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Giovanni Marradi - POESIE VARIE
Terza parte
























Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
RIME SPARSE.

OCCHI SOGNANTI.

Giacinta, angela bionda
dalla pupilla fonda
piena d'azzurri, incanti,
che sogna e fa sognare
lunghe fra cielo e mare
serenità stellanti;

che vedi tu? Qual vaga
misteriosa plaga
lunge da noi ti splende,
quando il grand'occhio fiso
di spiritai sorriso
tutto il tuo volto accende?

Tu non lo sai. Fra l'erba
che alla stagione acerba
nel tuo giardino aulisce,
bella creatura,
la rosa fresca e pura
del viso tuo fiorisce;

ma la pupilla, in giro,
specchia il divin zaffiro
dell'ampia aria remota,
e con letizie blande
più fulgida e più grande
nell'estasi ti nuota,

estatica pupilla
dove ceruleo brilla
il sogno che t'allieta,

di che fantasmi intenti
popolerai le ardenti
vigilie del poeti,

quando l'amor baleni
nei limpidi sereni
della tua luce un giorno,
un lacriinoso velo
t'ombri la terra e il cielo
ch'or ti sorride intorno!

Deh sia d'amor soltanto
e sia soave il pianto
che il tuo sereno appanni,
se mai la meraviglia
delle tue lunghe ciglia
s'apra ai terreni affanni,

per sorrider nata
pupilla innamorata
del sogno che in te brilla,
azzurra fra un tesoro
di molli anella d'oro
fantastica pupilla!

PRIMO DI MAGGIO.

— Ben venga Maggio — cantava il toscano
popolo un dì nell'agile ballata;
e in festa procedea la maggiolata
tra le rose fiorenti al colle e al piano.

E Maggio torna. Ma nel piano e al colle
non più s'allegran del mese giocondo
le nuove genti e della gran verdura;

e il lievito de' truci odii ribolle
a questo sole che rinfiora il mondo
e le vendette agli uomini matura.
E innanzi agli occhi, visione oscura,
sta la minaccia d'un giorno selvaggio,
in cui forse alle pie rose di Maggio
darà porpora calda il sangue umano.

LA PINETA.

O, tutta verde al cerulo mattino,
O, tutta arborea sopra i monti brulli,
selva che fremi, trepida di frulli,
al soffìo alpestre e all'alito marino,

io torno a' tuoi sereni or che s'adagia
su le città la bruma sonnolenta,
selva in cui l'erbe odorano di menta
e gli alti pini stillano di ragia.

Né mai così m'inebriò l'aroma
ch'esalano le tue resine amare,
se al vento ondeggi, simile ad un mare,
la bellissima tua giovanil chioma;

né mai cosi tranquillo e inviolato
fu quest'ozio de' merli, ove sol raro
giunge, da lunge, qualche sordo sparo
a cui risponde un subito latrato.

E muoion gli echi nelle vaporose
valli, dove la nebbia ima dilaga,
e tutte in un'argentea spuma vaga
lente, in silenzio, naufragan le cose.


E in quell'argentea spuma il pian disparve
con le città, coi cimiteri sparsi.
Ecco il Tirreno languido sfumarsi,
vanir le vele come tenui larve.

Addio, larve pallenti! Io, da' pendii
densi di felci ove mi nuota il piede,
bevo i raggi dell'alba, e non mai diede
calice ambrosio più soavi oblii.

E d'obliose ombre cingemi il verde
che al sol d'autunno lacrima di gelo.
Laggiù l'oceano perdesi nel cielo,
quassù nei sogni l'anima si perde.

GUIDO CAVALCANTI.

Ecco Sarzana. — primo amico e fido
di Dante, o dolce in poesia maestro,
risento in cuore il malinconico estro
di tue ballate, e a te ripenso, o Guido.

Penso: — Qual forza di selvagge ed ebbre
passioni te pur tolse all'ovile
fatto covo di lupi e albergo d'ira,
e te sospinse a struggerti di febbre

in questo esilio, o epicureo gentile,
che volse in pianto il canto di tua lira? —
Penso; e sul labbro un verso mi sospira:

- Perch'io non spero di tornar giammai.... -
E, modulato in commoventi lai,
nel cuor mi piange l'ultimo tuo grido.


VILLA DI RENATICO
(a Ferdinando Martini).

dalle torride ambe e dall'ardore
delle sabbie eritree reduce anelo
ai venti freschi del tuo patrio cielo,
ser Ferdinando e ser Governatore,

lascia a' suoi Ras, frenetici di regno,
l'arsa Etiopia in guerreggiar maestra,
lascia l'Affrica rea che ci sequestra
la miglior parte del tuo prode ingegno,

e là dove Renatico vapora
gli olezzi suoi nel rezzo e nel silenzio,
alla Musa di Plauto e di Terenzio
indulgi con sereno animo ancora.

Oh amica ai vati del feroce Lazio
solitudine pia! — Ser Ferdinando,
quante volte nell'anima il suo blando
Beatus ille ti ridisse Orazio?

Quante volte a' gran soli, che non placa
mai refrigerio di soave fiato,
sognasti il tuo poggetto ventilato
di Monsummano e la tua selva opaca?

Torna alla selva tua, torna al gentile
tuo nido! E noi, gli antichi amici, a sera,
bussando alla tua porta ospitaliera,
clamando a te dal parco signorile,

canteremo Renatico, che, insigne
di molti fiori, dall'ombra contigua

ride alla valle industre ove l'irrigua
Nievole scorre fra pometi e vigne;

e ci udiran le querce solitarie
dir la dolcezza d'un febeo ritrovo
fra il verde, lungi al vecchio mondo e al novo,
lungi alla rozza e alla civil barbarie.

Che se si appressi famulo o corriere
lator sospetto d'eritrei messaggi,
noi con minacce e con gridi selvaggi
caccerem via messaggio e messaggero,

e impediremo noi che di sua lunga
ombra la torrida Affrica pugnace
te insegua là nella tua fresca pace,
te su la irrigua Nievole raggiunga!

LA FILANDA.

Cantai le filatrici, e l'aspo gira
volgendo la matassa luminosa.
Sul gran tumulto, che giammai non posa,
squilla altissimo il canto, e l'aspo gira.

E gira l'aspo che un fil tenue d'oro
turbina senza fine. — Oh drappi insigni
che intorno a spalle d'opulenza altere
trionferanno! Oh serico tesoro
cedente a seni che il candor dei cigni
svelano in danza, ansando di piacere! —
E gira raspo, e delle grame schiere
seconda il canto l'opra faticosa,
mentre, qual fiamma che giammai non posa,
splende l'aurea matassa, e l'aspo gira.


CASTIGLIONCELLO
(ad Aurelio Ugolini),
Presto, Aurelio, verrò. Da che le piogge
desdatrici e il vastator libeccio
spopolarono il golfo peschereccio
e fecero sprangar cancelli e logge,

non mai sì dolce al mite solicello
e al silenzio de' candidi villini
mi richiamò, col mormorio dei pini
e con l'urlo del mar, Castiglioncello.

Presto verrò. Quelle armonie diffuse
vinceran forse il tedio che m'ingombra,
e tornerò poeta, io, qui nell' ombra,
troppo oblioso delle alate Muse.

Verrò da questa fredda ombra. Ho bisogno
della luce infinita. — Oh, alla grand'aria,
dalla medicea torre solitaria,
fra cielo e acqua spaziar nel sogno!

Oh ancor sognare, fra gli urli ben noti
delle maree, nella schiumante baia,
in faccia all'Elba, al Giglio, alla Capraia,
ai monti della Corsica remoti!

Sognar nel roseo lume onde a' tramonti
Rosignano sfavilla alto e corusco,
onde splendono, fino al lido etrusco
dì Populonia, tutte l'acque e i monti,

e risentirmi vivo, in quell'assenza
d'ogni vivente! — Aurelio, questo bianco
raggio d'ottobre che traluce stanco
da tanta di vapori evanescenza,

questo languido raggio che m'accese
d'improvvisa letizia, io vo' goderlo
fra i nostri vepri dove fischia il merlo
e fioriscon le rose d'ogni mese.

fra i canneti che crosciano a' rovai,
fra i tamarisci che scolora autunno,
mentre tu, dolce de' miei ozi alunno,
ridirai gl'inni che a' bei dì cantai.

Lo so, lo so: la pergola dell'orto,
già di pampinei grappoli sì grave,
non ha più ombre; ben lo so che ignave
pendon le braccia sue nel sole smorto.

Ma, sempre verde in sua fronda perenne,
alla luce infinita e alla grand'aria
dalla medicea torre solitaria
chiama ancora la gran selva contenne,

la gran selva dei pini, il gran viale
che su l'estatica anima pacata
s'inarca austero, come la navata
d'una selvaggia immensa cattedrale.

Ed io verrò, da questo freddo e putre
tedio, a' miei secolari alberi soli,
che, giocondi di musiche, di voli
e di fragranze, la pia terra nutre.

Al gran tempio verrò, dove adorare
possa io pur anche l'Iside infinita,
dalla navata altissima, romita,
piena del sacro cantico del mare.

RILEGGENDO GOLDONI
(da Montenero Livornese).

Fra queste verdi ombrìe, dove inquieta
s'ebbe Rosaura la villeggiatura,
padre Goldoni, a te ritorno; e in pura
festività l'anima mia s'allieta.

Ritorno a te. Con viavai giocondo
passanmi innanzi, come in uno specchio,
parrucche e code e guardinfanti e sfoggi
di ciondoli e d'inchini. Ed è il tuo mondo,
padre Goldoni, incipriato e vecchio,
che vivo intorno mi risuscita oggi.
Son le figure e i casi ond'anche i poggi
di Montenero a popolar venisti,
fuggendo i botoletti irosi e tristi
fra queste verdi ombrìe, stanco Poeta!

CAMPAGNA ETRUSCA.

Sotto la pioggia smuore la vallata
di squallide biancane desolata.
Dal monte al piano, ove caliga in lente
fumee perpetue la bassura ignava,
dal mar brumoso alla città silente
su cui tant'ombra e tanto secol grava,
sotto la pioggia che le crete lava
smuore in silenzio la campagna ondata.

Smuore e vanisce la maremma informe,
in suo color di cenere e di lava
su i sonni che la vecchia Etruria dorme
negl'ipogei, misteriosa e cava,

sotto le crete che la pioggia lava
tacita, trista, assidua, gelata.
Sotto la pioggia smuore la vallata
delle sue poche fronde già sfrondata.

ANELITO.

Né mai vi miro di perpetui geli
inargentate, o rupi di granito,
senza che il cuore all'alto e all'infinito
con novo intenso desiderio aneli.

vertici dell'Alpe intatta e bianca
da cui le inferiori onde dei monti
appaion come valli umili intorno;
altissimi ghiacciai dove si stanca
la saltante camozza, ove a' tramonti
s'indugia in lunghe iridescenze il giorno:
sempre, sempre da questo imo soggiorno
sospiro a voi, serenità superne,
ove il silenzio delle nevi eterne
confina col silenzio alto dei cieli.

FINE DEI SOGNI.

La luna impallidita
langue nel ciel profondo
velando l'infinita
malinconia del mondo.

Languon sul mar deserto
le stelle sonnolente;
spunta un barlume incerto
dal balzo d'oriente.



Nubi leggere e bianche
sfuman per l'aria scialba,
e migrano le stanche
ale de' sogni. — E' l'alba.

HEROICA.

UN NOVO MARTIRE
(XX Decembre 1882).

Fu dunque un sogno! Ci credemmo liberi
d'ogni viltà, d'ogni servii tremore,
e all'improvviso ci percote l'anima
delle vecchie tirannidi il terrore.

Su, su, dormenti! I giovinetti, i martiri
in pieno sole pendono strozzati.
Su, sognatori, che le madri italiche
tramortiscon su' Tigli assassinati!

Chi te lo disse, o generoso Enotrie,
che il mondo è bello e l'avvenire è santo?...
Oh ancora, ancora al gran mare de' secoli
fluiscon rii di sangue e rii di pianto!

Oh, nell'evo civile, in mezzo ai simili
nostri, non anche ci sentiam fratelli,
e ci guardiam silenziosi e pallidi,
despoti e schiavi ancor, lupi ed agnelli.

E quando a noi dell'amor nostro i parvoli
sorrideranno con chiassosa gioia,
noi tremeremo di vederli crescere
pieni di vita, e penseremo al bora!


Ahi ma non più dovrai tremare, o povera
vedova, tu, pel tuo figliol diletto;
non tremerai pel tuo Guglielmo eroico
che tu nudristi del tuo santo petto.

Gli avevan messa la livrea dell'Austria,
a lui d'Italia gentil cuor devoto:
ei la gittò, risalutò con l'ultimo
grido la patria, e penzolò nel vuoto...

madre d'un eroe, madre d'un martire,
il tuo dolore, il capo tuo ci è sacro.
Oh sia quel sangue e questo pianto italico
d'ogni vergogna nostra almen lavacro!

Oh almen si terga in un fiume di lacrime
ogni viltà, sin che la forca impera!
Pianto vuol pianto, e piangeranno i despoti
quando li colga la fatai bufera;

quando dai ghiacci e dalle steppe asiatiche,
dalle miniere ove la Russia scava
tombe a' poeti ed agli eroi, terribile
proromperà la gran bufera slava,

e correrà la terra, ed i patiboli
schianterà tutti, e scoverà ogni belva,
e come procellosa acqua di maggio
rinnoverà l'insanguinata selva

del mondo. Allor con l'ultime macerie
del medio evo inalzerem trofei
su le fosse ove dormono i magnanimi,
su la fossa, o Guglielmo, ove tu sei.


E tutti i colli fioriranno lauri
pei grandi morti, e in ogni plaga il sole
sopra le vostre tombe, o madri eroiche,
educherà perpetue viole.

E gloriate dal sole dei liberi
e di libero pianto, o madri, asperse,
splenderan, benedette are ne' secoli,
le oscure tombe che il dolor v'aperse.


RAPSODIA GARIBALDINA
(1849).

I.

Alto a cavallo, mentre il sol dilegua
dietro i templi dell'Urbe, alla Coorte
Garibaldi parlò: — Nessuna tregua -

Lascio Roma, che cede oggi al più forte,
ma non lascio la guerra. Volontari:
v'offro fame, battaglie, agguati, morte.

Chi vuol, mi segua. — E al Duce, fra gli spari
delle francesi artiglierie più fitti,
si strinsero, acclamando, i Legionari.

E quel lacero gruppo di sconfitti,
quel mitragliato avanzo, ultimo e stanco,
d'audacie eroiche, d'epici conflitti,

mosse via dietro Lui, via dietro il bianco
poncio del Duce, cui l'invitta Annita
tacitamente cavalcava al fianco.


Debole e incinta, pallida e sfiorita,
l'ardita Donna, dall'Eroe travolta
nel turbinoso vol della sua vita,

seguì ombra fedele anche una volta
l'Eroe suo biondo in quella tragica ora,
in quella notte perigliosa e folta,

verso l'ignoto. Come rossa aurora
boreale, nel buio, qualche tetro
baglior d'incendio fiammeggiava ancora,

e, quasi faro di trionfo dietro
lo stuol fuggiasco, ne splendea per l'aria
la ieratica volta di San Pietro.

Durò tutta la notte, obliqua e varia,
sfuggendo alle vittrici soldatesche,
la taciturna marcia leggendaria ;

fin che all'alba sostò su tra le fresche
tiburtine ombre, fluttuando il piano
di baionette ispaniche e tedesche,

dense nei campi come a giugno il grano.

II.

Nel silenzio di Tivoli, già insigne
di sacre Muse ospizio, tra sfumate
di pallido vapor solvette e vigne,

crosciava alla quieta alba d'estate
l'Anio spumante, memore d'Orazio,
chiamando al fresco delle sue cascate;


e per l'ultima volta, in breve spazio
sparsa fra il verde, bivaccò, la schiera
di Garibaldi sotto il ciel del Lazio:

mentre Egli, in faccia alla velata austera
del pian malinconia fermo in arcione,
(né un soffio gli movea l'aurea criniera)

guardava assorto nella visione
del gran sogno di Roma, consacrato
dal miglior sangue della sua Legione.

E rivide, per quel sogno, l'alato
impeto di Mameli e di Montaldi
procomber su lo spaldo fulminato;

e sanguinar Manara co' suoi baldi
bersaglieri piumati un contro mille,
fra una selva di punte immoti e saldi;

e cascar Bixio, ardente come Achille,
e Morosini piegar come un giglio,
e Villa Spada in cenere e in faville,

e Roma vinta.... Fumido e vermiglio
il sole uscìa, fra umidi vapori,
sul mesto agro di Roma e sul periglio

del Cavaliere suo. Con precursori
lampi appressavan, rapida minaccia,
le baionette dei trionfatori.

E lo stuolo fuggiasco, senza traccia
lasciar di sé, come uno stuol di larve,
dinanzi all'oste sguinzagliata in caccia,


dall'opposto pendio spese, e disparve.

III.

Tutto quel luglio andò così, più scarsa
di giorno in giorno, la fedel Coorte,
trafelata, affamata, assetata, arsa,

da quattro eserciti inseguita a morte
fra gente ostil, fra l'odio e la paura
che le sbarravano in faccia le porte

come a masnada di briganti, in dura
continua marcia sotto lo stellato,
sotto la fiamma della gran caldura,

via, d'ansia in ansia, d'agguato in agguato,
per impervio selvaggio erto cammino,
dietro al suo Duce come dietro al Fato,

che nel cor di quel Duce era il destino
d'Italia. Per la verde Umbria selvosa
valicò ansando l'eremo Appennino;

minò col Metauro in tortuosa
corsa pei greppi verso l'Adria gialli,
pei borri della Marca montuosa;

scese, ascese, ristette: e all'ime valli
ogni sbocco chiudean, presso e lontano,
siepi di sciabole irte e di cavalli.

Come accerchiata belva, il Capitano
sta fra il bosco d'acciar che lo circonda,
a te guardando, o arduo Titano;


e per quel bosco minaccioso a fonda
notte serpendo, attinge cauto a volo
la tua libera vetta al sol gioconda.

Primo, davanti allo sbandato stuolo,
reggendo Annita sua egra e sfinita,
salutò San Marino, ospite suolo.

Poi calò al mare. A nova corsa ardita
pochi animosi or ne seguìano i passi;
ma gli batteva accanto il cuor d'Annita,

e un gran cuore di martire: Ugo Bassi.

IV.

L'Austria bandì: — Sarà pagata a peso
d'oro la testa del filibustiere
Giuseppe Garibaldi. Chi sia preso,

in mare o in terra, ai monti o alle costiere,
della sua banda, e chi ricetti o aiuti
quei campati alle forche e alle galere,

sarà impiccato. — Ed ecco verso i muti
lidi, dall'Adria che solingo fiotta
e dalle ronde austriache battuti,

ecco arrancare un palischermo in lotta
con la grossa marea, ferocemente
cannoneggiato dall'austriaca flotta;

ed ecco, a notte, su le sonnolente
dune gittarsi un naufrago, portando
sopra le braccia una donna morente,


e cacciarsi nei buio. A quando a quando
fra le cannucce e il brago della valle
palustre affonda, arrestasi alenando.

E Garibaldi sentesi alle spalle
la pesta dei gendarmi e dei croati,
sente, nell'ombra, sibili di palle.

E va e va, cercando agli assetati
labbri d'Annita un gocciol d'acqua nelle
profondità dei botri e dei fossati,

un gocciolo di fresca acqua per quelle
fauci anelanti che la febbre asciuga
nell'afa della notte senza stelle.

E va e va, mentre la ronda fruga
ogni frasca ogni covo ogni romito
angolo. Non più corsa, ora, ma fuga:

fuga di cauto leone inseguito
che si rimbosca, cupido di strage,
contenendo nel gran petto il ruggito,

e sbarrando nel buio occhi di brage.

V.

E Annita muore. Quella bruna testa,
che passò fra i baleni alta e tranquilla
sotto un perpetuo rombo di tempesta,

langue riversa, mentre il vespro brilla,
sopra un guancial pietoso, aprendo immota
sul dolce Eroe la vitrea pupilla.

Fisando ancor la cara faccia nota,
ecco velarsi l'occhio moribondo
che in una lenta lacrima le nuota,

e tutto a quel velato occhio profondo
impallidire su la ravegnana
pineta il cielo e scolorire il mondo.

Come un lamento d'anima lontana,
nella penombra che quieta scende,
piange per l'aria un pianto di campana.

Annita muore. Levasi e s'accende
quel cereo viso a un tratto: al guardo inerte
forse un'estrema vision risplende.

Oh verdi, interminabili, deserte
distese della Pampa! oh pascolanti
saure, del fren della sua mano esperte!

Ivi ella crebbe con 1'alte erbe ondanti
ivi Ei le apparve, biondo come il sole,
e la guardò con gli occhi scintillanti....

Sfumavasi in pallori di viole
l'adriaco vespro, e all'amor suo sul petto,
fra quell'umili mura ignote e sole,

ella piegò. Con ansioso affetto
Ei la chiamò, chiamò con passione
impetuosa il bel nome diletto;

e in desolata disperazione
la violenza del compresso duolo
dal cor gli uscì. Quel core di leone

poteva ormai ben piangere: era solo.

PIANTO D'ITALIA
(XXIX Luglio 1900).

Pianto d'Italia che, in un solo e altissimo
grido atterrito,
da castella e città rompi, fra gì'itali
mari, infinito;

pianto che dalla Reggia esci in un gemito
pio di preghiera,
e per l'italo ciel corri con rapido
voi di bufera:

lava tu il sangue che sgorgò purpureo
da tre ferite
aperte a tradimento nel magnanimo
cuor del Re mite!

E tu, silenzio tragico dell'inclita
Urbe, ove il flutto
di questo grande pianto della Patria.
versasi tutto,

or tu, silenzio d'un percosso e pallido
popol che abbassa
la fronte costernata innanzi al feretro
del Re che passa.

parla tu, meglio d'ogni voce, e pregagli
nell'ora oscura:
— Pace, degno de' tuoi. Re senza macchia,
senza paura ! —

EPILOOO.

HARMONIA.

E il sognatore ascolta. Traversano la tenebra
ale di canto, ondate di melodia dispersa,
e a larghi sorsi ei beve l'indefinibil murmure
che spira, alito enorme, dall'anima universa.

Guarda ove par che ondeggi, nell'alte solitudini,
il coro d'altre genti, l'eco d'arcane età,
ove udì Dante e vide dai cieli infaticabili
d'infaticabil canto sonar l'Eternità.

Sente il poeta l'eco misteriosa, il palpito
dell'armonia che gli astri perennemente gira,
e a voi rapisce, in ritmo di sapienti musiche,
suoni alla terra e al cielo come a un'immensa lira.

Come a una lira immensa, rapisce accordi all'intimo
concento delle cose che nel suo cor vibrò,
e ode per gli azzurri silenziosi ascendere
la sinfonia de' sogni che l'anima sognò.