOLO
Che veste? hammi tu
Scorto per sarto? Oh, par che 'l mio esercizio
Non sappi: io tengo la zecca, e vo' battere
Venticinque fiorini ora per darteli.
PACIFICO
Foss'egli il vero!
CORBOLO
A mio senno governati.
Hai tu alcun'arma in casa?
PACIFICO
Su in la camera
Dipinta ho nel camin l'arme di Fazio.
CORBOLO
Dico da offesa.
PACIFICO
Assai n'ho che m'offendono:
La povertà, li pensieri, la rabbia di
Mia moglier, e 'l suo sempre dirmi ingiuria.
CORBOLO
Dico s'hai spiedo o ronca o spada o simile
Cosa.
PACIFICO
Ci è un spiedo antico e tutto ruggine.
Ve' se gli è tristo, se gli è male in ordine,
Che i birri mai non curan di levarmelo.
CORBOLO
Basta, viemmelo mostra. Or bella alchimia
Non ti parrà, s'io fo di questa ruggine
Venticinque fiorini d'oro fonderti?



ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Corbolo, Pacifico, Staffieri.

CORBOLO
Vien fuora, vien piú in qua, piú ancora: pàrtiti
Di casa un poco. Tu mi par piú timido
Con l'arme in mano, che non dovresti essere
Se l'avessi nel petto: di chi dubiti?
PACIFICO
Del capitan de la piazza, che cogliere
Mi potria qui con questo spiedo, e mettermi
In prigion.
CORBOLO
No, ch'io gli daria ad intendere
Che fussi un sbirro o il boia; e crederebbelo,
Che de l'uno e de l'altro hai certo l'aria.
Rizza la testa. E' par che vogli piangere!
Sta ritto, sta gagliardo, fa' il terribile,
Fa' il bravo.
PACIFICO
E come fassi il bravo?
CORBOLO
Attaccala
Spesso a Dio e santi: tienlo cosí: volgeti
In qua: fa' un viso scuro e minaccevole.
Ben son pazzo, che far voglio una pecora
Simigliare un leon. Ma veggo giungere
A tempo dui staffieri di don Ercole,
Che, dove costui manca, puon soccorrermi;
Voglio ire a lor. Buon dí, fratelli.
STAFFIERI
O Corbolo,
Buon dí e buon anno. Come la fai? Vuonne tu
Dar bere?
CORBOLO
Sí, volentieri, ma pensovi
Di dar meglio che bere.
STAFFIERI
Che?
CORBOLO
Fermandovi
Qui meco una mezz'ora, voglio mettervi

==>SEGUE
CORBOLO
Non di pericolo.
ILARIO
Che pazzia è stata la sua di venirsene
In villa, s'egli ha male, o grande o picciolo?
CORBOLO
L'andare a questo mal suo non può nuocere.
ILARIO
Come non?
CORBOLO
Non, vi dico; anzi piú agile
Ne fia.
ILARIO
Dimmi: è ferito?
CORBOLO
Sí, e difficilemente
potrà guarir; non già che sanguini
La piaga...
ILARIO
Ohimè, io son morto!
CORBOLO
Ma intendetemi
Dove.
ILARIO
Di'.
CORBOLO
Non nel capo, non ne gli omeri,
Non nel petto o ne' fianchi.
ILARIO
Dove? spacciala.
Pur ha mal?
CORBOLO
N'ha pur troppo, e rincrescevole.
ILARIO
Esser non può ch'egli non stia gravissimo.
CORBOLO
Anzi troppo leggiero.
ILARIO
Oh, tu mi strazii!
Ha male o non ha mal? Chi ti può intendere?
CORBOLO
Vel dirò.
ILARIO
Di' in mal punto.

==>SEGUE
Un contrabando in man, da guadagnarvene
Al manco un paio di scudi per uno.
STAFFIERI
Eccoci,
Del ben, che ne farai, per averti obligo.
CORBOLO
Io vi dirò. Questi Giudei, che prestano
A Riva, ieri compraro una grandissima
Quantità di formaggio, e caricatolo
Han su dua carra, et in modo copertolo
Sotto la paglia, che non potria accorgersi
Alcun che cosa fosse, non sapendolo
Come io, che 'l so da quel da chi lo comprano:
E senza aver tolta bolletta, o dazio
Pagato alcun, per queste vie il conducono.
Or non volendo io discoprirmi, avevone
Parlato a questo mio vicino, e postogli
Quel spiedo in mano, acciò che, come passino
Le carra, frughi ne la paglia, e trovivi
Il contrabando. Io saria qui a intromettermi
D'accordo, perché li Giudei non fossero
Accusati da lui; ma pusillanimo
È costui sí, che non voglio impacciarmene
Per suo mezzo. Or se a parte volete esserci
Voi, volontier v'accetto.
STAFFIERI
Anzi pregartene
Vogliamo, et il guadagno promettemoti
Partir da buon compagni.
CORBOLO
Ora fermatevi.
Tu qui, e tien l'occhio, che se là passasseno
Le carra, in un momento possi corrervi;
E tu a quest'altra via farai la guardia.
(Post'ho l'artegliaria già ai canti. Facciano
Qui testa ormai le bugie, che fuggivano
Cacciate e rotte, e tornando con impeto,
Ilario, che le avea cacciate, caccino.
Ma eccolo uscir fuor; purch'elle possano
A questo duro principio resistere,
Non temo non averne poi vittoria.)


SCENA SECONDA

Ilario solo.

ILARIO
Oh come netta me la facea nascere
Quel ladroncel, se non m'avesse Domenedio
Cosí a tempo mandato quel giovene,
Il quale a caso, non già volontariamente,
m'ha fatto por gli occhi alla trappola
Ne la qual per cader ero sí prossimo.
Volea, credo, egli Flavio indurre a vendere
Le robe di nascosto, et in lascivie
Fargli il prezzo malmettere, e sottrargliene
Per sé la maggior parte; et io, credendogli,
Avea di fare un'altra veste in animo,
Et un'altra berretta, per rivolgergli
L'affanno in gaudio, ch'io credea che mettersi
Dovesse pur, come di vera perdita.
Ma non mi so pensar perché tai termini
Usi meco il mio Flavio, che 'l piú facile
Padre gli sono, e quel che piú mi studio
Di compiacere in ogni desiderio
Onesto, ch'altri che sia al mondo. Voglione
Solo incolpar questo giotton di Corbolo
Ch'io non intendo che mi stia piú un atimo
In casa. Io vo' cacciarlo, come merita.

SCENA TERZA

Ilario, Corbolo.

ILARIO
Ancora hai, brutto manigoldo, audacia
Di venire ov'io sia?
CORBOLO
Deh! questa colera
Ponete giú; e per Dio, non vi contamini
La pietade.
ILARIO
Oh, tu piangi?
CORBOLO
E voi piú piangere
Dovreste, che vostro figliuol...
ILARIO
Dio, aiutami!

==>SEGUE
CORBOLO
È in pericol.
ILARIO
Pericolo?
CORBOLO
Sí, d'essere
Morto, se non ci si ripara subito.
ILARIO
Come, come? di', di'; dov'è?
CORBOLO
Pacifico
L'ha colto con la moglie in adulterio.
Vedetelo colà, che vorria ucciderlo
Con quel spiedo, e chiamato ha quei duo gioveni
Suoi parenti; et aspetta anco che venghino
Tre suoi cognati.
ILARIO
Egli dov'è?
CORBOLO
Chi? Flavio?
Là dentro questi ribaldi lo assediano.
ILARIO
Dove là dentro?
CORBOLO
In casa là di Fazio.
ILARIO
Evvi Fazio?
CORBOLO
Se vi fusse, il pericolo
Non mi parrebbe tanto. Ecci una giovane
Sua figlia, senza piú: consideratela
Or voi, che aiuto può aver da una femina!
ILARIO
Se con la moglie in casa sua Pacifico
L'ha colto, come è in casa ora di Fazio?
CORBOLO
Io vi dirò la cosa da principio.
ILARIO
Dilla, ma non ne scemar, né ci aggiungere.
CORBOLO
La dirò a punto come sta; ma vogliovi
Prima certificar che quella favola,
La qual dianzi contai, che stato Flavio
Era assalito, e che tolto gli aveano
Li panni, non la finsi già per nuocervi,

==>SEGUE
Ma perché voi con minor displicenzia
Mi dessi li danar, che potean subito
Liberar vostro figliuol dal pericolo
In che ora egli si trova; ove mancatami
Quella via essendo, è in molto peggior termine
La vita sua, che non fu dianzi.
ILARIO
Narrami
Come sta il fatto.
CORBOLO
Flavio oggi credendosi
Che fusse fuor Pacifico, e credendolo
Anco la donna, in casa ne la camera
S'era con lei ridotto; e mentre stavano
In piacer, quel beccaccio, che nascososi
Non so dov'era, saltò per ucciderlo
Fuor con lo spiedo.
ILARIO
Il cor mi trema.
CORBOLO
Flavio
Pregando fe' pur tanto e supplicandolo,
E di donar danari promettendoli,
Che gli lasciò la vita.
ILARIO
Or me risusciti,
Se con danar la cosa si pacifica.
CORBOLO
Non ho detto anco il tutto.
ILARIO
Che ci è? seguita.
CORBOLO
In venticinque fiorini si convennono,
Che prima che d'insieme si partissono,
Sborsati fosson. Mandò per me Flavio,
E la berretta e la roba traendosi,
Mi commise ch'io andassi a pregar Giulio
Che gli facessi pagar questo numero
Di denar sopra; et egli per istatico
Quivi si rimarrebbe: poi quel giovine
Ci turbò, come voi sapete; e Flavio
Per lui, se non ci riparate, è a termine,
Che Dio l'aiuti!
ILARIO
Perché debbe nuocerli,

==>SEGUE
Se son d'accordo?
CORBOLO
Udite pur. Pacifico,
Tenendosi uccellato, con piú furia
Che pria corse allo spiedo, e senza intendere
Alcuna scusa, volea pur ucciderlo.
ILARIO
Facesti error, che non venisti súbito
Ad avisarmi. Al fin ch'avenne? Séguita.
CORBOLO
Non so perché non l'uccise; e credetemi
Che ben Dio e santi Flavio ebbe propizii.
ILARIO
Un manigoldo poltrone ha avuto animo
Di minacciar un mio figliuol d'ucciderlo?
CORBOLO
Se non che vostro figliuol, riparandosi
Con un scanno che prese, e ritraendosi
Pur sempre all'uscio, saltò fuora, avrebbelo
Morto.
ILARIO
Si salvò in somma?
CORBOLO
Nol vo' mettere
Per salvo ancor.
ILARIO
Tu m'occidi.
CORBOLO
Incalzandolo
Tuttavia quel ribaldo, e non lasciandolo
Slungar molto da sé, fu forza a Flavio
Che si fuggisse in casa là di Fazio;
E cosí v'è assediato.
ILARIO
Vedi audacia
D'un mendico, furfante, temerario!
CORBOLO
E piú, c'ha fatto e cerca far d'altri uomini
Ragunanza, e d'intrar là dentro ha in animo.
ILARIO
Entrar là dentro? Io non son cosí povero
Di facultà e d'amici, che difendere
Io non lo possa, e far parer Pacifico
Un sciagurato.

==>SEGUE
CORBOLO
Non vogliate mettervi
A cotal prova, avendo altro rimedio:
Che far le ragunanze è contra gli ordini
Del signor, e ci son pene arbitrarie:
Et accader potrebbonvi omicidii.
E quando ancor provediate (il che facile
Credo vi fia) che non noccia Pacifico a
Flavio ne la persona (anzi vo' credere
Che voi e Flavio piú siate atti a nuocere
A lui), pur non farete, riducendosi
Al podestà costui, come è da credere
Che sia per far, che 'l podestà procedere
Non abbia contra a Flavio; e quali siano
Nei statuti le pene de gli adulteri,
Et oltra li statuti, quanto arbitrio
Il podestate abbia potere accrescere,
Secondo che de l'inquisiti vagliono
Le facultà, non secondo che mertano
Le pene i falli, pur vi dovrebbe essere
Noto. Padron, guardate che con lacrime
E dolor vostro non facciate ridere
Questi di corte, che tuttavia tengono
Aperti gli occhi a tai casi, per correre
A dimandar le multe in dono al principe.
Venticinque fiorini è meglio spendere
Senza guerra, e d'accordo, che in pericolo
Porvi di cinquecento o mille perderne.
ILARIO
Meglio è ch'io stesso parli con Pacifico,
E vegga un poco il suo pensier.
CORBOLO
Non, diavolo!
Non andate, che tratto da la colera
Non trascorresse a dirvi alcuna ingiuria
Da dovervene poi sempre rincrescere.
Lasciate pur ir me, che spero volgerlo
In due parole, e farlo cheto et umile.
E fia piú vostro onor, se qui condurvelo
Potrò.
ILARIO
Va' dunque.
CORBOLO
Aspettatemi qui.

==>SEGUE
ILARIO
Odimi
Fagli proferte, ma non ti risolvere
In quantitade alcuna, che 'l conchiudere
Del pregio voglio che stia a me: prometteli
Generalmente: tu m'intendi.
CORBOLO
Intendovi.
Tuttavia non guardate di piú spendere
Un paio o due di fiorini.
ILARIO
A me lasciane
Cura, ch'in questo son di te piú pratico.

SCENA QUARTA

Ilario solo.

ILARIO
Penso che sarà cosa salutifera
Che prima ch'io m'abbocchi con Pacifico
Ritrovi Fazio. Io voglio pure intendere
Da lui, se dee patir che costor facciano
A mio figliuolo in casa sua violenzia;
Et anco sarà buono a por concordia
Tra noi, ch'io so che molto è suo Pacifico.
Io l'avrò alla barberia, ove è solito
Di giocar, quanto è lungo il giorno, a tavole.

SCENA QUINTA

Corbolo, Staffieri, Pacifico.

CORBOLO
Fratelli, andate pur: non state a perdere
Tempo, che 'l padron mio, dal quale comprano
Il formaggio i Giudei, mi dice ch'eglino
Han mutato proposito, e che tolgono
Pur la bolletta, et han pagato il dazio.
STAFFIERI
Era però un miracolo che fossimo
Sí aventurosi.
CORBOLO
Accettate il buon animo:
Non è per me restato di farvi utile.

==>SEGUE
STAFFIERI
Lo conosciamo, e te ne avren sempre obligo.
CORBOLO
Son vostro sempre, fratelli.
STAFFIERI
A Dio, Corbolo.
PACIFICO
Come hai fatto?
CORBOLO
Benissimo: ti fieno
Venticinque fiorin dati da Ilario,
Pregandoti, e di grazia domandandoti
Che tu li accetti; se però procedere
Vorrai com'io dirotti, e servi i termini
Nel parlar tuo, che poi ti farò intendere,
Riposto ch'abbi lo spiedo. Or va' non perdere
Tempo, riponlo, et a me torna súbito.
Odi.
PACIFICO
Che vuoi?
CORBOLO
Poi che non hai piú dubbio
Che li denar promessi non ne vengano,
Fa' che tua moglie eschi di là, e dia commodo
Che questi amanti insieme si solazzino
Prima che torni la fante che Fazio.
PACIFICO
Ci sarà tempo: ancora che la Menica
Tornasse, avrò ben luogo dove spingerla
Di nuovo. Da temer non hai di Fazio,
Che mai tornare a casa non è solito
Fin che le ventiquattro ore non suonino.
CORBOLO
Or sú, ripon lo spiedo, e vien, che Ilario
Li venticinque fiorini ti annoveri.

SCENA SESTA

Corbolo solo.

CORBOLO
Ben succede l'impresa: avrà l'esercito
De le bugie, dopo tanti pericoli,
Dopo tanti travagli, al fin vittoria,
Malgrado di Fortuna, che a difendere

==>SEGUE
Contra me tolto avea il borsel d'Ilario.
Ma dove entra colui? Vien, vien, Pacifico,
Vieni, esci fuor, corri presto, soccorreci.

SCENA SETTIMA

Pacifico, Corbolo.

PACIFICO
Eccomi, eccomi qui.
CORBOLO
Corri, Pacifico;
Provedi che colui non vegga Flavio.
PACIFICO
Chi colui?
CORBOLO
Come ha nome questo giovine che
Vostro? Che tardi? Va' dentro, e conoscilo:
Menghino, il dirò pur.
PACIFICO
Menghino? diavolo!
CORBOLO
Menghino sí, Menghin. Ve' diligenzia
Di bestia! ma piú bestia io, che rimettermi
Voglio a costui, che è lento piú che un trespolo.
Et ecco che ritorna anco la Menica.
Da tante parti sí le forze crescere
Veggo ai nemici, che mi casca l'animo
Di potere a tanto impeto resistere.

SCENA OTTAVA

Menica sola.

MENICA
Alla croce di Dio! mai piú servizio
Non fo alla Lena. M'ha di là da gli Angeli
Mandata piú di mezzo miglio, e andatane
Son sempre quasi correndo, per essere
Tornata tosto; et or sí stanca e debole
Mi sento, che mi posso a pena muovere.
L'andata non m'avria avuto a rincrescere,
Quando avessi trovata quella femina
Ch'io cercavo. Son ita come il povero
Che va accattando per Dio la elemosina,

==>SEGUE
D'uscio in uscio per tutto dimandandone;
Né mai saputo ho ritrovare indizio
D'alcuna Dorotea che insegni a leggere:
Né in tutto Mirasol, né lí presso abita,
Per quant'ho inteso, chi Pasquin si nomini.
Peggio mi sa, che mio padron trovata mi
Ha, che qui vien con Ilario, et è in colera,
Non so perché; e poi che dimandatane,
Gli ho detto donde io vengo, e che mandatami
Avea la Lena, m'ha fatto un grandissimo
Rumor, e minacciata d'un buon carico
Di busse, se mai piú le fo servizio.
Io l'ubidirò ben; se posso mettermi
A seder, già non credo che mi faccino,
S'io non sento altro che parole, muovere.

SCENA NONA

Ilario, Fazio.

ILARIO
(Io son ito a trovar Fazio, pensandomi
Che sia buon mezzo a por d'accordo Flavio
Et a pacificarlo con Pacifico;
Non sapendo io, che tanto in questa femina
Sia inamorato, che n'è guasto fracido.
Or tosto ch'io gli ho detto che Pacifico
L'ha trovata in secreto col mio Flavio,
È salito in tanta ira, in tanta rabbia
Per gelosia, che assai m'è piú difficile
A placar lui, che 'l marito. Ma eccolo.)
Studiate un poco il passo, sí che giungere
Possiamo prima che segua altro scandolo.
Fatel, se mai da voi spero aver grazia.
FAZIO
Non posso, né possendo mai vo', Ilario,
Patir, che dopo tanti benefizii
C'ha ricevuti, et era per ricevere
Da me questa gaglioffa, cosí m'abbia
Tradito. Son disposto vendicarmene.
ILARIO
S'ella v'ha fatto ingiuria, vendicatevi:
Non vi prego per lei; ma sol che Flavio
Mio non lasciate offender da Pacifico
In casa vostra.

==>SEGUE
FAZIO
D'un fanciul volubile
Ha fatto elezïon, che potrebbe essere
Suo figliuolo, e sperar non ne può merito,
Se non che se ne vanti e le dia infamia.
ILARIO
Non credea mio figliuolo già d'offendervi;
Che se creduto egli avesse esser pratica
Vostra costei, so che v'avria grandissimo
Rispetto avuto, come ha riverenzia.
FAZIO
Questa è la causa che m'era da quindici
Giorni in qua ritornata sí salvatica.
ILARIO
Rispondetemi un poco senza colera.

SCENA DECIMA

Menghino, Ilario, Pacifico, Fazio, Lena.

MENGHINO
Io l'ho veduto, non varrà nasconderlo.
ILARIO
Ah che noi siàn troppo tardati! gridano
Là in casa vostra. Deh! Fazio, aiutatemi.
MENGHINO
Lo voglio ire a trovare, e fargli intendere
Le belle opere vostre.
PACIFICO
Menghino, odimi.
MENGHINO
Pur troppo ho udito e veduto.
PACIFICO
Non essere...
FAZIO
Che cosa è questa?
PACIFICO
…tu cagion d'accendere
Tanto fuoco.
MENGHINO
Vo' dirlo, se ben perdere
Ne dovessi la testa.
FAZIO
Deh, fermatevi:
Stiamo un poco qui a udir di che contendono.

==>SEGUE
PACIFICO
Férmati qui, Menghin: férmati, ascoltami.
MENGHINO
Lasciami andar, Pacifico: non credere
Che per te resti di nol dir.
LENA
Che diavolo
Puoi tu dire in cento anni? Che la fistola
Ti venga! e c'hai veduto tu, brutto asino?
MENGHINO
Ho veduta Licinia e questo giovane
Figliuol d'Ilario...
ILARIO
Lena, e non Licinia,
Vols'egli dire.
MENGHINO
…che abbracciati stavano.
LENA
Tu menti per la gola.
MENGHINO
Or ecco Fazio.
Padron, vi dirò il ver; non vi voglio essere
Traditor: vostra figliuola...
FAZIO
Oh, la, bestia!
T'ho ben udito. Che vòi farlo intendere
A tutto questo vicinato? Ilario,
Non sarà mai, per Dio, vero ch'io toleri,
Che 'l figliuol vostro un scorno sí notabile
Mi faccia, e a mio poter non me ne vendichi.
Che favole, che ciancie fatto credere
M'avete de la Lena e di Pacifico?
ILARIO
Cosí l'avevo udito anch'io da Corbolo.
FAZIO
Ma questa non è ingiuria da passarsene
Sí leggermente: è di troppa importanzia.
ILARIO
Per vostra fede, Fazio...
FAZIO
Deh, Ilario,
Mi meraviglio ben di voi: l'ingiuria
Vi par di sorte, ch'io debba sí facilemente
patir? Se voi sète piú nobile

==>SEGUE
E piú ricco di me, non però d'animo
Vi sono inferïor; prima che Flavio
M'esca di casa, per lui darò esempio
Che non si denno li miei pari offendere.
ILARIO
Pel filiale amor, del qual notizia
Avete voi com'io, vi prego e supplico
Che di me abbiate pietade e di Flavio.
FAZIO
E l'amor filiale a punto m'eccita
A vendicar.
ILARIO
Per l'antiqua amicizia
Nostra!
FAZIO
Sarebbe ancora a voi difficile
Il perdonar, essendo ne' miei termini.
Fo del mio onor piú conto (perdonatemi,
Il vo' dir) che de la vostra amicizia;
E quanto ho al mondo vo' piú tosto perdere
Che quello, e senza quello non vo' vivere.
ILARIO
Se modo ci sarà di non lo perdere?
FAZIO
Con voi a un tratto mi voglio risolvere.
Quando vostro figliuol la mia Licinia
Sposi, e l'onor perduto le recuperi,
Saremo amici; altrimenti...
ILARIO
Fermatevi.
Credo che cinquant'anni oggimai passino
Che voi mi conoscete, e che del vivere
Mio abbiate quanto alcun altro notizia;
E se sempre le cose oneste e lecite
Mi sian piaciute, sapete benissimo;
E se stato vi son sempre benivolo,
E sempre pronto a farvi onore et utile,
Sapete ancor, che qualche esperienzia
Ve n'ha chiarito: or non pensate ch'essere
Possa o voglia diverso dal mio solito.
Lasciatemi parlar con Flavio, e intendere
La cosa a punto; e state di buon animo,
Ch'io farò tutto quel che convenevole
Mi sia per emendarvi questa ingiuria.

==>SEGUE
FAZIO
Entriamo in casa.
ILARIO
Entrate, ch'io vi séguito.

SCENA UNDICESIMA

Pacifico, Lena.

PACIFICO
Or vedi, Lena, a quel che le tristizie
E le puttanerie tue ti conducono!
LENA
Chi m'ha fatto puttana?
PACIFICO
Cosí chiedere
Potresti a quei che tuttodí s'impiccano,
Chi li fa ladri. Imputane la propria
Tua volontade.
LENA
Anzi la tua insaziabile
Golaccia, che ridotti ci ha in miseria;
Che, se non fossi stata io che, per pascerti,
Mi son di cento gaglioffi fatta asina,
Saresti morto di fame. Or pel merito
Del bene ch'io t'ho fatto, mi rimproveri,
Poltron, ch'io sia puttana?
PACIFICO
Ti rimprovero
Che lo dovresti far con piú modestia.
LENA
Ah, beccaccio, tu parli di modestia?
S'io avessi a tutti quelli, che propostomi
Ogn'ora hai tu, voluto dar recapito,
Io non so meretrice in mezzo al Gambaro
Che fusse a questo dí di me piú publica.
Né questo uscio dinanzi per riceverli
Tutti bastar pareati, e consigliavimi
Che quel di dietro anco ponessi in opera.
PACIFICO
Per viver teco in pace, proponevati
Quel ch'io sapeva che t'era grandissima-
Mente in piacere, e che vietar volendoti
Saria stato il durar teco impossibile.

==>SEGUE
LENA
Doh, che ti venga il morbo!
PACIFICO
Io l'ho continuamente
teco. Bastar, Lena, dovrebbeti,
Che de la tua persona a beneplacito
Tuo faccia sempre, e ch'io lo vegga e toleri;
Senza volerci ancor porre in infamia
Di ruffianar le figliuole de gli uomini
Da ben.
LENA
S'io avessi a star tuttavia giovane,
Il mantenere amendue col medesimo
Modo usato fin qui mi saria agevole;
Ma come le formiche si proveggono
Pel verno, cosí è giusto che le povere
Par mie per la vecchiezza si proveggano;
E che mentre v'hanno agio, un'arte imparino
Che, quando sia il bisogno, poi non abbiano
Ad imparar, ma vi sien dotte e pratiche.
E che arte poss'io far, che piú proficua
Ci sia di questa, e che mi sia piú facile
Ad imparar? Che vuoi ch'io indugi all'ultimo,
Quand'io sarò nel bisogno, ad apprenderla?
PACIFICO
Se contra ogni altro avessi questi termini
Usati, mi saria piú tolerabile
Che contra Fazio, al quale abbiàn troppo obligo.
LENA
Deh, manigoldo, ti venga la fistola!
Come tu non sia stato consapevole
Del tutto! Or che 'l disegno ha cattivo esito,
Me sola del commun peccato biasimi;
Ma se i contanti compariti fussono,
La parte, e piú che la parte, volutone
Avresti ben.
PACIFICO
Non piú, ch'esce la Menica.


SCENA DODICESIMA

Menica, Lena.

MENICA
Lena, si fa cosí? Ti par che meriti
Fazio da te che gli facci una ingiuria
Di questa sorte?
LENA
E che ingiuria? che diavolo
Gli ho fatt'io?
MENICA
Nulla!
LENA
Nulla a punto. A i strazii
Che fa di me, non è cosí notabile
Ingiuria al mondo che da me non meriti.
MENICA
Tu gli hai scoperto, Lena, il tuo mal animo,
Né però fatto nocumento, anzi utile;
Che sei stata cagion che maritata la
Figliuola ha in cosí ricco e nobil giovane,
Quanto egli stesso avria saputo eleggersi.
LENA
Gliela darà pur per moglier?
MENICA
Già datagli
L'ha: si sono accordati egli et Ilario
In due parole.
LENA
Anco che questo misero
Vecchio mi sia piú che le serpi in odio,
Pur ho piacer d'ogni ben di Licinia.
MENICA
Se tu perseverassi in questa còlera,
Saresti, Lena, la piú ingrata femina
Del mondo. Egli, con tutto che giustissima
Cagione avria di far tutto il contrario,
Pur non può star che non t'ami, e nascondere
Non può la passion che dentro il cruccia,
Né non pentirsi de le dispiacevoli
Parole ch'oggi ebbe teco, che giudica
Che t'abbian spinta a fargli questa ingiuria.
E m'ha detto che quando udí da Ilario

==>SEGUE
Che tuo marito t'avea con quel giovene
Trovata, fu per affanno a pericolo
Di cader morto; e che poi ritrovandosi,
Come era a punto il ver, che caricatala
Avea costui non a te, ma a Licinia,
Tutto restò riconsolato, e parvegli
Risuscitar. Or vedi se ci è dubbio
Che teco presto non si riconcilii,
Massimamente che gli torna in utile
Questo error tuo.
LENA
Faccia egli pur, e piglila
Come gli pare. Se sarà il medesimo
Verso me ch'egli suol, me la medesima
Verso sé trovarà che suole.
MENICA
Or voglioti
Dir, Lena, il vero. A te mi manda Fazio,
Il quale è tuo, come fu sempre, e pregati
Che tu ancor sua similmente vogli essere;
E questa sera invita te e Pacifico
A nozze; e intende che non sol Licinia
E Flavio questa notte i sposi siano.
LENA
Io son per far quanto gli piace. Or diteci,
Voi spettatori, se grata e piacevole
O se noiosa è stata questa fabula.