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Giovanni Marradi - POESIE VARIE
Seconda parte











































































Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
EPODO.

SABATO SANTO.

I.

Or mentre, anima mia, dal piano adorno,
dall'aria giovanilmente serena,
più dolce d'ogni omerica Sirena
vien Primavera e canta il suo ritorno,

fra l'onda de' suoi balsami, che piena
di voluttà mi palpita d'intorno,
già declina per me giorno per giorno
la giovinezza che sorrise appena.

Pur non declini tu: tu, nel solenne
de' bronzi scampanìo, quasi romita
aquila che gelate ebbe le penne,

t'esalti, anima mia, nell'infinita
gioia del sole, e ridi alla perenne
ascension del mondo e della vita.

II.

Gloria alla Vita! Il Sole ha vinto. In biondo
lume esultano i cieli, e in pieno coro
organi e bronzi squillano un sonoro
inno alla Pasqua che rinnova il mondo.

Gloria alla Terra pia ch'apre il tesoro
de' germi al Sole, al Vincitor giocondo,
mentre annuvoli ancor, dispersi in fondo,
scaglia ei dall'alto le sue frecce d'oro.



È Pasqua, è il giorno del perdono. Oppressa
da' suoi dolori e dalle sue peccata,
l'umana gente si rinnova anch'essa;

e tutta, come fosse oggi rinata,
spandesi per le vie, d'alta promessa
dal benigno del Sole occhio affidata.

ARTE E VITA
(a Gabriele D'Annunzio).

I.
Gabriele, di cui dolce suona
in gloria d'Isaotta il verso d'oro
ove fermasti con sottil lavoro
i diamanti della rima nona,

troppo a noi piacque dal metal sonoro
destar bagliori, e flettere in corona
a un giovin capo, a una gentil persona
della parola il ritmico tesoro.

Or dalle strofe, che ci vibra e squilla
sotto il cesello argenteo, brunita
con lunga voluttà spirituale,

or più fervida balzi la scintilla
che suscita la fiamma della vita
e di luce ideal folgora, e sale.

II.
Oh il verso non è tutto se non vola
su l'ale d'un pensiero alto, o poeta;
non ha profumi il fior della parola
se non l'effonde l'anima segreta.


Indarno il vate ai puri si disseta
rivi del canto con aperta gola,
se è sordo al grido delle cose, asceta
della Bellezza inanimata e sola.

gran Gautier, miracolo d'artista
che le tue rime preziose incidi
nel più candido marmo statuario,

che gelido silenzio in quella trista
serenità lunare ove sorridi
con la freddezza del tuo marmo parlo!

III.
Vero: Son belli i pini, e dolci i fonti,
e liete le boscaglie e le fiumane,
e azzurri i cieli a cui tendono i monti
e tendono le stanche anime umane.

Pur v'ha nella bellezza dei tramonti
un silenzio che in cuor lungo rimane
e che circonda le apollinee fronti
di foschi allori e di tristezze arcane.

Oh allora, amico l'anima vagante
si raccolga nel verso e all'alto aneli,
come il Dolor la spinge e Amor la guida.

E a lei, come all'afflitto occhio di Dante
le quattro stelle mistiche dai cieli,
la vision dell'Ideale arrida!


MATELDA.

I.
Sei tu che dal fragrante Eden, cantando
fra il verde eterno della tua foresta,
ridi splendida a noi, gli occhi avvallando
serenatori in su la terra mesta,

dolce Matelda? — Io non lo so. Ma quando,
come un'antica vision ridesta,
verso di noi, col suo cantico blando,
vien Primavera inghirlandata a festa,

io ti penso, io ti vedo ove e qual'eri
dinanzi al tuo Poeta austero e macro,
piena di fior tra musici verzieri,

E sogno anch'io d'immergermi nel sacro
Lete, e obliar tumulti, opre, pensieri,
nella dolcezza del tuo pio lavacro.

II.
Sola in quell'onde è il dolce ber che sazia
tanta dei vivi inestinguibil sete,
la mistica sorgente della Grazia
promessa all'alme di speranza liete.

Solo in quell'onde obliviose e chete
l'anima errante che fra' sogni spazia
poserà finalmente. Acqua di Lete,
tu darai sola il dolce ber che sazia.

Or, passo passo, al fiume sospirato
traendo malinconici per tanta
aridità di verno sconsolato,



noi sorridiamo in estasi alla santa
Primavera che innova oggi il creato,
Matelda eterna che s'infiora e canta.

MARE TOSCANO.

RICORDO D'INFANZIA.

Qui sul toscano lido ov'ebbi vita
e in quel palazzo che prospetta il mare
vissi l'infanzia, pallida e romita
come in freddo silenzio alba polare.

Ancor la loggia su dal tetto ardita
s'affaccia e s'apre al pieno albor lunare,
ancor mi guarda e a piangere m'invita
come in quei giorni e in quelle notti amare,

quand'io sentìa, nell'ore insonni e lente,
fra gli scogli del Molo e del Marzocco
singhiozzar l'onde faticosamente,

e ad ora ad ora un vigile rintocco
giungere a me dalla città dormente,
caldo soffiando il vento di scirocco.

TRAMONTO LABRONICO.

Guarda che quadro, o amore mio, che immenso
quadro vivente e luminoso! Guarda
laggiù con quale iridescente e calda
magnificenza di purpuree tinte
precipita il solenne arco de' cieli -
sul Tirreno che arde! — lo mai non vidi,

amore mio, sì splendido tramonto.
Oh la giovin natura oggi s'inebria
in un'orgia di luce! Anche gli uccelli
ne sembran vinti, e con più tardi giri
silenziosamente erran per l'aria
quasi ammirando. Limpida sorride
sul mar la calma, e con tremolii d'oro
l'onda azzurreggia; mentre la Gorgona
spicca nel mezzo nereggiante, e sembra
un gran cetaceo che galleggi immoto
per godersi egli pur questo superbo
spettacolo.

Ecco d'un soave e lungo
voluttuoso brivido incresparsi
l'ampia marina palpitante ai freschi
baci del maestrale, e in una scìa
luminosa schiumar dietro quel grande
piroscafo che sciolse ora dal Molo
tacitamente e, placido fumando,
fila diritto a Nuova York.

Ma quando,
quando potrò vederla io quest'America
meravigliosa dove tutto è immenso,
l'Ande, le Pampas, le Savane, i fiumi,
le vergini foreste? Ove, attorcendo
la fortissima coda ai giganteschi
alberi secolari, il flessuoso
boa giù da' rami allungasi nel pieno
sol tropicale e penzola ozioso?
Ove han gli uccelli i fulgidi colori
e i riflessi dell'iride; e il condore,
imperator dell'aquile e dei cieli.

stende le smisurate ale in riposo
su le Sierre tempestose? — terra
di Colombo e di Washington, feconda
di vigorose schiatte e di possenti
macchine, o giovin terra ove la pianta
di libertà ramifica secura
sotto il buon parafulmine di Franklin,
terra promessa della razza umana,
terra dell'avvenire, io ti saluto!

IN PIROSCAFO
(da Porto, Santo Stefano).

I.
Son prigioniero in un'aperta baia
con pochi e malinconici compagni,
sempre aspettando, all'aria fosca o gaia,
se del cielo o del mar l'onda ci bagni.

Son qui davanti all'arida giogaia
dell'Argentario, e dai vicini stagni
vengon gli uccelli acquatici a magliaia
ad assordarci di continui lagni.

Stan le navi d'Italia, altere sfide
all'uragano, in maestà tranquilla,
su la furia dell'acque ove il sol ride.

Ma la prua sotto il pie' nostro vacilla
e, mal costretta all'ancora che stride,
salta ai colpi dell'onde e a lungo oscilla.

II.
Ecco: Dal golfo, ove dormìàno accolte,
salpan l'itale navi, e in corso lento,

cullandosi con lene ondulamento,
sfllan dinanzi a noi leggere e sciolte.

E van, con tutte le bandiere al vento,
placide su le verdi acque sconvolte,
che dietro a lor, dall'elica travolte,
s'allungano in un gran solco d'argento.

Solo, in disparte, a vista della brulla
tristezza litoral che il sole imbianca,
sta il nostro legno e si dibatte e rulla.

Saldo all'ancora sua che il fondo abbranca
sta, riluttando; e il mar se ne trastulla
ferocemente e lo palleggia e stanca.

III.
Oh che tumulto di strida e di voli
levan gli uccelli, roteando a prova,
su le fuggenti prue ch'alto a' due poli
recan pei mari il tuo vessillo, o nova

Patria! — Salute, o della Patria nova
forze viventi, poderose moli
di cui tumida esulta a tutti i soli
l'anima che nel grembo ignea vi cova!

navi formidabili dal rostro
di ferro, che filando erte ed acute
ci tuonate il congedo ultimo vostro,

e che, da tutti i pelaghi battute;
direte a tutti i venti il nome nostro,
forti avanguardie italiche: Salute!

NAUFRAGIO.

Notte profonda, e altissimo silenzio,
e fulgori, e penombre, e sconfinata
serenità per tutto; in questa vuota
serenità, misterioso e lungo
il fiotto lamentevole del mare,
che da secoli e secoli con mille
voci ripete ai taciturni cieli
il suo gemito immenso. — Ecco: la luna
dal ciel sorride come un volto umano
placidamente, e le soavi stelle
scintillan tutte, e in ogni seno esulta
l'inviolato azzurro. — Era la notte
così tranquilla e così blando il mare,
cui con fervida prua fendea diritto
un vapore francese; e i cinquecento
suoi migratori in confidente sonno
vedean già forse la terra promessa
del pane e del lavoro, ove la fame
li sospingea. Ma ruppe lor quei sonni
un cozzo orrendo ed un orrendo schianto;
e, brancolando a ricercar la fida
branda, sentiron d'ogni parte il vuoto
ed il freddo dell'acqua e della morte
che li stringeva; e al languido fanale
d'un' altra nave intravedendo il vero,
ruppero in disperate urla e in preghiere
disperate. Nel buio ampio dell'onda
ruggì breve e terribile una lotta
di furibondi, che sentìansi pieni
di calda vita e non volean morire.
Poi rari, in formidabile silenzio,

non galleggiaron che i frantumi sparsi
d'un naufragio; e limpido, su nuove
centinaia di vittime sepolte,
rimormorò sommessamente il mare.

VECCHIO IDILLIO.

Io sospiravo: — povere capanne
che ci salvaste dall'ira del vento
a cui, crosciando, le palustri canne
piegavano sul lido sonnolento
ove il Tirreno in larghi fossi stagna
e vigila il Marzocco la campagna
inseminata lungo il mar d'argento;

povere capanne ove, felici
dell'amor nostro e stanchi della pésca,
posammo all'ombra delle tamerici
che il libeccio battea con l'ala fresca;
troppo fuggitive ore incantate,
quando tornate voi, quando tornate,
piene di poesia marinaresca? —

Cosi l'anima mia, di là dai monti
di Serravalle, sospirava; e spesso,
in faccia ai malinconici tramonti,
dalla dolcezza dei ricordi oppresso,
seguii, ritto su' colli, oltre la mole
della montagna, lo sparir del sole
dalle sanguigne nuvole riflesso.

Ed ecco le capanne onde sul mare
le aperte reti pendono oziose;
ecco cullate dalle brezze amare
le tamerici morbide e piumose.

Io riconosco ogni erba ed ogni flore,
ed anche al braccio, tuo sento nel core
la nostalgìa delle passate cose.

MONTENERO

I.
La prima volta che, fanciullo appena,
ascesi a questo vecchio santuario
ridente ancor fra il bosco solitario
e il cerchio dell'azzurra onda tirrena,

c'era mia madre che adduceami, piena
di reverenza, al pio reliquiario,
d'onde, o Maria, letifichi d'un vario
tesor di grazie la vallea serena.

C'era mia madre. La stagion fiorile,
sacra al tuo nome, li vestìa l'altare
de' gigli che son tuoi, Vergine umile.

Ed io sentivo del cielo e del mare
giunger le voci, e l'anima infantile
fra i due cernii abissi ebra tremare.

II.
E mia madre quel dì, soave e piana,
prese a narrarmi della Vergin pia,
come venne quassù dall'Albania
per consolar la terra di Toscana;

come uno storpio per l'alpestre via
recò sul dorso l'umile Sovrana,
e a Lei, sanato, in quest'ombra montana
si prostrò salutando: — Ave, Maria. —


E qui Maria volle dimora; e tocchi
da tanta grazia tutti i battezzati,
dal pian, dal monte, trassero alla Dea.

Così disse mia madre; e a me negli occhi
di sacra meraviglia estasiati
quella stellante vision ridea.

III.
Ahimè, quanti anni corser da quel giorno,
quanta mia vita da quel tempo è vòlta!
Con che diversa fede oggi ritorno,
bel santuario, alla tua selva folta!

Come al flgliuol superstite d'intorno
balzan vivi i ricordi uno alla volta,
mentre la madre, in limpido soggiorno,
è giù, presso le grandi acque, sepolta!

E che dolcezza di lunghi riposi
promette l'aere e la marina e il piano
qui dov'ampio digrada il monte sacro,

e di fresca ubertà meravigliosi
scendono i colli tuoi, verde Antignano,
alle delizie del marin lavacro!

IV.
Ben qui nell'eminente arca riposa
il tuo gran core stanco di febbrili
impeti, re della terribil prosa
ruggita in faccia ai prepotenti e a' vili!

E ben quell'alma che tonò sdegnosa
parla di carità sensi gentili

nella postuma voce affettuosa
onde, dal marmo, a noi ti riconcili.

A te sia dolce il sonno della morte
e miti i venti del cielo natio
fra la rupe ed il mar, lungi alle turbe;

poi che dell'odio fu l'amor più forte,
ed il tuo verbo, come quel d'un dio,
veglia dall'alto a benedir quest'urbe !

V.
E anch'esso il tuo Poeta, onde l'audace
verso emulasti nel periodo alato,
il tuo pallido Aroldo, tormentato
da un'ansia assidua, vulture seguace,

pellegrinando, come urgealo il fato,
venne su questi monti a chieder pace,
e della greca libertà pugnace
poi di qui mosse cavaliere armato.

Addio, villa d'Aroldo, ove a sognare
e a poetar con lui Shelley convenne
fisando il mar con desiderio intenso;

e ne partìa per aver tomba il mare
che lo addormì nell'armonia solenne
in cui vive oramai spirito immenso.

VI
Ecco : — Una donna, confidente e sola,
qui con l'amante suo stanca si assise.
A lui, geloso e pallido, le fise
pupille ardeano; e non facea parola.


Poi, la baciò convulso. Ella sorrise,
lo guardò, si fé' bianca, e un urlo in gola
le si strozzò: d'un colpo di pistola
spense ei l'infida, e sopra lei s'uccise.

Chi li avea visti per ogni dirupo
di non tenero correr dall'aurora
tutto quel dì, come due sposi, accanto,

schiva il burrone insanguinato e cupo,
ma non li oblia. — Del fiero caso ancora
così parlano i vecchi e narra il canto.

VII.
E così, spigolando, una gioconda
montenerese canta allo stellone,
che le abbronzò l'adusta carnagione
e la voluminosa treccia bionda.

E squilla il canto che la rupe inonda
tutta bianca di ville al solleone,
ove, già un di, vivean d'orazione
pochi romiti in solitudin fonda.

Tale, pria che d'umane opre giù sotto
suonasse il lido, la batteano i venti
di macchie impenetrabili coperta.

E il suo fiero silenzio era interrotto
dalla solinga voce dei torrenti
e dei cinghiali che stridean su l'erta.

VIII.

Su, su per l'erta! L'arido suol grigio
nelle vampe del sol meridiane

si fende. Eccomi a te, verde fastigio
ch'alto frescheggi d'oasi montane.

Quando solcò gli oceani il prodigio
vittorioso delle prue pisane,
qui s'aderse il Castello, onde un vestigio
fra i solitarii pini ermo rimane.

Qui stette Pisa, in suo geloso orgoglio,
a specular da lungi sul conteso
Mediterraneo l'emula fatale;

mentre Genova in lei, dall'erto scoglio,
l'occhio figgea d'immobil ansia acceso
in un silenzio d'odio mortale.

IX.
Poi, quando giacque nel micidiale
cozzo il pisano orgoglio e la fortuna,
i Genovesi in su la trista duna
abbatteron la torre alta e il fanale

della Meloria; e remigando, quale
spirital compagnia, muti per una
oscurità senz'astri e senza luna,
invasero d'un tratto il litorale;

e il labronico scalo e le diserte
opere tue. Repubblica feroce,
ruppero, depredare, arsero in caccia;

e la Capraia e la Gorgona, incerte
di farti siepe all'Arno in su la foce,
sorgean, come dantesche ombre, là in faccia.


X.
Ed ora, in faccia, dorme la marina
priva di suoni e di fulgori e d'onde
sotto l'arco del ciel, che vi diffonde
il suo limpido azzurro e a lei declina.

E ridono in quiete cristallina
le due serene immensità profonde,
che un divino silenzio occupa e fonde
in una sola immensità divina.

E in mezzo al gran silenzio e al gran sereno
sorgon le due dantesche isole ancora,
custodi solitarie del Tirreno.

E azzurreggiano al sole, al sol che ignora
gli odii sepolti alle bell'acque in seno,
e in un fuoco d'amor l'orbe incolora.

VOCIATA.

E mentre il silenzio sopisce in profonda
dolcezza le cose che l'ombra sfumò,
sul liquido argento del mare senz'onda,
nel cuor della notte fantastica, io vo.

E spinta dal cheto remeggio la barca
si culla su l'acque, vi scivola su,
leggera fra il cielo che vitreo s'inarca
e il limpido abisso che affondasi giù.

E giù dentro l'acque riflesso azzurreggia
un concavo cielo che fondo non ha;
di naufraghe stelle pur esso fiammeggia,
e lunghe, a fisarlo, vertigini dà.


E l'anima, errante col ritmo del fiotto,
tra due firmamenti librata così,
agli astri che brillan di sopra e di sotto
vi narra in silenzio, bei sogni d'un dì!

ALTA MAREA.

Monta, fiottando con gorgoglio roco
nel buio immenso, la marea che ingrossa,
attratta dalla luna che in sua possa
fuor da' nuvoli rotti esce per poco.

Monta fiottando, e con assiduo gioco
di luci e d'ombre dal fanal percossa,
arde in sùbiti lampi o in una rossa
fiamma d'incendio, quale un mar di foco.

E poi tutto un oblio, tutto un'arcana
tenebra involge. Solitario, intanto,
nell'alta quietudine lontana,

palpita e sale a spire larghe un canto,
come se all'erma Notte, in voce umana,
pianga il divin Silenzio onde di pianto.

TREMULO SUB LUMINE....

Laggiù dove il Tirreno arde e scintilla
con tremolio silenzioso, (il faro
langue pallido ormai nel vasto e chiaro
splendore argenteo che su l'acque oscilla)

piena de' sogni che sognar m'è caro
laggiù s'appunta l'avida pupilla,
ove un'isola ride erma, tranquilla,
lontana al mondo senza fine amaro;


laggiù dov'io vorrei, lunge da tutti,
bevere a larghi sorsi il refrigerio
delle maree, posando dalla vita,

mentre scorresse, cullata dai flutti,
senza un rimpianto, senza un desiderio,
la mia beatitudine infinita.

INCANTO LUNARE.

Non un suono fra le rare
tamerici della sponda:
tace l'aria e tace l'onda
sotto il fascino lunare.

Tace il vento e tace il mare
sotto il raggio che lo inonda,
che inargenta la profonda
solitudine stellare.

Tu pur taci, e nella vuota
solitudine smarrito
l'occhio estatico ti nuota;

e nel grande occhio rapito
hai la stanca, intima, ignota
nostalgìa dell'Infinito!

CREPUSCOLO MARINO.

Scende fra la secreta ombra silvana
del litorale il fresco della sera,
e già la torre del fanale emana
fasci di luce in mobile raggiera.


E in fondo, là su la fatal Meloria,
s'accende un altro faro entro il ciel muto,
quasi l'antica e l'odierna storia
si rispondano un fulgido saluto.

S'accende la Meloria, e con l'anelo
occhio di fiamma il gran sereno esplora,
pisana scolta che fra l'acque e il cielo
il trionfato mar vigila ancora.

E quell'occhio di fiamma, con intensa
malìa sbarrato nei silenzi e fisso,
tragiche forme evoca, nell'immensa
solitudine sua, dal glauco abisso,

tragiche forme che coruscan truci
nell'ombra del crepuscolo tranquillo,
che sotto l'elmo, nelle vitree luci,
han di sei lunghi secoli il sigillo.

Ed a nembi volar, frecce d'argento
mira quell'occhio, e, larva gigantesca
tra la ferocia del combattimento,
conte Ugolino Della Gherardesca,

come quel dì che, nella strage immane,
fu tutta sangue l'onda, e tutta un grido
dì scarmigliate femmine pisane,
tutta un grand'urlo la marina e il lido....

Oh limpido sul lido, in tanta pace,
l'indugio della luce e dei colori,
mentre s'accende il molo e l'aria tace
deliziosa d'alighe e di fiori,


mentre, a' riflessi del tramonto, il caldo
Mediterraneo con fulgor sereno
raggia da tutte l'acque di smeraldo,
da tutto il giro del cangiante seno,

e tutto il seno esalasi, percosso
di lunga ebrezza, in un fremito roco,
e l'orizzonte si delinea rosso
come un immenso circolo di foco!

Io m'inebrio di luce, e mentre il vento
sospirami le sue fragranze amare,
io sento, Shelley, il tuo gran core, io sento
l'anima tua nell'anima del mare.

Io m'inebrio del mar, che nel riposo
de' verdi abissi e delle argentee spume
dinanzi a queste, rive il luminoso
tuo cuore accolse come il cuor d'un Nume.

L'oceano a te; sul monte solitario
dorme Guerrazzi in faccia all'infinito,
e il vesporo gli avvolge d'un velario
porporeggiante il letto di granito.

Di contro, l'apuana Alpe si perde
cerala, e giù da' boschi e dalle aiole
odora in pieno fior la terra verde
glorificata dall'addio del sole.

ARSURA DI SETTEMBRE.

Bianco, dinanzi all'eremo villaggio
di Montenero, come fuso argento,
nello stellone immoto e sonnolento
arde in circolo il mare, e ogni onda ha un raggio.

E non vele sul mar, non in ciel voli,
non ombre alla campagna. Uniche e sparse
dell'assetata costa abitatrici,
tutte dall' acre polvere a' gran soli

e dagli acri salmastri arse e riarse,
languono e sbiancan l'egre tamerici.
Languon sopite, e sognano. Oh felici

rinfrescate d'ottobre! oh roride albe,
quando ogni ciuffo di lor chiome scialbe
trema ad ogni aura lungo il mar selvaggio!

BOSCO SACRO.

Come un gran tempio, aperto nello sfondo
del cielo avventi e agli aliti marini,
in colonnati di fuggenti pini
s'allunga il bosco verso il mar giocondo.

E il tempio è consacrato. — In questa calma
della marea, frangente alla quieta
piaggia il, suo fiotto con un pianger fioco,
a un'alta pira, ove giaccia la salma

bianca e gentil d'un naufrago Poeta,
pallido come lui Byron die' fuoco.
E mirò in fiamma ascendere ed in poco


fumo vanir, mescendosi co' venti,
il tuo spirito, Shelley, ove in fulgenti
inni ebbe un'eco ogni armonia del mondo.

SAN ROSSORE.

Stanchi trottano i cavalli trafelati
nell'inerzia d'ogni cosa
fra le selve che folteggiano a' due lati
della strada polverosa,

e a' due lati, d'onde sparve dietro il verde
la pisana arsa pianura,
erra l'occhio che fra gli anditi si perde
dell' immobile verdura;

erra l'occhio, riposando, fra l'opaca
dei verd'archi ombra fuggente,
onde un alito già ventila, già placa
questa greve afa silente.

E già s'anima l'immobile quiete
del meriggio. Ecco si desta
tutta olente d'aromatiche pinete
la magnifica foresta.

Già, col balsamo ch'effondesi ed olezza
dalle resine dei pini,
ecco un brivido freschissimo di brezza
pien d'effluvi aspri e salini.

Sento il Nume che s'annunzia con messaggi
di profumi e di parole....
Ave, mare che traluci dai selvaggi
colonnati, ebro di sole!


Di che riso interminabile nel biondo
solleone ardi e riposi,
mare argenteo che tremoli nel fondo
di quei lunghi anditi ombrosi

ove fremon lievi frulli fra una varia
densità d'erbe e di vepri,
già vibrando nell'acredine dell'aria
la fragranza dei ginepri!

Come ogni onda cede e palpita commossa
sotto il vol de' maestrali
là dov'ardua s'infranse tanta possa
di cozzanti odii mortali,

e spumarono di strage e di ruina
le maree turgide e chiare,
che di tanta solitudine azzurrina
cingi eterno, arco del mare!

Ave, mare! Già susurra ogni recesso
della verde ombrìa più folta
il mistero che tu mormori sommesso
al silenzio che t'ascolta,

mentre raggia tutto il duplice turchino
nella sua gloria inflnìta,
e vaniscono in un fremito divino
tutti gli echi della vita.

ANIMA E MARE.

Ti vidi mai sì chiara, bonaccia dell'oceano,
che i sogni della luna culli nel sen profondo,
nel seno ove da tanto profondo ciel si specchiano
e annegano i silenzi fantastici del mondo?

Ti sentii mai sì piena, serenità dell'anima,
che culli de' miei dolci ricordi la beltà
nell'ampia del passato illusion cerulea
sfumante tra gli albori dell'infantile età...

Oh poter qui, qui sempre, con quello dell'oceano
mescere il breve riso di questa pace mia,
sotto la pace immensa cui sentì già Pitagora
sonar da tutti gli astri di limpida armonia!

Son Oggi anima e mare due pure solitudini,
due luminosi azzurri dove confln non è.
Sovr'esse il gran mistero dei firmamenti inarcasi,
e canta l'Infinito dentro e d'intorno a me.

ELEVAZIONI.
CANTICO UMBRO.

SINFONIALE.

Qui dove al soffio alpestre rimormora il magnifico
fogliame delle selve con largo ondeggiamento,
cantino i versi in gloria nell'umbra solitudine
come vibranti corde d'un'arpa eolia al vento.

E mentre balzan l'acque per mille verdi spechi
gli alti silenzi empiendo d'alto fragor canoro,
prorompano le rime vittoriose e in echi
metallici di squille rispondansi fra loro.

Lunge di qui l'affanno dell'emistichio indocile
ch'esce d'infermi petti privo di voce e d'ala!
Oh che vigor selvaggio di poesia sinfonica
dai rivoli dai venti dalle boscaglie esala!

È canto il verso, è nota dell'inno musicale
che dalla terra al cielo tumultuando va,
è voce luminosa che palpita, che sale,
che l'Ideal persegue nell'alta immensità.

MONTE LUCO.

I.

In alto ancor, più in alto! — Acqua montana
che strepiti nel tuo serpeggiamento,
tu scendi, io salgo, rivolo d'argento,
salutami la valle spoletana!


Tu scendi, io salgo, e nel salir mio lento
più grande agli occhi miei l'Umbria si spiana;
salgo, e una forza vegetale emana
dalla boscaglia che mareggia al vento.

In alto, in alto! Del Tessino il fiotto
urla giù giù, dove in selvagge gole
inabissasi a picco il monte rotto.

E tutta arborea la sua giovin mole
pende sul capo mio, mentre di sotto
s'adagia l'Umbria nel pallor del sole.

II.

S'adagia l'Umbria nel pallor vernale,
e l'ardua Rocca di Spoleto e il Monte
si squadrano da lungi, emuli a fronte
divisi dall'abisso fluviale.

E gitta fra i due grandi emuli il ponte
l'ombra degli archi obliqua e colossale.
È silenzio per tutto; un frullo d'ale
lo rompe a tratti e il mormorio d'un fonte.

Oh in questa pace, ove raggiava il sacro
entusiasmo degli anacoreti
dal lor profilo estasiato e macro,

quanti secoli sparvero quieti
come quest'acqua del montan lavacro
dinanzi a' due solenni emuli atleti?


III.
Forse pensa la Rocca: — Io son la storia
de' tempi ignoti e degl'ignoti umani.
Stan di Pelasgi e d'Umbri e di Romani
i travertini miei vanto e memoria.

Vidi Annibale in fuga (epica gloria)
scalpitar giù, precipitando, ai piani,
e sul fronte a' miei Duchi, in guerre immani,
vidi il serto d'Italia. Io son la storia. —

E il Monte pensa: — Il tempo che rinverde
le mie giovani chiome, o peritura,
rode i tuoi massi e in atomi li sperde.

E di quassù le tue ciclopee mura
vedrò in polvere tutte, io sempre verde.
Io son la forza della Dea Natura. —

IV.
Addio, ciclòpea Rócca! Ora a una salda
grata di ferro il prigioner s'aflfaccia,
ove un giorno mostrò fulgida e balda
Lucrezia Borgia la ducal sua faccia.

Resta nel tuo silenzio, e all'ima falda
del monte arboreo l'ombre tue minaccia.
E voi, che il vento batte e il sole scalda,
porgetemi dall'alto, elei, le braccia!

All'alto, all'alto! Oh come, nella magna
esuberanza di sue forze intatte,
verdissima sorride la montagna!


E come eccelse dalle aeree fratte
la pallida vegliate umbra campagna,
elei che il sole scalda e il vento batte!

V.

Ed ecco alfin la cima, ecco, in suo denso
frondeggiamento, più selvaggia e schietta
l'oliera verde, con vigor più intenso,
a mille tronchi arrampicata e stretta.

Ecco dalla profonda Umbria soggetta,
da un mar di ville e di castella immenso,
salir candide nubi a questa vetta
come all'ara d'un Dio fumi d'incenso.

E il Dio qui fu. Negli ozi della sera
Michelangiol qui trasse: dal romito
chiostro giungeagli un suono di preghiera;

e, in visioni altissime rapito,
Ei sentìa forse l'anima severa
naufragar lungi, in mezzo all'infinito.

NEBBIA AL PIANO.

Un mar di nebbia pallido sommerge
la suddita al mio sguardo umbra campagna
da cui, come una verde isola, emerge
sotto il mio pie' la florida montagna.
Piena di sole e d'alberi s'aderge
l'isola verde sul mare che stagna;
s'aderge in mezzo a una pace infinita,
e vi palpita a larghe onde la vita.


Larga la vita esubera dal seno
della montagna e inondami le arterie,
qui dov'io sogno il mio dolce Tirreno
pallido anch'ei nella brumal temperie;
dove espandonsi i boschi al ciel sereno
solenni di silenzio e di macerie,
e, zampillando con gioia tranquilla,
tant'acqua argentea mormora e scintilla.

Che mormori pei greti, acqua sorgiva?
Che bisbigliate, o roveri, fra voi?
Cantate forse che la Terra è viva
anche deserta dagli umani suoi?
La sento, o Terra, l'anima tua diva,
l'intima voce de' silenzi tuoi
eh'empie le selve e gli eremi secreti
ove i santi vivean come poeti.

Vivean sognando. Dell'incendio umano
mai non giungea favilla ai lor beati
eremi; e quando nel meridiano
ozio udian lungo strepito d'armati,
volgendo gli occhi indiflferenti al piano,
come in un sogno d'ebri allucinati,
vedean le longobardiche cavalle
ululando passar giù nella valle.

E forse Autàri, bel re cavaliero,
precedendo con l'asta gloriosa,
a briglia sciolta, con impeto altero,
dileguavasi in corsa luminosa.
Seguivan essi il lampo del cimiero
come abbagliati da una paurosa
visione di fiamma; e intorno a loro


susurravano i grandi alberi in coro

e cantavano l'acque. E l'armonia
degli alberi sull'acque ondeggia ancora
pei vivi boschi; una leggenda pia
in ogni cespo verde si rinfiora,
e parla, o madre Terra, a chi s'oblia
nelle tue glorie, a chi ti sente e adora,
qui dove effondi in rupi di granito
l'eterna poesia dell'infinito.

RISVEGLIO PRIMAVERILE.

I.

Fiumi tranquilli che cingete il mondo
d'irrigatrici correntì e serene,
come d'una vital trama di vene
ove il suo sangue circoli fecondo;

forza de' venti che percorri in tondo
del giovin orbe le selvose schiene,
sole che l'ami e nelle calde e piene
onde lo avvolgi del tuo lume biondo;

fiumi, venti, o sole: ecco, animata
dal vostro immenso palpito sonoro,
risvegliasi la Terra addormentata,

e un largo soffio mescola in quel coro
di raggi e d'armonie, tutta stellata
di fiori argentei da' begli occhi d'oro.


II.

acque, o venti, o sole, eccomi: io fendo,
tutta piena di voi, l'umbra verdura
come un oceano, ed ai silenzi ascendo
pieni di voci in solitaria altura.

E con l'anima tua, viva Natura,
il mio canoro spirito mescendo,
bevo nell'onda della tua frescura
di mille suoni un murmuro stupendo.

E inebriato dall'acre fragranza
che vien dai boschi, dalle siepi in fióre,
da tanta vita in ogni stelo occulta,

risaluto l'umana alta speranza
che dalle valli in florido vigore
in un immenso inno di verde esulta.

SOTTO LA ROCCA.

Sempre, mirando il fiero ponte infisso
tra due rupi sul vuoto, onde, al serale
foscheggiamento, l'urlo dell'abisso
ne' bui silenzi infaticato sale;
tra il fogliame de' roveri prolisso
da cui la Rócca emerge in sua spettrale
rigidità, coi torrioni a lato,
simile a un mostro aligero creato
dall'ebra fantasia medioevale:

sempre io ripenso a un grande incantamento
e credo a un'opra di negromanzia,
su cui la notte, in suo pallor d'argento,

diffonda un vel d'antica poesia.
Ma, come sfuma a un tratto ogni portento
ne' gai poemi di cavalleria,
così nel grido d'una scolta armata
la romanzesca vision si sfata
che dall'umbro silenzio a me fiorìa.

Ahi quel grido, che su dai torrioni
da scolta a scolta lungo si ripete,
veglia le mute disperazioni,
le espiatrici lacrime secreto
dei condannati! — mura testimoni
di danze e d'armi in altre età più liete,
lasciatemi sognar sogni d'amore,
e ch' io non senta gemermi nel core
tutto il muto dolor che in voi chiudete!

Lasciatemi sognar che il mondo è pio,
e che sacra per tutti è la sventura
dei tristi che son vinti. — Oh quanto oblio
piovon le stelle nella notte pura!
Con che misterioso tremolio,
ridendo a una migliore età futura,
brillan dall'alto i fari della vita,
a cui la Terra, in sua corsa infinita,
pei silenzi del ciel tende sicura!

NOTTE UMBRA.

letargo di macerie colossali
fra la grande ombra silvana,
quanti sogni dai silenzi medievali
sogna qui la storia umana,
quanti sogni che la luna del suo raggio

limpidissimo inargenta,
e che il murmuro de' rivoli selvaggio
va cullando in onda lenta,
mentre l'anima, dal tenue susurro
del tuo dir lento cullata,
erra e perdesi fra il verde e fra l'azzurro
della grande Umbria stellata!

MONTI E COLLINE.
IMPRESSIONI APUANE.

I.

ERAT IN VOTIS.

Eran questi i miei voti. — Pindemonte,
chiesi io pure agli Dei monti e colline,
e anch'io fui pago: bianche e cenerine
le gran Panie ho d'intorno, e il mare a fronte.

Qui dell'alpestre Garfagnana a un passo
mi stan le selve, e parmene un fulgore
d'ariostesche fantasie raggiarmi;
e vedo te sopra il cavai tuo lasso,
ser Ludovico e ser Governatore,
ruminar fra quei boschi amori ed armi.
Oh mio Poeta! Oh aurea fra i marmi
festa d'aranci luminosa e varia,
che sembri un'infinita luminaria
nel verde accesa, in fra marina e monte!


II.

MONTI DI LUNI.

Or qui, da un verde aereo soggiorno,
ne' bei monti di Luni amò affisarmi,
ove — lo narra Dante — ebbe fra i marmi
la sua spelonca il Mago Arunte un giorno.

Dante lo narra; e, come Arunte il Mago,
posso a bell'agio anch'io guardar le stelle
e il mare argenteo che mi dorme in faccia;
le stelle e il mare. Ma non io v'indago
segni e presagi: fosco di procelle
con tuoni e lampi l'avvenir minaccia.
Io seguo in alto la corusca traccia
del verso eterno che dai monti sale,
e mi sento cantar la spiritale
dantesca melodia dentro e d'intorno.

III.

INVERNO A MASSA.

Gela; e tra il verde de' fogliami intenso
fiammeggiano d'aranci orti e viali,
e l'argentea Tambura i suoi nivali
fulgori irraggia nel turchino immenso.

Gela; e in incendi aerei su i monti
bianchi riarde e a lungo risfavilla,
come un riflesso d'ignea fornace,
la rossa effusa gloria dei tramonti
mediterranei. Tutta l'Apua brilla
da' vertici alti in sua marmorea pace.

Ma su que' vertici armasi pugnace
l'odio che irrompe e i disperati ammalia....
giorni in cui morìasi per l'Italia,
con che triste sospiro oggi a voi penso!

IV.

FRA I MARMI.

Sparso dì blocchi, con vigor pugnace
divelti a' natii culmini apuani,
biancheggia il lido, ove quadrati e immani
li raggia il vespro acceso come brace.

Quanti gran blocchi al suolo inerti, e quale
ne balzerà da logge e da colonne
gloria di statue candida e serena!
Qual fasto d'atrii dalle nivee scale

fatte perchè di vaghe gentildonne
le scenda il piede che le sfiori appena!
Qual maestà d'altari ove ogni pena

versino, orando, l'anime ferite,
e quante, oh quante, fra l'erbe fiorite,
bianchissime urne ove si dorme in pace!

V.

CASTELLO DI MULAZZO.

E a voi sien grazie, o inclite ruine
del Castel Malaspino, alle cui porte
batté il Poeta che, sfuggendo a morte,
vi respirò da ansie senza fine!


Di quanti affanni risparmiaste a Lui
per l'Italia fuggiasco, e di quante ire
gli raddolciste in suo cammin crudele,
quand'Egli, oimè, per tante scale altrui
dovè tanti anni scendere e salire
ringhiottendosi lacrime di fiele;
sien grazie a voi, pie mura, ove a un fedele
guancial posò quel capo fremebondo,
quel sacro capo cui l'odio del mondo
dannò alla scure e incoronò di spine!

VI.

VERSO LA CISA.

Non una voce lungo i poggi e il lito
verde di felci e giallo di ginestre.
Tace al meriggio, su per la rupestre
via della Cisa, ogni pendio fiorito.

E il fiume canta. In faccia agli apuani
vertici azzurri, sotto il ciel che flagra
senza un fremito d'aura o un frullo d'ale,
dirocciando tra i floridi castani,

la rapida corrente della Magra
canta e scintilla al sole tropicale.
E te continuo, solitario, uguale,

te solo ascolto strepitar tra i sassi,
inno interminabile che passi
e che mi culli in un sogno infinito.

DAVANTI ALLA MAIELLA.
Ecco il Gran Sasso. Col suo cono aguzzo,
raggiante di bianchezza statuaria,
nell'alte solitudini dell'aria
ride al vespero e sta, re dell'Abruzzo.

E la Maiella, dal sole già basso
coronata di fuochi adamantini,
sorrisi d'oro folgora al Gran Sasso
dal bianco piedestal degli Appennini.

E sacra la Maiella. Ardua fra i geli
ove ascendeano i monaci a pregare,
sembra di marmo un gigantesco altare
dall'estatica Terra offerto ai Cieli.

E i Cieli sopra lei flettono in gloria
l'arco solenne come un tempio immenso
a cui cantano l'aure una pia storia
e vaporan le nubi onde d'incenso.

Ben seicent'anni volsero, ed a quella
vetta traendo Pietro di Morene
cercò la calma in lunga orazione
fra le tempeste della sua Maiella.

Ei, mentre il mondo sorrideagli al piede,
ragionava con Dio dolci parole ;
ei la cocolla sua, con pura fede,
a un lucido pendea raggio di sole,

Che fu ora di lui? Forse dal muto
Inferno, errando in quella notte amara,
maledice la fulgida tiara
e piange la viltà del gran rifiuto?


ancor sul monte candido e sublime
visionario spirito s'aggira,
e dal silenzio delle aeree cime
al mondo, ch'ei fuggì, guarda e sospira?...

Tace il gran monte candido. Sfavilla
il vespro ancor su l'ultimo fastigio,
e la Pescara giù, nel piano grigio
le argentee spire sue volge tranquilla.

Tace il gran monte; il sogno dell'Inferno
sfuma nell'alba d'un'età novella,
e riposano i morti. Alte, in eterno,
stan la dantesca rima e la Maiella.

E sacra la Maiella. A te, Natura,
per cui l'universale anima vive,
a te, come fiaccole votive,
leva i suoi fuochi in solitudin pura.

A te di bianche nubi ella solenne
vapora nel seren crepuscolare.
I sacerdoti sparvero, e perenne
sotto il tempio del Ciel fuma l'altare.

SINFONIA DEL BOSCO.

I.

Resta laggiù, come stagnante al piano
livida nebbia di palude impura,
sul pallido tedio mondano
vecchia malinconia d'archi e di mura!
Qui, d'ogni parte, sul pendio montano
flettesi il bosco in archi di verdura,
e qui, sospese su i lor vivi steli,
mille cupole verdi ergonsi a' cieli.

Bei castagni luccicanti al sole
e mossi al vento con soavi ondate,
torrentelli fra selvagge gole
murmureggianti in limpide cascate,
cantilene delle poggiaiole
che allunghi del meriggio ozi squillate,
delle selve respiro profondo,
com'è dolce fra voi l'oblio del mondo!

II.

Canta la gran boscaglia e freme al vento
nella quiete del giorno che muore,
come se in lei, per magico portento,
vibrasse di ben mille arpe il fragore.
Come se mille flauti d'argento
sospirasser fra il verde in pieno fiore,
alle prim'aure che il tramonto adduce
canta la gran boscaglia ebra di luce.

Canta e freme di voli il verde occulto
che in ombre impenetrabili s'addensa,


e ogni albero ogni frasca ogni virgulto
hanno una voce in questa voce immensa.
E cresce l'invisibile tumulto,
e squilla in sinfonia piena ed intensa,
fin che, già vinta dal lunare incanto,
tace la gran boscaglia ebra di canto.

III.

Ecco il ciclone, ed ecco la boscaglia,
scricchiolando nell'urto violento,
cedere al turbin che su lei si scaglia
e le sue dense chiome empie di vento,
e ondeggiar, tutta come una battaglia
di braccia mostruose a cento a cento
contro il passar dell'invisibil possa
che ne scrolla con rotti impeti l'ossa.

Ecco i randagi spiriti, i volanti
re della forza, che in aereo stuolo
cingon d'alterne collere sonanti
gli opposti in gran silenzio archi del polo,
e rupi e boschi investono, giganti
contro giganti, e passan oltre a volo,
con urlo formidabile e profondo,
sulla piccola e sorda ira del mondo.

IV.

Ti riconosco, armonica fanfara
d'occulti nella macchia assidui squilli,
che in folle, immensa, infaticabil gara
sfrenan gli uccelli e le cicale e i grilli;
e la fragranza de' ginepri amara

bevo alle note ombrìe piene d'idilli,
ov'erran mute nel fragor sonoro
farfalle e fantasie che han l'ali d'oro.

E dove in alto intrecciansi le rame
d'ellera giovenil tutte ricinte
come gran serpi che di verdi squame
lustrano al sole in lunghi nodi avvinte,
rigermogliano a me di tra il fogliame
dolci memorie che pareano estinte,
e mi ricanta la boscaglia in fiore
quanti in essa pensai canti d'amore.

V.
Or nel bosco gelato, ove il fogliame
stormìa canoro, in flessuosi intrecci
rollerà sola avvolgesi alle rame
dei taciturni giganteschi lecci,
Tellera industre che in arboree trame,
ramificando, intatta dai libecci,
rampica dove i grandi alberi al cielo
ridon lieti di sol, bianchi di gelo.

Ridono i lecci al sol, vecchia falange
di verde gioventù ringiovanita,
e le rugiade che la notte piange
ridono all'alba in candida fiorita.
Ride e lacrima il bosco e si rifrange
in ogni stilla un raggio della vita,
che mesce eterna, con eterno incanto,
vecchiezza e gioventù, sorriso e pianto.

FANTASIE METAURENSI.

I.

PRESSO IL CATRIA.

Pace de' monti, mi sei data alfine!
Rupi a destra ed a manca, innanzi e indietro,
scendono a picco. Giù nel burron tetro
spuman fra neri massi acque argentine.

Pace de' monti, erema pace, accogli
ne' tuoi vergini regni un assetato
di te, fra l'ombre di silenzio liete!
Ch'io trovi fra' tuoi boschi e fra' tuoi scogli
l'oblio del civil mondo insanguinato
dove seminan mille, e un sol vi miete!
Qui l'onda sola rompe la quiete
con sue musiche blande, e in lunghe ambagi
corre al Metauro che obliò le stragi
cartaginesi. — Oh pace senza fine!

II

SEMPRE DANTE.

Forse dalle tue selve alte, che il verno
batte e non sfronda, o Catria gigante,
cercava il lacrimoso occhio di Dante
lungi, assai lungi, il suo cielo materno.

E son corsi anni e secoli: ed ancora
la rima del Poeta esule e macro
canta il tuo nome all'ombre tue boschive;
ancor dall'ombre che la luna indora

chiama ai silenzi del cenobio sacro
cui trasse Ei l'orme stanche e fuggitive.
Così, pellegrinando, su le rive
delle marine italiche e nel sasso
degl'italici monti, ad ogni passo
sculse Ei la gloria del Poema eterno.

III.

VALLE METAURENSE.

Dorme, giù in fondo, nel sopor lunare,
la montuosa Marca; e, in faccia ai cupi
scoscendimenti di quest'ardue rupi,
chiara la valle del Metauro appare.

Dorme, in faccia alle rupi ardue del Furio,
la valle in pieno oblio. Ma dove tutta
la solca il fiume come un lucido angue,
fu la gran forza punica, fra l'urlo
degli elefanti che fuggìan, distrutta,
e quell'onda fluì rossa di sangue.
Sanguinando a migliaia (e ormai ne langue
fin la memoria) v'ebber tomba i vinti;
poi raggiò questa luna, e su gli estinti
fluì quell'onda che li spinse al mare.

IV.

PALAZZO IN ROVINA
(DALLA ROCCA DI FOSSOMBRONE).

Era ostèllo di Duchi, e luce e suono
n'uscìa d'armi e di feste. Ora è stamberga
di proletari, e sdraiavi le terga

irreverenti l'ispido colono.

Pace a voi, Duchi. L'inclita magione
vostra ruina, e ad agio suo vi passa,
pei rotti muri, il popolo e il rovaio.
Or da' verdi pendii di Fossombrone
sovrasta indarno alla città giù bassa
l'aula del trono, ohimè, fatta granaio!
Pace a voi, morti. Sfolgora april gaio,
e ancor sul vostro secolar letargo
porta viole e oblio. — Principi, largo,
largo alla plebe che vi invade il trono!

V.

PASSANDO IL FURLO.

Va la Flaminia via per foscheggianti
gole. Ecco il Furio. Oltre que' monti è Urbino;
ma i monti che attraversano il cammino
han terribile aspetto e son giganti.

E la Flaminia via fende una tetra
massa di rupi, traforando il monte
sì aspro un giorno allo scarpel romano,
a cui s'aprì. Te l'auspice, la pietra
che serba ancora il tuo gran nome in fronte,
divino Imperator Vespasiano.
Né a Te si chiede, o Auspice sovrano,
quanto all'opra sudò sforzo di turbe,
sangue di schiavi. — Oh Spartaco, che all'Urbe
scagli l'ultima sfida e i ceppi infranti!


VI.

REGGIA DUCALE
(NEL PALAZZO D' URBINO),

Né all'ime valli or più, dai balaustri
dell'ardue torri, il ducal guardo impera.
Tace la reggia che in sua mole altera
regna ancora le valli umili e industri.

Tace. Ove dame e principi e poeti
all'ombra delle grandi architetture
spandean le grazie dell'ingegno adorno,
s'aprono invan su gli anditi quieti
fughe di stanze: Un popol di figure
popola solo il tacito soggiorno. —
Meglio! — palagi storici, ove un giorno
s'adagiò Italia in codardia superba,
meglio su voi l'oblio; ben veste l'erba,
storiche tombe, i vostri marmi illustri.

CITTÀ DEI SOGNI.

EPISTOLA SENESE
(a Giovanni Pascoli).
Cor magis tibi Sena pandit

Or che rifiora, o Pascoli, ogni vetta
de' bei colli senesi e in roseo foco
s'accendono i tramonti, or la diletta
solitudine tua lascia per poco,
e vieni a me. La casa mia t'aspetta
e t'apparecchia grazioso loco,
qui dove a te, pensoso trovadore,
Siena, città de' sogni, apre il suo core.

Vieni da me. Saluteremo in festa,
da' colli gai che svariano infiniti,
la Valdichiana, gran mare in tempesta,
e il Chianti, patria delle ambrosie viti.
E a noi d' ambrosio vino, in faccia a questa
serenità di campi rinverditi,
nella patria di Cecco Angiolieri
fervidi spumeranno estri e bicchieri.

Che se il vino amerai del vicin monte
onde discese il gran Poliziano,
propineremo a lui, serena fronte
cui baciò giovinetta il sol pagano
quando l'ottava zampillò di fonte
limpida al secol che rinacque umano,
e il riso antico riaperse l'ali
su tanta storia d'odii mortali.


Vedrai da casa mia, su tanta storia
muta nel sasso dei castelli arcigni,
le cuspidi del Duomo (inno di gloria
che alzarono a Maria gli avi sanguigni)
spiccasi al ciel con agile vittoria
quasi candide a volo ale di cigni,
e d'un argenteo raggio arder ciascuna
nel mistico silenzio della luna.

Oh sogni! Oh poesia! Sazie di stragi
prosternavansi a Dio nella pia mole
ferrate genti, cui ridean fra gli agi
corti d'amore e suoni di mandòle.
Allor sorgean le cupole e i palagi,
fiorian le torri, come steli, al sole,
e per l'itale vie l'ossuta e cava
faccia di Dante in estasi passava.

E mille, qui, dantesche visioni
empion la notte. Se la luna, stanca,
svelando i bui medioevali androni,
le vecchie strade ghibelline imbianca,
e il pian che s'apre in candidi valloni
d'ogn'intorno giù giù sfumasi e manca,
giunge da Fontebranda in ritmo lento
un lungo murmurio che par lamento.

E innanzi a me, per sùbito richiamo,
trae di quell'acqua ai liquidi rumori
l'ombra assetata del Maestro Adamo
coi sontuosi gozzovigliatori;
mentre, levando mite il viso gramo
livido un tempo d'invidi rancori,
vien contrita Sapìa di dolor santo

che le gonfia i cuciti occhi di pianto.

E Provenzan Salvani, per l'antica
curva del Campo tacito e severo,
traggesi col suo gran carco a fatica,
a terra umiliando il collo altero.
Ma un'accorata immagine pudica,
di fascino velata e di mistero,
sospira con dolcissima armonia:
- Ricorditi di me, che son la Pia. -

E s'erge in attitudine pugnace
la città fosca su i pallenti clivi,
come se ancora nel piano che tace
volgansi in rosso colorati i rivi,
d'urla guelfe echeggiando. — Oh quanta pace
dorme oramai fra l'ombre degli olivi,
mentre su dalla torre alta e tranquilla
rintocca l'ora e nei silenzi oscilla!

Fra quanto oblio rintocca la campana
su la concava piazza e fioca spande
la voce che squillò repubblicana
chiamando all'armi tutto un popol grande,
qui dove tanta s'effondea toscana
primavera di canti e di ghirlande
allor che fra le sue trentotto porte
Siena esultò vittoriosa e forte!

Ed or che a' mesi gai con vigor blando
frondeggia l'inegual campagna ondata,
forse ancor dalle valli, azzurreggiando
nel plenilunio il bel Monte Amiata,
udrem limpidi alzarsi a quando a quando

i suoni e i canti d'una maggiolata
nel purissimo eloquio che apprese
dal secol d'oro il popolo senese.

Pascoli, vieni. Castellana austera,
dagli alti merli in tanto oblio quieti,
ti attende Siena che a tre valli impera,
desio di sognatori e di poeti.
E sogneremo in due, qui tra la fiera
arte d'Italia e i pensili oliveti,
fantasticando, sotto un atrio muto,
corti d'amore e suoni di liuto.

VINCIT AMOR.

I.

Alla città che, su i tre colli in fiore,
del mite olivo tutta s'inghirlanda,
sola, nel buio, geme Fontebranda
lunghe storie di sangue e di dolore.

E Siena ride; e, indotto delle stragi
che fecer l'Arbia colorata in rosso,
passa il popolo suo che gli odi oblia;
fra i marmorei turriti alti palagi,
che han tanto secol di tristezza addosso,
passa e te ignora, o invida Sapìa.
Ma nei silenzi della notte, o Pia,
ode te che d'amor piangi ed aneli,
e sente, o diva Caterina, ai cieli
la tua voce salir, fiamma d'amore!


II.

Luce intellettual, cuore che tanta
virtù raggiasti d'operoso amore,
salve, pia Caterina, ave, o splendore
del tuo popol fedel che sua ti vanta!

Per quella man che fieramente scrisse
e che a' mitrati, fra discordie e lutti,
segnò l'orme di Cristo alta e sicura;
per quella man che tutti benedisse
non macolata, e che scendea su tutti
soccorritrice in mezzo alla sventura;
per quell'ardente carità si pura
che al tuo popol ti fé sacra e divina:
ave, pia Donna, salve, o Caterina,
intelletto d'amor, cuore di santa!

IN DUOMO.

I.

Qui non si prega. E il tempio una preghiera
muta e solenne, che solleva ai cieli
l'anima estasiata, oltre i crudeli
nembi del mondo che dolora e spera.

Qui pregan Dio, dall'ardue colonne,
sotto l'azzurra cupola stellata,
luminosi nell'ombra, i santi d'oro.
Qui prega un popol d'angeli e madonne
dai marmi della triplice navata,
dai grandi affreschi, dal mirabil Coro.
E qui prega il silenzio, ancor sonoro
d'organi e laudi come un inno immenso,

mentre, rapita in un vapor d'incenso,
l'anima ascende e oblia, lenta e leggera.

II.

Sorgono ancor nel tempio (atra memoria)
le vinte in riva d'Arbia ostili antenne,
e stare sacro a Maria trofeo perenne
di Montaperti e della gran vittoria.

Stanno; e il Duomo con lor sorse da immani
sanguigni cozzi di furor, terreno
in trionfo d'arcate agili e snelle.
Sorse raggiando, e su i dolori umani
curvò dall'alto, come un ciel sereno,
la sua cernia volta, aurea di stelle.
Così dal buio d'umide procelle
esce l'iride chiara, e vincitori
flette sul mondo i mistici colori,
segnacolo di pace, arco di gloria.

III.

E qui sostò re Corradino. Un'onda
sacra di litanie vittoria e trono
invocò al giovinetto; e all'ara ei prono,
tacito orò dall'anima profonda.

Alla Vergin salìa, tra incensi e faci,
la muta prece sua, mentre il suo nome
corifea fra il popol ghibellino in festa;
e caldi i voti delle donne e i baci
ed i fiori che avean dentro le chiome,
volavan tutti a quella bionda testa.
Oh con che alteri sogni e in che tempesta

d'ansie regali allor, da queste alture,
discese incontro all'angioina scure
quella testa di svevo ultima e bionda!

LIBERTAS.

I.

Invan, pugnando, un gran popol difese
que' tuoi memori spaldi fulminati,
contro tanto e sì reo d'armi e d'agguati
mediceo sforzo, o libertà senese!

E invan, pugnando, procombeva. A terra
cadder qui le trincee, gloria immortale
d'eroiche donne che le ergean cantando,
cantando a sfida una canzon di guerra
cui la ferrea d'intorno oste ducale
immobil rispondea cannoneggiando.
Poi, degne faci al funere nefando
della vinta città piena di stragi,
fiammeggiaron nel buio arsi i palagi,
combusti i campi, e le castella accese.

II.

Gloria a te, Montalcino, ultima e forte
rócca di Siena ed ultima minaccia,
ribelle eroica che chiudesti in faccia
al mediceo ladron l'ultime porte!

L' ultime; e poi, silenzio. — Oh sepoltura
ove a gran forza e di catene avvinta
l'insanguinata libertà discese!
Oh quiete di tre secoli oscura

che su tutta la serva Italia estinta
come una coltre funebre si stese! —
Gloria a te, rócca, onde uno stuol senese
di superstiti prodi, ancor quattr'anni,
oppose alla mitraglia dei tiranni
la repubblica sua percossa a morte!

DALLA FORTEZZA.

I.

Splende al vespero Siena, alta sul fondo
de' suoi grigi oliveti. Oblique e rosse
raggian le mura sue, dal sol percosse,
lampi di guerra al vespero giocondo.

E dai tre colli, altissima sul piano
come un giorno a spiar l'oste nemica,
dirizzasi la Torre comunale,
sfidando ancor nell'aere lontano
la fiorentina torre, emula antica,
cui la mano d'Arnolfo impennò l'ale.
E il sol tramonta. Come un aureo strale
perdesi in cielo il verso d'Alighieri,
e canta qui rasserenato Alfieri:
-Deh che non è tutta Toscana il mondo!

II.

Qui, per le mute vie, lungo le mura
cupe e turrite, fra gli androni austeri,
come un'ombra movea Vittorio Alfieri,
pallidissimo in volto, a notte scura.


E qui dal petto suo, dalle tempeste
del ferreo petto ove ruggìano orgogli
e sdegni di patrizio e di tribuno,
l'ira d'Icilio ed il furor d'Oreste
ne' suoi versi rompea, come fra scogli
onda in tumulto quando il cielo è bruno.
E senz'aiuto di viventi alcuno,
per darti, o Italia, un popolo novello,
ei sol, di qui, possente Ezechiello,
destava i morti dalla sepoltura.

III.

Sogna in pace oramai, mentre ti veste
silenzioso il lume della luna,
Siena che dormi solitaria e bruna
su le colline tue d'argilla meste!

Sogna pur nella gran pace notturna
il lungo sogno tuo medioevale,
vecchia città di Provenzan Salvani!
Ben, fra' tuoi marmi, posa taciturna,
come in un monumento sepolcrale,
tanta storia di rei secoli umani!
Io miro ascender sopra gli odii vanì
cupole e guglie al ciel come preghiere,
sorvolando con bianche ali leggere
ii fango della vita e le tempeste.

OMBRE E PENOMBRE.
FANTASMI DELL'OMBRA.

MISTERO.

Tutta, in divin silenzio, sotto l'empirea cupola
ripalpita di stelle l'immensa oscurità.
Sei tu, divin silenzio, forse il linguaggio incognito
dell'infinita, arcana, pensosa Eternità?

Lente, alla luna intorno, si svolgono le nuvole
e calan, vaporando diafane, giù giù,
nuvole calanti, siete voi forse i placidi
sogni che al cor dell'uomo discendon di lassù?

Sognano i cuori, e intanto per lo gran mar dell'essere
la terra a ignoto porto li turbina con sé.
Forse, progenie stanca, gli astri che in ciel sorridono
son occhi d'immortali che vegliano su te?

Va la gran nave umana per li stellanti oceani
dell'infinito, e nulla, nulla il mortai ne sa.
Oh dove vai tu dunque, gran nave infaticabile
cui d'ognintorno avvolge l'oscura Eternità?

D'OLTREMARE.

I.
Tu pure ormai, mentre laggiù sprofonda
il morituro sole entro una fascia
di nubi, e rosseggiando igneo dall'onda
tanta malinconia dietro si lascia,

tu pur sei muta, e pieghi la gioconda
anima al peso d'un'intensa ambàscia,
e una stanchezza ogni tuo senso inonda,
e un languido desio t'ange e t'accascia.


E sogni le stellate albe d'argento
dell'Appennin toscano, ove tranquille
treman le foglie dei castagni al vento.

E mentre a vespro piangono le squille,
una lacrima pia, frenata a stento,
trema in silenzio nelle tue pupille.

II.
Oh lo so quel che pensi! — Il dì che, gl'irti
scogli lasciando e il tristo porto e il seno,
ben lungi dalle sarde ultime sirti
sotto la prua ci schiumerà il Tirreno

giocondamente, e più salubri spirti
e' infonderà nel sangue il ciel sereno,
tu non potrai, neppur quel dì, sentirti
l'anima lieta e consolata appieno.

Tu pensi, o Lilia, che saranno amari
anche i ritorni, e non con occhi asciutti
rivedrai la tua casa oltre quei mari.

Pensi che quando, risolcati i flutti,
ci si faranno incontro i nostri cari,
non tutti, ohimè, li troverai; non tutti!

III.
Ma io, di notte, quando la campana
rintocca i quarti delle vigili ore,
e il grido delle scolte s'allontana
di su' prossimi spaldi e lento muore,

io penso al buio della mole arcana
che chiude, in faccia a noi, tanto dolore
di reietti dal mondo. E d'una strana

pietà mi piange e mi trabocca il cuore.

Io penso agli angiporti ignoti al sole
da cui scova la fame un volgo affranto
popolator della terribil mole.

E vien dagli angiporti umidi un canto
che nella notte palpita e si duole,
e sembra della triste isola il pianto.

IV.
Oh la sinistra cantilena! Io gli echi
sento ogni notte del suo tristo metro,
e in dormiveglia m'agito, da ciechi
incubi oppresso, sotto il ritmo tetro.

E un popol d'ombre che piangendo imprechi
parmi in. quel canto udir, mentre lo spetro
della pallida Febbre arda co' biechi
occhi il mio sangue; e di terrore impietro.

Poi, quando, scosso il faticoso incanto,
sorgo e respiro, e sfuma la falange
de' rei fantasmi, e tu mi dormi accanto,

io prego il vento che a' vetri si frange
di rapir lungi a' tuoi riposi il canto
che in lontananza ancor palpita e piange.

VENERDI' SANTO.

Sale un gemito lungo per la santa
ombra del tempio, vedovo di gemme,
che della sacra a Dio Gerusalemme
rinnova il lutto e di squallor s'ammanta.

Sale, anelante, il gemito d'un cuore,
prorompendo dall' ombra, ove l'estrema
face agonizza, con armoniche ale.
Un lamento di gravi organi muore
nel pio silenzio che ne romba e trema,
e nel silenzio il gemito pio sale.
E ancor sei tu che dal cuor tuo regale,
guerrier Davidde, umiliato e calmo,
misericordia supplichi nel salmo
che in suo gemito eterno, ascende e canta.

NOTTE A FERRARA.

Qual ansia di voli, se a lungo io ti fiso,
m'accendi nell'anima tu,
luna ch'effusa d'umano sorriso
m'inviti a sognare lassù?

E Astolfo che in alto rapisce i miei sensi
del vago Ippogrifo su l'ale?
Sei tu, gran palagio dei principi Estensi,
che mormori un canto immortale?

Oh quanto silenzio la mole t'imbruna
d'ardenti tripudii già lieta!
Con quanta tristezza la tacita luna
vi cerca il suo gaio Poeta,

il gaio Poeta che, lunge agli amari
fastidi ove il cor gl'intristìa,
nel lume oblioso dei regni lunari
s'aderse col carro d'Elia!

Che parla, o gran mole, dell'odio che antico
su te cumularono gli anni?

Se canta d'intorno Messer Ludovico,
chi pensa a' tuoi vecchi tiranni?

Chi pensa a' tiranni se vola il Boiardo
nel cielo de' sogni stellato?
Se squilla a battaglia, pensoso e gagliardo,
il buon cavaliere Torquato?

Ben sento i miei sacri poeti che un giorno
sì miseri, o Duchi, voleste,
e l'itala ottava che ondeggiami intorno....
Indietro, signori da Este!

Sol'essi i monarchi del canto l'austera
quiete riempion di sé,
e n'odo la voce che a' secoli impera....
Silenzio, che parlano i Re!

INVERNO MODENESE
(sole e neve).

Raggia Modena ai sol d'aureo candore,
qual d'alabastro una città solinga
che di placida fiamma interiore
per opra di magìa splenda così
e un'altissima guglia al ciel sospinga
dal pian, deserto che biancheggia al dì.

E da' platani suoi, fulgente schiera
tutta di vitreo gel biancofiorita,
ride l'augurio della primavera
ai campi che la neve alta adeguò,
pallente solitudine infinita
che il sole indora e che scaldar non può.


E sei bella così, città ducale,
vista da lungi, nel candor tranquillo
che accende e veste d'un sorriso eguale
quanta malinconia grava su te,
quanto stampò di ferreo sigillo
la man del tempo e dei tiranni il pie.

INVERNO MODENESE
(mare di nebbia).

Non un segno di vita. Alta, sul velo
della caligin che nel piano stagna,
la Ghirlandina appuntasi nel cielo
come uno stral che ignota man vibrò,
sovraneggiando l'umile campagna
e i pioppi eccelsi a cui da lungo io vo.

Vo, nel silenzio d'ogni voce umana,
per un mare di nebbia opaco e morto,
verso quei pioppi, come a una lontana
selva d'antenne che m'inviti a sé,
come a un naviglio che radduca in porto
i miei fantasmi, naufraghi con me.

E l'ombra assidua d'un pensier tenace
mi sta di contro immobile, diritta,
simile a te, che, in mezzo a tanta pace,
sempre aerea davanti e sempre là,
stai, vecchia aguglia, contro il ciel confitta
e solitaria nell'immensità.

VARCANDO GLI APPENNINI.

Sparì nella notte la striscia del Reno
tremante d'albori argentini,
e in buio profondo s'inerpica il treno
su su pe' toscani Appennini.

Riscosse dal treno, che all'ombre dormenti
saetta i suoi fischi infernali,
sussultano a un tratto le selve imminenti
de' frassini antichi e spettrali.

Ed agita e allunga contr'esso ogni selva
le fosche infinite sue braccia;
ei zufola e fugge, novissima belva
che passa vampando e minaccia.

E imbucasi in antri reconditi e cupi,
lanciando uno sbuffo di scherno
ai lecci che il sasso degli ardui dirupi
credean regnar soli in eterno.

Ei senton con l'ime radici l'oltraggio
del mostro che romba sotterra,
che viola il lor alto silenzio selvaggio
con urli e con fuochi di guerra.

Lo vedon giù basso sbucar da' suoi fori,
strisciar come un rettile al piano
e all'alba, che schiara gli umani dolori,
deporre il suo carico umano.

E, pieni de'soffii che l'alba ridesta
per loro, dai liberi clivi

compiangon ei forse, squassando la testa,
la pallida stirpe dei vivi,

la stirpe inquieta che i monti trafora,
per correr con lena affannata
al raggio d'un'altra men torbida aurora
promessa, lontana, invocata.

VIGILIA DI NOZZE
(a G. M. B.).

Tu non dormi, io so, tu che domani
sarai del fior d'arancio incoronata.
Pende rigido il verno, e i sogni umani
migrano a volo con l'ala gelata.
Ma nell'anima tua ridono in fiore
i sogni della vita e dell'amore,
e dietro i sogni l'anima tua vola
l'ultima notte che tu dormi sola.

Oh notte lunga! Oh ansie dell'attesa
con gli occhi fissi nel buio e nel vuoto!
Oh visioni della mente accesa
che affacciasi al mistero dell'Ignoto!
Ben tu vorresti, mentre tace il mondo,
dimenticarti in un sonno profondo,
fin che non brilli del gran dì l'aurora,
eh'è ormai sì presso, e ti par lungo ancora!

Tu non dormi, lo so; ma in tanta schiera
mai non vennero i sogni al tuo guanciale
a empirti di gioiosa primavera
la taciturna tenebra invernale.
E in mezzo a lor l'anima tua sì culla

l'ultima notte che dormi fanciulla;
e intorno a te, con magiche parole,
tutti i tuoi sogni raggiano di sole.

ARTI SORELLE.

I fanciulli, a cui di algide
visioni e di colori
splende l'anima nell'estasi
de' grandi occhi sognatori,

le ampie tele aman fantastiche,
piene d'aria, entro i cui sfondi
sopra argentee nubi volano
trionfanti angeli biondi.

E gli ardenti occhi de' giovani
d'ansie trepide inquieti,
che vegliaron su le pagine
lacrimate dei poeti,

nell'azzurro, ove di musiche
sale un pianto alto e canoro,
nuotan vaghi, ebri del cantico
che s'inalza a spire d'oro.

Ma gli adulti, a cui più limpido
nei pensosi occhi balena
l'intelletto e il senso placido
della grande Arte serena,

idoleggiano altre immagini
di Bellezza antiche e varie
nei marmorei miracoli
delle forme statuarie.


Più i vegliardi aman le mistiche
le solenni cattedrali,
che in silenzio agili e candide
verso il cielo ergono l'ali;

ove in pace interminabile,
nell'oblio dell'urne bianche,
sotto l'arco d'una cupola
si riposa anime stanche.

BALLATE
D'AUTUNNO E D'INVERNO.

ANTIGNANO.

Ch'io sogni qui, nel vostro mite e denso
morituro fogliame, ombre dei clivi,
che, fra il pallor dei mare e degli olivi,
vaporate il solingo ultimo incenso.

Ch'io qui risognì, d'ombre circonfuso
e con l'anima ancor piena di raggi,
vaste alberate digradanti al mare,
al mio bel mare che traluce effuso
di sotto a questi verdi archi selvaggi,
sfumandosi col ciel crepuscolare.
patrio Tirreno, o selve care
vive ancor di fruscii, d'aure, di voli,
eccomi a voi. — Cantate, rosignoli;
respira, oceano, il tuo respiro immenso.

FINE DI SETTEMBRE.

Ed ora, Estate, addio! nel cenerino
cielo il tuon romba e di lontan minaccia.
Oh tristo, su la livida bonaccia
del mar senz'onda, cielo settembrino!

Oh del settembre che declina e muore
congedi tristi! In un brontolio tetro
dilegua il tuon su l'ultimo Appennino:
l'ultimo tuono, e poi più nulla. E il cuore,
che sospirando si rivolge indietro,
ripensa la sua vita e il suo destino.
Pensa e sospira, come un pellegrino
che va senza riposo e mai non giunge;
che sosta un tratto a rimirar da lungo
la via percorsa, e seguita il cammino.

CADUTA DI FOGLIE.
Non più di trilli argute risonanze
per la montagna. In voce di lamento
geme la selva, cui rapisce il vento
le prime foglie e l'ultime fragranze.

Quando il pallido autunno d'improvvise
tristezze aduggia e scolorisce il mondo,
e piangono le pioggie alla campagna,
tutta l'alpestre via di fango intrise
copron le foglie, che stormian giocondo
l'inno dell'albe in vetta alla montagna.
E al faticoso viator, cui bagna
di pianto gli occhi una stanchezza nova,
ad ogni passo che in quel fango ei muova,
sembra di calpestar sogni e speranze.


CASTAGNI.

Nulla è più bello dei frondosi e ampi
castagni, a selve sterminate, in mezzo
a questi monti ove si sogna al rezzo,
mentre all'umido verde il sol dà lampi.

Nulla è più dolce. Mormorano i gonfi
riì fra quest'ombre, e il tordo vien, zirlando,
al suo ginepro che le bacche imbruna;
grosse nel cardo, cascano con tonfi
leggeri le castagne, e a quando a quando
ne sguscia fresca sotto il piede alcuna.
Casca in gran copia e tutte l'erbe impruna
di bei cardi spinosi il frutto buono,
che sfamerà i figlioli del colono
se pel suo desco non dan pane i campi.

SOGNI E RICORDI.
Scorre fra l'ingiallita erba che muore
un rivolo di limpida acqua viva,
e a me, sotto una mite ombra tardiva,
l'onda de' sogni scorre lenta in cuore.

Né mai fu così dolce il sogno alato
dell'avvenire, quando più lo infiora
la verde ìllusion della speranza,
come ora è dolce del lontan passato
la vision che sfuma e si scolora
nelle memorie, in cernia distanza.
Oh come, ormai, dell'avvenir che avanza
langue a me il sogno pallido ed incerto,
or che sfiorì del roseo tuo serto,
giovinezza mia, l'estremo fiore!


SOGNI AUTUNNALI.

Dolce, Autunno, sei tu; dolci ed arcane
son le penombre che, fra terra e cielo,
sfuman gli occasi tuoi come in un velo
di lunghi sogni e di mestizie umane.

Dolce sei tu nel tuo sogno infinito
che par sognato nella pace stanca
d'un tramonto polar senza dimane;
mentre viaggia l'animo, rapito
dalle memorie, ad un'incerta e bianca
serenità di plaghe note e strane;
e ondeggia a luì, fra un pianger di campane,
la vision delle passate cose,
languide e tristi come morte rose
di primavere pallide, lontane.

ESTATE DI SAN MARTINO.
Tutte di sole esultano le caste
trasparenze del cielo, e tutta fiori
svaria la terra in tenui colori
fra lontananze luminose e vaste.

Ma senza olezzo i fiori ornan le aiole,
sacri alla morte e al vento che fra l'urne
e fra i salici pii bisbiglia ed erra.
E privo anch'esso di calore è il sole
che imbianca a' morti l'arche taciturne
ove, obliati, dormono sotterra.
E freddo, oh freddo assai, più della terra,
poveri morti, che vi sta su l'ossa,
forse è ora per voi dentro la fossa
l'oblio dei vivi che nel mondo amaste.

NOSTALGIA.

E tu, Lilia, lo sai quanto languore
l'anima invade quando tace il bosco
mezzo sfrondato sotto il cielo fosco,
e non è inverno ancora, e autunno muore!

Pur non hai visto il dì che si scolora
su l'autunnal malinconia di questa
adriaca piaggia e sul pallor del mare,
di questo mar senza tramonti. Oh ancora
tutto il languor non sai dell'ora mesta
che parla in cuor lontane cose e amare!
Vieni da me. Sul mar crepuscolare
ricorderemo e sogneremo insieme;
e il cuore opererà l'ultima speme,
e autunno fiorirà l'ultimo fiore.

FINE D'AUTUNNO.

Addio, languide, pie, virgiliane
dolcezze dell'autunno! Ora ogni cosa
smuore in un vel di piogge, e tutto posa,
tranne le faticose opere umane.

E in silenzio, al mattino umido e muto,
bifolchi e buoi risolcano indefessi
gli oscuri campi, che a' signor del mondo
colmarono i granai. — Quanti han goduto
quel mare interminabile di messi
che a' gran soli splendea mobile e biondo?
Ahi non per tutti il tuo seno fecondo
fu, genitrice Terra, equo e materno;
e già mille e più mille urge l'inverno
tuguri senza fuoco e senza pane!


QUERCIA ABBATTUTA.

Tu giaci, quercia; e quante volte, al blando
tuo rezzo verde che il villino ombrava,
vedesti i bimbi, in compagnia dell'ava,
saltar d'intorno a lei, rosei vociando!

Ed or che il verno addensa la bufera,
or che a colpi di scure ad una ad una
cascarono le tue braccia sfrondate,
gioconderai d'alacri vampe a sera
le veglie della casa, ove raduna
l'avola i bimbi a novellar di fate;
mentre in lei fisse, trepide, incantate,
le testine auree nell'opaca sala
splendono al focolare, in cui s'esala
il tuo spirito antico, alto fiammando.

NELL'OLIVETA.
Oh pia nel verno, cui nessun consola
riso di verde, l'ombra degli olivi,
che di lor selve argentee, dai clivi,
inghirlandan la valle ignuda e sola!

Maturano in silenzio ei la clemente
copia de' frutti, e in suo mister profondo
la terra che li nudre a stelo a stelo
sembra che dorma. — sacro ad ogni gente
palladio olivo, o augure sul mondo
ramo di pace frondeggiante al gelo;
sento fra il glauco bosco e il mare e il cielo
fluir la pace tua nelle mie vene,
come fluisce l'olio tuo lene
che da' pieni frantoi limpido cola.


NOTTE DI NATALE.

Or io penso altri dì, mentre martella
la campana di Ceppo e chiama a festa.
Oh il presepe domestico, che in questa
notte io fiorìa di musco e di mortella!

Né valevan per me templi o palagi
quel mio presepe antico, ove in pia gloria
svolgeasi agli occhi miei l'umile dramma
di Bethlemme. L'astro dei Re Magi
vi fulgea d'oro; e n'udivam la storia,
creduli bimbi, intorno a una gran fiamma.
C'eravam tutti allora: anche tu, mamma,
ignara allor dì dover pianger tanto;
e tu, che fosti messa in camposanto
nel più bel fior degli anni tuoi, sorella.

NEVE IN CAMPAGNA.
Fra il candore de' colli algidi in tondo
biancheggian selve rigide e severe,
fantasmi di defunte primavere
nella penombra d'un cinereo sfondo.

Bianchi fantasmi, visioni bianche
fra un bianco polverìo d'atomi erranti,
sorgon rigidi e stan gli alberi grami;
e non ha un'eco o un brivido neanche
l'immobil aura, che di voli e canti
strepitava fra' bei verdi fogliami.
Tacitamente nevica su i rami
su i campi muti; e tutto imbianca un gelo,
tutto agghiaccia un oblio. Par che dal cielo
piova silenzio, e pare un sogno il mondo.

NEVE IN CITTÀ.

E da una striscia argentea di cielo,
che fra i neri edifici aita serpeggia,
neve e neve giù giù fiocca e volteggia
muta al tuo muto soffio, aria di gelo.

E nel freddo silenzio, a quando a quando,
fra i palagi di marmo, ove ancor bella
vive in refugi tepidi la vita,
qualche ombra umana affrettasi, pestando,
sotto il fioccar che ogni orma ne cancella,
quel candor molle come una fiorita.
E in bianca pioggia di fiori infinita
vien danzando giù giù neve su neve,
lieve a ogni soffio che tu soffli lieve
fra i palagi di marmo, aria di gelo.

DOPO LA NEVE.
E al sole or brilla, fredda primavera,
un fiorir bianco d'orti e di giardini,
e i monti, in giro, splendono argentini
al mite sol che nell'azzurro impera.

E tutta a lui dalla sua bianca faccia
ride la terra un riso d'oro. — O sole,
scalda col raggio tuo gl'inverni crudi,
é inonda le soffitte ove più diaccia
scende la notte lunga a tanta prole
squallida e insonne su i giacigli ignudi.
E tu, provvida neve, i germi schiudi
per cui sudaron tante braccia umane,
sì che la terra pia maturi il pane
alla prole dell'uom che attende e spera.


MARTEDI' GRASSO.

E' buio, è freddo; ma qui splende e sale
alta una fiamma di ben arido olmo:
qui fuma il ponce nel bicchier ben colmo;
fuori imperversa il vento e il carnevale.

Pur del tepore che m'avvolge io sento
quasi rimorso, fin che v'ha chi piange,
assiderando, lacrime ignorate
sotto la notte cruda. Ahi, mentre il vento,
che a' vetri ad or ad or cupo si frange,
trapassa urlando in gelide folate,
trapassando col vento urlano ondate
di maschere ebbre per la notte oscura,
ciurma che ha fame e salta. E m'è ventura
nel ciel de' sogni poter batter l'ale.

LA BALLATA.
Quando alla plebe, non di stenti lassa,
dava il magno Lorenzo oro e ballate,
tutta alla gioia di sue rime ornate
Firenze consentìa borghese e grassa.

Allor le mascherate epiche e pazze
l'Arte guidò, che in pubblico certame
di feste e oblii tenne l'Italia assorta.
Ora per le vie meste e per le piazze
più non festeggia il popolo che ha fame,
e la ballata de' gai tempi è morta.
Né tu, con novi spiriti risorta,
fra il popol danzi, o ballatetta antica.
Triste è il poeta, e l'Arte è vil fatica
per una gente che non guarda e passa.