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I TRASTULLI

ALLEGORIA

Il Piacere, che nel giardino del tatto sta in compagnia della Lascivia, allude alla scelerata opinione di coloro che posero il sommo bene ne’ diletti sensuali. Adone che si spoglia e lava, significa l’uomo che, datosi in preda alle carnalità e attuffandosi dentro l’acque del senso, rimane ignudo e privo degli abiti buoni e virtuosi. I vezzi di Venere, che con essolui si trastulla, vogliono inferire le lusinghe della carne licenziosa e sfacciata, laquale ama e accarezza volentieri il diletto.

ARGOMENTO

Perviene Adone ale delizie estreme
e, prendendo tra lor dolce trastullo,
l’innamorata diva e ‘l bel fanciullo
ala meta d’amor giungono insieme.

1
Giovani amanti e donne innamorate
in cui ferve d’amor dolce desio,
per voi scrivo, a voi parlo, or voi prestate
favorevoli orecchie al cantar mio.
Esser non può ch’ala canuta etate
abbia punto a giovar quelche cant’io;
fugga di piacer vano esca soave
bianco crin, crespa fronte e ciglio grave.
2
Spesso la curva e debile vecchiezza,
che gelate ha le vene e l’ossa vote,
incapace del’ultima dolcezza
aborre quel, che conseguir non pote;
uom non atto ad amar, disama e sprezza
anco il tenor del’amorose note
e ‘l ben che di goder si vieta a lui
per invidia dannar suole in altrui.
3
Lunge, deh! lunge, alme severe e schive
dala mia molle e lusinghiera musa!
da poesie sì tenere e lascive
incorrotta onestà vadane esclusa.
Ah! non venga a biasmar quant’ella scrive
d’implacabil censor rigida accusa,
la cui calunnia con maligne emende
le cose irriprensibili riprende.
4
Di poema moral gravi concetti
udir non speri ipocrisia ritrosa,
che, notando nel ben solo i difetti,
suol cor la spina e rifiutar la rosa.
So che, fra le delizie e fra i diletti
degli scherzi innocenti, alma amorosa
cautamente trattar saprà per gioco,
senza incendio o ferita, il ferro e ‘l foco.
5
Suggon l’istesso fior ne’ prati iblei
ape benigna e vipera crudele,
e, secondo gl’instinti o buoni o rei,
l’una in tosco il converte e l’altra in mele.
Or s’averrà ch’alcun da’ versi miei
concepisca veleno e tragga fele,
altri forse sarà men fiero ed empio
che raccolga da lor frutto d’essempio.
6
Sia modesto l’autor; che sien le carte
men pudiche talor, curar non deve.
L’uso de’ vezzi e ‘l vaneggiar del’arte
o non è colpa, o pur la colpa è lieve.
Chi, dale rime mie, d’amor consparte,
vergogna miete o scandalo riceve,
condanni o scusi il giovenile errore,
ché, s’oscena è la penna, è casto il core.
7
Già sergenti ed ancelle avean levati
dale candide nappe i nappi d’oro,
in cui di cibi eletti e dilicati
i duo presi d’amor preser ristoro;
onde, poich’a versar fiumi odorati
venne l’aureo baccin tra le man loro,
sula mensa volò lieta e fiorita
il bianco bisso ad asciugar le dita.
8
Allor, dal seggio suo Venere sorta,
verso l’ultima torre adduce Adone.
Vien tosto a disserrar l’aurata porta
l’ostier del’amenissima magione.
Ignudo ha il manco braccio, e l’unghia torta
v’affige dentro e stringelo un falcone.
Le talpe, le testudini e l’aragne
son sempre di costui fide compagne.
9
Chiuso nel’ampio e ben capace seno
è quel giardin dela maestra torre,
degli altri assai più spazioso e pieno
di quante seppe Amor gioie raccorre.
Un largo cerchio e di bell’ombre ameno
vien un teatro sferico a comporre,
che, col gran cinto del’eccelse mura,
protege la gratissima verdura.
10
Adon va innanzi e par che novo affetto
d’amorosa dolcezza il cor gli stringa.
Non fu mai d’atto molle osceno oggetto
che quivi agli occhi suoi non si dipinga:
sembianti di lascivia e di diletto,
simulacri di vezzo e di lusinga,
trastulli, amori, o fermi il guardo o giri,
gli son sempre presenti, ovunque miri.
11
Sembra il felice e dilettoso loco
pien d’angelica festa un paradiso.
Spira quivi il Sospiro aure di foco,
vaneggia il Guardo e lussureggia il Riso.
Corre a baciarsi con lo Scherzo il Gioco.
Stassi il Diletto in grembo al Vezzo assiso.
Scaccia lunge il Piacer con una sferza
le gravi Cure e col Trastullo scherza.
12
Chino la fronte e con lo sguardo a terra
l’amoroso Pensier rode sestesso.
Chiede conforto al Duol, pace ala Guerra
il Prego, in atto supplice e dimesso.
Scopre negli occhi quelche ‘l petto serra
il Cenno, del Desir tacito messo.
Sporge le labra e l’altrui labra sugge
il Bacio e, nel baciar, sestesso strugge.
13
Sta l’Adulazion sovra le soglie
del dolce albergo e ‘l peregrin vi guida.
La Promessa l’invita e ‘n guardia il toglie,
la Gioia l’accompagna e par che rida.
La Vanità ciascun che v’entra accoglie
e la Credenza ogni ritroso affida.
La Ricchezza, di porpore vestita,
superbamente i suoi tesor gli addita.
14
Havvi l’Ozio che langue e si riposa,
lento ed agiato, e in ogni passo siede.
Pigro e con fronte stupida e gravosa
seguelo il Sonno e mal sostiensi in piede.
Ordir di giglio, incatenar di rosa
fregi al suo crin la Gioventù si vede.
Seco strette ha per mano in compagnia
Beltà, Grazia, Vaghezza e Leggiadria.
15
Con l’ingordo Desio ne vien la Speme,
Perfida, adulatrice e lusinghiera.
Mascherati la faccia, errano insieme
l’accorto Inganno e la Menzogna in schiera.
Sparsa le chiome insu la fronte estreme
fuggendo va l’Occasion leggiera.
Balla per mezzo la Letizia stolta,
salta per tutto la Licenzia sciolta.
16
L’esca e ‘l focile in man, sfacciata putta,
tien la Lussuria ed al’Infamia applaude.
Baldanzosa l’Infamia, ignuda tutta,
non apprezza e non cura onore o laude.
Le serpi dela chioma orrida e brutta
copre di vaghi fior l’astuta Fraude
e ‘l velen dela lingua aspro ed atroce,
di dolce riso e mansueta voce.
17
Tremar l’Audacia ai primi furti e starsi
vedi smorto il Pallor caro agli amanti.
Volan con lievi penne in aria sparsi
gli Spergiuri d’amor vani e vaganti.
Con l’Ire molli e facili a placarsi
van le dubbie Vigilie e i rozzi Pianti
e le gioconde e placide Paure
e le Gioie interrotte e non secure.
18
Ride la terra qui, cantan gli augelli,
danzano i fiori e suonano le fronde,
sospiran l’aure e piangono i ruscelli,
ai pianti, ai canti, ai suoni Eco risponde.
Aman le fere ancor tra gli arboscelli,
amano i pesci entro le gelid’onde,
le pietre istesse e l’ombre di quel loco
spirano spirti d’amoroso foco.
19
– A dio, ti lascio; omai fin qui (di Giove
disse là giunto il messaggier sagace)
per ignote contrade ed a te nove
averti scorto, o bell’Adon, mi piace.
Eccoci alfine insu ‘l confin, là dove
ogni guerra d’amor termina in pace.
Di quel senso gentil questa è la sede,
a cui sol di certezza ogni altro cede.
20
Ogni altro senso può ben di leggiero
deluso esser talor da’ falsi oggetti;
questo sol no loqual sempr’è del vero
fido ministro, e padre de’ diletti.
Gli altri, non possedendo il corpo intero,
ma qualche parte sol, non son perfetti;
questo, con atto universal, distende
le sue forze pertutto e tutto il prende.
21
Vorrei parlarne, e ti verrei solvendo
più d’un dubbio sottil dele mie scole;
ma tempo è da tacer, ch’io ben comprendo
che la maestra tua non vuol parole.
Io qui rimango, ad Erse mia tessendo
ghirlandetta di mirti e di viole.
Tu vanne e godi. Io so che ‘n tanta gioia
qualunque compagnia ti fora a noia. –
22
Con un cenno cotal di ghigno astuto
si rivolse a Ciprigna in questo dire;
poi smarrissi da lor, siché veduto
non fu per più d’un dì, fino al’uscire.
Ma pria che desse l’ultimo saluto
ai due focosi amanti insu ‘l partire,
del’un e l’altro, in pegno di mercede,
giunse le destre e gl’impalmò per fede.
23
Restar soletti in quell’orror frondoso
poiché Mercurio dipartissi e tacque.
Rigava un fonte il vicin margo erboso
in cui forte Natura si compiacque.
L’acque innaffiano il bosco e ‘l bosco ombroso
specchia sestesso entro le limpid’acque,
talch’un giardino in duo giardin distinto
vi si vedea, l’un vero e l’altro finto.
24
Porta da questo fonte umile e lento
per torto solco il picciol corno un rio.
Parria vero cristallo e vero argento,
senon sene sentisse il mormorio.
D’oro ha l’arene, e quindi è sempre intento
di sua mano a raccorlo il cieco dio,
onde fabrica poi gli aurati strali,
strazio immortal de’ miseri mortali.
25
In duo rivi gemelli si dirama
l’amoroso ruscel: l’uno è di mele,
pien di quanta dolcezza il gusto brama,
l’altro corrompe il mel di tosco e fele,
quel fel, quel tosco ond’armò già la Fama
l’aspre saette del’arcier crudele.
Crudel arcier, ch’anco il materno seno
infettò d’amarissimo veleno.
26
Dal velenoso e torbido compagno
sen va diviso il fiumicel melato,
onde per canal d’or più d’un rigagno
verga di belle linee il verde prato
e sboccan tutte in un secreto bagno
che nel centro del bosco è fabricato.
Di questo bagno morbido e soave
la Lascivia e ‘l Piacer tengon la chiave.
27
Siede al’uscio il Piacer di quell’albergo
con la Lascivia a trastullarsi inteso,
garzon di varia piuma alato il tergo,
ridente il volto e di faville acceso;
l’aurato scudo, il colorato usbergo
giacegli inutilmente a piè disteso;
torpe tra’ fior, pacifico guerriero,
l’elmo, ch’una sirena ha per cimiero.
28
Curvo arpicordo da’ vicini rami
pende e spesso dal’aura ha moto e spirto.
D’ambra tersa e sottile in biondi stami
forcheggia il crine intortigliato ed irto,
tutto impacciato di lacciuoli e d’ami,
di fresca rosa e di fiorito mirto.
Arco di bella e varia luce adorno
li fa diadema in testa, iride intorno.
29
Né di men bella o men serena faccia
mostrasi in grembo a lui la lusinghiera;
di viti e d’edre i capei d’oro allaccia,
di canuti armellin guarda una schiera.
Un capro a lato e con la destra abbraccia
il collo d’una libica pantera;
regge con l’altra ad un troncon vicino
ammiraglio lucente e cristallino.
30
Quivi al venir d’Adone e Citerea,
componendo del crin le ciocche erranti,
i dolcissimi folgori tergea
dele luci umidette e scintillanti.
Spesso a un nido di passere volgea,
che sul’arbor garrian, gli occhi incostanti
e la succinta, anzi discinta, gonna
scorciava più che non conviensi a donna.
31
Feriro il bell’Adon di meraviglia
quelle forme vezzose e lascivette,
e, con l’alma sospesa insu le ciglia,
a contemplarle immobile ristette.
Ella, d’un bel rossor tutta vermiglia,
impedita da scherzi e lusinghette,
col suo drudo per man dal’erba sorse
ed al donzel che l’incontrava occorse.
32
Vergata a liste d’or candida tela
di sottil seta e di filato argento
vela le belle membra e, quasi vela,
si gonfia in onde e si dilata al vento,
e l’interno soppanno apre e rivela,
tra’ suoi volazzi, in cento giri e cento.
Crespa le rughe il lembo e non ben chiude
l’estremità dele bellezze ignude.
33
Dal’ali del’orecchie ingiù pendente
di due perle gemelle il peso porta.
Sostiene il peso, di fin or lucente,
sferica verga in picciol’orbe attorta.
Di smeraldi cader vezzo serpente
si lascia al sen con negligenza accorta
e dela bianca man, ch’ad arte stende,
d’indiche fiamme il vivo latte accende.
34
Dal’estivo calor, che mentre bolle
le ‘nfiamma il volto d’un incendio greve,
schermo si fa d’un istromento molle
di piuma vie più candida che neve
e, per gonfiar di sua superbia folle
con doppio vento il vano fasto e lieve,
v’ha di cristallo oriental commessi
duo specchi in mezzo, e si vagheggia in essi.
35
Tese costei sue reti al vago Adone,
ogni atto er’amo, ogni parola strale.
Rompea talor nel mezzo il suo sermone
languidamente e con dolcezza tale
che ‘l diamante spezzar dela ragione
potea, nonché del senso il vetro frale.
Parlava, e ‘l suo parlar tronco e diviso
fregiava or d’un sospiro, or d’un sorriso.
36
– Se quanto di beltà nel volto mostri
tanto di cortesia chiudi nel petto,
ché tal certo (diss’ella) agli occhi nostri
argomento di te porge l’aspetto,
venirti a sollazzar ne’ chiusi chiostri
non sdegnerai di quel beato tetto.
Nel tetto là ch’io ti disegno a dito,
come degno ne sei, sarai servito.
37
Questi è quei, se nol sai, ch’altrui concede
quel ben che può far gli uomini felici.
Ognuno il cerca, ognuno il brama e chiede,
usan tutti per lui vari artifici.
Chi ritrovar nele ricchezze il crede,
chi nele dignità, chi negli amici,
ma raro il piè da quest’albergo ei move,
né, fuorché nel mio grembo, abita altrove.
38
Del sozzo vaso, ov’ogni mal s’accoglie,
apena uscì che fu chiamato in cielo;
ma gli convenne pria depor le spoglie,
talch’ignudo v’andò senz’alcun velo.
Scende dal ciel sovente in queste soglie
dov’io gelosa agli occhi indegni il celo,
il celo altrui con ogni industria ed arte,
solo a qualche mio caro io ne fo parte.
39
Quando volò nel’immortal soggiorno,
nacque nel mondo un temerario errore;
del manto ch’ei lasciò si fece adorno
un aversario suo, detto Dolore;
questi sen va con le sue vesti intorno,
siché ‘l somiglia al’abito di fore;
onde ciascun mortal, preso al’inganno,
invece del Piacer segue l’Affanno.
40
Io on poi sua compagna, io son colei
che volgo in gioia ogni travaglio e duolo.
Da noi soli aver puoi, se saggio sei,
quel piacer de’ piacer ch’al mondo è solo.
De’ suoi seguaci e de’ seguaci miei
è quasi innumerabile lo stuolo;
né tu dei men felice esser di questi,
poiché giunger tant’oltre oggi potesti.
41
Qui lavarti conviene. A ciò t’invita
il loco agiato e la stagion cocente.
Nostra legge il richiede e la fiorita
tua bellezza ed etate anco il consente.
Ma più quella beltà che teco unita,
teco, o te fortunato, arde egualmente.
Non entra in questa casa, in questo bosco
chi non vaneggia e non folleggia nosco. –
42
A queste parolette Adon confuso
nulla risponde e taciturno stassi,
ch’a tenerezze tante ancor non uso
tien dimessa la fronte e gli occhi bassi.
Ma da più ninfe è circondato e chiuso
che non voglion soffrir ch’innanzi passi.
Qual dal bel fianco la faretra scioglie,
qual gli trae la cintura e qual le spoglie.
43
Al’importuno stuol che l’incatena
non senza scorno il giovinetto cede
e, salvo un lento vel che ‘l copre apena,
nudo si trova dala testa al piede.
Gira la vista allor lieta e serena
ala sua diva, e nuda anco la vede,
ch’ogni sua parte più secreta e chiusa
confessa agli occhi ed ala selva accusa.
44
Ella tra ‘l verde del’ombrosa chiostra
vergognosetta trattasi in disparte,
sue guardinghe bellezze or cela or mostra,
fa di sestessa inun rapina e parte;
impallidisce, indi i pallori inostra,
sembra caso ogni gesto ed è tutt’arte;
giungon vaghezza ai vaghi membri ignudi
consigliati disprezzi, incolti studi.
45
Copriala aprova ogni arboscel selvaggio
con braccia di frondosa ombra conteste,
peroché ‘l sol con curioso raggio
spiar volea quella beltà celeste.
Videsi di dolcezza ancora il faggio,
il faggio, onde pendean l’arco e la veste,
non possendo capir quasi in sestesso
far più germogli e divenir più spesso.
46
Il groppo allor che ‘nsu la fronte accolto
stringea del crine il lucido tesoro,
con la candida man lentato e sciolto
sparse Ciprigna in un diluvio d’oro,
onde, a guisa d’un vel dorato e folto
celando il bianco sen tra l’onde loro,
in mille minutissimi ruscelli
dal capo scaturir gli aurei capelli.
47
Celò ‘l bel sen con l’aureo vel, ma come
appiattando la testa in cespo erboso
invan l’augel che trae di Fasi il nome
crede tutto a chi ‘l mira essersi ascoso,
così, seben dele diffuse chiome
fece al’altre bellezze un manto ombroso,
scopriva intanto infra quell’ombre aurate
sol nel sol de’ begli occhi ogni beltate.
48
Oltre che di quel sol chiaro e sereno
quella nube gentil non splendea manco.
Ella pur cerca or il leggiadro seno
velarsi, or il bel tergol or il bel fianco;
ma le fila del’or tenersi a freno
sul’avorio non san, lubrico e bianco
e quelche di coprir la man si sforza,
audace venticel discopre a forza.
49
Vanno al gran bagno. Or dal’antiche carte
di Baia e Cuma il paragon si taccia.
In un quadro perfetto è con bell’arte
disposto, ed ogni fronte è cento braccia,
di ben commodi alberghi in ogni parte
cinto, e tre ne contien per ogni faccia;
camere e logge in triplicata fila
vistanno ed ogni stanza ha la sua pila.
50
In mezzo al’edificio alto si scorge
piantato di diaspro un gran pilastro
per le cui vene interne il fonte sorge,
forate sì da diligente mastro
che per dodici canne intorno porge
l’acque in vasi d’acate e d’alabastro.
È d’argento ogni canna assai ben tersa,
come d’argento son l’acque che versa.
51
Vansi l’acque a versar, ma pigre e lente,
in ampie conche di forbiti sassi,
siché raccor si può l’umor cadente
dal’ordin primo de’ balcon più bassi.
Pigra dico sen va l’onda lucente
e move tardi i cristallini passi
che ‘n sì ricco canal mentre s’aggira,
le sue delizie ambiziosa ammira.
52
E quindi poscia per occulta tromba
a sua propria magion passa ciascuna,
e, traboccando con fragor, rimbomba,
tanto lucida più quanto più bruna.
Rassembra ogni magion spelonca o tomba,
par la luce del sol luce di luna.
Pallido v’entra per anguste vie,
tanto che non v’è notte e non v’è die.
53
Il portico a cui l’onda in grembo piove
serie di curvi fornici sostiene.
Fregiano il muro interior là dove
l’umido gorgo a scaricar si viene,
marmi dipinti in strane fogge e nove
di belle macchie e di lucenti vene.
Lusingan d’ognintorno i bei riposi
covili opachi e molli seggi ombrosi.
54
Ma null’opra mortal l’arte infinita
dela cava testudine pareggia,
che di pietre mirabili arricchita
splende, e gemma plebea non vi lampeggia:
v’ha quelche ‘l ciel, v’ha quelche l’erba imita,
v’ha quelch’emulo al foco arde e rosseggia;
stucchi non v’ha, ma di sottil lavoro
smalti sol coloriti in lame d’oro.
55
Tra’ bei confin dele gemmate rive
sì serena traspar l’onda raccolta
che i non suoi fregi usurpa, e ‘n sé descrive
tutti gli onor dela superba volta.
Non tanto forse in sì bell’acque e vive
sdegneria Cinzia esser veduta e colta;
forse in acque sì belle il suo bel viso
meglio ameria di vagheggiar Narciso.
56
Quinci, penso, adivien che la loquace
già ninfa che per lui muta si tacque,
d’abitar, fatta voce, or si compiace
dov’ei di vaneggiar già si compiacque.
Quivi de’ detti estremi ombra seguace
d’arco in arco lontan fugge per l’acque;
e, qual d’Olimpia entro l’eccelsa mole,
moltiplica risposte ale parole.
57
Venne allor l’una coppia, e l’altra scorse
de’ bei lavacri al più vicin recesso;
né molto andò che quindi uscir s’accorse
d’accenti e baci un fremito sommesso.
Adone a quella parte il passo torse
tanto che per veder si fè dapresso.
Vide, e gli cadder gli occhi in fondo al fonte
tanta vergogna gli gravò la fronte.
58
Su la sponda d’un letto ha quivi scorto
libidinoso satiro e lascivo
ch’a bellissima ninfa in braccio attorto
il fior d’ogni piacer coglie furtivo.
Del bel tenero fianco al suo conforto
palpa con una man l’avorio vivo,
con l’altra, ch’ad altr’opra intenta accosta,
tenta parte più dolce e più riposta.
59
Tra’ noderosi e nerboruti amplessi
del robusto amator la giovinetta
geme, e con occhi languidi e dimessi
dispettosa si mostra e sdegnosetta.
Il viso invola ai baci ingordi e spessi,
e nega il dolce, e più negando alletta;
ma mentre si sottragge e gliel contende,
nele scaltre repulse i baci rende.
60
Ritrosa a studio e con sciocchezze accorte
svilupparsi da lui talor s’infinge,
e ‘ntanto tra le ruvide ritorte
più s’incatena e più l’annoda e cinge,
in guisa tal che non giamai più forte
spranga legno con legno, inchioda e stringe.
Flora non so, non so se Frine o Taide
trovar mai seppe oscenità sì laide.
61
Serpe nel petto giovenile e vago
l’alto piacer del’impudica vista,
ch’ale forze d’Amor tiranno e mago
esser non può ch’un debil cor resista;
anzi dal’esca dela dolce imago
l’incitato desio vigore acquista;
e, stimulato al natural suo corso,
meraviglia non fia se rompe il morso.
62
E la sua dea, che d’amorosi nodi
ha stretto il core, a seguitarlo intenta,
con detti arguti e con astuti modi
pur tra via motteggiando il punge e tenta:
– Godi pur (dicea seco) il frutto godi
de’ tuoi dolci sospir, coppia contenta.
Sospir ben sparsi e ben versati pianti,
felici amori e più felici amanti!
63
Sia fortuna per voi. Non so se tanto
fia cortese per me chi m’imprigiona. –
Così favella al suo bel sole a canto
e sorride la dea mentre ragiona,
facendo pur del destro braccio intanto
al suo fianco sinistro eburnea zona.
E già colei che gl’introdusse quivi
spargea dal suo focil mille incentivi.
64
Come fiamma per fiamma accresce foco,
come face per face aggiunge lume,
o come geminato a poco a poco
prende forza maggior fiume per fiume,
così ‘l fanciullo al’inonesto gioco
raddoppia incendio e par che si consume,
e, tutto in preda ala lascivia ingorda
dela modestia sua non si ricorda.
65
Già di sestesso già fatto maggiore
drizzar si sente al cor l’acuto strale,
tanto ch’omai di quel focoso ardore
a sostener lo stimulo non vale;
ond’anelando il gran desir che ‘l core
con sollecito spron punge ed assale
e bramoso di farsi apien felice,
pur rivolto ala dea, la bacia e dice:
66
– Io moro, io moro oimé, se non mi dona
oportuna pietà matura aita.
Se di me non vi cal, già si sprigiona,
già pendente al suo fin corre la vita.
Ferve la fiamma, ed imminente e prona
l’anima già prorompe insu l’uscita.
Quella beltà per cui convien ch’io mora
suscita con gli spirti i membri ancora.
67
Tosto ch’a dolce guerra amor protervo
mi venne oggi a sfidar con tanti vezzi,
tesi anch’io l’arco, ed or già temo il nervo
per soverchio rigor non mi si spezzi.
Non posso più, del’umil vostro servo
il troppo ardir non si schernisca o sprezzi,
che vorria pur, come veder potete,
dela gloria toccar l’ultime mete. –
68
Così parlando e dela lieve spoglia
la falda alquanto in languid’atto aperta,
l’impazienza del’accesa voglia
senz’alcun vel le dimostrò scoverta.
– Soffri (diss’ella allor) finché n’accoglia
apparecchio miglior, la speme e certa;
dala Commodità, mia fida ancella,
data in breve ne fia stanza più bella.
69
Ritardato piacer, portalo in pace,
nele dilazion cresce non poco.
Bastiti di saver che mi disface
di reciproco amor scambievol foco.
Teco insu l’ora dela prima face
m’avrai, ti giuro, in più secreto loco.
Fa pur bon cor, tien la mia fede in pegno,
tosto averrà che ‘n porto entri il tuo legno.–
70
Come a fiero talor veltro d’Irlanda
buon cacciator che ‘nfuriato il veda,
benché venga a passar dala sua banda
vicina assai la desiata preda,
la libertà però che gli dimanda
non così tosto avien che gli conceda,
anzi fermo e tenace ad ogni crollo
tira il cordon che gl’imprigiona il collo,
71
così né men, per più scaldar l’affetto
nel difficil goder l’amante accorta,
mentr’ei volea del suo maggior diletto
con la chiave amorosa aprir la porta,
di quel primo appetito al giovinetto
l’impeto affrena e ‘l bacia e ‘l riconforta.
Poi con la bella man quindi il rimove
e l’invita a girar le piante altrove.
72
Può da que’ chiusi alberghi al’ampia corte
libero uscir per più d’un uscio il piede;
e scritta dele stanze insu le porte
d’ogni lavanda la virtù si vede.
Ciascun’acqua ha virtù di varia sorte,
come l’esperienza altrui fa fede.
Qual vigor, qual sapore in sé contegna
il tatto e ‘l gusto espressamente insegna.
73
O miracol gentil, vena che scorre
d’un sasso solo in varie urne stillante,
come possa distinte in sé raccorre
doti diverse e qualità cotante!
Chi può di tutte i propri effetti esporre?
Qual più, qual meno è gelida o fumante,
altra più torbidetta, altra più chiara,
altra dolce, altra salsa ed altra amara.
74
La tempra di quell’onde ove fu posta
la bella dea con l’idol suo gradito
del fonte insidioso era composta
che congiunse a Salmace Ermafrodito,
e ‘n sé tenea proprietà nascosta
di rinfiammare il tepido appetito,
oltre l’erbe ch’infuse erano in essa,
dotate pur dela virtute istessa.
75
V’era il fallo e ‘l satirio in cui figura
oscene forme il fiore e la radice,
la menta che salace è per natura,
l’eruca degli amori irritatrice,
e v’era d’altri semplici mistura,
già di Lampsaco colti ala pendice.
Amor, ma dimmi tu nel bel lavacro
qual fu nudo a veder quel corpo sacro.
76
Non così belle con le chiome sparse
quando ala prima ingiuria il mar soggiacque
ai duci d’Argo vennero a mostrarse
le vezzose Nereidi in mezzo al’acque.
Tal mai non so se la sua stella apparse
qualor dal’ocean più chiara nacque;
pare il bel volto il sol nascente, e pare
il seno l’alba e quella conca il mare.
77
Simulacro di ninfa, inciso e fatto
di qual marmo più terso in pregio saglia,
posto in ricca fontana, o bel ritratto
d’avorio fin, cui nobil fabro intaglia,
somiglia apunto ala bianchezza, al’atto,
senon che ‘l moto sol la disagguaglia;
e la fan differir dal sasso scolto
l’oro del crin, la porpora del volto.
78
Al folgorar dele tremanti stelle
arser gli umori algenti e cristallini,
ed avampar d’insolite fiammelle
l’umide pietre e i margini vicini.
Vedeansi accese entro le guance belle
dolci fiamme di rose e di rubini
e nel bel sen per entro un mar di latte
tremolando nuotar due poma intatte.
79
Or qual Fortuna insu la fronte ammassa
l’ampio volume dela treccia bionda;
or qual cometa andar parte ne lassa
dopo le terga ad indorar la sponda;
aura talor che la scompiglia e squassa
fa rincresparla ed ondeggiar con l’onda,
onde il crin rugiadoso e sparso al vento
oro parea che distillasse argento.
80
Parea, battuta da beltà sì cara,
disfarsi di piacer l’onda amorosa,
e bramava indurarsi e spesso avara
in sen la si chiudea, quasi gelosa.
Chiudeala, ma qual pro s’era sì chiara
che mal teneala al bell’Adone ascosa?
Però che tralucea nel molle gelo
come suol gemma in vetro o lampa in velo.
81
O qual gli move al cor lascivo assalto
l’atto gentil, mentre si lava e terge!
Or nel’acque s’attuffa, or sorge in alto,
or le vermiglie labra entro v’immerge,
or di quel molle e cristallino smalto
con la man bianca il caro amante asperge,
or il sen sene spruzza ed or la fronte
e fa d’alto piacer piangere il fonte.
82
Adone anch’egli de’ leggiadri arnesi
scinto, e pien di stupore e di diletto,
sotto effigie gelata ha spirti accesi,
agghiacciando di fore, arde nel petto
e mentre ha gli occhi al suo bel foco intesi,
svelle dale radici un sospiretto
così profondo e fervido d’amore
che par che sospirar si voglia il core.
83
– Ahi qual m’abbaglia (sospirando dice)
folgore ardente e candido baleno?
quai vibrar veggio, spettator felice,
fiamme i begli occhi e nevi il bianco seno?
forse del ciel del’acque abitatrice
fatta è quest’alma? o questo è un ciel terreno?
Traslato è in terra il ciel. Venga chi vole
in aquario quaggiù vedere il sole.
84
Beltà, cred’io, non vide in val di Xanto
Paride tal nela medesma diva,
né d’amoroso foco arse cotanto
quando mirò la malmirata argiva,
qual’io la veggio allettatrice e quanto
sento l’alma stemprarmi in fiamma viva;
fiamma di cui maggior non so se fusse
quella che la sua patria arse e distrusse.
85
Dimmi, padre Nettun, se ti rimembra
quand’ella uscì dele tue salse spume,
di’ se vedesti nele belle membra
tanto splendore accolto e tanto lume.
Dimmi tu, Sol, quella beltà non sembra
oggi maggior del solito costume?
maggior che quando in ciel fosti di lei
invido testimonio agli altri dei.
86
Fosti men fortunato, Endimione,
indegno di mirar quelch’oggi io miro,
quando a te scese dal sovran balcone
la bianca dea del’argentato giro.
Cedimi cedi, o misero Atteone,
ch’io per più degno oggetto ardo e sospiro;
e differente è ben la nostra sorte,
ch’io ne traggo la vita e tu n’hai morte.
87
O bellezza immortal, perché nel’onde
ti lavi tu, se son di te men pure?
l’acque ale macchie tue divengon monde
e fansi belle con le tue brutture.
Deh, poich’a sì soavi e sì seconde
destinato son io gioie e venture,
ch’io ti lavi e t’asciughi ancor consenti
con vivi pianti e con sospiri ardenti.
88
E, s’è ver che ne’ fonti anco e ne’ fiumi
amoroso talor foco sfavilli,
fa che com’Aci in acqua io mi consumi
e com’Alfeo mi liquefaccia e stilli.
Forse raccolto tra’ cerulei numi,
mirando i fondi miei chiari e tranquilli,
fia che nela stagion contraria al ghiaccio
la bella fiamma mia mi guizzi in braccio. –
89
Così discorre, e ‘ntanto i freddi umori
prendon vigor dal’amorose faci.
Amor gli stringe e stringe i corpi e i cori
con lacci indissolubili e tenaci.
Del nodo che temprò que’ fieri ardori
fè catene le braccia e groppi i baci,
e con la propria benda ai vaghi amanti
forbì le membra gelide e stillanti.
90
Giunto era il sol del gran viaggio al fine
lasciando al suo sparir smarriti i fiori.
Facean scorta ai silenzi ed ale brine
l’ombre volanti e i sonnacchiosi orrori.
Chiudea la notte in bruno velo il crine
mendica de’ suoi soliti splendori,
ché la stella d’amor, d’amore accesa,
in ciel non venne, ad altro ufficio intesa.
91
Cameretta riposta, ove consperse
olezzan l’aure d’aliti soavi,
ai solleciti cori Amor aperse
Amor l’uscier che ne volgea le chiavi.
Tutte incrostate e qual diamante terse
v’ha di fino cristallo e mura e travi,
che con lusso superbo, ov’altri miri,
son specchi agli occhi e mantici ai desiri.
92
Talamo sparso di vapor sabeo,
cortine ha qui di porpora di Tiro.
Quelche per Arianna e per Lieo
d’indiche spoglie le baccanti ordiro,
quelch’a Teti le ninfe ed a Peleo
fabricar di corallo e di zaffiro,
povero fora al paragon del letto
ch’è dale Grazie ai lieti amanti eretto.
93
Splende il letto real di gemme adorno
e colonne ha di cedro e sponde d’oro.
Fanno le coltre al’oriente scorno,
vincono gli origlieri ogni tesoro.
Purpurea tenda gli distende intorno
fregiato un ciel di barbaro lavoro;
biancheggiano fra gli ostri e fra i rubini
morbidi bissi ed odorati lini.
94
Quattro strani sostegni ha ne’ cantoni
su le cui cime il padiglion s’appoggia.
Son fatti a guisa d’arbori a tronconi
d’oro e smeraldo in disusata foggia.
Qui, quasi in verdi e concave prigioni,
stuol d’augellini infra le fronde alloggia,
onde s’alcun talor scote la pianta
ode concerto angelico che canta.
95
Questo fu il porto che tranquillo accolse
la nobil coppia dal dubbioso flutto.
Qui del seme d’amor la messe colse,
qui vendemmiò de’ suoi sospiri il frutto;
qui, tramontando il sol, Vener si tolse
d’Adon più volte il bel possesso intutto;
e qui per uso al tramontar di quello
spuntava agli occhi suoi l’altro più bello.
96
Daché la queta, oscura, umida madre
del silenzio e del sonno i colli adombra,
finché le bende tenebrose ed adre
il raggio mattutin lacera e sgombra,
di quelle membra candide e leggiadre
gode la dea gli abbracciamenti al’ombra,
senza luce curar, senon la cara
luce che le sue tenebre rischiara,
97
e dal’orto ancor poi fin al’occaso
se ‘l cova in grembo e con le braccia il fascia.
Notte e dì sempr’è seco; e se per caso
di necessario affar talvolta il lascia,
che sia brev’ora senza lei rimaso
sentesi sospirar con tanta ambascia,
ch’aver sembra nel cor la fiamma tutta
che Troia accese e Mongibello erutta.
98
Quando il rapido sol per dritta verga
poggiando a mezzo ‘l ciel fende le piaggie,
là ‘ve de’ monti le frondose terga
tesson verde prigion d’ombre selvagge,
per soggiornar dove il suo bene alberga
solitaria sovente il piè ritragge,
e gode o lungo un fiume o sotto un speco
partir l’ore, i pensieri e i detti seco,
99
e sempre in suo desir costante e salda
o siede o giace o scherza il dì con esso.
Concorde al’acque del’ombrosa falda
freme de’ baci il mormorar sommesso,
né raggio d’altro sol la fiede o scalda
che de’ begli occhi in cui si specchia spesso,
né sul meriggio estivo aura cocente
senon sol quella de’ sospir, mai sente.
100
Vassene poi per questa riva e quella
l’orme seguendo del’amate piante,
predatrice di fere ardita e bella,
del caro predator compagna errante,
e l’arco in mano, al fianco le quadrella
porta talor del fortunato amante,
talch’ogni fauno ed ogni dea silvana
gli crede Apollo l’un, l’altra Diana.
101
Così qualor giovenca giovinetta
sen va per campi solitari ed ermi,
tenera sì che calpestar l’erbetta
ancor non sa con piè securi e fermi,
né curva in sfera ancor piena e perfetta
dela fronte lunata i novi germi,
seguela, ovunque va, per la verdura
la torva madre e la circonda e cura.
102
Fatta gelosa è sì di quel bel volto
che teme Amor d’amor non sen’accenda;
teme non Borea in turbine disciolto
dale nubi a rapirlo in terra scenda;
teme non Giove in ricca pioggia accolto
a sì rara bellezza insidie tenda.
Vorria poter celar luci sì belle
ala vista del sole e dele stelle.
103
Se si rischiara il mondo o se s’imbruna,
spieghi, o pieghi la notte il fosco velo,
del’aurora ha sospetto e dela luna,
ch’a lei nol furi e non sel porti in cielo.
Odia come rival l’aura importuna,
gli augelli, i tronchi, i fior l’empion di gelo.
Ha quasi gelosia de’ propri baci,
de’ propri sguardi suoi troppo voraci.
104
Sotto le curve e spaziose spalle
d’un incognito al sol poggio frondoso,
cinto da cupa e solitaria valle,
s’appiatta in cavo sasso antro muscoso.
Raro de’ suoi recessi il chiuso calle
altri tentò che ‘l Sonno e che ‘l Riposo.
L’ombre sue sacre, i suoi riposti orrori
e fere reveriscono e pastori.
105
Questo, l’Arte imitando, avea Natura
di rozzi fregi a meraviglia adorno.
L’avea con vaga e rustica pittura
sparso di fronde e fior dentro e dintorno.
Gli fea d’appio e di felce un’ombra oscura
schermo al’ingiurie del cocente giorno.
Difendea l’edra incontr’al sol l’entrata
di cento braccia e cento branche armata.
106
Qui spesso ricovrar da’ campi aprici
la bellissima coppia avea costume,
e ‘n liet’ozio passar l’ore felici,
secura dal’ardor del maggior lume.
Eran de’ sonni lor l’aure nutrici,
cortinaggi le fronde e l’erbe piume,
secretarie le valli e le montagne,
e l’erme solitudini compagne.
107
Incontro al biondo arcier che folgoranti
dritto dal’arco d’or scoccava i raggi,
scudo faceano ai duo felici amanti
con torte braccia i Briarei selvaggi.
Mossi dal’aure vane e vaneggianti
con alterni sussurri abeti e faggi
pareano dire, e lingua era ogni fronda:
Più ne nutrisce amor che ‘l sole e l’onda.–
108
Or quivi un dì fra gli altri, ecco che stanco
tornar di caccia ed anelante il vede.
L’or biondo e crespo, il terso avorio e bianco
tre volte e quattro a rasciugar gli riede.
Gli fa catena dele braccia al fianco,
sel reca in grembo e ‘n grembo al’erba siede;
e ‘n vagheggiando lui che l’invaghisce,
pur com’aquila al sol, gli occhi nutrisce.
109
Tien le luci ale luci amate e fide
congiunte, il seno al seno, il viso al viso.
Divora e bee, qualora ei bacia o ride,
con la bocca e con l’occhio il bacio e ‘l riso.
– Deh chi dagli occhi miei pur ti divide,
o non da’ miei pensier giamai diviso?
qual’altra esser può mai cura che vaglia
a far che del mio duol nulla ti caglia?
110
Or m’avveggio ben io che d’egual foco,
chi creduto l’avria? meco non ardi,
e che formi talor, sicome poco
avezzo a ben amar, vezzi bugiardi,
poiché posposto ala fatica il gioco,
dale tue cacce a me torni sì tardi,
e curi, come suole ogni fanciullo,
più che tutt’altro, un pueril trastullo. –
111
Così dicendo col bel vel pianpiano
gli terge i molli e fervidi sudori,
vive rugiade, onde il bel viso umano
riga i suoi freschi e mattutini fiori.
Poi degli aurei capei di propria mano
coglie le fila e ricompon gli errori
e di lagrime il bagna e mesce intanto,
tra perle di sudor, perle di pianto.
112
Ed egli a lei: – Deh! questi pianti asciuga,
deh! cessa omai queste dogliose note.
Pria seminar di neve, arar di ruga
tu vedrai queste chiome e queste gote,
che mai per altro amor sia posto in fuga
l’amor che dal mio cor fuggir non pote.
Se tu, fiamma mia cara, immortal sei,
immortali saran gl’incendi miei.
113
Per quella face ond’infiammato io fui
giuro, e per quello stral che ‘l cor m’offende,
giuro per gli occhi e per le chiome, in cui
lo strale indora Amor, la face accende,
ch’Adon fia sempre tuo, né mai d’altrui,
tal è quel sol ch’agli occhi suoi risplende.
S’altro che ‘l ver ti giuro, o bella mia,
di superbo cinghial preda mi sia.–
114
Ed ella a lui: – Se tu, ben mio, sapessi
quanto sia dolce esser amato amando,
e quant’è duro esperienza avessi
lunge dal’amor suo girsene errando,
di scambievole amor segni più espressi
mi daresti talor meco posando,
e saremmo egualmente amanti amati,
tu contento, io felice, ambo beati.
115
È ver che nulla il bel pensiero affrena,
che sempre al’occhio il caro oggetto appressa.
In alme strette di leal catena
so che per lontananza amor non cessa.
Dividale, se può, libica arena,
oceano profondo, alpe inaccessa:
pur lasciar il suo bene è peggio assai
che desiarlo e non goderlo mai.
116
Godianci, amianci. Amor d’amor mercede,
degno cambio d’amore è solo amore.
Fansi in virtù d’un’amorosa fede
due alme un’alma e son duo cori un core.
Cangia il cor, cangia l’alma albergo e sede,
in altrui vive, in semedesma more.
Abita amor l’abbandonata salma,
e vece vi sostien di core e d’alma.
117
O dolcezza ineffabile infinita,
soave piaga e dilettosa arsura,
dove, quasi fenice incenerita,
ha culla insieme il core e sepoltura;
onde da duo begli occhi alma ferita
muor non morendo e ‘l suo morir non cura
e, trafitta d’amor, sospira e langue
senza duol, senza ferro e senza sangue.
118
Così dolce a morir l’anima impara
esca fatta al’ardor, segno alo strale,
e sente in fiamma dolcemente amara
per ferita mortal morte immortale.
Morte, ch’al cor salubre, ai sensi cara,
non è morte, anzi è vita, anzi è natale.
Amor che la saetta e che l’incende,
per più farla morir, vita le rende.
119
Or se risponde il tuo volere al mio
e son conformi i miei desiri ai tuoi;
se quanto aggrada a te, tanto bram’io
e quanto piace a me tanto tu vuoi;
s’è diviso in duo petti un sol desio
ed è commune un’anima tra noi;
se ti prendi il mio core e ‘l tuo mi dai,
perché de’ corpi un corpo anco non fai?
120
O del’anima mia dolce favilla,
o del mio cor dolcissimo martiro,
o dele luci mie luce e pupilla,
o mio vezzo, o mio bacio, o mio sospiro,
volgimi quegli, ond’ogni grazia stilla,
fonti di puro e tremulo zaffiro,
porgimi quella ove m’è dato in sorte
in coppa di rubino a ber la morte.
121
Que’ begli occhi mi volgi. Occhi vitali,
occhi degli occhi miei specchi lucenti,
occhi, faretre ed archi e degli strali
intinti nel piacer fucine ardenti,
occhi del ciel d’amor stelle fatali
e del sol di beltà vivi orienti;
stelle serene, la cui luce bella
può far perpetua ecclisse ala mia stella.
122
Quella bocca mi porgi. O cara bocca,
dela reggia del riso uscio gemmato,
siepe di rose, in cui saetta e scocca
viperetta amorosa arabo fiato,
arca di perle ond’ogni ben trabocca,
cameretta purpurea, antro odorato,
ove rifugge, ove s’asconde Amore
poich’ha rubata un’alma, ucciso un core. –
123
Tace, ma qual fia stil che di ciascuna
paroletta il tenore a pien distingua?
Certo indegna è di lor, senon quell’una
che la forma sì dolce, ogni altra lingua.
Sì parlando e mirando ebra e digiuna
pasce la sete sì, non che l’estingua,
anzi, perché più arda e si consumi,
bacia le dolci labra e i dolci lumi.
124
Bacia e dopo ‘l baciar mira e rimira
le baciate bellezze or questi, or quella.
Ribacia, e poi sospira e risospira
le gustate dolcezze or egli, or ella.
Vivon due vite in una vita e spira,
confusa in due favelle, una favella.
Giungono i cori insu le labra estreme,
corrono l’alme ad intrecciarsi insieme.
125
Di note ador ador tronche e fugaci
risona l’antro cavernoso e scabro.
– Dimmi o dea (dice l’un) questi tuoi baci
movon così dal cor, come dal labro? –
Risponde l’altra: – Il cor nele mordaci
labra si bacia, amor del bacio è fabro,
il cor lo stilla, il labro poi lo scocca,
il più ne gode l’alma, il men la bocca.
126
Baci questi non son, ma di concorde
amoroso desio loquaci messi.
Parlan tacendo in lor le lingue ingorde
ed han gran sensi in tal silenzio espressi.
Son del mio cor, che ‘l tuo baciando morde,
muti accenti i sospiri e i baci istessi.
Rispondonsi tra lor l’anime accese
con voci sol da lor medesme intese.
127
Favella il bacio e del sospir, del guardo
voci anch’essi d’amor, porta le palme,
perch’al centro del cor premendo il dardo
su la cima d’un labro accoppia l’alme.
Che soave ristoro, al foco ond’ardo,
compor le bocche, alleggerir le salme!
Le bocche, che di nettare bramose
han la sete e ‘l licor, son api e rose.
128
Quel bel vermiglio che le labra inostra
alcun dubbio non ha che sangue sia.
Or se nel sangue sta l’anima nostra,
sicome i saggi pur vogliono che stia,
dunque, qualor baciando entriamo in giostra,
bacia l’anima tua l’anima mia,
e mentre tu ribaci ed io ribacio,
l’alma mia con la tua copula il bacio.
129
Siede nel sommo del’amate labbia,
dove il fior degli spirti è tutto accolto,
come corpo animato in sé pur abbia,
il bacio che del’anima vien tolto.
Quivi non so d’amor qual dolce rabbia
l’uccide, e dove muor resta sepolto;
ma là dove ha sepolcro, ancora poi,
baci divini, il suscitate voi.
130
Mentre a scontrar si va bocca con bocca,
mentre a ferir si van baci con baci,
sì profondo piacer l’anime tocca,
ch’apron l’ali a volar, quasi fugaci;
e di tanta che ‘n lor dolcezza fiocca
essendo i cori angusti urne incapaci,
versanla per le labra e vanno in esse
anelando a morir l’anime istesse.
131
Treman gli spirti infra i più vivi ardori
quando il bacio a morir l’anima spinge.
Mutan bocca le lingue e petto i cori,
spirto con spirto e cor con cor si stringe.
Palpitan gli occhi e dele guance i fiori
amoroso pallor scolora e tinge;
e morendo talor gli amanti accorti
ritardano il morir, per far due morti.
132
Da te l’anima tua morendo fugge,
io moribonda insu ‘l baciar la prendo,
e ‘n quel vital morir che ne distrugge,
mentre la tua mi dai, la mia ti rendo;
e chi mi mira sospirando e sugge,
suggo, sospiro anch’io, miro morendo;
e per morir, quando ti bacio e miro,
vorrei ch’anima fusse ogni sospiro. –
133
– Fa dunque, anima mia (l’altro le dice)
ch’io con vita immortal cangi la morte.
Voli l’anima al ciel, siché felice
sia degli eterni dei fatta consorte.
Fa ch’io viva e ch’io mora, e, se ciò lice,
fa ch’io riviva poi con miglior sorte.
Dolcemente languendo al’istess’ora,
fa che ‘n bocca io ti viva, in sen ti mora.
134
Un albergo medesmo in que’ dolci ostri
unisca il mio desir col tuo desire.
Le nostr’anime, i cor, gli spirti nostri
vadano insieme a vivere e morire.
Ferito a un punto il feritor si mostri,
pera la feritrice insu ‘l ferire,
onde, mentre ch’io moro e che tu mori,
ravivi il morir nostro i nostri ardori.
135
Sostien, diletta mia, ch’a mio diletto
senza cessar dale tue labra io penda,
ma col labro vermiglio il bianco petto
avarizia d’amor non mi difenda,
né que’ begli occhi al mio vorace affetto
dispettoso rigor, prego, contenda.
Morendo io vivrò in te, tu in me vivrai,
così ti renderò quanto mi dai.
136
Se nulla è in noi di nostro e non v’ha loco
cosa che possa tua dirsi né mia,
se ‘l mio cor non è mio molto né poco,
come ‘l tuo credo ancor, che tuo non sia;
poiché tu sei mia fiamma, io son tuo foco,
e ciò che brama l’un, l’altro desia;
poiché di propria mano amor ha fatto
e fermato tra noi questo contratto,
137
consenti pur ch’io ti ribaci e dammi
ch’io te, come tu me, stringa ed abbracci.
Pungi, ferisci, uccidi e svenir fammi
finché l’anima sudi e ‘l core agghiacci.
Te l’ardor mio, me la tua fiamma infiammi
e me teco e te meco un laccio allacci.
Perpetuo moto abbian le lingue e doppi
sien dele braccia e dele labra i groppi.
138
Per mezzo il fior dele tue labra molli
Amor, qual augellin vago e vezzoso,
con cento suoi fratei lascivi e folli
vola scherzando e vi tien l’arco ascoso.
Né vuol ch’io le mie fami ivi satolli,
dele dolcezze sue quasi geloso,
ché, tosto ch’io per mitigar l’ardore
ne colgo un bacio, ei mi trafige il core.
139
Ma qualor da lui scampo e là rifuggo
dov’ha più di vermiglio il tuo bel viso,
più dolce ambrosia, o me beato, io suggo
di quella che si gusta in paradiso.
Zefiretto soave, ond’io mi struggo,
sento spirar dele tue rose al riso,
loqual del foco che ‘l mio cor consuma,
ventilando l’ardor, vie più l’alluma.
140
No, che baci non son questi ch’io prendo,
son dela dolce Arabia aure odorate,
d’una soavità ch’io non intendo,
più che di cinnamomo, imbalsamate.
Son profumi d’Amor ch’ei va traendo
dal’incendio del’alme innamorate.
Par ch’abbia in queste porpore ricetto
quanto mele han Parnaso, Ibla ed Imetto.
141
Felice me, che meritar potei
quel dolce mai che tanto ben m’ha fatto.
Ma son ben folle ne’ diletti miei,
che bacio e parlo in un medesmo tratto.
È sì grande il piacer, che non vorrei
la mia bocca occupar, fuorché ‘n quest’atto.
E con la bocca istessa il cor si dole
quando i baci dan luogo ale parole. –
142
– Ed io (dic’ella) che fruir mi vanto
gloria infinita in que’ superni seggi,
non provo colassù diletto tanto,
ch’ala gioia presente si pareggi.
Prendi pur ciò che chiedi, e chiedi quanto
di me ti piace, a tuo piacer mi reggi.
Ecco a picciole scosse a te mio bene
sospirando e tremando il cor sen viene.
143
Deh nel core, o mio core, omai m’aventa
quella lingua d’amor dolce saetta,
e ‘n cote di rubino aguzzar tenta
la punta ch’a morir dolce m’alletta;
e fa tanto ch’anch’io morir mi senta,
del tuo dolce morir dolce vendetta.
Serpe sembri al ferir, ché ben ascose
stan sovente le serpi infra le rose.
144
E se, perch’ella è velenosa e schiva,
forse imitar la vipera ti spiace,
movila almen, sicome suol lasciva
coda guizzar di rondine fugace.
O pur qual fronda di novella oliva
rincresparla t’insegni Amor sagace.
Vibrala sì, che la tua bocca arciera
emula de’ begli occhi, il cor mi fera. –
145
– Non sono (egli ripiglia) or non son questi
gli occhi, onde dolci al cor strali mi scocchi?
Gli occhi, onde dolce il cor dianzi m’ardesti?
Begli occhi! – e ‘n questo dir le bacia gli occhi.
– Begli occhi (ella soggiunge) occhi celesti
cagion che di dolcezza il cor trabocchi.
Core, ond’io vivo senza cor, tesoro,
ond’io povera son, vita, ond’io moro. –
146
Allora il vago: – Anzi tu sol tu sei
quel core onde ‘l mio cor vita riceve.
Cor mio... – Più volea dir, quando colei
la parola in un bacio e ‘l cor gli beve.
Ella per lui si strugge, egli per lei,
com’a raggio di sol falda di neve.
Suonano i baci e mai dal cavo speco
forse a più dolce suon non rispos’eco.
147
Fa un groppo allor del’un e l’altro core
quel sommo del piacer, fin del desio.
Formano i petti in estasi d’amore
di profondi sospiri un mormorio.
Stillansi l’alme in tepidetto umore,
opprime i sensi un dilettoso oblio.
Tornan fredde le lingue e smorti i volti,
e vacillano i lumi al ciel travolti.
148
Tramortiscon di gioia ebre e languenti
l’anime stanche, al ciel d’amor rapite.
Gl’iterati sospiri, i rotti accenti,
le dolcissime guerre e le ferite,
narrar non so. Fresche aure, onde correnti,
voi che ‘l miraste e che l’udiste, il dite,
voi secretari de’ felici amori
verdi mirti, alti pini, ombrosi allori.
149
Ma già fugge la luce e l’ombra riede,
e s’accosta a Marocco il sole intanto;
imbrunir d’oriente il ciel si vede,
cangia in fosco la terra il verde manto.
Già cede al grillo la cicala e cede
il rossignuolo ala civetta il canto,
che garrisce le stelle e dice oltraggio
del bel pianeta al fuggitivo raggio.




GIOVAN BATTISTA MARINO


L' ADONE
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
GIOVAN BATTISTA MARINO
L' ADONE
_________

GIOVAN BATTISTA MARINO  - L' ADONE
1. Il nuovo poema europeo
Pubblicato a Parigi nel 1623 il poema di venti canti dedicati all'amore tra Venere e il giovane Adone (episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio ), ebbe subito un grandissimo successo anche grazie ai numerosi rinvii della pubblicazione che ingenerarono nella comunità dei letterati una grande e curiosa attesa. L'edizione parigina, con la dedica rivolta al re Luigi XIII e la dedicatoria alla regina madre Maria de' Medici, contiene in premessa una Lettre ou Discours de M. Chapelain con la quale il Marino intende rivolgersi agli eventuali detrattori del poema. Lo Chapelain dichiara che si tratta di una nuovo tipo di poema (“poema di pace”) che ricerca la meraviglia non nell'invenzione del soggetto ma nella trattazione elegante ed umile di una favola semplice. Per il Marino, nel costante raffronto con la Liberata del Tasso, la quantità era un fattore strettamente legato alla qualità di un'opera. Nel 1615 scriveva al Sanvitale:

In Parigi penso di dare alle stampe parecchie opere mie, e specialmente l'Adone, il quale se bene è poema giovanile, composto ne' primi anni della mia età, nondimeno piace tanto a tutti gli amici intelligenti per la sua facilità e venustà, che mi son deliberato di pubblicarlo: e avendo fatta questa risoluzione, l'ho accresciuto ed impinguato in modo ch'è molto maggiore l'aggionta della fabrica nuova che non sono le fondamenta vecchie. L'ho diviso in dodici canti assai lunghi, talché il volume sarà né più né meno quanto la Gierusalemme del Tasso. Staremo a vedere la riuscita che farà.

Scrive ancora nel 1615 Ciotti: «il volume sarà poco meno della Gerusalemme del Tasso»; e allo Stigliani: «l'Adone, poema quanto la Gierusalemme del Tasso». Si vanta in una lettera del 1621 a Giulio Strozzi: "Il poema pian piano si è ridotto a tale ch'è per sei volte quanto la Gerusalemme del Tasso. Io non nego che le buone poesie non si misurano a canne; ma quando con la qualità si accoppia insieme la quantità, fanno scoppio maggiore; percioché le storiette e le cartucce alla fine son portate via dal vento, ed i volumi grossi e pesanti se ne stanno sempre immobili." E infine ancora al Ciotti: "La stampa riesce magnifica e veramente degna di poema regio, perché si fa in foglio grande con dieci ottave per facciata in due file; onde la spesa è grossa, per esser volume forse di trecento fogli, e si fa il conto che sia per sette volte maggiore della Gierusalemme del Tasso".

2. Le fonti
In questo poema smisurato confluivano le sterminate letture condotte dal Marino nell'arco di una vita. In una nota lettera del 1620 a Claudio Achillini scriveva:

Sappia tutto il mondo che infin dal primo dì ch'io incominciai a studiar lettere, imparai sempre a leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch'io ritrovava di buono, notandolo nel mio zibaldone e servendomene a suo tempo: ché insomma questo è il frutto che si cava dalla lezione de' libri. … Perciò se … razzolando col detto ronciglio, ho pur commesso qualche povero furtarello, me ne accuso e me ne scuso insieme, poiché la mia povertà è tanta, che mi bisogna accattar delle ricchezze da chi n'è più di me dovizioso.

Rispetto alla tradizione classicista italiana scelse però delle strade diverse. Si è già detto dell'assunzione delle Dionisiache di Nonno e della poesia ellenista ad alternativa di una letteratura classicista latina. Presente e determinante tuttavia nel poema mariniano è l'opera di Claudiano. Come non trascurabili sono le derivazioni da Apuleio e Lucano.
Sul versante cosmogonico Marino non si avvale dei classici quali Esiodo e Lucrezio o dei padri della Chiesa (Basilio, Ambrogio). Fondamentale per l'Adone è, ancora una volta, il Tasso con Le sette giornate del mondo creato.

3. «La favola è angusta»
La trama, nella sua struttura narrativa principale, è molto semplice e quasi povera. Lo stesso Marino, a proposito dell'Adone, scriveva a un amico nel 1616: «La favola è angusta ed incapace di varietà d'accidenti; ma io mi sono ingegnato d'arricchirla d'azioni episodiche, come meglio mi è stato possibile»; e ancora ad Andrea Barbazza nel 1620: «lo stile può passare per essere fiorito e venusto, ma la favola è alquanto povera d'azioni». La vicenda mitologica di Adone viene sin dal primo canto condotta sotto il segno di Venere e ai valori (amore, pace, mansuetudine, grazia, pace, ozio, gioia e diletto) che le sono prossimi in contrapposizione alle ragioni della guerra: «Tu dar puoi sola altrui godere in terra / di pacifico stato ozio sereno. / Per te Giano placato il tempio serra, / addolcito il Furor tien l'ire a freno; / poiché lo del'armi e dela guerra / spesso suol prigionier languirti in seno, / e armi di gioia e di diletto / guerreggia in pace, ed è steccato il letto.» (I, 2)

4. La storia
– Le iniziazioni (I-XI)
Come in tutti i poemi mitologici la vicenda è chiusa, nel senso che ogni lettore conosce la storia e il suo intreccio e non si aspetta cambiamenti nelle principali vicende della struttura narrativa che può essere scandita in quattro scansioni: l'incontro e l'innamoramento di Venere e Adone; la vita amorosa e felice comune; l'incidente mortale di caccia occorso ad Adone; la nuova vita di Adone trasformato in anemone dalla dea.
Su questo schema Marino opera e introduce vicende e personaggi che espandono e variano la fissità della vicenda: Amore, per vendicarsi della madre che lo aveva battuto, decide di far innamorare Venere del bellissimo ma mortale Adone. Il piccolo dio riesce a fare arrivare Adone a Cipro dove, davanti al palazzo dell'amore, Clizio (Giovan Vincenzo Imperiale) gli racconta la vicenda del giudizio di Paride. Il palazzo di Venere non viene descritto ma rappresentato attraverso un percorso narrativo che ne proietta la costruzione interna attraverso un'architettura simbolica che diviene una sorta di carme figurato. Venere incontra Adone dormiente e, colpita dalla freccia di Amore, se ne innamora. Puntasi il piede con la spina di una rosa viene medicata da Adone che si innamora a sua volta. Amore racconta ad Adone della sua passione per Psiche e Venere gli ingiunge di non andare a caccia narrandogli il mito di Atteone sbranato dai suoi propri cani. Adone e Venere si spostano poi nell'esotico giardino del piacere suddiviso in cinque zone che rimandano ciascuna ad ogni senso del corpo umano. Nel giardino del tatto i due si uniscono in matrimonio. Visitano l'isola della poesia dove Fileno (alter ego del Marino) racconta la sua vita. Guidati da Mercurio visitano i cieli della Luna (che consente l'elogio delle scoperte galileiane), di Mercurio e di Venere dove vengono passate in rassegna le anime delle future donne celebri.

5. La storia
– Le peripezie (XII-XX)
L'arrivo del geloso Marte provoca la fuga di Adone che viene dotato di un anello magico in grado di vanificare gli incanti. Adone viene dunque privato dell'anello magico e imprigionato dalla maga Falsirena, a sua volta invaghitasi del giovane, nella propria dimora sotterranea. Trasformato per errore in pappagallo, Adone fugge dalla prigione e gli capita di assitere agli amoreggiamenti di Marte e Venere nel giardino del tatto. Su consiglio di Mercurio torna quindi alla prigione per recuperare sia l'anello che l'originaria forma umana. Tuttavia porta con sé le fatali armi di Meleagro che conducono alla morte colui che le usa. Dopo disavventure e peripezie amorose, Adone riesce a riprendere la sua relazione con Venere. Attraverso una prova di bellezza ottiene di diventare re di Cipro. Regno tuttavia che perde dopo poco ma con grande consolazione per i trastulli offerti da Venere che tuttavia deve lasciare Cipro per presenziare alle feste in suo onore sull'isola di Citera. Adone, grazie all'assenza di Venere, può finalmente dedicarsi alla caccia nel parco di Diana dove però gli viene teso un agguato da Marte che gli scaglia contro la furia di un cinghiale. Adone, che già porta con sé le mortifere armi di Meleagro, gli scocca contro una freccia di Amore. L'attacco del cinghiale diviene quindi un'assalto di passione che ferisce a morte il giovane in fuga. Alla notizia del ferimento di Adone Venere giunge in tempo per assistere agli ultimi istanti di vita di Adone. Nel frattempo il cinghiale viene processato e, dopo aver appurato che l'omicidio era stato causato dall'invasamento amoroso, assolto. Alla morte di Adone seguono i funerali e Venere trasforma il suo cuore in un anemone. Tre giorni di giochi e spettacoli, ai quali accorrono le divinità, e il matrimonio di Fiammadoro (la Francia) e Austria (la Spagna) concludono il racconto.

6. Il fine del poema
Del poema sulla favola mitologica di Venere e Adone al Marino non interessavano questioni quali l'unità dell'azione o la coerenza dei piani narrativi sui quali il Tasso della Liberata, ad esempio, si era molto concentrato. Sulla scorta delle letture di Nonno di Panopoli, Ovidio, Apuleio e attingendo alle arti vicine (come la pittura e la musica), mette in scena e inanella, su di un esile filo narrativo, una lunga e vertiginosa serie di episodi e di idilli letterari e mitologici impreziositi da una lingua sovrabbondante e multiforme, e da soluzioni metriche originali, che intendono generare nel lettore gli effetti di stupore, meraviglia e diletto.

7. Didascalie
Sono poi presenti lunghi momenti didascalici dedicati ai luoghi, ai personaggi e alle cose in una moltiplicazione di dettagli e di esplorazioni descrittive minute. Non mancano, nella scia dei poemi esameronici, la descrizione del mondo e delle conoscenze scientifiche anche più moderne (limitate all'astronomia e alle scoperte astronomiche di Galileo) come testimoniano le felici invenzioni linguistiche (non dettate da vere preoccupazioni scientifiche) derivanti dalle recenti applicazioni della tecnica. Noto è il riferimento all' «ammirabile stromento» galileiano che «scorciar potrà lunghissimi intervalli \ per un picciol cannone e duo cristalli» (X, 42, 7-8) che testimonia la volontà di creare una poesia scientifica che riveli una nuova realtà e una nuova visione del mondo.
E non mancano i riferimenti alla contemporaneità che tuttavia sono limitati a forme di omaggio resi a nazioni e città che nulla hanno a che fare con l'ideologia politica del poema epico. Ne risulta un testo consapevolmente concepito per sedurre il pubblico e volutamente incurante delle armonie classiche.

8. Il personaggio di Adone
Come protagonista Adone è un personaggio piuttosto passivo. Non prende mai iniziative e non decide nulla. È piuttosto l'oggetto delle altrui iniziative. Maschio antieroico e imbelle, inetto e facile alla fuga di fronte alle difficoltà, sembra avere più i tratti di una vergine fanciulla che di un eroe epico o da romanzo. Le sue grane vengono risolte da interventi divini. Vince slealmente una partita a scacchi con Venere. Anche la morte, che arriva dall'impeto virile del cinghiale, lo coglie intento alla fuga.

9. La metafora nell'Adone
Anche per l'Adone vale la preminenza della metafora nella costruzione della lingua e dei concetti. Con la predilezione e la preminenza di questa figura in tutto il sistema retorico, la metafora diviene dunque una macchina creatrice di forme e di contenuti attraverso un procedimento che mira costantemente allo spettacolarizzare la parola e a sorprendere il lettore. Un approccio questo che vediamo anche in Emanuele Tesauro, che intitola il suo trattato sulla retorica appunto il Cannocchiale aristotelico.

10. Il modello ingombrante del Tasso
Nemmeno i valori etici sono più quelli dell'epica tassiana che aveva puntato sulla materia della prima crociata, sul valore morale e sulle armi sacre della guerra santa. Nell'Adone i valori vengono cambiati di segno: dal campo di battaglia di Gerusalemme si passa al giardino di Armida. Nel poema del Marino esce di scena la storia e l'ideologia della missione cristiana in luogo di un regno senza tempo dove la pace, l'amore e i piaceri profani diventano il polo attrattivo di tutto lo spazio poetico e narrativo.
Significativa è la dimensione simbolica dei luoghi rappresentati soprattutto per le suggestioni liriche e sensuali. Una moltiplicazione, un pullulare di vicende, racconti ed episodi che non modificano il nucleo narrativo della favola dove il momento mitico ed edenico di Cipro (come l'isola di Alcina e di Armida nell'Orlando Furioso e nella Gerusalemme liberata) divengono qui l'intero dilatato sfondo di tutto il poema. L'isola rappresenta dunque un luogo senza tempo di felicità e trastulli al quale si contrappone il sotterraneo di Falsirena. Ma anche nei giardini più belli può nascondersi l'insidia della serpe e sull'isola ciprigna Adone non solo deve affrontare masnadieri e briganti che lo proiettano nella dimensione romanzesca ma è su questo paradiso terrestre che il giovane viene sopraffatto dalla furia fatale e appassionata del cinghiale. In qualche modo si può anzi ravvisare nella figura di Adone una sorta di anti-Rinaldo. Laddove il giovane guerriero, traviato dalle delizie del giardino di Armida e dall'amore, recupera il senso sacrale della sua missione crociata compiendo il suo destino nella liberazione del santo sepolcro, la sorte di Adone, tutta inscritta sull'isola dorata e senza tempo di Cipro, si compirà antieroicamente per opera di un cinghiale innamorato.
Si può senz'altro affermare che il Tasso provocò nel Marino quella che il critico americano Harold Bloom definisce l' «angoscia dell'influenza» ossia un constante confronto con l'opera e il modello di un maestro riconosciuto ma al tempo stesso ingombrante che ingenera un'ansia creativa, tra la pulsione della sfida e il desiderio di emancipazione, nel tentativo di un superamento.
Un tratto esemplare è costituito da quanto il Marino scrive all'amico Castello Link13 in una lettera del 1613:

Siami lecito in confidenza di rompere il freno della modestia e di smoderare alquanto in arroganza. Iddio mi dotò (la sua mercé) d'intelletto tale, che si sente abile a comporre un poema non meno eccellente di quel che si abbia fatto il Tasso. … E se sarà per avventura manchevole in alcuna di quelle parti, nelle quali il sudetto è stato singolare, abbonderò forse di molte di quelle condizioni nelle quali egli è stato difettoso. Tanto basti, e sia detto con quella riverenza che si conviene ad uomo sì grande. Tuttavia ad ogni scimia paiono belli i suoi scimiotti, e s'io non mi posso in altro agguagliare a quel gran poeta, voglio almento pretendere di vincere il paragone nell'esser più matto di lui.

Nella citata lettera all'Achillini Link39 del 1620, argomentando sul concetto di imitazione, rimarca quello che a suo avviso è il limite della Liberata:

Il Tasso … è stato maggiore e più manifesto dell'Ariosto imitatore delle particolarità, percioché senza velo alcuno trapportaciò che vuole imitare, usando assai forme di dire ed elocuzioni latine, delle quali troppo evidentemente si serve, sì come poco più più destro parmi che dimostrato si sia nelle universalità.

LA FORTUNA

ALLEGORIA

Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non giamai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ grandi. In Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la gioventù che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il poema dello Stato rustico, dal medesimo leggiadramente composto.

ARGOMENTO

Passa in picciol legnetto a Cipro Adone
dale spiagge d’Arabia, ov’egli nacque.
Amor gli turba intorno i venti e l’acque,
Clizio pastor l’accoglie in sua magione


1
Io chiamo te, per cui si volge e move
la più benigna e mansueta sfera,
santa madre d’Amor, figlia di Giove,
bella dea d’Amatunta e di Citera;
te, la cui stella, ond’ogni grazia piove,
dela notte e del giorno è messaggiera;
te, lo cui raggio lucido e fecondo
serena il cielo ed innamora il mondo;
2
tu dar puoi sola altrui godere in terra
di pacifico stato ozio sereno.
Per te Giano placato il tempio serra,
addolcito il Furor tien l’ire a freno;
poiché lo dio del’ armi e dela guerra
spesso suol prigionier languirti in seno
e con armi di gioia e di diletto
guerreggia in pace ed è steccato il letto.
3
Dettami tu del giovinetto amato
le venture e le glorie alte e superbe;
qual teco in prima visse, indi qual fato
l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.
E tu m’insegna del tuo cor piagato
a dir le pene dolcemente acerbe
e le dolci querele e ‘l dolce pianto;
e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto.
Letteratura italiana Einaudi 2
4
Ma mentr’io tento pur, diva cortese,
d’ordir testura ingiuriosa agli anni,
prendendo a dir del foco che t’accese
i pria sì grati e poi sì gravi affanni,
Amor, con grazie almen pari al’offese
lievi mi presti a sì gran volo i vanni
e con la face sua, s’io ne son degno,
dia quant’arsura al cor, luce al’ingegno.
5
E te, ch’Adone istesso, o gran Luigi,
di beltà vinci e di splendore abbagli
e, seguendo ancor tenero i vestigi
del morto genitor, quasi l’agguagli,
per cui suda Vulcano, a cui Parigi
convien che palme colga e statue intagli,
prego intanto m’ascolti e sostien ch’io
intrecci il giglio tuo col lauro mio.
6
Se movo ad agguagliar l’alto concetto
la penna, che per sé tanto non sale,
facciol per ottener dal gran suggetto
col favor che mi regge ed aure ed ale.
Privo di queste, il debile intelletto,
ch’al ciel degli onor tuoi volar non vale,
teme al’ardor di sì lucente sfera
stemprar l’audace e temeraria cera.
7
Ma quando quell’ardir ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna
per domar la superbia e la possanza
del tiranno crudel che ‘n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ‘nsu ‘l fiore a maturar si vegna,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 3
Giovanbattista Marino - Adone
allor, con spada al fianco e cetra al collo,
l’un di noi sarà Marte e l’altro Apollo.
8
Così la dea del sempreverde alloro,
parca immortal de’ nomi e degli stili,
ale fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.
9
La donna che dal mare il nome ha tolto,
dove nacque la dea ch’adombro in carte,
quella che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte,
quella che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe nel’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’amor penna lasciva.
10
Ombreggia il ver Parnaso e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela,
quasi in rozzo Silen, celesti arcani.
Però dal vel che tesse or la mia tela
in molli versi e favolosi e vani,
questo senso verace altri raccoglia:
smoderato piacer termina in doglia.
11
Amor pur dianzi, il fanciullin crudele,
Giove di nova fiamma acceso avea.
Letteratura italiana Einaudi 4
Arse di sdegno e ‘l cor d’amaro fiele
sparsa, gelò la sua gelosa dea,
e ‘ncontro a lui con flebili querele
richiamossi del torto a Citerea;
onde il garzon sovra l’etade astuto
dala materna man pianse battuto.
12
– Oimé, possibil fia (dicea Ciprigna)
ch’io mai per te di pace ora non abbia?
Qual cerasta più livida e maligna
nutre del Nilo la deserta sabbia?
qual furia insana, o qual arpia sanguigna
là negli antri di stige ha tanta rabbia?
Dimmi, quel tosco ond’ogni core appesti,
aspe di paradiso, onde traesti?
13
Vuoi tu più mai contaminar di Giuno
le leggittime gioie e i casti amori?
Udrò di te mai più richiamo alcuno,
ministro di follie, fabro d’errori,
sollecito avoltor, verme importuno,
morbo de’ sensi, ebrietà de’ cori,
di fraude nato e di furor nutrito,
omicida del senno, empio appetito?
14
Ira mi vien di romperti que’ lacci
e quell’arco che fa piaghe sì grandi,
né so chi mi ritien ch’or or non stracci
quante reti malvage ordisci e spandi,
che per sempre dal ciel non ti discacci,
che ‘n essilio perpetuo io non ti mandi
su i gioghi ircani e tra le caspie selve,
arcier villano, a saettar le belve.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 5
Giovanbattista Marino - Adone
15
Che tu fra gli egri e languidi mortali,
di cui s’odono ognor gridi e lamenti,
semini colaggiù martiri e mali,
convien, malgrado mio, ch’io mi contentia;
ma soffrirò che ‘n ciel vibri i tuoi strali,
non perdonando ale beate genti?
che sostengan per te strazi sì rei,
serpentello orgoglioso, anco gli dei?
16
Che più? fin dele stelle il sommo duce
questo malnato di sforzar si vanta,
e spesso a stato tale anco il riduce
ch’or in mandra or in nido, or mugghia or canta.
Un pestifero mostro, orbo di luce,
avrà dunque fra noi baldanza tanta?
un, che la lingua ancor tinta ha di latte,
cotanto ardisce? – E ciò dicendo il batte.
17
Con flagello di rose insieme attorte
ch’avea groppi di spine, ella il percosse
e de’ bei membri, onde si dolse forte,
fe’ le vivaci porpore più rosse.
Tremaro i poli e la stellata corte
a quel fiero vagir tutta si mosse;
mossesi il ciel, che più d’Amor infante
teme il furor che di Tifeo gigante.
18
Dela reggia materna il figlio uscito,
con quello sdegno allor se n’allontana
con cui soffiar per l’arenoso lito
calcata suol la vipera africana
o l’orso cavernier, quando ferito
si scaglia fuor dela sassosa tana
Letteratura italiana Einaudi 6
e va fremendo per gli orror più cupi
dele valli lucane e dele rupi.
19
Sferzato e pien di dispettosa doglia,
fuggì piangendo ala vicina sfera,
là dove cinto di purpurea spoglia,
gran monarca de’ tempi, il Sole impera
e ‘nsu l’entrar dela dorata soglia,
stella nunzia del giorno e condottiera,
Lucifero incontrò, che ‘n oriente
apria con chiave d’or l’uscio lucente.
20
E ‘l Crepuscolo seco, a poco a poco
uscito per la lucida contrada
sovra un corsier di tenebroso foco,
spumante il fren d’ambrosia e di rugiada,
di fresco giglio e di vivace croco
forier del bel mattin spargea la strada
e con sferza di rose e di viole
affrettava il camino innanzi al Sole.
21
La bella luce, che ‘n su l’aurea porta
aspettava del Sol la prima uscita,
era di Citerea ministra e scorta,
d’amoroso splendor tutta crinita.
Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta
già la biga rotante avea spedita
e ‘l venir dela dea stava attendendo,
quando il fier pargoletto entrò piangendo.
22
Pianse al pianger d’Amor la mattutina
del re de’ lumi ambasciadrice stella
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 7
Giovanbattista Marino - Adone
e di pioggia argentata e cristallina
rigò la faccia rugiadosa e bella,
onde di vive perle accolte in brina
potè l’urna colmar l’Alba novella,
l’Alba che l’asciugò col vel vermiglio
l’umido raggio al lagrimoso ciglio.
23
Ricoverato al ricco albergo Amore,
trovò che, posto a’ corridori il morso,
già s’era accinto il principe del’ore
con la verga gemmata al novo corso
e i focosi destrier, sbuffando ardore,
l’altere iube si scotean su ‘l dorso
e, sdegnosi d’indugio, il pavimento
ferian co’ calci e co’ nitriti il vento.
24
Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto,
che sempre il fin col suo principio annoda
e ‘n forma d’angue innanellato e torto
morde l’estremo ala volubil coda
e, qual Anteo caduto e poi risorto,
cerca nova materia ond’egli roda;
v’ha la serie de’ Mesi e i Dì lucenti,
i lunghi e i brevi, i fervidi e gli algenti.
25
L’aurea corona, onde scintilla il giorno,
del Tempo gli ponean le quattro figlie.
Due schiere avea d’alate ancelle intorno,
dodici brune e dodici vermiglie.
Mentre accoppiavan queste al carro adorno
gli aurati gioghi e le rosate briglie,
gli occhi di foco il Sol rivolse e ‘l pianto
vide d’Amor, che gli languiva a canto.
Letteratura italiana Einaudi 8
26
Era Apollo di Venere nemico
e tenea l’odio ancor nel petto vivo,
daché lassù del’adulterio antico
publicò lo spettacolo lascivo,
quando accusò del talamo impudico
al fabro adusto il predator furtivo
e, con vergogna invidiata in cielo,
ai suoi dolci legami aperse il velo.
27
Orché gli espone Amor sua grave salma:
– E che sciocchi dolor (dice) son questi?
Se’ tu colui che litigar la palma
in riva di Peneo meco volesti?
Tu tu, mente del mondo, alma d’ogni alma,
vincitor de’ mortali e de’ celesti,
or con strale arrotato e face accesa
vendicar non ti sai di tanta offesa?
28
Quanto fora il miglior, sicome afflitto
di lagrime infantili il volto or bagni,
volgere il duolo in ira e ‘l dardo invitto
aguzzar nel’ingiuria onde ti lagni?
Fa che con petto lacero e trafitto
per te pianga colei per cui tu piagni;
ché, se vorrai, non senza gloria e nome
seguiranne l’effetto; ascolta come.
29
Là nela region ricca e felice
d’Arabia bella, Adone il giovinetto,
quasi competitor dela fenice
senza pari in beltà vive soletto.
Adon nato di lei, cui la nutrice
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 9
Giovanbattista Marino - Adone
col proprio genitor giunse in un letto,
di lei che, volta in pianta, i suoi dolori
ancor distilla in lagrimosi odori.
30
Schernì la scelerata il re malsaggio
accesa il cor di sozzo foco indegno,
ond’egli poi per così grave oltraggio
quant’ella già d’amore, arse di sdegno
e le convenne in loco ermo e selvaggio
girne ad esporre il malconcetto pegno,
pegno furtivo, a cui la propria madre
fu sorella in un punto, avolo il padre.
31
Fattezze mai sì signorili e belle
non vide l’occhio mio lucido e chiaro.
Sventurato fanciullo, a cui le stelle
prima il rigor che lo splendor mostraro:
contro gli armò crude influenzie e felle,
ancor da lui non visto, il cielo avaro,
poiché, mentre l’un sorse e l’altra giacque,
al morir dela madre il figlio nacque.
32
Qual trofeo più famoso? e qual altronde
spoglia attendi più ricca o più superba,
se per costui, ch’or prende a solcar l’onde,
il cor le ferirai di piaga acerba?
Dolci le piaghe fian, ma sì profonde
ch’arte non vi varrà di pietra o d’erba.
Questa fia del tuo mal degna vendetta:
spirto di profezia così mi detta.
33
Più oltre io ti dirò. Mira là dove
a caratteri egizzi in note oscure
Letteratura italiana Einaudi 10
intagliati vedrai per man di Giove
i vaticini del’età future:
havvi quante il destino al mondo piove
da’ canali del ciel sorti e venture,
che de’ pianeti al numero costrutte
sono in sette metalli incise tutte.
34
Quivi ciò che seguir deggia di questo
legger potrai, quasi in vergate carte:
prole tal nascerà del bell’innesto,
che non ti pentirai d’avervi parte.
In lei, pur come gemme in bel contesto,
saran tutte del ciel le grazie sparte;
e questa, o per tai nozze apien beato,
al tiranno del mar promette il fato.
35
Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio
la memoria tra noi de’ gran contrasti,
ma tal premio n’avrai d’un dono mio,
che ‘n mercé di tant’opra io vo’ che basti;
lira nel mio Parnaso aurea serb’io,
ch’ha d’or le corde e di rubino i tasti;
fu d’Armonia tua suora ed io di lei
con questa celebrai gli alti imenei.
36
Questa fia tua. Così qualor ti stai
di cure e d’armi alleggerito e scarco
musico com’arcier, trattar potrai
il plettro a par di me non men che l’arco;
ché l’armonia non sol ristora assai
qualunque sia più faticoso incarco,
ma molto può co’ numeri sonori
ad eccitare ed incitar gli amori. –
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 11
Giovanbattista Marino - Adone
37
Fur queste efficacissime parole
folli, ch’al folle cor soffiaro orgoglio,
ond’irritato abbandonò del Sole
senza far motto il lampeggiante soglio
e, ruinando dal’eterea mole
inver le piagge del materno scoglio,
corse col tratto dele penne ardenti,
più che vento leggier, le vie de’ venti.
38
Come prodigiosa acuta stella,
armata il volto di scintille e lampi,
fende del’aria, orribil sì ma bella
passaggiera lucente, i larghi campi;
mira il nocchier da questa riva e quella
con qual purpureo piè la nebbia stampi
e con qual penna d’or scriva e disegni
le morti ai regi e le cadute ai regni:
39
così mentrech’Amor dal ciel disceso
scorrendo va la region più bassa,
con la face impugnata e l’arco teso
gran traccia di splendor dietro si lassa;
d’un solco ardente e d’auree fiamme acceso
riga intorno le nubi ovunque passa
e trae per lunga linea in ogni loco
striscia di luce, impression di foco.
40
Su ‘l mar si cala, e sicom’ira il punge,
sestesso aventa impetuoso a piombo;
circonda i lidi quasi mergo e lunge
fa del’ali stridenti udire il rombo;
né grifagno falcon quando raggiunge
Letteratura italiana Einaudi 12
col fiero artiglio il semplice colombo
fassi lieto così, com’ei diventa
quando il leggiadro Adon gli si presenta.
41
Era Adon nel’età che la facella
sente d’Amor più vigorosa e viva
ed avea dispostezza ala novella
acerbità degli anni intempestiva,
né su le rose dela guancia bella
alcun gemoglio ancor d’oro fioriva
o, se pur vi spuntava ombra di pelo,
era qual fiore in prato o stella in cielo.
42
In bionde anella di fin or lucente
tutto si torce e si rincrespa il crine;
del’ampia fronte in maestà ridente
sotto gli sorge il candido confine;
un dolce minio, un dolce foco ardente,
sparso tra vivo latte e vive brine,
gli tinge il viso in quel rossor che suole
prender la rosa infra l’aurora e ‘l sole.
43
Ma chi ritrar del’un e l’altro ciglio
può le due stelle lucide serene?
chi dele dolci labra il bel vermiglio,
che di vivi tesor son ricche e piene?
o qual candor d’avorio o qual di giglio
la gola pareggiar, ch’erge e sostiene,
quasi colonna adamantina, accolto
un ciel di meraviglie in quel bel volto?
44
Qualor feroce e faretrato arciero
di quadrella pungenti armato e carco,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 13
Giovanbattista Marino - Adone
affronta o segue, inun leggiadro e fiero,
o fere attende fuggitive al varco
e in atto dolce cacciator guerriero
saettando la morte incurva l’arco,
somiglia intutto Amor, senon che solo
mancano a farlo tale il velo e ‘l volo.
45
Egli tanto tesoro in lui raccolto
di natura e d’amor par ch’abbia a vile
e cerca del bel ciglio e del bel volto
turbar il sole, inorridir l’aprile,
ma, minacci cruccioso o vada incolto,
esser però non sa senon gentile
e, rustico quantunque e sdegnosetto,
convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto.
46
Or mentre per l’arabiche foreste,
dov’ei nacque e menò l’età primiera,
l’orme seguia per quelle macchie e queste
d’alcuna vaga e timidetta fera,
errore il trasse, o pur destin celeste,
dala terra deserta ala costiera,
colà dove fa lido ala marina
del lembo ultimo suo la Palestina.
47
Giunto ala sacra e gloriosa riva
che con boschi di palme illustra Idume,
dietro una cerva lieve e fuggitiva
stancando il piè, sicom’ avea costume,
trovò, di guardia e di governo priva,
ritratta in secco appo le salse spume,
da’ pescatori abbandonata e carca
d’ogni arredo marin, picciola barca.
Letteratura italiana Einaudi 14
48
Ed ecco varia d’abito e di volto
strania donna venir vede per l’onde,
ch’ha su la fronte il biondo crine accolto
tutto in un globo e quel ch’è calvo asconde;
vermiglio e bianco il vestimento sciolto
con lieve tremolio l’aura confonde;
lubrico è il lembo e quasi un aer vano,
che sempre a chi lo stringe esce di mano.
49
Nel’ampio grembo ha dela copia il corno
e nela destra una volubil palla;
fugge ratto sovente e fa ritorno
per le liquide vie scherzando a galla;
alato ha il piede e più leggiera intorno
che foglia al vento si raggira e balla
e, mentre move al ballo il piè veloce,
in sì fatto cantar scioglie la voce:
50
– Chi cerca in terra divenir beato
goder tesori e possedere imperi,
stenda la destra in questo crine aurato,
ma non indugi a cogliere i piaceri,
ché, se si muta poi stagione e stato,
perduto ben di racquistar non speri:
così cangia tenor l’orbe rotante,
nel’incostanza sua sempre costante. –
51
Così cantava; indi, arrestando il canto,
con lieto sguardo al bel garzone arrise,
ed alo scoglio avicinata intanto
spalmò quel legno e ‘n sul timon s’assise.
– Adon, seguimi (disse) e vedrai quanto
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 15
Giovanbattista Marino - Adone
cortese stella al nascer tuo promise;
prendi la treccia d’or che ‘n man ti porgo,
né temer di venirne ov’io ti scorgo.
52
Benché vulgare opinione antica
mi stimi un idol falso, un’ombra vana
e cieca e stolta e di virtù nemica
m’appelli, instabil sempre e sempre insana
e tiranna impotente altri mi dica
vinta talor dala prudenza umana,
pur son fata e son diva e son reina,
m’ubbidisce natura, il ciel m’inchina.
53
Chiunque Amore o Marte a seguir prende
convien che ‘l nome mio celebri e chiami;
chi solca l’acqua e chi la terra fende
o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami,
porge preghi al mio nume e voti appende
ed io dispenso altrui scettri e reami;
toglier posso e donar tutto ad un cenno
e quanto è sotto il sol reggo a mio senno.
54
Me dunque adora e ‘nsu l’eccelsa cima
dela mia rota ascenderai di corto;
per me nel trono, onde ti trasse in prima
l’empio inganno materno, or sarai scorto;
solché poi dove il fato or ti sublima
sappi nel conservarti essere accorto,
ché spesso suol con preveder periglio
romper fortuna rea cauto consiglio. –
55
Tace ciò detto ed egli, vago allora
di costeggiar quel dilettoso loco,
Letteratura italiana Einaudi 16
entra nel legno e del’angusta prora
i duo remi a trattar prende per gioco.
Ed ecco al sospirar d’agevol ora
s’allontana l’arena a poco a poco,
siché mentr’ei dal mar si volge ad essa
par che navighi ancor la terra istessa.
56
Scorrendo va piacevolmente il lido
mentr’è placido e piano il molle argento
e da principio, del suo patrio nido
rade la riva a passo tardo e lento,
indi al’instabil fè del flutto infido
sestesso crede e si commette al vento
lunge di là dov’a morir va l’onda
e con roco latrar morde la sponda.
57
Trasparean sì le belle spiagge ondose,
che si potean del’umide spelonche
nele profonde viscere arenose
ad una ad una annoverar le conche.
Zefiri destri al volo, Aure vezzose
l’ali scotean: ma tosto lor fur tronche,
il mar cangiossi, il ciel ruppe la fede:
oh malcauto colui ch’ai venti crede.
58
O stolto quanto industre, o troppo audace
fabro primier del temerario legno,
ch’osasti la tranquilla antica pace
romper del crudo e procelloso regno;
più ch’aspro scoglio e più che mar vorace
rigido avesti il cor, fiero l’ingegno,
quando sprezzando l’impeto marino
gisti a sfidar la morte in fragil pino.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 17
Giovanbattista Marino - Adone
59
Per far una leggiadra sua vendetta
Amor fu solo autor di sì gran moto;
Amor fu ch’a pugnar con tanta fretta
trasse turbini e nembi, africo e noto.
Ma dela stanca e misera barchetta
fu sempr’egli il poppiero, egli il piloto;
fece vela del vel, vento con l’ali,
e fur l’arco timon, remi gli strali.
60
Dala madre fuggendo iva il figliuolo
quasi bandito e contumace intorno,
perché, com’io dicea, vinto dal duolo,
di fanciullesca stizza arse e di scorno.
Né perché poscia il richiamasse, il volo
fermar volse giamai né far ritorno
e ‘n tal dispetto, in tant’orgoglio salse
che di vezzo o pregar nulla gli calse.
61
Per gli spazi sen gìa del’aria molle
scioccheggiando con l’Aure Amor volante
e dettava talor rabbioso e folle
tragiche rime a più d’un mesto amante;
talor lungo un ruscello o sovra un colle
piegava l’ali e raccogliea le piante
e, dovunque ne giva, il superbetto
rubava un core o trapassava un petto.
62
– Non è questo lo stral possente e fiero
ch’al rettor dele stelle il fianco offese?
per cui più volte dal celeste impero
l’aureo scettro deposto in terra scese?
quel ch’al quinto del ciel nume guerriero
spezzò, passò l’adamantino arnese?
Letteratura italiana Einaudi 18
quel che punse in Tessaglia il biondo dio,
superbo sprezzator del valor mio?
63
Questa la face è pur cui sola adora,
nonché la terra e ‘l ciel, Stige e Cocito,
che strugger fè, che fè languir talora
il signor dele fiamme incenerito,
quella da cui non si difese ancora
di Teti il freddo ed umido marito,
che tra’ gelidi umori infiamma i fonti,
tra l’ombre i boschi e tra le nevi i monti.
64
Ed or costei, da cui con biasmo eterno
mill’onte gravi io mi soffersi e tacqui,
perché dee le mie forze aver a scherno,
seben dal ventre suo concetto io nacqui?
Dunque andrà da que’ lacci il cor materno
libero, a cui, nonch’altri, anch’io soggiacqui?
arse per Marte, è ver, ma questo è poco,
lieve piaga fu quella e debil foco.
65
Altro ardor più penace, altra ferita
vo’ che più forte al cor senta pur anco.
Si vedrà ch’ella istessa ha partorita
la vipera crudel, che l’apre il fianco.
Degg’io sempre onorar chi più m’irrita?
forse per tema il mio valor vien manco?
No no, segua che può... – Così dicea
l’implacabil figliuol di Citerea.
66
Mentre che quinci e quindi, or basso or alto
vola e rivola il predator fellone,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 19
Giovanbattista Marino - Adone
come prima lontan dal verde smalto
vede in picciol legnetto il vago Adone,
subitamente al disegnato assalto
l’armi apparecchia e l’animo dispone
e, tutto inteso a tribular la madre,
vassene in Lenno ala magion del padre.
67
Nela fuliginosa atra fucina
dove il zoppo Vulcan, suo genitore,
de’ numi eterni i vari arnesi affina
tinto di fumo e molle di sudore,
entra per fabricar tempra divina
d’un aureo strale imperioso Amore,
stral ch’efficace e penetrante e forte
possa un petto immortal ferire a morte.
68
Libero l’uscio al cieco arciero aperse
la gran ferriera del divino artista,
parte di già polite opre diverse,
parte imperfette ancor, confusa e mista.
Colà fan l’armi lampeggianti e terse
del celeste guerrier superba vista,
qui la folgor fiammeggia alata e rossa
del gran fulminator d’Olimpo e d’Ossa.
69
V’è di Pallade ancor lo scudo e l’asta,
il rastello di Cerere e ‘l bidente,
l’acuto spiedo di Diana casta,
la grossa mazza d’Ercole possente,
la falce, onde Saturno il tutto guasta,
l’arco, ond’Apollo uccise il fier serpente,
di Nettuno il trafiero e di Plutone
con due punte d’acciaio havvi il forcone.
Letteratura italiana Einaudi 20
70
Le trombe v’ha con cui volando suona
la Fama e gli altrui fatti or biasma or loda;
v’ha i ceppi, tra’ cui ferri Eolo imprigiona
i venti insani e le tempeste inchioda;
v’ha le catene, onde talor Bellona
il Furor lega e la Discordia annoda;
e v’ha le chiavi, ond’a dar pace o guerra
Giano il gran tempio suo serra e disserra.
71
Presso al focon di mille ordigni onusto
travaglia il nero fabro entro la grotta.
Più d’un callo ha la man forte e robusto,
ale fatiche essercitata e dotta;
ruginosa la fronte, il volto adusto,
crespa la pelle ed abbronzata e cotta,
sparso il grembial di mill’avanzi e mille
di limature e ceneri e faville.
72
Quand’egli scorge il nudo pargoletto,
la forbice e ‘l martel lascia e sospende
e curvo e chino entro il lanoso petto
con un riso villan da terra il prende.
Tra le ruvide braccia avinto e stretto
l’ispido labro per baciarlo stende
e la sudicia barba ed incomposta
al molle viso e dilicato accosta.
73
Ma mentre ch’egli l’accarezza e stringe,
raccolto in braccio, con paterno zelo,
Amor, perché baciando il punge e tinge,
la faccia arretra dal’irsuto pelo
e, con quel sozzo lin che ‘l sen gli cinge,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 21
Giovanbattista Marino - Adone
per non macchiarsi di carbone il velo,
al’aspra guancia d’una in altra ruga
del’immondo sudor le stille asciuga.
74
– Padre, dala tua man (poscia gli dice)
voglio or or sovrafina una saetta,
che fia de’ torti tuoi vendicatrice:
lascia la cura a me dela vendetta.
Il come appalesar né vo’ né lice,
basti sol tanto, spacciati, ch’ho fretta;
non porta indugio il caso, altro or non puoi
da me saper, l’intenderai ben poi.
75
Il quadrel ch’io ti cheggio esser conviene
di perfetto artificio e ben condotto,
ch’esserne fin nele più interne vene
deve un petto divin forato e rotto.
S’usò mai sforzo ad impiegarsi bene
il tuo braccio, il tuo senno esperto e dotto,
fa, prego, in cosa ov’hai tanto interesse,
del gran saper le meraviglie espresse.
76
Starò qui teco a ministrarti intento
sotto la rocca del camin che fuma;
accioché ‘l foco non rimanga spento,
mantice ti farò del’aurea piuma
e s’egli averrà pur che manchi il vento
al folle che l’accende e che l’alluma,
prometto accumular tra questi ardori
in un soffio i sospir di mille cori. –
77
Non pon Vulcano in quell’affar dimora,
ma sceglie la miglior fra cento zolle,
Letteratura italiana Einaudi 22
e pria che ‘nsu l’incudine sonora
ei la castighi, al focolar la bolle;
e non la batte e non la tratta ancora
finché ben non rosseggia e non vien molle;
divenuta poi tenera e vermiglia,
con la morsa tenace ei la ripiglia.
78
Amor presente ed assistente al’opra
come l’abbia a temprar, come l’aguzzi
gli mostra, accioché poi quando l’adopra
non si rompa o si pieghi o si rintuzzi
e di sua propria man vi sparge sopra
del’umor d’un’ampolla alquanti spruzzi,
piena di stille di dogliosi pianti
di sfortunati e desperati amanti.
79
Mentr’è caldo il metallo, i tre fratelli
ch’un sol occhio hanno in fronte e son giganti,
con vicende di tuoni i gran martelli
movono a grandinar botte pesanti
e ‘l dotto mastro al martellar di quelli,
che fan tremar le volte arse e fumanti,
per dar effetto a quel ch’ha nel disegno,
pon gli stromenti in opera e l’ingegno.
80
Tosto che ‘l ferro è raffreddato, in prima
sbozza il suo lavorìo rozzo ed informe,
poi, sotto più sottil minuta lima,
con industria maggior gli dà le forme;
l’arrota intorno e lo forbisce in cima,
applicando al pensier studio conforme;
col foco alfin l’indora e col mordente
e fa l’acciaio e l’or terso e lucente.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 23
Giovanbattista Marino - Adone
81
Poiché l’egregio artefice alo strale
pertutto il liscio e ‘l lustro ha dato apieno,
n’arma il fanciullo un’asticciuola frale,
ma che trafige ogni più duro seno;
gl’impenna il calce di due picciol ale
e ‘l tinge di dolcissimo veleno
e, tutto pien d’una superbia stolta,
pon la caverna e i lavoranti in volta.
82
Va dela dea che generaro i flutti
il baldanzoso e temerario figlio
spiando intorno e i ferramenti tutti
dela scola fabril mette in scompiglio;
or de’ ciclopi mostruosi e brutti
la difforme pupilla e ‘l vasto ciglio,
or il corto tallon del piè paterno
prende con risi e con disprezzi a scherno.
83
Veggendo alternamente arsicci e neri
pestar ferro con ferro i tre gran mostri
– Troppo son (dice) deboli e leggieri
a librar le percosse i polsi vostri;
omai con colpi assai più forti e fieri
questa mano a ferir v’insegni e mostri;
impari ognun dala mia man, che spezza
qualunque di diamante aspra durezza. –
84
Volto a colui, ch’ha fabricato il telo
soggiunge poscia: – In questa tua fornace
le fiamme son più gelide che gelo,
altro ardor più cocente ha la mia face. –
Tolto indi in mano il fulmine del cielo
Letteratura italiana Einaudi 24
e sciolto il freno al’insolenza audace,
in cotal guisa, mentre il vibra e move,
prende le forze a beffeggiar di Giove:
85
– Deh quanto, o tonator, che dale stelle
fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende,
più dela tua, ch’a spaventar Babelle
dal ciel con fiero strepito discende,
atta sola a domar genti rubelle
senza romor la mia saetta offende;
tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme,
l’una fulmina i corpi e l’altra l’alme. –
86
Depon l’arme tonante e ricercando
di qua di là l’affumigato albergo,
trova di Marte il minaccioso brando,
il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo.
– Or la prova vedrem (dice scherzando)
s’a difender son buoni il fianco e ‘l tergo. –
Lo strale in questa uscir dal’arco lassa,
falsa lo scudo e la lorica passa.
87
Di sì fatte follie sorridea seco
lo dio distorto, che ‘l mirava intanto.
– Tu ridi (disse il faretrato cieco)
né sai che l’altrui riso io cangio in pianto,
e più che la fumea di questo speco,
farti d’angoscia lagrimar mi vanto. –
Ciò detto al gran Nettun vola leggiero,
che nel mondo del’acque ha sommo impero.
88
Velocemente a Tenaro sen viene,
e l’aria scossa al suo volar fiammeggia.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 25
Giovanbattista Marino - Adone
Abitator dele più basse arene
quivi ha Nettun la cristallina reggia,
che dal’umor, di cui le sponde ha piene,
battuta sempre e flagellata ondeggia.
Rende dagli antri cavi eco profonda
rauco muggito alo sferzar del’onda.
89
Al’arrivo d’Amor da’ cupi fonti
sgorga e crespo di spuma il mar s’imbianca,
quinci e quindi gli estremi in duo gran monti
sospende e in mezzo si divide e manca,
e, scoverti del fondo asciutti i ponti,
del gran palagio i cardini spalanca.
Passa ei nel regno ove la madre nacque,
patria de’ pesci e region del’acque.
90
Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia
quasi per stretta e discoscesa valle.
L’onda nol bagna e il mar, nonché gli noccia,
ritira indietro il piè, volge le spalle.
Filano acuto gelo a goccia a goccia
ambe le rupi del profondo calle,
e tra questo e quell’argine pendente
apena ei scorger può l’aria lucente.
91
Né già mentre varcava i calli ondosi
la faretra o la face in ozio tenne,
ma con acuti stimoli amorosi
faville e piaghe a seminar vi venne;
e là dove, del’acqua augei squamosi,
spiegano i pesci l’argentate penne,
tra gl’infiniti esserciti guizzanti
sparse mill’esche di sospiri e pianti.
Letteratura italiana Einaudi 26
92
Strana di quella casa è la struttura,
strano il lavoro e strano è l’ornamento;
ha di ruvide pomici le mura
e di tenere spugne il pavimento;
di lubrico zaffiro è la scultura,
dela scala maggior l’uscio è d’argento,
variato di pietre e di cocchiglie
azzurre e verdi e candide e vermiglie.
93
Nel’antro istesso è la magion di Teti
e gran famiglia di Nereidi ha seco,
che ‘n vari uffici ed essercizi lieti
occupate si stan nel cavo speco.
Queste con passi incogniti e secreti
e per sentier caliginoso e cieco
van, del’arida terra irrigatrici,
a nutrir piante e fiori, erbe e radici.
94
Intorno e dentro al’umida spelonca
chi danzando di lor le piante vibra,
chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca,
chi fila l’oro e chi l’affina e cribra;
qual de’ germi purpurei i rami tronca,
qual degli ostri sanguigni i pesi libra
e sotto il piè d’Amor v’ha molte ninfe
che van di musco ad infiorar le linfe.
95
Belle son tutte sì, ma differenti,
altra ceruleo ed altra ha verde il crine,
altra l’accoglie, altra lo scioglie ai venti,
altra intrecciando il va d’alghe marine;
e di manti diafani e lucenti
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 27
Giovanbattista Marino - Adone
velan le membra pure e cristalline;
simili al viso ed agili e leggiadre
mostran che figlie son d’un stesso padre.
96
Pasce Proteo pastor mandra di foche,
orche, pistri, balene ed altri mostri,
dele cui voci mormoranti e roche
fremon pertutto i cavernosi chiostri;
e le guarda e le conta e non son poche,
e scagliose han le terga e curvi i rostri;
glauchi ha gli occhi lo dio, cilestro il volto,
e di teneri giunchi il crine involto.
97
Giunto ala vasta e spaziosa corte
stupisce Amor da tuttiquanti i lati,
poiché per cento vie, per cento porte
cento vi scorge entrar fiumi onorati,
che quindi poi con piante oblique e torte
tornan per invisibili meati
fuor del gran sen, che gli concepe e serra,
con chiare vene ad innaffiar la terra.
98
Vede l’Eufrate divisor del mondo,
che i bei cristalli suoi rompendo piange.
Vede l’original fonte profondo
del Nil che ‘l mar con sette bocche frange
e vede in letto rilucente e biondo
del più fino metal corcarsi il Gange,
il Gange onde trae l’or, di cui si suole
vestir quand’esce insu ‘l mattino il sole.
99
Vede pallido il Tago insu la riva
non men ricchi sputar vomiti d’oro
Letteratura italiana Einaudi 28
e trar groppi di gel nel’onda viva
il Reno e l’Istro e ‘l Rodano sonoro;
di salce il Mincio, l’Adige d’oliva,
l’Arno alpar del Peneo cinto d’alloro,
di pampini il Meandro e d’edre l’Ebro
e d’auree palme incoronato il Tebro.
100
Vede di verdi pioppe ombrar le corna
l’Eridano superbo e trionfale,
ch’ove il rettor del pelago soggiorna
vien dal’Alpi a votar l’urna reale
e mercé de’ suoi duci il ciglio adorna
di splendor glorïoso ed immortale,
onde quel ch’è nel ciel, di lume agguaglia
e con fronte di luna il sole abbaglia.
101
Poi di grido minor ne vede molti
che con rami divisi in varie parti
per l’Italia felice errano sciolti,
del gran padre Appennin concetti e parti
e, quai di canna e quai di mirto avolti
le tempie e quai di rosa ornati e sparti,
somministran con l’acque in lunga schiera
sempiterno alimento a primavera.
102
Tra questi, umil figliuol del bel Tirreno,
il mio Sebeto ancor l’acque confonde,
picciolo sì, ma di delizie pieno,
quanto ricco d’onor, povero d’onde.
– Giriti intorno il ciel sempre sereno,
né sfiori aspra stagion le belle sponde,
né mai la luce del tuo vivo argento
turbi con sozzo piè fetido armento.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 29
Giovanbattista Marino - Adone
103
Giacque in te la Sirena e per te poi
sorger virtute e fiorir gloria io veggio,
trono di Giove e di pregiati eroi
felice albergo e fortunato seggio;
dolce mio porto, agli abitanti tuoi,
ne’ cui petti ho il mio nido, eterno io deggio.
Padre di cigni e lor ricovro eletto,
e de’ fratelli miei fido ricetto. –
104
Con questi encomi affettuosi Amore
del patrio fiume mio le lodi spande,
che ‘l riconosce al limpido splendore
che fra mill’altri è segnalato e grande
e de’ cedri fioriti al grato odore
di cui s’intesse al crin verdi ghirlande.
Intanto nela gelida caverna,
dove siede Nettuno, i passi interna.
105
Seggio di terso oriental cristallo
preme de’ flutti il regnator canuto,
che da colonne d’oro e di corallo
con basi di diamante è sostenuto.
E chi d’una testudine a cavallo
chi d’un delfin, chi d’un vitel cornuto,
cento altri dei minor, numi vulgari,
cedono a lui la monarchia de’ mari.
106
– Non pensar che per ira (Amor gli disse)
gran padre dele cose a te ne vegna,
ché non può dio di pace amar le risse
e nel petto d’Amore odio non regna;
ma perché novamente il ciel prefisse
impresa al’arco mio nobile e degna,
Letteratura italiana Einaudi 30
per render l’opra agevole e spedita
di cortese favor ti cheggio aita.
107
Tu vedi là, dove di Siria siede
la spiaggia estrema che col mar confina,
vago fanciul del mio bel regno erede
col remo essercitar l’onda marina.
Questo, che di bellezza ogni altro eccede,
ala mia bella madre il ciel destina,
onde frutto uscir dee di beltà tanta
che fia simile intutto ala sua pianta.
108
Se deriva da te l’origin mia,
s’a chi mi generò desti la cuna,
se ‘l tuo desir, quando d’amor languìa,
ottenne unqua da me dolcezza alcuna,
accioch’io possa per più facil via
condurlo a posseder tanta fortuna,
mercé di quanto feci o a far mi resta
siami nel regno tuo breve tempesta.
109
Di questa immensa tua liquida sfera
turbar la bella e placida quiete
piacciati tanto sol, ch’innanzi sera,
venga Adone a cader nela mia rete;
e fia tutto a suo pro, perché non pera
sì ricca merce in malsecuro abete,
il cui navigio con incerta legge
più ‘l timor che ‘l timon governa e regge.
110
Sai che quando Ciprigna in novi amori
occupata non è, com’ha per uso,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 31
Giovanbattista Marino - Adone
usurpando a Minerva i suoi lavori
non sa senon trattar la spola o ‘l fuso,
onde inutil letargo opprime i cori,
torpe spento il mio foco, il dardo ottuso,
manca il seme ala vita ed infecondo
a rischio va di spopolarsi il mondo.
111
Oltre queste cagion, per cui devrei
impetrar qualch’effetto ale mie voci,
dee l’util proprio almeno a’ preghi miei
far più le voglie tue pronte e veloci:
da questi felicissimi imenei
corteggiata da mille e mille proci,
Beroe uscirà, che più d’ogni altra bella
fia dele Grazie l’ultima sorella.
112
Costei, sicome mi mostraro in cielo
l’adamantine tavole immortali,
dove nel cerchio del signor di Delo
Giove scolpì gli oracoli fatali,
concede al re del liquefatto gelo
l’alto tenor di quegli eterni annali,
perché venga a scaldar col dolce lume
del freddo letto tuo l’umide piume.
113
Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio
chi move il tutto, il fato altro volgesse,
seben di Tebe il giovinetto dio
fia tuo rival nele bellezze istesse,
a dispetto del ciel tel promett’io,
scritte in diamante sien le mie promesse.
Io, che Giove o destin punto non curo,
per l’acque sacre e per mestesso il giuro. –
Letteratura italiana Einaudi 32
114
Così parlava e ‘l re del’onde intanto
a lui si volse con tranquilla faccia:
– O domatore indomito di quanto
il ciel circonda e l’oceano abbraccia,
a chi può dar altrui letizia e pianto
ragion è ben ch’apieno or si compiaccia:
spendi comunque vuoi quanto poss’io,
pende dal cenno tuo l’arbitrio mio.
115
E qual’onda fia mai, ch’a tuo talento
qui non si renda o torbida o tranquilla,
s’ardon nel molle e mobile elemento
per Cimotoe Triton, Glauco per Scilla?
Come fia tardo ad ubbidirti il vento
se ‘l re de’ venti ancor per te sfavilla
e ricettan l’ardor ne’ freddi cori
Borea d’Orizia e Zefiro di Clori?
116
Tu virtù somma de’ superni giri,
dispensier dele gioie e de’ piaceri,
imperador de’ nobili desiri,
illustrator de’ torbidi pensieri,
dolce requie de’ pianti e de’ sospiri,
dolce union de’ cori e de’ voleri,
da cui natura trae gli ordini suoi,
dio dele meraviglie e che non puoi?
117
Sicome tanti qui fiumi che vedi,
del mio reame tributari sono,
così, signor che l’anime possiedi,
tributario son io del tuo gran trono.
Onde a quant’oggi brami e quanto chiedi
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 33
Giovanbattista Marino - Adone
da questo scettro a te devoto in dono,
o gioia, o vita universal del mondo,
altro che l’esseguir più non rispondo. –
118
Così dice Nettuno e così detto
crolla l’asta trisulca e ‘l mar scoscende.
D’alpi spumose oltre il ceruleo letto
cumulo vasto inver le stelle ascende;
urtansi i venti in minaccioso aspetto,
dele concave nubi anime orrende
e par che rotto o distemprato in gelo
voglia nel mar precipitare il cielo.
119
Borea d’aspra tenzon tromba guerriera
sfida il turbo a battaglia e la procella;
curva l’arco dipinto Iride arciera,
e scocca lampi in vece di quadrella;
vibra la spada sanguinosa e fiera
il superbo Orion, torbida stella
e ‘l ciel minaccia ed ale nubi piene
d’acqua insieme e di foco apre le vene.
120
Fuor del confin prescritto in alto poggia
tumido il mar di gran superbia e cresce;
ruinosa nel mar scende la pioggia,
il mar col cielo, il ciel col mar si mesce;
in novo stile, in disusata foggia,
l’augello il nuoto impara, il volo il pesce;
oppongonsi elementi ad elementi,
nubi a nubi, acque ad acque e venti a venti.
121
Potè, tant’alto quasi il flutto sorse,
la sua sete ammorzar la cagna estiva
Letteratura italiana Einaudi 34
e di nova tempesta a rischio corse,
non ben secura in ciel, la nave argiva.
E voi fuor d’ogni legge, o gelid’orse,
malgrado ancor dela gelosa diva,
nel mar vietato i luminosi velli
lavaste pur dele stellate pelli.
122
Deh che farai dal patrio suol lontano,
misero Adone, a navigar mal atto?
vaghezza pueril tanto pian piano
il mal guidato palischelmo ha tratto,
che la terra natia sospiri invano,
dal gran rischio confuso e sovrafatto.
Tardi ti penti e sbigottito e smorto
omai cominci a desperar del porto.
123
Già già convien che il timido nocchiero
al’arbitrio del caso s’abbandoni;
fremono per lo ciel torbido e nero
fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni
e tuona anch’egli il re del’acque altero,
ch’a suon d’austri soffianti e d’aquiloni,
col fulmine dentato, emulo a Giove,
tormentando la terra, il mar commove.
124
Corre la navicella e ratta e lieve
la corrente del mar seco la porta;
piega l’orlo talvolta e l’onda beve,
assai vicina a rimanerne absorta;
più pallido e più gelido che neve
volgesi Adon, né scorge più la scorta
e di morte sì vasta il fiero aspetto
confonde gli occhi suoi, spaventa il petto.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 35
Giovanbattista Marino - Adone
125
Ma mentre privo di terreno aiuto
l’agitato battel vacilla ed erra,
ambo i fianchi sdruscito e combattuto
da quell’ondosa e tempestosa guerra,
quando il fanciul più si tenea perduto,
ecco rapidamente approda in terra
e, tra’ giunchi palustri insu l’arena
vomitato dal’acque, il corso affrena.
126
Oltre l’Egeo, là donde spunta in prima
il pianeta maggior che ‘l dì rimena,
sotto benigno e temperato clima
stende le falde un’isoletta amena.
Quindi il superbo Tauro erge la cima,
quinci il famoso Nil fende l’arena;
ha Rodo incontro e di Soria vicini
e di Cilicia i fertili confini.
127
Questa è la terra ch’ala dea, che nacque
dal’onde con miracolo novello,
tanto fu cara un tempo e tanto piacque,
che, disprezzato il suo divino ostello,
qui sovente godea fra l’ombre e l’acque
con invidia del’altro un ciel più bello
e v’ebbe eretto, al’immortale essempio
dela sua diva imago, altare e tempio.
128
Scende quivi il garzon salvo al’asciutto,
ma pur dubbioso e di suo stato incerto,
ch’ancor gli par del’orgoglioso flutto
veder l’abisso orribilmente aperto.
Volgesi intorno e scorge esser pertutto,
circondato dal mar, bosco e deserto,
Letteratura italiana Einaudi 36
ma quella solitudine che vede,
gioconda è sì, ch’altro piacer non chiede.
129
Quivi si spiega in un sereno eterno
l’aria in ogni stagion tepida e pura,
cui nel più fosco e più cruccioso verno
pioggia non turba mai, né turbo oscura,
ma, prendendo dipar l’ingiurie a scherno
del gelo estremo e del’estrema arsura,
lieto vi ride né mai varia stile
un sempreverde e giovinetto aprile.
130
I discordi animali in pace accoppia
Amor, né l’un dal’altro offeso geme;
va con l’aquila il cigno in una coppia,
va col falcon la tortorella insieme,
né dela volpe insidiosa e doppia
il semplicetto pollo inganno teme;
fede al’amica agnella il lupo osserva,
e secura col veltro erra la cerva.
131
Da’ molli campi, i cui bennati fiori
nutre di puro umor vena vivace,
dolce confusion di mille odori
sparge e ‘nvola volando aura predace:
aura, che non pur là con lievi errori
suol tra’ rami scherzar spirto fugace,
ma per gran tratto d’acque anco da lunge
peregrinando i naviganti aggiunge.
132
Va oltre Adone e Filomena e Progne
garrir ode pertutto ovunque vanne
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 37
Giovanbattista Marino - Adone
e di stridule pive e rauche brogne
sonar foreste e risonar cappanne
di villane sordine e di sampogne,
di boscherecci zuffoli e di canne
e, con alterno suon, da tutti i lati
doppiar muggiti e replicar balati.
133
Solitario garzon posarsi stanco
vede al’ombra d’un lauro in rozza pietra;
ha l’arco a’ piedi e gli attraversa il fianco
d’un bel cuoio linceo strania faretra;
veste pur di cerviero a negro e bianco
macchiata spoglia e tiene in man la cetra;
dolce con questa al mugolar de’ tori
accorda il suon de’ suoi selvaggi amori.
134
Di dorato coturno ha il piè vestito,
eburneo corno a verde fascia appende;
ride il labro vivace e colorito,
sereno lampo il placid’occhio accende;
ha fiorita la guancia, il crin fiorito
e fiorita è l’età che bello il rende;
tutto in somma di fiori è sparso e pieno,
fior la man, fior la chioma e fiori il seno.
135
Formidabil mastin dal destro lato
in un groppo giacer presso gli scorse,
che con rabbioso ed orrido latrato
quando il vide apparir contro gli corse.
Ma posto il plettro insu l’erboso prato
il cortese villan subito sorse,
e l’indomito can, perché ristesse,
fugò col grido e col baston corresse.
Letteratura italiana Einaudi 38
136
Ubbidisce il superbo, a piè gli piega
l’irsuta testa e l’irta coda abbassa;
quegli ala gola intorno allor gli lega
con tenace cordon serica lassa;
poscia il real donzello invita e prega
ch’oltre vada securo: ed egli passa.
Passa colà, dove raccoglie umile
famiglia pastoral rustico ovile.
137
Stassene alcun su le fiorite rive
d’una sorgente cristallina e fresca;
altri per l’elci folte al’ombre estive
i vaghi augelli insidioso invesca;
altri ne’ verdi faggi intaglia e scrive
d’amor tutto soletto il foco e l’esca;
altri rintraccia di sua ninfa l’orme,
altri salta, altri siede ed altri dorme.
138
Quei con versi d’amor l’aure addolcisce
al sussurrar de’ lubrici cristalli;
questi al tauro, al monton, che gli ubbidisce,
insegna al suon dela siringa i balli;
qual fiscelle d’ibisco e qual ordisce
serti di fiori o purpurini o gialli;
chi torce al’agne le feconde poppe,
chi di latte empie i giunchi e chi le coppe.
139
Col bel fanciullo, ove grand’ombra stende
pergolato di mirti, il pastor siede.
Quivi Adon sue fortune a narrar prende,
dela contrada e di lui stesso chiede.
L’un gli risponde e l’altro intanto pende
dal parlar, che d’amore il cor gli fiede.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 39
Giovanbattista Marino - Adone
– Strani (gli dice) oltr’ogni creder quasi,
peregrino gentil, sono i tuoi casi!
140
Ma cangiar patria omai, deh! non ti spiaccia
con sì bel loco e rasserena il ciglio,
ché se pur, come mostri, ami la caccia,
qui fere avrai senz’ira e senz’artiglio.
Né creder vo’ che ‘ndarno il ciel ti faccia
campar da tanto e sì mortal periglio
o senz’alta cagion per via sì lunga
perduto legno a queste rive giunga.
141
Così compia i tuoi voti amico cielo
e secondi i desir destra fortuna,
come, fra quanti col suo piè di gelo
paesi inferior scorre la luna;
non potea più conforme a sì bel velo
terra trovarsi o regione alcuna.
Certo con lei, che con Amor qui regna,
sol di regnar tanta bellezza è degna.
142
L’isola, dove sei, Cipro s’appella,
che del mar di Panfilia in mezzo è posta;
la gran reggia d’Amor, vedila, è quella
ch’io là t’addito inver la destra costa,
né, se non quanto il vuol la dea più bella,
colà giamai profano piè s’accosta.
Scender di ciel qui spesso ella ha per uso;
in altro tempo il ricco albergo è chiuso.
143
V’ha poi templi ed altari, havvi Amor seco,
simulacri, olocausti e sacerdoti,
Letteratura italiana Einaudi 40
dove, in segno d’onor, del popol greco
pendono affissi in lunga serie i voti.
Offrono al nume faretrato e cieco
vittime elette i supplici devoti
e gli spargono ognor, tra roghi e lumi,
di ghirlande e d’incensi odori e fumi.
144
Qui per elezzion, non per ventura,
già di Liguria ad abitar venn’io;
pasco per l’odorifera verdura
i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio;
del suo bel parco la custodia in cura
diemmi la madre del’alato dio,
dov’entrar, fuorch’a Venere, non lice,
ed ala dea selvaggia e cacciatrice.
145
Trovato ho in queste selve ai flutti amari
d’ogni umano travaglio il vero porto;
qui dale guerre de’ civili affari,
quasi in securo asilo, il ciel m’ha scorto;
serici drappi non mi fur sì cari
come l’arnese ruvido ch’io porto
ed arno meglio le spelonche e i prati,
che le logge marmoree e i palchi aurati.
146
Oh quanto qui più volentieri ascolto
i sussurri del’acque e dele fronde,
che quei del foro strepitoso e stolto
che il fremito vulgar rauco confonde!
Un’erba, un pomo e di fortuna un volto
quanto più di quiete in sé nasconde
di quel ch’avaro principe dispensa
sudato pane in malcondita mensa.
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 41
Giovanbattista Marino - Adone
147
Questa felice e semplicetta gente
che qui meco si spazia e si trastulla,
gode quel ben che tenero e nascente
ebbe a goder sì poco il mondo in culla:
lecita libertà, vita innocente,
appo ‘l cui basso stato il regio è nulla,
ché sprezzare i tesor né curar l’oro,
questo è secolo d’or, questo è tesoro.
148
Non cibo o pasto prezioso e lauto
il mio povero desco orna e compone;
or damma errante, or cavriuolo incauto
l’empie, or frutto maturo in sua stagione;
detto talora a suon d’avena o flauto
ai discepoli boschi umil canzone;
serva no, ma compagna amo la greggia;
questa mandra malculta è la mia reggia.
149
Lunge da’ fasti ambiziosi e vani
m’è scettro il mio baston, porpora il vello,
ambrosia il latte, a cui le proprie mani
scusano coppa e nettare il ruscello;
son ministri i bifolci, amici i cani,
sergente il toro e cortigian l’agnello,
musici gli augelletti e l’aure e l’onde,
piume l’erbette e padiglion le fronde.
150
Cede a quest’ombre ogni più chiara luce,
ai lor silenzi i più canori accenti;
ostro qui non fiammeggia, or non riluce,
di cui sangue e pallor son gli ornamenti;
se non bastano i fior che ‘l suol produce,
Letteratura italiana Einaudi 42
di più bell’ostro e più bell’or lucenti,
con sereno splendor spiegar vi suole
pompe d’ostro l’aurora e d’oro il sole.
151
Altro mormorator non è che s’oda
qui mormorar che ‘l mormorio del rivo;
adulator non mi lusinga o loda
fuorché lo specchio suo limpido e vivo;
livida invidia, ch’altrui strugga e roda,
loco non v’ha, poich’ogni cor n’è schivo,
senon sol quanto in questi rami e ‘n quelli
gareggiano tra lor gli emuli augelli.
152
Hanno colà tra mille insidie in corte
Tradimento e Calunnia albergo e sede,
dal cui morso crudel trafitta a morte
è l’Innocenza e lacera la Fede;
qui non regna Perfidia e, se per sorte,
picciol’ape talor ti punge e fiede,
fiede senza veleno e le ferite
con usure di mel son risarcite.
153
Non sugge qui crudo tiranno il sangue,
ma discreto bifolco il latte coglie;
non mano avara al poverello essangue
la pelle scarna o le sostanze toglie;
solo al’agnel, che non però ne langue,
havvi chi tonde le lanose spoglie;
punge stimulo acuto il fianco a’ buoi,
non desire immodesto il petto a noi.
154
Non si tratta fra noi del fiero Marte
sanguinoso e mortal ferro pungente,
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 43
Giovanbattista Marino - Adone
ma di Cerere sì, la cui bell’arte
sostien la vita, il vomere e ‘l bidente,
né mai di guerra in questa o in quella parte
furore insano o strepito si sente,
salvo di quella che talor fra loro
fan con cozzi amorosi il capro e ‘l toro.
155
Con lancia o brando mai non si contrasta
in queste beatissime contrade;
sol di Bacco talor si vibra l’asta,
onde vino e non sangue in terra cade;
sol quel presidio ai nostri campi basta
di tenerelle e verdeggianti spade
che, nate là su le vicine sponde,
stansi tremando a guerreggiar con l’onde.
156
Borea con soffi orribili ben pote
crollar la selva e batter la foresta:
pacifici pensier non turba o scote
di cure vigilanti aspra tempesta.
E se Giove talor fiacca e percote
del’alte querce la superba testa,
in noi non avien mai che scocchi o mandi
fulmini di furor l’ira de’ grandi.
157
Così tra verdi e solitari boschi
consolati ne meno i giorni e gli anni;
quel sol, che scaccia i tristi orrori e foschi,
serena anco i pensier, sgombra gli affanni;
non temo o d’orso o d’angue artigli o toschi,
non di rapace lupo insidie o danni,
ché non nutre il terren fere o serpenti,
o se ne nutre pur, sono innocenti.
Letteratura italiana Einaudi 44
158
Se cosa è che talor turbi ed annoi
i miei riposi placidi e tranquilli,
altri non è ch’amor. Lasso, dapoi
che mi giunse a veder la bella Filli,
per lei languisco e sol per gli occhi suoi
convien che quant’io viva arda e sfavilli
e vo’ che chiuda una medesma fossa
del foco insieme il cenere e del’ossa.
159
Ma così son d’amor dolci gli strali,
sì la sua fiamma e la catena è lieve,
che mille strazi rigidi e mortali
non vagliono un piacer che si riceve.
Anzi pur vaga de’ suoi propri mali
conosciuto velen l’anima beve
e ‘n quegli occhi ov’alberga il suo dolore,
volontaria prigion procaccia il core.
160
Curi dunque chi vuol delizie ed agi,
io sol piacer di villa apprezzo ed amo;
co’ tuguri cangiar voglio i palagi,
altro tesor che povertà non bramo;
sazio de’ vezzi perfidi e malvagi,
ch’han sotto l’esca dolce amaro l’amo,
qui sol quella ottener gioia mi giova
che ciascun va cercando e nessun trova.
161
Non ti meravigliar che la selvaggia
vita tanto da me pregiata sia,
ch’ancor di Giano insu la patria spiaggia
ne cantai già con rustica armonia;
onde vanto immortal d’arguta e saggia
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 45
Giovanbattista Marino - Adone
concesse Apollo ala sampogna mia,
de’ cui versi lodati in Elicona
il ligustico mar tutto risona. –
162
Del maestro d’amor gli amori ascolta
stupido Adone ed a’ bei detti intento.
Colui, poich’affrenò la lingua sciolta,
fè da’ rozzi valletti in un momento
recar copia di cibi, a cui la molta
fame accrebbe sapore e condimento;
mel di diletto e nettare d’amore
soave al gusto e velenoso al core;
163
né mai di loto abominabil frutto
di secreta possanza ebbe cotanto,
né fu giamai con tal virtù costrutto
di bevanda circea magico incanto,
che non perdesse e non cedesse intutto
al pasto del pastor la forza e ‘l vanto:
licore insidioso, esca fallace,
dolce velen ch’uccide e non dispiace.
164
Nel giardin del Piacer le poma colse
Clizio amoroso e quindi il vino espresse,
ond’ebro in seno il giovinetto accolse
fiamme sottili, indi s’accese in esse.
Non però le conobbe e non si dolse,
ché, finch’uopo non fu, giacquer soppresse,
qual serpe ascosa in agghiacciata falda,
che non prende vigor se non si scalda.
165
Sente un novo desir ch’al cor gli scende
e serpendo gli va per entro il petto;
Letteratura italiana Einaudi 46
ama né sa d’amar, né ben intende
quel suo dolce d’amor non noto affetto;
ben crede e vuole amar, ma non comprende
qual esser deggia poi l’amato oggetto
e pria si sente incenerito il core
che s’accorga il suo male essere amore.
166
Amor ch’alzò la vela e mosse i remi
quando pria tragittollo al bel paese,
va sotto l’ali fomentando i semi
dela fiamma ch’ancor non è palese.
Fa su la mensa intanto addur gli estremi
dela vivanda il contadin cortese;
Adon solve il digiuno e i vasi liba,
e quei segue il parlar mentr’ei si ciba
167
– Signor, tu vedi il sol ch’aventa i rai
di mezzo l’arco, onde saetta il giorno;
però qui riposar meco potrai
tanto che ‘l novo dì faccia ritorno.
Ben da sincero cor, prometto, avrai
in albergo villan lieto soggiorno;
avrai con parca mensa e rozzo letto
accoglienze cortesi e puro affetto.
168
Tosto che sussurrar tra ‘l mirto e ‘l faggio
io sentirò l’auretta mattutina,
teco risorgerò per far passaggio
ala casa d’Amor ch’è qui vicina.
Tu poi quindi prendendo altro viaggio,
potrai forse saldar l’alta ruina,
conosciuto che sii l’unico e vero
successor dela reggia e del’impero. –
Giovanbattista Marino - Adone
Letteratura italiana Einaudi 47
Giovanbattista Marino - Adone
169
Benché non tema il folgorar del sole,
tra fatiche e disagi Adon nutrito,
di quell’oste gentil non però vole
sprezzar l’offerta o ricusar l’invito.
Risposto al grato dir grate parole,
quivi di dimorar prende partito
e ringrazia il destin che, lasso e rotto,
a sì cara magion l’abbia condotto.
170
Sceso intanto nel mar Febo a corcarsi
lasciò le piagge scolorite e meste
e, pascendo i destrier fumanti ed arsi
nel presepe del ciel biada celeste,
di sudore e di foco umidi e sparsi
nel vicino Ocean lavar le teste;
e l’un e l’altro sol stanco si giacque,
Adon tra’ fiori, Apollo in grembo al’acque.
IL PALAGIO D’AMORE

ALLEGORIA

Le ricchezze della casa d’Amore e le sculture della porta di essa, contenenti l’azzioni di Cerere e di Bacco, ci danno a conoscere le delizie della sensualità, e quanto l’uno e l’altra concorrano al nutrimento della lascivia. Le cinque torri comprese nel detto palazzo son poste per essempio de’ cinque sentimenti umani, che son ministri delle dolcezze amorose; e la torre principale, ch’è più elevata dell’altre quattro, dinota in particolare il senso del tatto, in cui consiste l’estremo e l’eccesso di simili dilettazioni. La soavità del pomo gustato da Adone ci insegna che per lo più sogliono sempre i frutti d’amore essere nel principio dolci e piacevoli. Il giudicio di Paride è simbolo della vita dell’uomo, a cui si rappresentano innanzi tre dee, cioè l’attiva, la contemplativa e la voluttaria; la prima sotto nome di Giunone, la seconda di Minerva la terza di Venere. Questo giudicio si commette all’uomo, a cui è dato libero l’arbitrio della elezzione, perché determini qual di esse più gli piaccia di seguitare. Ed egli per ordinario più volentieri si piega alla libidine e al piacere che al guadagno o alla virtù.

ARGOMENTO

Al palagio, ov’amor chiude ogni gioia,
ne van Clizio e Adone in compagnia.
Clizio gli prende a raccontar per via
il gran giudicio del pastor di Troia.

1
Giunto a quel passo il giovinetto Alcide,
che fa capo al camin di nostra vita,
trovò dubbio e sospeso infra due guide
una via, che ‘n due strade era partita.
Facile e piana la sinistra ei vide,
di delizie e piacer tutta fiorita;
l’altra vestìa l’ispide balze alpine
di duri sassi e di pungenti spine.
2
Stette lungh’ora irrisoluto in forse
tra duo sentieri il giovane inesperto;
alfine il piè ben consigliato ei torse
lunge dal calle morbido ed aperto;
e dietro a lei, ch’a vero onor lo scorse,
scelse da destra il faticoso ed erto,
onde per gravi rischi e strane imprese
di somma gloria insu la cima ascese.
3
E così va ehi con giudicio sano
di virtù segue l’onorata traccia.
Ma chiunque credendo al vizio vano
cerca il mal, ch’ha di ben sembianza e faccia,
giunge per molle e spazioso piano
dove in mille catene il piede allaccia.
Quante il perfido ahi! quante e ‘n quanti modi
n’ordisce astute insidie, occulte frodi.
4
Per l’arringo mortal, nova Atalanta,
l’anima peregrina e semplicetta
corre veloce, e con spedita pianta
del gran viaggio al termine s’affretta.
Ma spesso il corso suo stornar si vanta
il senso adulator, ch’a sé l’alletta
con l’oggetto piacevole e giocondo
di questo pomo d’or, che nome ha mondo.
5
Curi lo scampo suo, fugga e disprezzi
le dolci offerte, i dilettosi inganni,
né perché la lusinghi e l’accarezzi,
disperda in fiore il verdeggiar degli anni.
Mille ognor le propon con finti vezzi
per desviarla da’ lodati affanni
gioie amorose, amabili diporti,
che poi fruttano altrui ruine e morti.
6
Da sì fatte dolcezze ella invaghita
di farsi esca al focile e segno al’arco,
nela cruda magion passa tradita
di mille pene a sostener l’incarco;
gabbia senz’uscio e carcer senza uscita,
mar senza riva e selva senza varco,
labirinto ingannevole d’errore,
tal è il palagio, ov’ha ricetto Amore.
7
Già l’augel mattutin battendo intorno
l’ali, a bandir la luce ecco s’appresta,
e ‘l capo e ‘l piè superbamente adorno
d’aurato sprone e di purpurea cresta,
dela villa oriuol, tromba del giorno,
con garriti iterati il mondo desta,
e sollecito assai più che non suole,
già licenzia le stelle e chiama il sole,
8
quando di là, dove posò pur dianzi
dal suo sonno riscosso Adon risorge,
che veder vuol, pria che ‘l calor s’avanzi,
se ‘l ciel di caccia occasion gli porge.
Clizio pastor con la sua greggia innanzi
al vicin bosco l’accompagna e scorge,
là dove a suon di rustica sambuca
convien su ‘l mezzo di ch’ei la riduca.
9
Disegna Adon, se pur tra via s’abbatte
in damma, in daino o in altra fera alcuna,
errando ancor per quell’ombrose fratte
torcer del’arco la cornuta luna.
Quest’armi avea, come non so, ritratte
in salvo dal furor dela fortuna
né so qual tolto avrìa, fra le tempeste
più tosto abbandonar la vita o queste.
10
Così, mentre vagante e peregrino
scorre l’antico suo paterno regno,
del crudo arcier, del perfido destino
affretta l’opra, agevola il disegno.
Ma stimando fatale il suo camino,
poiché campò gran rischio in picciol legno,
spera, quando alcun di quivi soggiorni,
che lo scettro perduto in man gli torni.
11
Veggendo come per sì strania via
dala terra odorifera Sabea
mirabilmente al’isola natia
pietà d’amico ciel scorto l’avea,
e che del loco, ond’ebbe origin pria,
il leggittimo stato in lui cadea,
nel favor di fortuna ancor confida,
che de’ suoi casi a’ bei progressi arrida.
12
Apunto il sol su la cornice allora
dela finestra d’or levava il ciglio,
forse per risguardar s’avesse ancora
nulla esseguito Amor del suo consiglio,
quando di lei, che ‘l terzo giro onora,
dolente pur del fuggitivo figlio,
vie più da lui, che dal pastor guidato,
giunse presso al’ostello aventurato.
13
Anchorché chiusa sia, com’ognor suole,
l’entrata principal dela magione,
tanta è però di sì superba mole
la luce esterior, ch’abbaglia Adone.
La reggia famosissima del sole
de’ suoi chiari splendori al paragone
fora vile ed oscura, e ‘l giovinetto
d’infinito stupor ne colma il petto.
14
Sorge il palagio, ov’ha la dea soggiorno,
tutto d’un muro adamantino e forte.
I gran chiostri, i gran palchi invidia e scorno
fanno ale logge del’empirea corte.
Ha quattro fronti e quattro fianchi intorno,
quattro torri custodi e quattro porte;
e piantata ha nel mezzo un’altra torre,
che vien di cinque il numero a comporre.
15
Ne’ quattro angoli suoi quasi a compasso
poste le torri son tutte egualmente.
Quella di mezzo è del medesmo sasso,
ma del’altre maggiore e più eminente.
L’una al’altra risponde e s’apre il passo
per più d’un ponte eccelso e risplendente,
e con arte assai bella e ben distinta
ciascuna dele quattro esce ala quinta.
16
Sì alto e sì sottile è ciascun arco
che sotto ciascun ponte si distende,
che ben si par che quel sublime incarco
per miracol divino in aria pende.
L’incurvatura, ond’ogni ponte ha varco,
di tante gemme variata splende,
ch’ogni arco ai lumi ed ai color che veste,
somiglia in terra un’iride celeste.
17
Le quattro torri insu i canton costrutte
son fatte in quadro e son d’egual misura,
tranne la principal fra l’altre tutte,
ch’è fabricata in sferica figura.
Son distanti del pari e son condutte
le linee a fil con vaga architettura,
e salvo la maggior che ‘n grembo il tiene,
per ogni torre in un giardin si viene.
18
Non di porfidi ornaro o serpentini
quello strano edificio i dotti mastri,
ma fer di sassi orientali e fini
comignoli e cornici, archi e pilastri.
Preziosi crisoliti e rubini
segar di marmi invece e d’alabastri,
e tutte qui del’indiche spelonche,
e de’ lidi eritrei votar le conche.
19
Dale vene del Gange il fabro scelse
il più pregiato e lucido metallo,
e dale rupi del’Arabia svelse
il diamante purissimo e ‘l cristallo,
onde compose le colonne eccelse
con ben dritta misura ed intervallo,
che su diaspro rilucente e saldo
ferman le basi e i capi han di smeraldo.
20
Tra colonna e colonna al peso altero
sommessi i busti smisurati e grossi,
servon d’appoggio al grave magistero
in forma di giganti alti colossi.
Son fabricati d’un berillo intero
e d’ardente piropo han gli occhi rossi;
ciascun regge un feston distinto e misto
di zaffir, di topazio e d’ametisto.
21
Splende intagliata di fabril lavoro
la maggior porta del mirabil tetto.
Sovra gangheri d’or spigoli d’oro
volge, e serragli ha d’or limpido e schietto,
e sostegno e non fregio al gran tesoro
del ricco ingresso il calcidonio eletto.
Soggiace al piè, quasi sprezzato sasso,
nela lubrica soglia il fin balasso.
22
Quel di mezzo è d’argento, e mille in esso
illustri forme industre mano incise,
e di lor col rilievo e col commesso
gli atti e i volti distinse in varie guise.
Vero il finto dirà, vero ed espresso,
uom, che v’abbia le luci intente e fise.
L’opra, ch’opra è del’arte e quasi spira,
com’opra di sua man, Natura ammira.
23
In una parte del superbo e bello
uscio, ch’al vivo ogni figura esprime,
scolpì Vulcan col suo divin scarpello
l’alma inventrice dele biade prime.
Fumar Etna si vede e Mongibello
fiamme eruttar dale nevose cime.
Ben sepp’egli imitar del patrio loco
con rubini e carbonchi il fumo e ‘l foco.
24
Vedesi là per la campagna aprica,
tutta vestita di novella messe,
biondeggiar d’oro ed ondeggiar la spica,
sparsa pur or dale sue mani istesse.
– Scoglio gentil (par che tacendo dica
sì ben le voci ha nel silenzio espresse)
siami fido custode il tuo terreno
del caro pegno ch’io ti lascio in seno. –
25
Ecco ne vien con le compagne elette
la vergin fuor dela materna soglia,
e per ordir monili e ghirlandette
de’ suoi fregi più vaghi il prato spoglia.
Già par che i fior tra le ridenti erbette
apra con gli occhi e con le man raccoglia.
Ritrar non sapria meglio Apelle o Zeusi
la bella figlia dela dea d’Eleusi.
26
Ed ecco aperte le sulfuree grotte,
mentre ch’ella compon gigli e viole,
dal fondo fuor dela tartarea notte
il rettor dele furie uscire al sole.
Fuggon le ninfe e con querele rotte
la rapita Proserpina si dole.
Spuman tepido sangue e sbuffan neri
aliti di caligine i destrieri.
27
Ecco Cerere in Flegra afflitta riede,
ecco gemino pin succide e svelle
e, per cercarla, fattone due tede,
le leva in alto ad uso di facelle.
Simile al vero il gran carro si vede
ricco di gemme sfavillanti e belle.
Van con lucido tratto il ciel fendenti
l’ali verdi battendo i duo serpenti.
28
Dal’altro lato mirasi scolpito
il giovinetto dio che ‘l Gange adora,
come immaturo ancor, non partorito
Giove dal sen materno il tragge fora,
come gli è madre il padre, indi nutrito
dale ninfe di Nisa i boschi onora.
Stranio parto e mirabile, che fue
una volta concetto e nacque due.
29
In un carro di palmiti sedere
vedilo altrove, e gir sublime e lieve.
Tirano il carro rapide e leggiere
quattro d’Ircania generose allieve.
Leccano intinto il fren l’orride fere
del buon licor che fa gioir chi ‘l beve.
Egli tra i plausi dela vaga plebe
passa fastoso e trionfante a Tebe.
30
Il non mai sobrio e vecchiarel Sileno
sovra pigro asinel vien sonnacchioso,
tinto tutto di mosto il viso e ‘l seno,
verdeggiante le chiome e pampinoso.
Già già vacilla e per cader vien meno,
reggon satiri e fauni il corpo annoso.
Gravi porta le ciglia e le palpebre
di vino e di stupor tumide ed ebre.
31
Vulgo dal destro lato e dal sinistro
di fanciulli e di ninfe si confonde.
e par ch’a suon di crotalo e di sistro
vibrin tirsi e corimbi e frasche e fronde.
Inghirlandan di Bacco ogni ministro
verdi viticci, uve vermiglie e bionde;
e son le viti di smeraldo fino,
l’uve son di giacinto e di rubino.
32
Quinci e quindi dintorno ondeggia e bolle
la turba dele vergini baccanti,
e corre e salta infuriato e folle
lo strepitoso stuol de’ coribanti.
Par già tutto tremar facciano il colle
buccine e corni e cembali sonanti.
Pien di tant’arte è quel lavor sublime,
che nel muto metallo il suono esprime.
33
Quanto Adon più dapresso al loco fassi,
più la mente gl’ingombra alto stupore.
– Questo è il ciel dela terra e quinci vassi
ale beatitudini d’amore. –
Così, colà volgendo i guardi e i passi,
in fronte gli mirò scritto di fore.
Tutto d’incise gemme era lo scritto,
tarsiato a caratteri d’Egitto.
34
– Ecco il palagio, ove Ciprigna alberga,
(disse allor Clizio) e dov’Amor dimora.
Io, quando avien che ‘l sol più alto s’erga,
menar qui la mia greggia uso talora,
né, finché poi nel’ocean s’immerga,
la richiama al’ovil canna sonora.
Ma poiché Sirio latra, io vo’ ben oggi
miglior ombra cercar tra que’ duo poggi.
35
Tra que’ duo poggi che non lunge vedi,
teco verrò per solitarie vie.
Poi da te presi i debiti congedi,
t’attenderò su ‘l tramontar del die
e recherommi a gran mercé se riedi
a ricovrar nele cappanne mie.
Forse intanto il tuo legno esposto al’onda
fia che guidi a buon porto aura seconda. –
36
Adon, disposto di seguir sua sorte,
cortesemente al contadin rispose.
In questo mentre innanzi ale gran porte
estranie vide e disusate cose.
In mezzo un largo pian che vi fa corte,
stende tronco gentil braccia ramose,
di cui non verdeggiò mai sotto il cielo
più raro germe o più leggiadro stelo.
37
Cedan le ricche e fortunate piante,
che dispiegaro la pomposa chioma
nel bel giardin del libico gigante,
che ‘l tergo incurva ala stellata soma.
Non so se là nele contrade sante,
carica i rami di vietate poma,
arbor nutrì sì preziosa e bella
quelche suo paradiso il mondo appella.
38
Ha di diamante la radice e ‘l fusto,
di smeraldo le fronde, i fior d’argento.
Son d’oro i frutti, ond’è maisempre onusto,
e la porpora al’or cresce ornamento.
Di contentar dopo la vista il gusto
al curioso Adon venne talento,
ond’un ne colse e, com’apunto grave
fusse d’ambrosia, il ritrovò soave.
39
E tutto colmo d’un piacer novello
al pastor dimandò: – Che frutto è questo? –
– Il frutto di quel nobile arboscello
non è (rispose) di terreno innesto;
e s’è dolce ala bocca, agli occhi bello,
ben di gran lunga è più perfetto il resto.
Per la virtù ch’asconde il suo sapore,
s’accresce grazia e si raddoppia amore.
40
Udito hai ragionar del pomo ideo,
che ‘n premio di bealtà Venere ottenne,
per cui con tanto sangue il ferro Acheo
fè il ratto del’adultera sollenne.
Questo, poiché di lei restò trofeo,
la dea qui di sua mano a piantar venne
e, piantato che fu, volse dotarlo
dela proprietà di cui ti parlo. –
41
– Deh (gli soggiunse Adon) se non ti pesa,
narra l’origin prima e ‘n qual maniera
nacque fra le tre dee l’alta contesa,
com’ella andò di sì bel pomo altera;
dale ninfe sabee n’ho parte intesa,
ma bramo udir di ciò l’istoria intera.
Così men malagevole ne fia
l’aspro rigor dela malvagia via. –
42
– Poich’ebbe Amor con tanti lacci e tanti,
(il pastor cominciò) tese le reti,
ch’alfin pur strinse dopo lunghi pianti
in nodo marital Peleo con Teti,
le nozze illustri di sì degni amanti
vennero ad onorar festosi e lieti
quanti son numi in ciel, quanti ne serra
il gran cerchio del mare e dela terra.
43
Fu di Tessaglia aventuroso il monte,
dove si celebrar questi imenei.
Di mirti e lauri gli fiorì la fronte,
del trionfo d’amor fregi e trofei;
e le stelle gli fur propizie e pronte,
e le genti mortali e gli alti dei,
se non spargea dissension crudele
tra le dolci vivande amaro fiele.
44
Senza invidia non è gioia sincera,
né molto dura alcun felice stato.
Quel gran piacer dala Discordia fiera,
madre d’ire e di liti, ecco è turbato;
ch’esclusa fuor dela divina schiera
e dal convito splendido e beato,
gli alti diletti e l’allegrezze immense
venne a contaminar di quelle mense.
45
Al’arti sue ricorre e, col consiglio
di quella rabbia che la punge e rode,
corre al giardin d’Esperia e dà di piglio
ale piante che ‘l drago ebber custode.
Quindi un pomo rapisce aureo e vermiglio,
de’ cui rai senz’offesa il guardo gode.
Di minio e d’oro un fulgido baleno
vibra e gemme per semi accoglie in seno
46
Nela scorza lucente e colorita,
il cui folgore lieto i lumi abbaglia,
la diva, di disdegno inviperita,
cui nulla Furia in fellonia s’agguaglia,
di propria man, come il furor l’irrita,
parole poi sediziose intaglia.
Dice il motto da lei scolpito in quella:
«Diasi questo bel dono ala più bella».
47
Torna ove la richiama ala vendetta
del’alta ingiuria la memoria dura
e, d’astio accesa e di veleno infetta,
nel velo ascosa d’una nube oscura,
con la sinistra man su ‘l desco getta
del’esca d’or la perfida scrittura.
Questo magico don fra tante feste
gettò nel mezzo al’assemblea celeste.
48
Lasciaro i cibi e da’ fumanti vasi
le destre sollevar tutti coloro
e, di stupore attoniti rimasi,
presero a contemplar quel sì bell’oro.
Donde si vegna non san dir, ma quasi
un presente del fato ei sembra loro;
e dì di sé gli alletta al bel possesso,
che par ch’Amor si sia nascosto in esso.
49
Ma sovra quanti il videro e ‘l bramaro
le tre cupide dee n’ebber diletto
e, stimulate da desire avaro
che di quel sesso è natural difetto,
la sollecita man steser di paro
ala rapina del leggiadro oggetto
e con gara tra lor non ben concorde
sene mostraro a meraviglia ingorde.
50
Quando lo dio, che del signor d’Anfriso
guardò gli armenti e che conduce il giorno,
meglio in esso drizzando il guardo fiso
vide le lettre ch’avea scritte intorno;
e lampeggiando in un gentil sorriso,
di purpuree scintille il volto adorno,
fè, dele note peregrine e nove
sculte su la corteccia, accorger Giove.
51
Letta l’inscrizzion di quella scorza,
le troppo avide dee cessaro alquanto
e cangiar volto e ‘nsu la mensa a forza
il deposito d’or lasciaro intanto.
Cede il merto al desio, ma non s’ammorza
l’ambizion ch’aspira al primo vanto.
San ch’averlo non può se non sol una,
il voglion tutte e nol possiede alcuna.
52
Degli assistenti l’immortal corona
nova confusion turba e scompiglia.
Con vario disparer ciascun ragiona,
chi di qua, chi di là freme e bisbiglia.
Sovra ciò si contende e si tenzona,
omai tutta sossovra è la famiglia.
Tutta ripiena è già d’alto contrasto
la gran sollennità del nobil pasto.
53
Giunon superba è sì di sua grandezza,
che più del’altre due degna s’appella.
Né sé cotanto Pallade disprezza,
che non pretenda la vittoria anch’ella.
Vener, ch’è madre e dea dela bellezza,
e sa ch’è destinato ala più bella,
ridendosi fra sé di tutte loro,
spera senz’altro al mirto unir l’alloro.
54
Tutti gli dei nel caso hanno interesse
e son divisi a favorir le dee.
Marte vuol sostener con l’armi istesse,
che ‘l ricco pomo a Citerea si dee.
Apollo di Minerva in campo ha messe
le lodi e chiama l’altre invide e ree.
Giove, poich’ascoltato ha ben ciascuno,
parzial dela moglie, applaude a Giuno.
55
Alfin, perch’alcun mal pur non seguisse
in quel drappel ch’al paragon concorre,
bramoso di placar tumulti e risse
e querele e litigi in un comporre,
«Le cose belle (a lor rivolto disse)
son sempre amate, ognun v’anela e corre,
ma quanto altrui più piace il bello e ‘l bene,
con vie maggior difficoltà s’ottiene.
56
Ubbidir fia gran senno, ed è ben dritto
ch’ala ragion la passion soggiaccia,
e ch’a quanto si vole ed è prescritto
dala necessità si sodisfaccia;
che seben di chi regna alcuno editto
talor troppo severo avien che spiaccia,
non ostante il rigor con cui si regge,
giusto non è di violare la legge.
57
Parlo a voi, belle mie, tutte rivolte
ala pretension d’un pregio istesso.
Pur non può questo pomo esser di molte,
sapete ad una sola esser promesso.
Or se le bellezze eguali in voi raccolte
ponno egualmente aver ragione in esso,
né voglion l’altre due dirsi più brutte,
come possibil fia contentar tutte?
58
Giudice delegar dunque conviensi,
saggio conoscitor del vostro merto,
a cui conforme il guiderdon dispensi
con occhio sano e con giudicio certo.
A lui quanto di bello ascoso tiensi
vuolsi senz’alcun vel mostrar aperto,
perché le differenze, onde garrite,
distinguer sappia e terminar la lite.
59
Io renunzio al’arbitrio; esser tra voi
arbitro idoneo inquanto a me non posso,
ché s’ad una aderisco, io non vo’ poi
l’odio del’altre due tirarmi addosso.
Amo dipar ciascuna, i casi suoi
pari zelo a curar sempre m’ha mosso.
Potess’io trionfanti e vincitrici
vedir così dipar tutte felici.
60
Pastor vive tra’ boschi in Frigia nato,
ma sol nel nome e nel’ufficio è tale,
ché, s’ancor non tenesse invido fato
chiuso tra rozze spoglie il gran natale,
al mondo tutto il suo sublime stato
conto fora e ‘l legnaggio alto e reale.
Di Priamo è figlio, imperador troiano,
di Ganimede mio maggior germano.
61
Paride ha nome, e non è forse indegno
ch’egli tra voi la question decida,
poich’ha l’integrità pari al’ingegno
da poter acquetar tanta disfida.
Sconosciuto si sta nel patrio regno
dove il Gargaro altier s’estolle in Ida.
Itene dunque là, colui che porta
l’ambasciate del ciel vi sarà scorta».
62
Così diss’egli e con applauso i detti
raccolti fur del gran rettor superno,
e scritti per man d’Atropo fur letti
nel bel diamante del destino eterno;
e le dive a quel dir sedar gli affetti,
pur di vento pascendo il fasto interno.
Già s’apprestano a prova al gran viaggio,
e ciascuna s’adorna a suo vantaggio.
63
L’altera dea, che del gran rege è moglie,
del’usato s’ammanta abito regio.
Di doppie fila d’or son quelle spoglie
tramate tutte, e d’oro han doppio fregio;
sparse di soli e folgorando toglie
ogni sole al sol vero il lume e ‘l pregio.
Di stellante diadema il capo cinge,
e lo scettro gemmato in man si stringe.
64
Quella ch’Atene adora, ha di bei stami
di schietto argento e semplice la vesta,
riccamata di tronchi e di fogliami
di verde olivo e di sua man contesta.
Tien d’una treccia degl’istessi rami
il limpid’elmo incoronato in testa.
Sostien l’asta la destra e ‘l braccio manco
di scudo adamantin ricopre il fianco.
65
L’altra, ch’ha ne’ begli occhi il foco e ‘l telo,
d’artificio fabril pompa non volse,
ma d’un serico apena azzurro velo
la nudità de’ bianchi membri involse;
color del mare, anzi color del cielo,
quello la generò, questo l’accolse;
leggier leggiero e chiaramente oscuro
che facea trasparer l’avorio puro.
66
Prende Mercurio il pomo, agili e presti
ponsi ale tempie i vanni ed a’ talloni,
e la verga fatal, battendo questi,
si reca in man ch’attorti ha duo, dragoni.
Per ben seguirlo, l’emule celesti
lascian colombe e nottule e pavoni,
ed è lor carro un nuvoletto aurato
lievemente da zefiro portato.
67
Dipinge un bel seren l’aria ridente
di vermiglie fiammelle e d’aurei lampi,
e qual sol, che calando in occidente
di rosati splendori intorno avampi,
segnando il tratto del sentier lucente
indora e inostra i suoi cerulei campi,
mentre condotta dala saggia guida
la superbia del ciel discende in Ida.
68
Stassene in Ida ale fresch’ombre estive
Paride assiso a pasturar le gregge,
là dove intorno in mille scorze vive
il bel nome d’Enon scritto si legge.
Misera Enon, se dele belle dive
giudice eletto ei la più bella elegge,
di te che fia, ch’hai da restar senz’alma?
Ahi che perdita tua fia l’altrui palma!
69
Voglion costor la tua delizia cara,
lassa, rapirti, e ‘l tuo tesor di braccio.
Vanne dunque infelice, e pria ch’avara
fortuna un tanto ardor converta in ghiaccio,
quanto gioir sapesti, or tanto impara
a dolerti di lui che scioglie il laccio;
e mentre puoi, dentro il suo grembo accolta
bacia Paride tuo l’ultima volta.
70
A piè d’un antro nel più denso e chiuso
siede il pastor dela solinga valle.
La mitra ha in fronte e, qual de’ Frigi è l’uso,
barbaro drappo annoda insu le spalle.
Lungo il chiaro Scamandro erra diffuso
l’armento fuor dele sbarrate stalle;
e ‘l verde prato gli nutrisce e serba
di rugiada conditi i fiori e l’erba.
71
Egli gonfiando la cerata canna,
v’accorda al dolce suon canto conforme.
Per gran dolcezza, le palpebre appanna
il fido cane e non lontan gli dorme.
Tacciono intente a piè dela cappanna
ad ascoltarlo le lanose torme.
Cinti le corna di fiorite bacche
obliano il pascolar giovenchi e vacche.
72
Quand’ecco declinar la nube ei vede
che ‘l fior d’ogni bellezza in grembo serra,
e rotando colà dov’egli siede
di giro in giro avicinarsi a terra.
Ecco ala volta sua drizzano il piede
accinte a nova e dilettosa guerra
le tre belle nemiche, a’ cui splendori
rischiara il bosco i suoi selvaggi orrori.
73
In rimirando sì mirabil cosa
stringe le labra allor, curva le ciglia,
e su la fronte crespa e spaventosa
scolpisce col terror la meraviglia.
Sovra il tronco vicin la testa posa,
ed al tronco vicin si rassomiglia.
La canzon rompe, e lascia intanto muta
cadersi a piè la garrula cicuta.
74
«Fortunato pastor, giovane illustre,
(il messaggio divin dissegli allora)
il cui gran lume ascoso in vel palustre
lo stesso ciel nonché la terra onora;
degno ti fa la tua prudenza industre
di venture a mortal non date ancora.
A te con queste dee Giove mi manda,
e che tu sia lor giudice comanda.
75
Vedi questo bel pomo? Ala contesa
quello, che fu suggetto, or premio fia.
Colei l’avrà che ‘n così bella impresa
di bellezza maggior dotata sia.
Donalo pur senza temere offesa
a chi ‘l merita più, ch’a chi ‘l desia.
Ben sopir saprai tu discordie tante
come bel, com’esperto e com’amante.»
76
Tanto dic’egli, e l’aureo pomo sporto
consegna al’altro, ilqual fra gioia e tema
in udir quel parlar facondo e scorto,
e ‘n risguardar quella beltà suprema,
il prende e tace, e sbigottito e smorto
fuor di sestesso impallidisce e trema.
Pur fra tanto stupor che lo confonde,
moderando i suoi moti alfin risponde:
77
«La conoscenza ch’ho del’esser mio,
o dele stelle ambasciador felice,
queste gran novità, che qui vegg’ io,
al mio basso pensier creder disdice;
gloria, di cui godere ad alcun dio
maggior forse lassù gloria non lice,
che dal ciel venga a povero pastore
tanto bene insperato e tanto onore.
78
Ma ch’abbia a proferir lingua mortale
decreto in quel ch’ogn’intelletto eccede,
quanto alo stato mio sì diseguale
più mi rivolgo ei tanto meno il crede.
Nulla degnar mi può di grado tale,
senon l’alto favor che mel concede.
Pur, se ragion di merito mi manca,
grazia celeste ogni viltà rinfranca.
79
Può ben d’umane cose ingegno umano
talor deliberar senza periglio.
Trattar cause divine ardisce invano
senz’aiuto divin saggio consiglio.
Come dunque poss’io rozzo e villano
nonché le labbra aprir, volgere il ciglio,
dove l’istessa ancor somma scienza
non seppe in ciel pronunziar sentenza?
80
Com’esser può che l’esquisita e piena
perfezzion dela beltà conosca
uom, ch’oltre la caligine terrena
tra queste verdi tenebre s’imbosca,
dov’altro mai di sua luce serena
non n’è dato mirar ch’un’ombra fosca?
Certo inabil mi sento e mi confesso
di tali estremi a misurar l’eccesso.
81
S’avessi a giudicar fra toro e toro,
o decretar fra l’una e l’altra agnella,
discerner saprei ben forse di loro
qual si fusse il migliore e la più bella.
Ma così belle son tutte costoro,
che distinguer non so questa da quella.
Tutte egualmente ammiro e tutte sono
degne di laude eguale e d’egual dono.
82
Dogliomi, che tre pomi aver vorrei
qual’è quest’un ch’a litigar l’ha mosse,
ch’allor giusto il giudizio io crederei,
quando commun la lor vittoria fosse.
Aggiungo poi che degli eterni dei
paventar deggio pur l’ire e le posse,
poiché di questa schiera aventurosa
due son figlie di Giove e l’altra è sposa.
83
Ma daché tali son gli ordini suoi
forza immortale il mio difetto scusi,
purché dele due vinte alcuna poi
non sia ch’irata il troppo ardire accusi.
Intanto, o belle dee, se pur a voi
piace che ‘l peso imposto io non ricusi,
quel chiaro sol che tanta gloria adduce
ritenga il morso ala sfrenata luce».
84
Qui Cillenio s’apparta, ed ei restando
chiama tutti a consiglio i suoi pensieri,
e gli spirti al gran caso assottigliando
comincia ad aguzzar gli occhi severi.
Già s’apparecchia ala bell’opra, quando
con atti gravi e portamenti alteri
di real maestà gli s’avicina
e gli prende a parlar la dea Lucina:
85
«Poich’al giudicio uman si sottomette
dala giustizia tua fatta secura
la ragion, che le prime e più perfette
meraviglie del ciel vince ed oscura,
dela beltà, ch’eletta è fra l’elette,
dei conoscer, pastor, la dismisura;
ma conosciuta poi, riconosciuta
convien che sia con la mercé devuta.
86
E s’egli è ver che l’eccellenza prima
possa sol limitar la tua speranza
di mai meglio veder, vista la cima
e ‘l colmo di quel bel ch’ogni altro avanza,
accioché l’occhio tuo, ch’or si sublima
sovra l’umana e naturale usanza,
non curi Citerea più né Minerva,
in me rimira e mie fattezze osserva.
87
Tu discerni colei, se me discerni,
cui cede ogni altro nume i primi onori,
imperadrice degli eroi superni,
consorte al gran motor re de’ motori.
Vedi il più degno infra i suggetti eterni,
che ‘l cielo ammiri o che la terra adori;
innanzi ai raggi dela cui beltade
lo stupor di stupor stupido cade.
88
L’istesso sol d’idolatrarmi apprese
di scorno spesso e di vergogna tinto;
e ‘l mio più volte il suo splendore accese,
l’estinse pria, poi ravivollo estinto.
Negar dunque non puoi di far palese
quel lume altrui che ‘l maggior lume ha vinto,
senza accusar di cecità la luce
di colui che per tutto il dì conduce».
89
Rompe allora il silenzio ed apre il varco
ala voce il pastor con questo dire:
«Poich’a’ suoi cenni col commesso incarco
legge di ciel mi sforza ad ubbidire,
non fia ritroso ad onorarvi o parco,
gloriosa reina, il mio desire,
del cui pronto voler vi farà noto
un schietto favellar libero il voto.
90
Io vi giudico già tanto perfetta,
che più nulla mirar spero di raro,
talché ‘l merto di quel ch’a voi s’aspetta,
contentar ben vi può, ch’a tutti è chiaro,
senza bisogno alcun, ch’io vi prometta
ciò che tor non vi dee giudice avaro,
onde cosa la speme abbia a donarvi,
che ‘n effetto il dever non può negarvi.
91
Ben volentier, se senza ingiuria altrui
così determinar fusse in mia mano,
concederei questo bel pomo a vui,
né dal dritto giudicio andrei lontano.
Ma mi convien, com’ammonito fui
dal facondo corrier del re sovrano,
darlo a colei ch’al’altre il pregio invola;
e voi scesa dal ciel non siete sola».
92
L’orgogliosa moglier del gran tonante
sì fatte lodi udir non si scompiacque,
e senza trionfar già trionfante
attese il fin di quel certame e tacque.
Ed ecco allor, colei trattasi avante
che senza madre del gran Giove nacque,
d’onestà virginal sparsa le gote
chiede il pomo al pastor con queste note:
93
«Tutti i mortali e gl’immortali in questo
sospetti a mio favor sarebbon forse.
Paride sol ch’amico è del’onesto
e dal giusto e dal ver giamai non torse,
degno è d’ufficio tale, ed io ben resto
paga d’un tant’onor che ‘l ciel gli porse,
poiché non so da cui più certo or io
mi potessi ottener quanto desio.
94
Tu, che lume cotanto hai nela mente,
ed appregi valore e cortesia,
rivolgerai nel’animo prudente
tutto ciò ch’io mi vaglia e ciò ch’io sia,
ond’oggi crederò che facilmente
vincitrice farai la beltà mia,
quell’ossequio e quel dritto a me porgendo
che merito, che bramo e che pretendo.
95
Non son non son qual credi; in me vedere
di Vener forse o di Giunon pensasti
lusinghe false ed apparenze altere,
i risi e i vezzi e le superbie e i fasti?
Cose tu vedi essenziali e vere,
vedi Minerva e tanto sol ti basti,
senza cui nulla val regno o ricchezza,
fuor del cui bel difforme è la bellezza.
96
Virtù son io, di cui non altro mai
vide uom mortal ch’una figura, un’orma.
A te però con disvelati rai
ne rappresento la corporea forma;
da cui, se saggio sei, prender potrai
dela vera beltà la vera norma
e conoscer quaggiù fuor d’ogni nebbia
quelche seguir, quelch’adorar si debbia.
97
Forse mentre tu miri ed io ragiono,
per troppo meritar mi stimi indegna,
e la vergogna di sì picciol dono
ti fa parer che poco a me convegna.
Ma io mi scorderò di quelche sono,
solché la palma di tua mano ottegna.
Purch’ella oggi da te mi sia concessa,
per amor tuo sconoscerò mestessa.»
98
Dala virtù di quel parlar ferito
Paride parer cangia e pensier muta
e, dal presente oggetto instupidito,
la memoria del’altro ha già perduta:
«Diva (risponde) il merito infinito
di cotanta beltà non più veduta
dona al mio cieco ingegno occhi abastanza
da poter ammirar vostra sembianza.
99
Io ben conosco che quel ch’oggi appare
in quest’ombroso e solitario chiostro
è puro specchio e lucido essemplare
dela divinità ch’a me s’è mostro.
Ma se vittime e voti, incensi ed are
consacra il mondo al simulacro vostro,
qual sacrificio or v’offerisco e porgo
io, che vivo e non finto il ver ne scorgo?
100
Il presentarvi ciò che vi conviene
è dever necessario e giusta cosa
e l’istessa ragion che v’appartiene,
vi fa senza il mio dir vittoriosa.
La speranza del ben potete bene
concepire omai lieta e baldanzosa.
Intanto in aspettandone l’effetto
purghi la grazia vostra il mio difetto».
101
Queste offerte cortesi assai possenti
furo nel cor dela più saggia dea.
E qual più certo omai di tali accenti
pegno, i suoi dubbi assecurar potea?
Da parole sì dolci e sì eloquenti,
con cui quasi il trofeo le promettea,
presa rimase, e fu delusa anch’essa
la sapienza e l’eloquenza istessa.
102
Ma la madre d’Amor, nel cui bel viso
ogni delizia lor le Grazie han posta,
quel ciglio ch’apre in terra il paradiso,
verso il garzon volgendo a lui s’accosta
e la serenità del dolce riso
d’una gioconda affabiltà composta,
la favella de’ cori incantatrice
lusinghevole scioglie e così dice:
103
«Paride, io mi son tal che nel’acquisto
del desiato e combattuto pomo
senza temer d’alcun successo tristo
rifiutar non saprei giudice Momo;
te quanto meno, in cui sovente ho visto
accortezza e bontà più che ‘n altr’uomo;
quanto più volentier senza spavento
al foro tuo di soggiacer consento?
104
In terra o in ciel tra più tenaci affetti
qual cosa più sensibile d’amore?
qual possanza o virtù, ch’abbia ne’ petti
più dele forze sue forza e valore?
Or che pensi? che fai? che dunque aspetti?
dove, dove è il tuo ardir? dove il tuo core?
Dimmi come avrai core e come ardire
da poterti difendere o fuggire?
105
Se ‘l pomo per cui noi stiam qui pugnando,
come senso non ha, potesse averlo,
tu lo vedresti a me correr volando,
né fora in tua balia di ritenerlo.
Poich’e’ venir non pote, io tel dimando,
sicome degna sol di possederlo.
Qualunque don la mia beltà riceve
è tributo d’onor che le si deve.
106
La vista, il veggio ben, del mio bel volto
t’ha dolcemente l’anima rapita.
Or riprendi gli spirti, e ‘n te raccolto
il cor rinfranca e la virtù smarrita.
Quelche mirabil’è mirato hai molto,
comprender non si può luce infinita.
Gli occhi tuoi che veduto oggi tropp’hanno,
ad ogni altro splendor ciechi saranno.
107
Faccian prima però di quanto han scorto
testimoni del ver, fede ala bocca,
accioché poi sentenziando il torto
non s’abbia a dimostrar maligna o sciocca.
E s’ è dever di giudicante accorto
a ciascun compartir ciò che gli tocca,
bella colei dichiara infra le belle
che di beltà sovrasta al’altre stelle.
108
Poiché l’istesso dono a sé mi chiama,
il dritto il chiede e la ragione il vole;
poiché del senno tuo la chiara fama
t’obliga ad esseguir quelch’egli suole;
s’a quant’oggi da me si spera e brama
non corrisponderan le tue parole,
la giustizia dirò ch’ingiusta sia,
e che la verità dica bugia».
109
Vinto il pastor da parolette tali
e da tanta beltà legato e preso,
a que’ novi miracoli immortali
senza spirito o polso è tutto inteso.
Amor gli ha punto il cor di dolci strali
e di dolci faville il petto acceso,
onde con sospirar profondo e rotto
geme, langue, stupisce e non fa motto.
110
Paride, a che sospiri o perché taci?
Dove bisogna men, più ti confondi.
Tu desti al’ altre due pegni efficaci
di tua promessa; a questa or che rispondi?
Sono i silenzi tuoi nunzi loquaci
d’effetti favorevoli e secondi?
Dunque del tuo tacer s’appaghi e goda,
se di ciò la cagion le torna in loda.
111
Pensa, né sa di quella schiera eterna
qual beltà con più forza il cor gli mova,
che mentre gli occhi trasportando alterna
or a questa or a quella, egual la trova.
Là dove pria s’affisa e ‘l guardo interna
ivi si ferma, e quelch’ha innanzi approva.
Volgesi al’una e bella apien la stima
poscia al’altra passando oblia la prima.
112
Bella è Giunone e ‘l suo candore intatto
di perla oriental luce somiglia.
Ha leggiadro ogni moto, accorto ogni atto
del maggior dio la bellicosa figlia.
Ma tien dela bellezza il ver ritratto
la dea d’amor nel volto e nele ciglia
e tutta, ovunque a risguardarla prenda,
dale chiome ale piante è senza emenda.
113
Un rossor dal candor non ben distinto
varia la guancia e la confonde e mesce.
Il ligustro di porpora è dipinto,
là dove manca l’un, l’altra s’accresce.
Or vinto il giglio è dala rosa, or vinto
l’ostro appar dal’avorio, or fugge, or esce.
Ala neve colà la fiamma cede,
qui la grana col latte inun si vede.
114
D’un nobil quadro di diamante altera
la fronte e chiara alpar del ciel lampeggia.
Quivi Amor si trastulla e quindi impera
quasi in sublime e spaziosa reggia.
Gli albori l’alba, i raggi ogni altra sfera
da lei sol prende e ‘n lei sol si vagheggia,
il cui cristallo limpido riluce
d’una serena e temperata luce.
115
Le luci vaghe a meraviglia e belle
senz’alcun paragone uniche e sole,
scorno insieme e splendor fanno ale stelle,
in lor si specchia, anzi s’abbaglia il sole.
Dal’interne radici i cori svelle
qualor volger tranquillo il ciglio suole.
Nel tremulo seren che ‘n lor scintilla,
umido di lascivia il guardo brilla.
116
Per dritta riga da’ begli occhi scende
il filo d’un canal fatto a misura,
da’ cui fior chi s’appressi, invola e prende
più che non porge, aura odorata e pura.
Sotto, ove l’uscio si disserra e fende
del’erario d’amore e di natura,
apre un corallo in due parti diviso
angusto varco ale parole, al riso.
117
Né di sì fresche rose in ciel sereno
ambiziosa Aurora il crin s’asperse,
né di sì fini smalti il grembo pieno
Iride procellosa al sole offerse,
né di sì vive perle ornato il seno
rugiadosa cocchiglia al’alba aperse,
che la bocca pareggi, ov’ha ridente
di ricchezze e d’odori un oriente.
118
Seminate in più sferze e sparse in fiocchi
sen van le fila innanellate e bionde
de’ capei d’or, ch’a bello studio sciocchi
lasciva trascuragine confonde.
Or su gli omeri vaghi or fra’ begli occhi
divisati e dispersi errano in onde;
e crescon grazia ale bellezze illustri
arti neglette e sprezzature industri.
119
Dele ninfe del ciel gli occhi e le guance
considerate, e le proposte udite,
mentr’ancor vacillante in dubbia lance
del concorso divin pende la lite,
più non vuole il pastor favole o ciance,
più non cura mirar membra vestite,
ma più dentro a spiar di lor beltade
la curiosità gli persuade.
120
«Poiché delpari in quest’ agon si giostra,
più oltre (dice) essaminar bisogna,
né diffinir la controversia vostra
si può, se ‘l vel non s’apre ala vergogna;
perché tal nel difuor bella si mostra,
che senza favellar dice menzogna.
Pompa di spoglie altrui sovente inganna
e d’un bel corpo i mancamenti appanna.
121
Ciascuna dunque si discinga e spogli
de’ ricchi drappi ogni ornamento, ogni arte,
perché la vanità di tali invogli
nele bellezze sue non abbia parte.»
Giunon s’oppone, e con superbi orgogli
ciò far ricusa e traggesi in disparte.
Minerva ad atto tal non ben si piega,
tien gli occhi bassi e per modestia il nega.
122
Ma la prole del mar, che ne’ cortesi
gesti ha grazia ed ardir quanto aver pote,
«esser vogl’io la prima a scior gli arnesi,
(prorompe) ed a scoprir le parti ignote,
onde chiaro si veggia e si palesi
che non solo ho begli occhi e belle gote,
ma ch’è conforme ancora e corrisponde
al bello esterior quelche s’asconde.»
123
«Orsù (Palla soggiunse) ecco mi svesto,
ma pria che scinte abbiam le gonne e i manti,
fa tu, pastor, ch’ella deponga il cesto,
se non vuoi pur che per magia t’incanti.»
Replicò l’altra: «Io non ripugno a questo,
ma tu che di beltà vincer ti vanti,
perché non lasci il tuo guerriero elmetto
e lo spaventi con feroce aspetto?
124
Forse che ‘n te si noti e si riprenda
degli occhi glauchi il torvo lume hai scorno?»
Impon Paride allor, che si contenda
senza celata e senza cinto intorno.
Restò l’aspetto lor, tolta ogni benda,
senz’alcuna ornatura assai più adorno,
sì di sestesse e non d’altr’armi altere
nel grand’arringo entrar le tre guerrere.
125
Quando le vesti alfin que’ tre modelli
dela perfezzione ebber deposte
e de’ lor corpi immortalmente belli
fur le parti più chiuse al guardo esposte,
vider tra l’ombre lor lumi novelli
le caverne più chiuse e più riposte;
ne presente vi fu creata cosa,
che non sentisse in sé forza amorosa.
126
Il sol ritenne il corso al gran viaggio,
inutil fatto ad illustrare il mondo,
perché vide offuscato ogni suo raggio
da splendor più sereno e più giocondo.
Volea scendere in terra a fargli omaggio,
ambizioso pur d’esser secondo;
poi tra sé si pentì del’ardimento,
e d’ammirarlo sol restò contento.
127
Onorata la terra e fatta degna
d’abitatrici sì beate e sante,
con bella gratitudine s’ingegna
di rispondere in parte a grazie tante.
Di bei semi d’amor gravida impregna
e partorisce a que’ begli occhi avante.
Ringiovenì natura e primavera
germogliò d’ognintorno ove non era.
128
Contro i lor naturali aspri costumi
generar dolci poma i pini irsuti.
Nacquer viole da’ pungenti dumi,
fiorir narcisi insu i ginebri acuti.
Scaturir mele e corser latte i fiumi,
e ‘l mar n’ebbe più ricchi i suoi tributi.
Sparser zaffiro i rivi, argento i fonti,
fur d’ostro i prati e di smeraldo i monti.
129
Lascia il canto ogni augel dela foresta
per pascer gli occhi di sì lieto oggetto.
L’acque loquaci in quella rupe e ‘n questa
fermaro il mormorio per gran diletto.
L’aere confuso di dolcezza arresta
i sussurri del’acque al lor cospetto.
Trema al dolce spettacolo ogni belva,
e con attenzion tace la selva.
130
Tacea, senon che gli arbori felici
allievi dela prossima palude,
mossi talor da venticelli amici
bisbigliavano sol ch’erano ignude.
E voi di tanta gloria spettatrici
sentiste altro velen, vipere crude,
onde tornando ai vostri dolci amori
vi saettaste con le lingue i cori.
131
Le naiadi lascive, i fauni osceni
abbandonano gli antri, escon del’onde.
Ciascun per far con gli occhi ai bianchi seni
qualche furto gentil, presso s’asconde.
Vegeta amor ne’ rozzi sterpi, e pieni
d’amor ridono i fior, l’erbe e le fronde.
Ai sassi esclusi dal piacere immenso
spiace sol non avere anima e senso.
132
Paride istesso in quelle gioie estreme
non vive no, senon per gli occhi soli.
Tanto eccesso di luce il miser teme
non la vista e la vita inun gl’involi.
Sguardo non ha per tanti raggi insieme,
né cor bastante a sostener tre soli.
Triplicato balen gli occhi gli serra,
un sole in cielo e tre ne vede in terra.
133
«O dei (dicea) che meraviglie veggio?
chi del’ottimo a trar m’insegna il meglio?
Son prodigi del ciel? sogno o vaneggio?
qual di lor lascio o qual fra l’altre sceglio?
Deh poiché ‘nvan, per far ciò che far deggio,
i sensi affino e l’intelletto sveglio,
in tanto dubbio alcun de’ raggi vostri,
o bellezze divine, il ver mi mostri.
134
Perché non son colui che d’occhi pieno
la giovenca di Giove in guardia tenne?
Avessi in fronte, avessi intorno almeno
quante luci la Fama ha nele penne.
Fossi la notte o fossi il ciel sereno,
poiché dal ciel tanta bellezza venne,
per poter rimirar cose sì belle
con tante viste quante son le stelle.
135
Qual di santa onestà pudico lume
in quella nobil vergine sfavilla?
quanto di venerando ha l’altro nume?
qual d’augusto decoro aria tranquilla?
Ma qual vago fanciul batte le piume
intorno a questa e che dolcezza stilla?
Par che ritenga in sé dolce attrattivo
non so che di ridente e di festivo.
136
Ciò però non mi basta, ancor sospeso
un ambiguo pensier m’aggira e move.
Mentr’or a questa, or son a quella inteso,
bramo il sommo trovar, né so ben dove.
S’io non vo’ di sciocchezza esser ripreso,
conviemmene veder più chiare prove.
Fia d’uopo investigar meglio ciascuna,
e mirarle in disparte ad una ad una.»
137
Fa, così detto, allontanar le due,
e soletta ritien seco Giunone,
laqual promette lui, che se le sue
bellezze ale bell’emule antepone,
principe alcun giamai non fia né fue
più di scettri possente e di corone;
e ch’ogni gente al giogo suo ridutta,
il farà possessor del’Asia tutta.
138
Spedito di costei, Pallade appella,
che ‘n aspetto ne vien bravo e virile,
e patteggiando gli promette anch’ella
gloria cui non fia mai gloria simile;
e che se lei dichiarerà più bella,
farallo invitto in ogni assalto ostile,
chiaro nel’armi e sovra ogni guerriero
inclito di trofei, di palme altero.
139
«No no, cosa in me mai forza non ebbe
da poter la ragion metter di sotto.
Tribunal mercenario il mio sarebbe
s’oggi a venderla qui fossi condotto.
Giudice giusto parteggiar non debbe,
né per prezzo o per premio esser corrotto.
Perdon di vero dono il nome entrambi,
s’avien che con l’un don l’altro si cambi.»
140
Così risponde, e nel medesmo loco
accenna a Citerea che vegna in campo.
Ella comparve e di soave foco
nel teatro frondoso aperse un lampo.
Da quell’oggetto incontr’a cui val poco
a qual più freddo cor difesa o scampo,
non sa con pena di diletto mista
l’ingordo spettator sveller la vista.
141
La qualità di quelle membra intatte
quai descriver saprian pittori industri?
Rendono oscuro e l’alabastro e ‘l latte,
vincono i gigli, eccedono i ligustri.
Piume di cigno e nevi non disfatte
son foschi essempi ai paragoni illustri.
Vedesi lampeggiar nel bel sembiante
candor d’avorio e luce di diamante.
142
«Eccomi (disse) omai fa che cominci
a specolar con diligenza il tutto,
e dimmi se trovar gli occhi de’ linci
sapriano in beltà tanta un neo di brutto.
Ma mentre ogni mia parte e quindi e quinci
rimiri pur per divenirne instrutto,
vo’ che gli occhi e gli orecchi in me rivolti,
le fattezze mirando, i detti ascolti.
143
So che sei tal che signoria non brami,
né di scettri novelli uopo ti face,
ch’ad appagar del tuo desir le fami
il gran regno paterno è ben capace.
Da guerreggiar non hai, poiché i reami
e di Frigia e di Lidia or stanno in pace,
né dei tu, d’ozi amico e di riposi,
altri conflitti amar che gli amorosi.
144
Le battaglie d’amor non son mortali,
né s’essercita in lor ferro omicida.
Dolci son l’armi sue, son dolci i mali,
senza sangue le piaghe e senza strida.
Ma non pertanto ad imenei reali
denno aspirar le villanelle d’Ida,
né dee povera ninfa ardere il core
a chi pote obligar la dea d’amore.
145
Ad uom che d’alta stirpe origin tragge,
sposa non si convien di bassa sorte.
Nulla teco hanno a far nozze selvagge,
nulla confassi a te rozza consorte.
Cedano a’ tetti illustri inculte piagge,
ceda l’umil tugurio al’ampia corte.
Curar non dee di contadini amori
pastor fra’ regi e rege infra’ pastori.
146
Tu fra quanti pastor guardano ovili
sei per forma il più degno e per etate;
ma le fortune tue rustiche e vili
mi fan certo di te prender pietate.
Peregrini costumi e signorili,
pregio di gioventù, fior di beltate,
deh! che giovano a te, se gli anni verdi
e te medesmo inutilmente perdi?
147
Perché tra boschi e rupi e piante e sassi
in questa solitudine romita
così senz’alcun prò corromper lassi
la primavera tua lieta e fiorita?
Perché più tosto a ben menar non passi
in qualche città nobile la vita,
cangiando in letti aurati erbette e fiori,
e ‘n donzelle e scudier pecore e tori?
148
Giovinetta sì bella in Grecia vive
che di bellezza ogni altra donna eccede;
né sol fra le corinzie e fra l’argive
questo publico onor le si concede,
ma poco inferior tiensi ale dive
e quasi in nulla a memedesma cede.
Questa agli studi miei forte inclinata,
ama, amica d’amor, d’essere amata.
149
Lasciò Giove di Leda il ventre greve
di questo novo sol di cui favello,
quando in sen le volò veloce e lieve
trasfigurato in nobil cigno e bello.
Candida e pura è sì com’esser deve
fanciulla nata d’un sì bianco augello.
Molle e gentil come nutrita a covo
dentro la scorza tenera d’un ovo.
150
Ha tanta di beltà fama costei,
tanto poi dal’effetto il grido è vinto,
che Teseo il gran campion s’armò per lei
e lascionne di sangue il campo tinto.
Chiedeano i felicissimi imenei
d’Argo i principi aprova e di Corinto,
ma Menelao fra gli altri il più gradito
parve d’Elena sol degno marito.
151
Pur se ti cal di conquistarla e vuoi
con un pomo mercar tanto diletto,
la ricompensa de’ servigi tuoi
fia di donna sì bella il grembo e ‘l letto.
Al primo incontro sol degli occhi suoi
farti di lei signore io ti prometto.
Farò, ch’abbandonato il lido greco,
dovunque più vorrai, ne venga teco.
152
Là di Lacedemonia al’alta reggia
tu ten’andrai per via spedita e corta.
Ingegnati sol tu ch’ella ti veggia,
lascia cura del resto ala tua scorta.
Intutto ciò ch’un tanto affar richeggia,
Amor fido ministro, io duce accorta,
co’ suoi compagni e con le serve mie
la verremo a dispor per mille vie.»
153
Qui tacque, e fiamma de’ begli occhi uscio
atta a mollir del Caucaso l’asprezza,
ond’ egli ogni altro bel posto in oblio
a quell’incomparabile bellezza,
sforzato dal poter di quel gran dio
ch’ogni cor vince, ogni riparo spezza,
baciato il pomo e ‘n lei le luci affisse,
reverente gliel porse e così disse:
154
«O bella oltre le belle, o sovra quante
ha belle il ciel, bellissima Ciprigna;
foco gentil d’ogni felice amante,
madre d’ogni piacer, stella benigna;
sola ben degna a cui s’inchini avante
l’Invidia istessa perfida e maligna;
se null’ altra beltà la vostra agguaglia,
ragion è ben che sua ragion prevaglia.
155
Sebene a sì gran luce umil farfalla,
il più di voi mi taccio e ‘l men n’ accenno,
audace il dico e so che ‘n me non falla
dal sentier dritto traviato il senno.
Perdonimi Giunon, scusimi Palla
gareggiar vosco disputar non denno.
Giudico che voi sola al mondo siate
l’idea nonché la dea dela beltate.
156
Basta ben ch’ala gloria a voi concessa
fu lor dato poggiar pur col pensiero;
né fu lor poco onor che fusse messa
la certezza in bilancio, in dubbio il vero.
Or di mia bocca la Giustizia istessa
publica il suo parer chiaro e sincero.
L’obligo suo, per la mia mano offerto,
questo pomo presenta al vostro merto».
157
Atteggiata di gioia, ebra di fasto
Venere il prende, indi volgendo i lumi,
«cedetemi l’onor del gran contrasto,
(disse ridente ai duo scornati numi)
confessa pur Giunon ch’io ti sovrasto,
e ch’a torto pugnar meco presumi.
Né spiaccia a te, Bellona, a vincer usa,
di chiamarti da me vinta e confusa.
158
Pensò l’una di voi di superarmi
per esser forse in ciel somma reina.
E credea l’altra con sue lucid’armi
di spaventar la mia beltà divina.
Ma poco vi giovò, per quanto parmi,
opporsi al ver ch’al paragon s’affina.
E sì possenti dee vie più m’aggrada
senza scettro aver vinte e senza spada.
159
Venite Grazie mie, venite Amori,
vigorose mie forze, invitte squadre.
Incoronate de’ più verdi allori
la vostra omai vittoriosa madre.
Ite cantando in versi alti e sonori,
e rispondano al suon l’aure leggiadre.
Viva amor, viva amor, che ‘n cielo e ‘n terra
dela pace trionfa e dela guerra.»
160
Mentre intento il pastore ascolta e mira
la bella, a cui ‘l bel pregio è tocco in sorte,
le due sprezzate dee ver lui con ira
volgon le luci dispettose e torte.
Orgoglio ogni lor atto e sdegno spira,
quasi ruina minacciante e morte.
Giunon però dissimular non pote
la rabbia sì, che non la sfoghi in note:
161
«Misero, e come del suo proprio velo
il cieco arcier (dicea) gli occhi t’involse,
siché dela ragion perduto il zelo,
il bel lume del ver scorger ti tolse?
Te dunque scelse il gran rettor del cielo?
te deputar per giudice ne volse,
quasi un uomo il miglior del’universo,
perché poi si scoprisse il più perverso?
162
Vie più che gloriosa, a te funesta
sarà, sii certo, elezzion sì fatta.
E sappi pur che quest’onore e questa
gloria, che m’abbi al tuo giudicio tratta,
il vituperio fia dela tua gesta
e l’infamia immortal dela tua schiatta.
Quella istessa beltà malvagia e ria
che fu il tuo premio, il tuo supplicio fia.
163
Quella impudica e disonesta putta
che dee con dolce incendio arderti il core,
ancor sarà dela tua patria tutta
e di tutto il tuo regno ultimo ardore.
Caduto Ilio per te, Troia distrutta,
così ferisce e così scalda amore,
sarà del’armi e dele fiamme gioco,
campo di sangue e Mongibel di foco.
164
Tempo verrà, che detestando il fato,
perch’abbi i rai del sol goduti e visti,
il sen bestemmierai che t’ha portato
e l’ora e ‘l punto ch’ala luce uscisti.
Il rimorso e ‘l dolor del’esser nato
fia ‘l minor mal che la tua vita attristi.
Del’aver sostenuto un sì vil pondo
farà sol la memoria infame il mondo.
165
Le stelle che tal peste hanno concetta,
l’aure ch’al suo natal nutrita l’hanno,
quelle congiureransi ala vendetta,
queste il proprio fallir sospireranno.
Natura, che per te fia maledetta,
t’aborrirà con rabbia e con affanno;
e farà che nel fine albergo e fossa
neghi al’anima il ciel, la terra al’ossa».
166
Dopo la dea di Samo a lui si volta
con cruccioso parlar l’altra più casta,
né la superbia e l’ira al petto accolta
la modestia del viso a coprir basta:
«Lingua bugiarda e temeraria e stolta,
(dice, con fiera man crollando l’asta)
ben si conforma il tuo decreto iniquo
al cor fellone ed al pensiero obliquo.
167
Ah! così ben distribuisci i premi
preso a vil’ esca di fallaci inganni?
Così mi paghi i gloriosi semi,
ch’io t’infusi nel cor fin da’ prim’ anni,
che la lascivia essalti e ‘l valor premi
e ‘l vizio abbracci e la virtù condanni
e per sozza mercé di molli vezzi
onor rifiuti e castità disprezzi?
168
Ma per cotesta tua data in malpunto
sentenza detestabile e proterva,
non vien già la mia stima a mancar punto,
ch’io pertutto sarò sempre Minerva.
Se perdo il pomo, in un medesmo punto
il merto e la ragion mi si conserva,
a te ‘l danno col biasmo, e fia ben pronta
l’occasion di vendicar quest’ onta.
169
Sarà questo tuo pomo empio e nefando
seminario di guerre e di ruine.
Che farai, che dirai, misero, quando
cotante ti vedrai stragi vicine?
Pentito alfin piangendo e sospirando
t’accorgerai con tardo senno alfine
quant’erra quei che, dietro a scorte infide,
la ragion repulsando al senso arride».
170
Al parlar dela coppia altera e vaga
l’infelice pastor trema qual foglia,
e del’audacia sua pentito, paga
il passato piacer con doppia doglia,
laqual ne’ suoi sospir par che presaga
strani infortuni annunziar gli voglia.
Ma partite le due, Venere bella
soavissimamente gli favella:
171
«Paride caro, e qual timor t’assale?
s’ è teco Amor di che temer più dei?
Non sai che ‘nsu la punta del suo strale
tutti i trionfi stan, tutti i trofei?
ch’appo ‘l valor che sovr’ogni altro vale
sono impotenti i più potenti dei?
e che del foco suo l’invitta forza
di Giove istesso le saette ammorza?
172
Quell’unica beltà ch’io già ti dissi,
ti farà fortunato infra le pene.
Le chiome ch’indorar porian gli abissi,
fian del’anima tua dolci catene.
Quelle possenti a rischiarar l’ecclissi,
idoli del tuo cor, luci serene
ti faranno languir di tal ferita
ch’avrai sol per morir cara la vita.
173
Sì ben d’ogni bellezza in quel bel volto
epilogato il cumulo s’unisce
e sì perfettamente insieme accolto
quanto ha di bel la terra in lei fiorisce,
che l’istessa Beltà, vinta di molto,
il paraggio ne teme e n’arrossisce;
e d’aver lavorato un sì bel velo
pugnan tra loro e la Natura e ‘l Cielo.
174
Or non può sola imaginata l’ombra
dela figura che t’accenno or io,
con quella idea che nel pensier t’adombra
felicitar per sempre il tuo desio?
Sì sì, sostien l’alta speranza e sgombra
dal petto ogni timor, Paride mio,
sapendo che d’Amor la genitrice
di tutto il suo poter t’è debitrice».
175
A quest’ultimo motto ancelle e paggi,
Grazie ed Amori intorno a lei s’uniro,
e ‘l carro cinto di purpurei raggi
spalmando per lo sferico zaffiro,
la portar da que’ luoghi ermi e selvaggi
sovra l’ali de’ cigni al terzo giro,
e dipar con gli augei bianchi e canori
sen gir cantando e saettando fiori.
176
Qual meraviglia poi ch’alcuno, avezzo
i piati a giudicar de’ cittadini,
real ministro, per lusinga o prezzo
dala via del dever talor declini,
se ‘n virtù sol d’un amoroso vezzo
costui trapassa i debiti confini?
e d’un futuro e tragico piacere
il promesso guadagno il fa cadere?
177
Che non potran la face e l’arco d’oro?
Qual cor non fia dale lor forze oppresso,
se ‘l sacro olivo e ‘l sempiterno alloro
inducono a sprezzar Paride istesso?
e l’umil mirto ei preferisce loro
anzi più tosto il funeral cipresso,
poiché ‘l suo nome, onde si canta e scrive,
per tante morti immortalato vive? –
178
Tenea l’orecchie il bell’Adone intente
le lodi ad ascoltar di Citerea,
e si gia figurando entro la mente
la bella ancor non conosciuta dea.
Ma giunti al loco ove del dì cocente
Clizio sottrarsi al gran calor devea,
dal benigno pastor tolta licenza
con pensier di tornar fece partenza.
179
Tolto apena commiato, un caso estrano,
mercé d’Amor che lo scorgea, gli avenne.
Prese un cervo a seguir che per quel piano
parve in fuggendo aver ne’ piè le penne;
e poch’assai seguito ei l’ebbe invano,
stanco il passo e smarrito alfin ritenne
là dove molto da villaggi e case
e da gregge e pastor lunge rimase.

CANTO I
CANTO II
L’INNAMORAMENTO.

ALLEGORIA

In Amore, che ferisce il cuore alla madre, si accenna che questo irreparabile affetto non perdona a chi che sia. In Venere, che s’innamora d’Adone addormentato, si dinota quanto possa in un animo tenero la bellezza, eziandio quando ella non è coltivata. Nella medesima, che volendo guadagnarsi l’affezzion d’Adone cacciatore, prende la sembianza della dea cacciatrice e d’impudica si trasforma in casta, s’inferisce che chiunque vuole adescare altrui si serve di que’ mezzi a’ quali conosce essere inclinato l’animo di colui che disegna di tirare a sé, e che molte volte la lascivia viene mascherata di modestia; né si trova femina così sfacciata, ch’almeno insu i principi non si ricopra col velo della onestà. Nella rosa tinta del sangue di essa dea ed a lei dedicata, si dimostra che i piaceri venerei son fragili e caduchi; e sono il più delle volte accompagnati da aspre punture o di passione veemente o di pentimento mordace.

ARGOMENTO

Mentreché stanco Adon dorme insu ‘l prato,
la bella Citerea n’arde d’amore.
Egli si desta e pien di pari ardore
vassene seco inver l’ostel beato.

1
Perfido è ben Amor, chi n’arde il sente,
ma chi è che nol senta o che non n’arda?
E pur la cieca e forsennata gente
segue il suo peggio e ‘l proprio mal non guarda!
Fascino dilettoso, ond’uom sovente
pasce, credulo augello, esca bugiarda.
Vede tese le reti e non le fugge,
né vorria non voler quelche lo strugge.
2
Corre vaga farfalla al chiaro lume,
solca incauto nocchier le placid’onde;
quella nel fiero incendio arde le piume,
questo assorbon talor l’acque profonde.
Spesso arsenico in oro e per costume
rigido tra’ bei fiori angue s’asconde;
e spesso in dolce pomo ed odorato
suol putrido abitar verme celato.
3
Così spada lucente, arco depinto
con la pittura e con la luce alletta;
ma se l’una è trattata e l’altro è spinto
l’una trafige poi, l’altro saetta.
Così nuvolo ancor di raggi cinto
fiamme nel seno e fulmini ricetta;
e con dorato e luminoso crine
minaccia empia cometa alte ruine.
4
Sirena, iena, che con falsa voce
e con canto mortale altrui tradisce.
Foco coverto, ch’assecura e coce,
aspe che dorme e ‘l tosco in sen nutrisce.
Spietato lusinghier, ch’alletta e noce,
pietoso micidial, ch’unge e ferisce,
cortese carcerier, ch’a’ rei di morte
quando chiusi li ha in ceppi, apre le porte.
5
Dura legge, se legge esser può dove
oppressa la ragion, regna la voglia
e l’alma folle in strane guise e nove
per vestirsi d’altrui di sé si spoglia.
Crudo signor, ch’a forza i sensi move
a procacciarsi sol tormento e doglia.
Fere come la morte e non perdona
senza distinguer mai stato o persona.
6
O del mondo tiranno e di natura,
se del materno duol gioisci e godi,
qual fia che schermo o scampo alma secura
abbia dale tue forze o dale frodi?
Lasso, e di me che fia, che ‘n prigion dura
vivo e scioglier del cor non spero i nodi,
finché quel nodo ancor non si discioglia,
che tien legata l’anima ala spoglia?
7
Era nela stagion, che ‘l can celeste
fiamme essala latrando e l’aria bolle,
ond’arde e langue in quelle parti e ‘n queste
il fiore e l’erba e la campagna e ‘l colle;
e ‘l pastor per spelonche e per foreste
rifugge al’ombra fresca, al’onda molle
mentre che Febo al’animal feroce
che fu spoglia d’Alcide il tergo coce.
8
L’olmo, il pino, l’abete, il faggio e l’orno
già le braccia e le chiome ombrosi e spessi,
che dar sul fil del più cocente giorno
agli armenti solean grati recessi,
appena or nudi e senza fronde intorno
fanno col proprio tronco ombra a sestessi;
e mal secura dal’eterna face
ricovra agli antri suoi l’aura fugace.
9
Già varcata ha del dì la mezza terza
sul carro ardente il luminoso auriga
e i volanti corsier, ch’ei punge e sferza,
tranno al mezzo del ciel laurea quadriga.
Tepidetto sudor, che serpe e scherza,
al bell’Adon la bella fronte irriga
e ‘n vive perle e liquide disciolto
cristallino ruscel stilla dal volto.
10
Sotto l’arsura del’estiva lampa,
che dal più alto punto il suol percote,
tutto anelante il garzonetto avampa
e il grave incendio sostener mal pote.
Purpureo foco gli colora e stampa
di più dolce rossor le belle gote,
che ‘l sol, che secca i fiori in ogni riva,
in que’ prati d’amor vie più gli aviva.
11
Mentre che pur, dov’egli arresti il passo,
parte cerca più fresca e meno aprica,
ode strepito d’acque a piè d’un sasso,
vede chiusa valletta al sol nemica.
Or questo, il corpo a sollevar già lasso
e travagliato assai dala fatica,
seggio si sceglie e stima util consiglio
qui depor l’armi e dar ristoro al ciglio.
12
Fontana v’ha, cui stende intorno oscura
l’ombra sua protettrice annosa pioppa,
dove larga nutrice empie Natura
di vivace licor marmorea coppa.
Latte fresco e soave è l’onda pura,
un antro il seno ed un cannon la poppa.
A ber sugli orli i distillati umori
apron l’avide labbra erbette e fiori.
13
L’arco rallenta e del’usato pondo
al fianco ingiurioso il fianco alleggia
e ‘l volto acceso e ‘l crin fumante e biondo
lava nel fonte, che ‘nsu ‘l marmo ondeggia.
Poi colà dove il rezzo è più profondo
e d’umido smeraldo il suol verdeggia,
al’erba in grembo si distende e l’erba
ride di tant’onor lieta e superba.
14
Il gorgheggiar de’ garruletti augelli,
a cui da’ cavi alberghi eco risponde;
il mormorar de’ placidi ruscelli,
che van dolce nel margo a romper l’onde;
il ventilar de’ tremuli arboscelli,
dove fan l’aure sibilar le fronde,
l’allettar sì, che ‘nsu le sponde erbose
in un tranquillo oblio gli occhi compose.
15
Non lunge è un colle, che l’ombrosa fronte
di mirti intreccia e ‘l crin di rose infiora,
e del Nilo fecondo il chiuso fonte
vagheggia esposto ala nascente aurora.
E quando rosseggiar fa l’orizzonte
l’aureo carro del sol, che i poggi indora,
sente a l’aprir del mattutino Eoo
d’Eto i primi nitriti e di Piroo.
16
A piè di questo i suoi giardini ha Clori
e qui la dea d’amor sovente riede
a corre i molli e rugiadosi odori
per far tepidi bagni al bianco piede.
Ed ecco sovra un talamo di fiori
qui giunta a caso, il giovinetto vede.
Ma mentr’ella in Adon rivolge il guardo,
Amor crudele in lei rivolge il dardo.
17
Per placar quel feroce animo irato,
Venere sua, ch’ alpar degli occhi l’ama,
con l’esca in man d’un picciol globo aurato
gonfio di vento, a sé da lunge il chiama.
Tosto che vede il vagabondo alato
la palla d’or, di possederla brama,
per poter poi con essa in chiuso loco
sfidar Mercurio e Ganimede a gioco.
18
Movesi ratto e in spaziosa rota
gli omeri dibattendo ondeggia ed erra,
solca il ciel con le piume, in aria nuota,
or l’apre e spiega, or le ripiega e serra.
Or il suol rade, or ver la pura e vota
più alta region s’erge da terra.
Alfin colà dove Ciprigna stassi
china rapido l’ali e drizza i passi.
19
Ella il richiama, egli rifugge, e poi
torna, e ‘ntorno le scherza alto sui vanni.
Anime incaute e semplicette, o voi,
non sia chi creda a que’ soavi inganni.
Fuggite, oimé, gli allettamenti suoi,
insidie i vezzi, e son gli scherzi affanni,
sempre là dov’ei ride è strazio acerbo;
o Dio quanto è crudel, quanto è superbo!
20
Questa dolce magia, che per usanza
l’anime nostre a vaneggiar sospinge,
tal in sé di piacer ritien sembianza,
che quasi in amo d’or le prende e stringe.
Or se tanta han d’amor forza e possanza
soli gli effetti, allor ch’inganna e finge,
deh! che fora a mirar viva e sincera
di quel corpo immortal la forma vera?
21
Di splendor tanto e sì sereno ognora
quel bel corpo celeste intorno è sparso,
che perderebbe ogni altro lume e fora,
senza escluderne il sol, debile e scarso.
Stupor non sia se Psiche, e chiusi ancora
avea gli occhi dal sonno, il cor n’ebb’arso
e vide innanzi a quella luce eterna
vacillando languir l’aurea lucerna.
22
O se nel fosco e torbido intelletto
di quella luce una scintilla avessi,
siché come scolpito il chiudo in petto,
così scoprirlo agli occhi altrui potessi,
farei veder nel suo giocondo aspetto
di bellezze divine estremi eccessi;
onde, scorgendo in lui tanta bellezza,
ragion la madre ha ben se l’accarezza.
23
Bionda testa, occhi azzurri e bruno ciglio,
bocca ridente e faccia ha dilicata,
né su la guancia ove rosseggia il giglio
spunta ancor la lanugine dorata.
Piume d’oro, di bianco e di vermiglio
quinci e quindi sugli omeri dilata
ed ha, come pavon, le penne belle
tutte fregiate d’occhi di donzelle.
24
Molli d’ambrosia e di rugiada ha sparte
le chiome e l’ali e ‘ngarzonisce apena.
Bendato e senza spoglie il copre in parte
sol una fascia che di cori è piena.
Arma la man con infallibil arte
d’arco, di stral, di face e di catena.
L’accompagna in ogni atto il riso, il gioco,
e somiglia al color porpora e foco.
25
Corre ingordo a l’invito e colmo un lembo
di fioretti e di fronde in prima coglie,
poi poggia in aria e sul materno grembo
in colorita grandine lo scioglie;
ed ei nel molle ed odorato nembo
chiuso e tra fiori involto e tra le foglie
piover si lassa leggiermente, e sovra
la bellissima dea posa e ricovra.
26
Tal di donna real delizia e cura
picciolo can che le sta sempre innanzi,
e dele dolci labra ha per ventura
di ricevere i baci e ber gli avanzi,
se con cenno o con cibo l’assecura
la bella man, che lo scacciò pur dianzi,
scote la coda e saltellando riede
umilemente a rilambirle il piede.
27
Pargoleggiando il bianco collo abbraccia,
bacia il bel volto e le mammelle ignude.
Ride per ciancia e la vermiglia faccia
dentro il varco del petto asconde e chiude.
Ella, ch’ancor non sa quai le minaccia
l’atto vezzoso acerbe piaghe e crude,
colma di gioia tutta e di trastullo
si stringe in grembo il lusinghier fanciullo.
28
Stretto in grembo si tien la dea ridente
il dolce peso entro le braccia assiso.
Sul ginocchio il solleva e lievemente
l’agita, il culla e se l’accosta al viso.
Or degli occhi ribacia il raggio ardente,
or dela bocca il desiato riso;
né sa che gonfia di mortal veleno
una serpe crudel si nutre in seno.
29
Le colorite piume e le bell’ali
che ‘l volo scompigliò, l’aura disperse,
e le chiome incomposte e diseguali
polisce con le man morbide e terse.
Ma l’arco traditor, gl’infidi strali,
onde dure talor piaghe sofferse,
non s’arrischia a toccar, che sa ben ella
qual contagio hanno in sé l’aspre quadrella.
30
Seco però, mentre che ‘n braccio il tiene,
d’alquanto divisar pur si compiace.
– Figlio, dimmi (dicea) poiché conviene
ch’esser tra noi non deggia altro che pace,
perché prendi piacer del’altrui pene?
Come sei sì protervo e tanto audace,
ch’ognor con l’armi tue turbi e molesti
la quiete del cielo e de’ celesti? –
31
– Madre (risponde Amor) s’erro talora,
ogni error mio per ignoranzia accade.
Tu vedi ben che son fanciullo ancora,
condona i falli al’immatura etade.–
– Tu fanciul? (replicò Venere allora)
Chi sì stolto pensier ti persuade?
Coetaneo del tempo e nato avante
a le stelle ed al ciel, t’appelli infante?
32
Forse perché non hai canute chiome,
testesso in ciò semplicemente inganni?
e ti dai pur di pargoletto il nome,
quasi l’astuzia poi non vinca gli anni? –
– E qual mia colpa (Amor soggiunge) o come
altri da me riceve offese o danni?
perché denno biasmar l’inique genti
sol di gioia ministre armi innocenti?
33
In che pecco qualora altrui mostr’io
le cose belle? o che gran mal commetto?
Non accusi alcun l’arco o il foco mio,
ma semedesmo sol, ch’erra a diletto.
Se ‘l tuo gran padre o qualunqu’altro dio
si lagna ale mie forze esser soggetto,
dì che ‘l dolce non curi, il bel non brami,
e chi d’amor non vuol languir, non ami. –
34
Ed ella: – Or tu, ch’ognor tante e sì nove
spieghi superbo in ciel palme e trofei;
tu, che con alte e disusate prove
puoi tutti a senno tuo domar gli dei;
tu, che non pur del sommo istesso Giove
vittorioso e trionfante sei,
ma da’ tuoi strali ancor pungenti e duri
me, che ti generai, non assecuri,
35
dimmi ond’avien, che sol, pur come spenta
abbi la face e la faretra vota,
contro Minerva è la tua man sì lenta,
che non l’arda già mai né la percota?
che sol fra tanti un cor piaghe non senta,
che gli sia la tua fiamma intutto ignota,
soffrir non posso; o le facelle e i dardi
depon per tutti, o lei ferisci ed ardi. –
36
Ed egli: – Oimé! Costei di sì tremendo
sembiante arma la fronte e sì severo,
che qualor per ferirla io l’arco tendo
temo l’aspetto suo virile e fiero.
Poi del grand’elmo ador ador scotendo
il minaccioso ed orrido cimiero,
di sì fatto terror suole ingombrarmi,
ch’ala stupida man fa cader l’armi. –
37
Ed ella a lui: – Pur Marte era più molto
feroce e formidabile di questa;
da’ tuoi lacci però non n’andò sciolto,
malgrado ancor dela terribil cresta. –
Ed egli a lei: – Marte il rigor del volto
placa sovente e mi fa gioco e festa,
m invita ai vezzi, ad abbracciarmi corre;
l’altra sempre mi scaccia e sempre aborre.
38
Talor ch’osai d’avicinarmi alquanto,
giurò, per quel signor che regge il mondo,
o con l’asta o col piè rotto ed infranto
precipitarmi al’erebo profondo.
D’angui chiomato ha poi nel petto, ahi quanto
squallido in vista! un teschio e furibondo,
del cui ciglio uscir suol tanto spavento,
che ‘n mirarlo agghiacciar tutto mi sento. –
39
– Odi (dic’ella) odi sagace scusa.
Sì certo sì. Dunque paventi e tremi
nel sen di Palla a risguardar Medusa,
e pur di Giove il folgore non temi?
Ma dimmi or perché ‘l cor d’alcuna Musa
non mai del foco tuo riceve i semi?
Queste sguardo non han rigido e crudo,
né del Gorgone il mostruoso scudo. –
40
– Vero dirotti (egli ripiglia) io queste
non temo no, ma reverente onoro.
Accompagnata da sembianze oneste
virginal pudicizia io scorgo in loro.
Poi sempre intente al bel cantar celeste,
o in studio altro occupato è il sacro coro;
talché non mai, senon ne’ molli versi,
da conversar tra lor varco m’apersi.–
41
Ed ella allor: – Poiché ritiene a freno
tanto furor qui zelo, ivi paura,
vorrei saver perché Diana almeno
dale quadrella tue vive sicura? –
– Né di costei (risponde) il casto seno
vaglio a ferir, rivolta ad altra cura.
Fugge per monti, né posar concede,
sich’ozio mai la signoreggi al piede.
42
Ben ho quel chiaro dio, che di Latona
seco nacque in un parto, arciero anch’esso,
dico quel che di foco il crin corona,
piagato e d’altra fiamma acceso spesso. –
Così mentre con lei scherza e ragiona,
il tratto studia e le si stringe appresso;
e tuttavia dialogando seco,
coglie il tempo a colpir l’occhiuto cieco.
43
Dal purpureo turcasso, ilqual gran parte
dele canne pungenti in sé ricetta,
parve caso improviso e fu bell’arte,
la punta uscì dela fatal saetta.
Punge il fianco ala madre, indi in disparte
timidetto e fugace il volo affretta;
in un punto medesmo il fier garzone
ferille il core ed additolle Adone.
44
Gira la vista a quel ch’Amor l’addita,
che scorgerlo ben può, sì presso ei giace,
ed: – Oimé! (grida) oimé ch’io son tradita,
figlio ingrato e crudel, figlio fallace!
Ahi! qual sento nel cor dolce ferita?
ahi! qual ardor che mi consuma e piace?
qual beltà nova agli occhi miei si mostra?
A dio Marte, a dio ciel, non son più vostra!
45
Pera quell’arco tuo d’inganni pieno,
pera, iniquo fanciul, quel crudo dardo.
Tu prole mia? no no, di questo seno
no che mai non nascesti, empio bastardo!
Né mi sovien tal foco e tal veleno
concetto aver, per cui languisco ed ardo.
Ti generò di Cerbero Megera,
o del’oscuro Cao la Notte nera. –
46
Si svelle in questo dir con duolo e sdegno
lo stral, ch’è nel bel fianco ancor confitto
e tra le penne e ‘l ferro in mezzo al legno
trova il nome d’Adon segnato e scritto.
Volto ala piaga poi l’occhio e l’ingegno
vede profondamente il sen trafitto
e sente per le vene a poco a poco
serpendo gir licenzioso foco.
47
Ben egli è ver che quella fiamma è tale,
che non senza piacer langue e sospira;
e vaga pur del non curato male,
mille in sé di pensier machine aggira.
Or si rivolge al velenoso strale,
or l’esca del suo ardor lunge rimira
e ‘n questi accenti ale confuse voglie
con un ahi doloroso il groppo scioglie:
48
– Ahi ben d’ogni mortal femina vile
omai lo stato invidiar mi deggio,
poiché di furto e con insidia ostile
da chi meno il devria schernir mi veggio.
Mi ferisce il suo stral, m’arde il focile,
né dele mie sventure è questo il peggio;
ch’alfin le fiamme sue son tutte spente,
se la madre d’Amore amor non sente.
49
Ma ch’io soggiaccia a sì perversa sorte,
che le bellezze mie si goda un fabro,
un aspro, un rozzo, un ruvido consorte,
inculto, irsuto, affumigato e scabro?
e che legge immortal peggior che morte
mi costringa a baciar l’ispido labro?
labro assai più nel’orride fornaci
atto a soffiar carbon, ch’a porger baci?
50
Un ch’altro unqua non sa, che col martello
tempestando l’ancudini infernali,
le caverne assordar di Mongibello
per temprar del mio padre i fieri strali,
che dan cadendo in questo lato e ‘n quello
vano spavento ai semplici mortali
e, del maestro lor sembianti espressi,
com’è torto il suo piè son torti anch’essi?
51
Deh quante volte audacemente accosta
importuno ala mia l’adusta faccia
e quella man, ch’ha pur allor deposta
la tanaglia e la lima, in sen mi caccia!
Ed io, malgrado mio, son sottoposta
ai nodi pur del’aborrite braccia
ed a soffrir, che mentre ei mi lusinga,
la fuligine e ‘l fumo ognor mi tinga.
52
Pallade, o saggia lei, quantunque meco
non s’agguagli in beltà, ne fè rifiuto.
Né Giove il volse in ciel, ma nel più cieco
fondo il dannò d’un baratro perduto;
onde piombando in quell’arsiccio speco
l’osso s’infranse e zoppicò caduto.
E pur zoppo ne venne entro il mio letto
l’altrui pace a turbar col suo difetto.
53
Già non m’è già di mente ancor uscita
la rimembranza del’indegne offese.
Altamente nel cor mi sta scolpita
l’insidia, che sì perfida mi tese,
quando ala rete di diamante ordita
questo sozzo villan nuda mi prese,
follemente scoprendo ai numi eterni
dele mie membra i penetrali interni.
54
Un rabbioso dispetto ancor sent’io
del grave oltraggio onde delusa fui,
poiché diè con sua infamia e biasmo mio
vergognosa materia al riso altrui.
Or non si dolga no chi mi schernio,
se l’onta che mi fè ricade in lui;
s’ei volse cancellar corno con scorno
io saprò vendicar scorno con corno.
55
L’Aurora innanzi dì si cala in terra
per abbracciar d’Atene il cacciatore.
La Luna a mezza notte il ciel disserra
per vagheggiar l’arcadico pastore.
Io perché no? Se ‘l mio desir pur erra,
quella somma beltà scusa ogni errore.
Vo’ che ‘l garzon, ch’io colà presso ho scorto,
sia vendetta al’ingiuria, emenda al torto. –
56
Qui tace e poi, qual cacciatrice al guado
colà correndo, al’alta preda anela.
Vesta di lieve e candido zendado
le membra assai più candide le vela,
che, com’opposto al sol leggiero e rado
vapor, le copre sì, ma non le cela.
Vola la falda intorno abile e crespa,
zefiro la raccorcia e la rincrespa.
57
Sudata dal’artefice marito
su l’omero gentil fibbia di smalto
con branche d’oro lucido e forbito
sospende ad un zaffir l’abito in alto.
L’arco, onde suole ogni animal ferito
mercé dela man bella ambir l’assalto,
con la faretra ch’al bel fianco scende
ozioso e dimesso al tergo pende.
58
Sotto il confin dela succinta gonna,
salvo il bel piè, ch’ammanta aureo calzare,
del’una e l’altra tenera colonna
l’alabastro spirante ignudo appare.
Non vide il mondo mai, se la mia donna
non l’agguaglia però, forme sì care.
Da lodar, da ritrar corpo sì bello
Tracia canto non ha, Grecia pennello.
59
Voi Grazie voi, che dolcemente avete
nel nettare del ciel le labra infuse
e ne’ lavacri più riposti siete
nude le sue bellezze a mirar use,
voi snodar la mia lingua e voi potete
narrar di lei ciò che non san le Muse.
Intelletto terreno al ciel non sale,
né fa volo divin penna mortale.
60
Pastor di Troia, o te felice allora
che senza vel tanta beltà mirasti;
e saggio te, quanto felice ancora,
che ‘l pregio a lei d’ogni beltà donasti.
Beltà che gli occhi e gli animi innamora,
diva dele bellezze, e tanto basti.
Se non fuss’ella Citerea, direi,
che Citerea s’assomigliasse a lei.
61
Non osa al bell’Adon Venere intanto
il vero aspetto suo scoprir sì tosto,
ma vuol, per torne gioco innanzi alquanto,
che sia sotto altra imagine nascosto.
Novo, i’ non saprei dir con qual incanto,
simulacro mentito ha già composto
e già sì ben di Cinzia arnesi e gesti
finge, che ‘n tutto lei la crederesti.
62
Va come Cinzia inculta ed inornata,
e veste gonna di color d’erbetta.
Tutta in un fascio d’or la chioma aurata
le cade sovra l’omero negletta.
Nulla industria però ben ordinata
tanto con l’artificio altrui diletta,
quanto al bel crin, ch’ogni ornamento sprezza,
accresce quel disordine bellezza.
63
Tien duo veltri la destra, al lato manco
pende d’aurea catena indico dente.
D’argento in fronte immacolato e bianco,
vedesi scintillar luna lucente.
Lasciasi l’arco e la faretra al fianco,
prende d’acuto acciar spiedo pungente.
Tal ch’ai cani, agli strali, al corno, al’asta
la più lasciva dea par la più casta.
64
Non sol per suo diletto ella usar vole,
ma per infamar l’emula quest’arte,
perché temendo, se la vede il Sole,
non l’accusi a Vulcano overo a Marte,
vuol ch’egli, o qualche satiro, che suole
da lui fuggire in quell’ombrosa parte,
a Pan piuttosto il riferisca e dica,
ch’ancor Diana sua non è pudica.
65
Per più spedito agevolarsi il calle
l’aureo coturno si disfibbia e scalza,
poi del’obliqua ed intricata valle
premendo va la discoscesa balza.
L’erbe dal sole impallidite e gialle
verdeggian tutte, ogni fior s’apre ed alza;
sotto il piè pellegrin del bosco inculto
ogni sterpo fiorisce, ogni virgulto.
66
Ed ecco audace e temeraria spina,
ma quanto temeraria anco felice,
che la tenera pianta alabastrina
punge in passando, e ‘l sangue fuor n’elice
e vien di quella porpora divina
ad ingemmar la cima impiagatrice.
Ma colorando i fior del proprio stelo,
scolora i fior dela beltà del cielo.
67
Pallidetta s’arresta e dolorosa
que’ begli ostri a stagnar col bianco lino
e ‘n tanto folgorar vede la rosa,
già di color di neve, or di rubino.
Ma per doppia ferita ancor non posa,
né dela traccia sua lascia il camino.
Vinta la doglia è dal desire e cede
ala piaga del cor quella del piede.
68
Or giunta sotto il solitario monte,
dove raro uman piè stampò mai l’orme,
trova colà sul margine del fonte
Adon, che ‘n braccio ai fior s’adagia e dorme;
ed or che già dela serena fronte
gli appanna il sonno le celesti forme
e tien velato il gemino splendore,
veracemente egli rassembra Amore.
69
Rassembra Amor, qualor deposta e sciolta
la face e gli aurei strali e l’arco fido,
stanco di saettar posa talvolta
su l’Idalio frondoso o in val di Gnido
e dentro i mirti, ove tra l’ombra folta
han canori augelletti opaco nido,
appoggia il capo ala faretra e quivi
carpisce il sonno al mormorar de’ rivi.
70
Sicome sagacissimo seguso,
poiché raggiunta ha pur tra fratta e fratta
vaga fera talor, col guardo e ‘l muso
esplorando il covil fermo s’appiatta
e ‘n cupa macchia rannicchiato e chiuso
par che voce non oda, occhio non batta,
mentre il varco e la preda ov’ella sia
immobilmente insidioso spia,
71
così la dea d’amor, poiché soletta
giunge a mirar l’angelica sembianza,
ch’ale gioie amorose il bosco alletta
e del suo ciel le meraviglie avanza,
resta immobile e fredda, e ‘nsu l’erbetta
di stupor sovrafatta e di speranza,
siede tremante e il bel che l’innamora,
stupida ammira e reverente adora.
72
In atto sì gentil prende riposo,
che tutto leggiadria spira e dolcezza;
e ‘l Sonno istesso in sì begli occhi ascoso
abbandonar non sa tanta bellezza;
anzi par che, di lor fatto geloso,
di starsi ivi a diletto abbia vaghezza
e con nido sì bel non gli dispiaccia
cangiar di Pasitea l’amate braccia.
73
Placido figlio dela Notte bruna
il Sonno ardea d’amor per Pasitea
e perché questa dele Grazie er’una,
l’ottenne in sposa alfin da Citerea.
Or mentre che di lor se ‘n gia ciascuna
l’erbe scegliendo per lavar la dea,
scherzando intorno ignudo spirto alato
partir non si sapea dal vicin prato.
74
Vanno ove Flora i suoi tapeti stende
le Grazie a côr qual più bel fior germoglia.
Qual dala spina sua rapisce e prende
la rosa e qual del giglio il gambo spoglia.
Quella al balsamo ebreo la scorza fende,
questa al’indica canna il crin disfoglia.
Altra, ove suol vibrar lingue di foco,
ricerca di Cilicia il biondo croco.
75
Or il tranquillo dio, mentre che move
invisibil tra lor l’ali sue chete,
posar veggendo il bell’Adon là dove
tesson notte di fronde ombre secrete,
per piacer ala figlia alma di Giove,
gli pone agli occhi il ramoscel di Lete;
talché ben pote, oppresso in quella guisa,
star quanto vuole a contemplarlo assisa.
76
Tanta in lei gioia dal bel viso fiocca,
e tal da’ chiusi lumi incendio appiglia,
che tutta sovra a lui pende e trabocca
di desir, di piacer, di meraviglia.
E mentre or dela guancia, or dela bocca
rimira pur la porpora vermiglia,
sospirando, un oimé svelle dal petto,
che non è di dolor ma di diletto.
77
Qual industre pittor, che ‘ntento e fiso
in bel ritratto ad emular natura,
tutto il fior, tutto il bel d’un vago viso
celatamente investigando fura,
del dolce sguardo e del soave riso
pria l’ombra ignuda entro ‘l pensier figura,
poi con la man discepola del’arte
di leggiadri color la veste in carte,
78
tal ella quasi con pennel furtivo
l’aria involando del’oggetto amato,
beve con occhio cupido e lascivo
le bellezze del volto innamorato;
indi del’idol suo verace e vivo
forma l’essempio con lo strale aurato
e con lo stral medesimo d’Amore
se l’inchioda e confige in mezzo al core.
79
A piè gli siede e studia attentamente
come la bella imago in sen si stampi.
In lui si specchia ed al’incendio ardente
tragge nov’esca, onde più forte avampi.
Ma dele stelle innecclissate e spente
suscitati veder vorrebbe i lampi
e consumando va tra lieta e trista
in quel dolce spettacolo la vista.
80
Benché ‘l favor de’ rami ombrosi e densi
dal sol difenda il giovane che giace,
pur l’aria, impressa di vapori accensi
e ripercossa dal’estiva face
e quelche lega dolcemente i sensi
e sopisce i pensier sonno tenace,
il volto insieme ed umidetto ed arso
di fiamme tutto e di sudor gli han sparso,
81
onde la dea pietosa or dela vesta
il lembo, or un suo vel candido e lieve
in lui scotendo, a lusingar s’appresta
dela fronte e del crin l’ambra e la neve.
E mentre l’aria tepida e molesta
move e scaccia il calor noioso e greve,
con l’aure vane a vaneggiar intesa
sfoga in sospir l’interna fiamma accesa.
82
– Aure o Aure (dicea) vaghe e vezzose
peregrine del’aria, Aure odorate,
voi che di questa selva infra l’ombrose
cime sonore a stuol a stuol volate,
voi, cui de’ miei sospir l’aure amorose
doppian forza ale piume, Aure beate,
voi dal’estivo ingiurioso ardore
deh defendete il nostro amato amore!
83
Così di verno mai, così di gelo
ira nemica non v’offenda o tocchi;
e quando i monti han più canuto il pelo
dolce dale vostr’ali ambrosia fiocchi;
e securo vi presti il bosco e ‘l cielo
schermo dal vivo sol di que’ begli occhi;
e molle abbiate e di salute piena
ombra sempre tranquilla, aria serena. –
84
Indi al fiorito e verdeggiante prato,
letto del vago suo, rivolta dice:
– Terreno alpar del ciel sacro e beato,
aventurosi fiori, erba felice,
cui sostener tanta bellezza è dato,
cui posseder tanta ricchezza lice,
che del’idolo mio languido e stanco
siete guanciali al volto e piume al fianco,
85
sia quel raggio d’amor, che vi percote,
di sole in vece a voi, fiori ben nati.
Ma che veggio? che veggio? or che non pote
la virtù de’ begli occhi ancor serrati?
Dal bel color dele divine gote,
dal puro odor di que’ celesti fiati
vinta la rosa e vergognoso il giglio,
l’una pallida vien, l’altro vermiglio. –
86
Volgesi agli occhi e dice: – Un degli ardenti
vostri lampi, occhi cari, or mi consoli,
occhi vaghi e leggiadri, occhi lucenti
occhi de’ miei pensieri e porti e poli,
occhi dolci e sereni, occhi ridenti,
occhi de’ miei desiri e specchi e soli,
finestre del’aurora, usci del die,
possenti a rischiarar le notti mie.
87
Occhi, ov’Amor sostien lo scettro e ‘l regno,
ov’egli arrota i più pungenti artigli,
voi sol potete il mio battuto ingegno
campar dale tempeste e da’ perigli,
non men che stanco e travagliato legno
soglian di Leda i duo lucenti figli.
Già parmi in voi veder, veggio pur certo
tra due chiuse palpebre un cielo aperto.
88
Ma perché non v’aprite? e i dolci rai
non volgete a costei, ch’umil v’inchina?
Aprigli, neghittoso, e sì vedrai
a qual ventura il fato or ti destina.
Rendi ai sensi il vigor, richiama omai
l’anima da’ bei membri peregrina.
Ah non gli aprir! che chiuso anco il bel ciglio
spira l’ardor del mio spietato figlio.
89
Sonno, ma tu, s’egli è pur ver che sei
viva e verace imagine di Morte,
anzi di qualità simile a lei
suo germano t’appelli e suo consorte,
come, come potresti a’ danni miei
entrar del ciel nele beate porte?
con che licenza oltre l’usato ardita
puoi negli occhi abitar dela mia vita?
90
E se sei pur del’ombre e degli orrori,
oscuro figlio e gelido compagno,
come i cocenti raggi e i chiari ardori
soffri di quel bel viso, ond’io mi lagno?
Fuggi il rischio mortal! Semplici cori
fan tra i vezzi d’amor scarso guadagno.
Vanne vanne lontan, vattene in loco,
dove tanto non sia splendore e foco!
91
Ma se stender vuoi pur le brune piume
sovra il novello autor de’ miei tormenti,
deh! porgi a l’ombre tue tanto, di lume,
che l’imagine mia gli rappresenti,
laqual sicome dolce io mi consume
gli mostri in atti supplici e dolenti,
onde nel pigro cor, mentre giac’egli
sonnacchioso dormendo, Amor si svegli.–
92
Appena ha queste note ultime espresse,
che l’amico Morfeo, che l’è vicino,
fabrica d’aria e di vapori intesse
simulacro leggiadro e peregrino.
Di tai forme si veste e scopre in esse
di celeste beltà lume divino.
Donna, ch’è tutta luce e foco spira,
nel teatro del sonno Adone ammira.
93
Corona tal, ch’altrui la vista offende,
cerchia la fronte lucida e serena
e di gemme stellata avampa e splende
e di stelle gemmata arde e balena.
E dal titolo suo ben si comprende,
che non è chi la tien cosa terrena.
Havvi scritto dintorno in lettre aurate:
«madre d’Amore e dea dela beltate.»
94
Mentre d’alto stupore Adon vien manco,
già pargli già la bella larva udire,
che stendendo una man d’avorio bianco:
«Adon, dammi il tuo cor» gli prende a dire.
E fu quasi un sol punto aprirgli il fianco,
dispiccarglielo a forza e disparire.
Sognando il bel garzon si dole e geme,
siché la vera dea ne langue insieme,
95
e, traendo un sospir piano e sommesso,
tempra il novo martir che la tormenta
e languisce e gioisce a un tempo istesso,
spera, teme, arde, agghiaccia, osa e paventa.
La mano e ‘l sen s’empie di fiori e spesso
sul viso un nembo al bel fanciul n’aventa.
Indi, ché lui destar non vuol, s’inchina
dolcemente a baciar l’erba vicina.
96
Poscia il bel riso entro le labra accolto,
che ‘n carcere di perle s’imprigiona,
contempla attentamente e del bel volto
vagheggiando la bocca a lei ragiona:
– Urna di gemme, ov’è il mio cor sepolto,
a temedesma il mio fallir perdona,
s’io troppo ardisco; orché tu taci e dormi
l’alma, che mi rapisti, io vo’ ritormi.
97
Che fo (seco dicea) che non accosto
volto a volto pian piano e petto a petto?
Vola il tempo fugace e seco tosto,
seguito dal dolor, fugge il diletto.
Ahi! quel diletto, a cui non vien risposto
con bel cambio d’amor, non è perfetto,
né con vero piacer bacio si prende,
cui l’amata beltà bacio non rende.
98
Qual dunque tregua attendo a’ miei martiri
s’occasion sì bella oggi tralasso?
Ma s’avien che si svegli e che s’adiri,
dove rivolgerò confusa il passo?
Moveranno il suo cor pianti e sospiri
purché non abbia l’anima di sasso.
Non l’avrà, s’egli è bel. – Così dubbiosa
per baciarlo s’abbassa, e poi non osa.
99
Come resta il villan, s’ale fresch’onde
quando più latra in ciel Sirio rabbioso
corre per bere e vede insu le sponde
la vipera crudel prender riposo,
o come il cacciator, che fra le fronde
cerca di Filomena il nido ascoso
e ficcando la man dentro la cova
in vece del’augel, l’aspe vi trova,
100
così lieta in un punto e timidetta
trema costei, quanto pur dianzi ardia.
L’afflige la beltà, che la diletta,
il troppo stimular la fa restia.
Brama quelche l’offende ed è costretta
tuttavolta a temer quelche desia.
Pentesi, che tant’oltre erri il desire
e si pente ancor poi del suo pentire.
101
Tre volte ai lievi e dolci fiati appressa
la bocca e ‘l bacio e tre s’arresta e cede,
e sprone insieme e fren fatta a sestessa,
vuole e disvuole, or si ritragge, or riede.
Amor, che pur sollecitar non cessa,
la sforza alfine ale soavi prede,
sì ch’ardisce libar le rugiadose
di celeste licor purpuree rose.
102
Al suon del bacio, ond’ella ambrosia bebbe,
l’addormentato giovane destossi
e poi ch’alquanto in sé rivenne ed ebbe
dal grave sonno i lumi ebri riscossi,
tanto a quel vago oggetto in lui s’accrebbe
stupor, ch’immoto e tacito restossi;
indi da lei, ch’al’improviso il colse,
per fuggir sbigottito il piè rivolse.
103
Ma la diva importuna il tenne a freno:
– Perché (disse) mi fuggi? ove ne vai?
Mi volgeresti il bel’guardo sereno,
se sapessi di me ciò che non sai. –
Ed egli allora abbarbagliato e pieno
d’infinito diletto a tanti rai,
a tanti rai ch’un sì bel sol gli offerse,
chiuse le luci, indi le labra aperse,
104
ed: – O qual tu ti sia, ch’a me ti mostri
tutta amor, tutta grazia, o donna, o diva
diva certo immortal da’ sommi chiostri
scesa a bear questa selvaggia riva,
se van (disse) tant’alto i preghi nostri,
se reverente affetto il ciel non schiva,
spiega la tua condizion, qual sei
o fra gli uomini nata, o fra gli dei. –
105
A la madre d’Amor, ch’altro non vole
ch’aver le luci a quelle luci affisse,
parve, ch’aprendo l’un e l’altro sole
de’ duo begli occhi, il paradiso aprisse.
E le calde d’amor dolci parole,
ch’a lei tremando e sospirando disse,
le furo soavissime e vitali
fiamme al cor, lacci al’alma, al petto strali.
106
Ma pur del’esser suo celando il vero,
mentitrice favella intanto forma.
– Così poco conosci, incauto arciero,
lei, che non solo il primo cielo informa,
ch’ha nel centro infernal non solo impero,
ma da cui queste selve han legge e norma?
E pur m’imiti e segui a tutte l’ore.
(poco men che non disse: «e m’ardi il core»).
107
I’ men venia, sicome soglio spesso
quando l’estivo can ferve e sfavilla,
in questo bosco a meriggiar là presso
in riva al’onda lucida e tranquilla,
ch’una bolla vivente aperta in esso
di cavernosa pomice distilla
e forma un fonticel, ch’ale vicine
odorifere erbette imperla il crine,
108
quando il mio piè, che per l’estrema arsura,
sicome vedi, è d’ogni spoglia ignudo,
con repentina e rigida puntura
ago trafisse ingiurioso e crudo.
E bench’uopo non sia medica cura
per farmi incontr’al duol riparo e scudo,
colsi quest’erbe, il cui vigore affrena
il corso al sangue e può saldar la vena.
109
Ma perch’ogni mia ninfa erra lontano
e chi tratti non ho l’aspra ferita,
porgimi tu con la cortese mano,
a te ricorro, in te ricovro, aita. –
Qui del trafitto piè, del cor non sano
l’una piaga nasconde e l’altra addita
e scioglie, testimon de’ suoi martiri,
un sospiro diviso in duo sospiri.
110
Non era Adon di rozza cote alpina,
né di libica serpe al mondo nato.
Ma quando fusse ancor d’adamantina
selce e di crudo tosco un petto armato,
ogni cor duro, ogni anima ferina
fora da sì bel sol vinto e stemprato.
Né meraviglia fia, qualor s’accosta,
ch’arda a fiamma vorace esca disposta.
111
Reverenza, pietate, amore e tema
fan nel dubbioso cor fiera contesa;
ma perché deve ogni fortuna estrema
subitamente esser lasciata o presa,
non ricusa il favor, ma gela e trema,
mentre s’appresta a sì soave impresa,
in quel gesto pietoso ed attrattivo,
con cui ride languendo occhio lascivo.
112
– Santo nume (dicea) cui Cinto e Delo
porge voti, offre incensi, altari infiora,
vostra grande in abisso, in terra e ‘n cielo
virtù, chi non conosce e non adora?
Scusate il cor, se con perfetto zelo
celebrar non vi sa quanto v’onora
e l’ardir dela man prendete in pace,
che ‘n sì degn’opra è d’ubbidirvi audace.
113
Deh qual ventura mai, qual proprio merto
d’infelice mortal tant’alto giunse?
Ben ho da benedir questo deserto,
che le fide da voi serve disgiunse
e quel, per cui m’è tanto bene offerto,
spinoso stel, che ‘l bianco piè vi punse;
e vo’segnar per tante glorie mie
con pietra lesbia un sì felice die.
114
Scintillan tante fiamme e tanti raggi
nel sembiante, ch’io scorgo altero e bello
che dar poriano invidia e far oltraggi
al vostro ardente e lucido fratello.
Onde non già de’ boschi aspri e selvaggi,
ma dea de’ cori e degli amor v’appello;
che s’io m’affiso in voi, di veder parmi
al volto Citerea, Diana al’armi.–
115
Con questo ragionar del piè gentile
si reca in grembo l’animato latte
e, poscia che con vel bianco e sottile
n’ha le gelate stille espresse e tratte,
dela destra v’accosta assai simile
quasi in bel paragon, le nevi intatte.
Disse Amor, che non era indi lontano:
– Non volea sì bel piè men bella mano! –
116
Tasta la cicatrice e terge e tocca
morbidamente i sanguinosi avori
e, mentre un rio di nettare vi fiocca
tra cento erbe salubri e cento odori,
fan con occhio loquace e muta bocca
eco amorosa i tormentati cori,
dove invece di voce il vago sguardo
quinci e quindi risponde: «ardi, ch’io ardo»
117
Dicea l’un fra suo cor: – Deh! quali io miro
strani prodigi e meraviglie nove?
Il ciel d’amor dal cristallino giro
di sanguigne rugiade un nembo piove.
Quando tra gli alabastri unqua s’udiro
nascer cinabri in cotal guisa o dove?
Da fonte eburneo uscir rivi vermigli,
dale nevi coralli, ostri dai gigli?
118
Sangue puro e divin, ch’a poco a poco
fai sovra il latte scaturir le rose,
vorrei da te saver, sei sangue o foco,
che tante accogli in te faville ascose?
O non mai più vedute in alcun loco
gemme mie peregrine e preziose,
di sì nobil miniera usciste fore,
che ben si vende a tanto prezzo un core.
119
E tu candido piede insanguinato,
che di minio sì fino asperso sei
e ricca pompa fai così smaltato
de’ tesori d’amore agli occhi miei,
quanto più del mio cor sei fortunato,
del mio cor, che trafitto è da costei?
Langue ferita e di ferir pur vaga
impiagato m’ha il cor con la sua piaga.
120
A te fasciato pur di bianco invoglio
efficace licor rimedio serba.
Senza fasce ei si dole, al suo cordoglio
non giova industria d’arte o virtù d’erba.
Consenta pur Amor, che s’io mi doglio,
trovi ristoro almen la doglia acerba
e, stringendomi il fianco in dolce laccio,
se mi ferisce il piè, mi sani il braccio.
121
Chi più giamai di me felice fia,
s’egli averrà, che questa bella essangue,
ch’al chiuder dela sua la piaga mia
apre così, che ‘l cor ne geme e langue,
d’omicida crudel medica pia
m’asciughi il pianto, ov’io l’asciugo il sangue?
siché tra noie e gioie e guerre e paci
quante mi dà ferite io le dia baci? –
122
– Lassa (l’altra dicea) che dolce pena!
Questa, che la mia piaga annoda e cinge,
non è fascia, anzi è ceppo, anzi è catena,
che mentre il piè mi lega, il cor mi stringe.
Questo purpureo umor, che ‘n larga vena
di vivace rossor mi verga e tinge,
ahi! ch’è l’anima mia, che ‘n sangue espressa
vuole a costui sacrificar sestessa.
123
Erbe felici, ch’ale mie ferute
dolor recate e refrigerio insieme,
benché d’alto valor, quella virtute
che vive in voi, non è virtù di seme.
Vien dala bella man la mia salute,
da quella man, che vi distilla e preme,
emula de’ begli occhi e del bel viso,
che sanandomi il corpo, ha il core ucciso.
124
O bella mano, ond’è che curar vuoi
la piaga del mio piè con tanto affetto?
Forse sol per poter farmene poi
mille più larghe e più profonde al petto?
Fors’è destin, che fuor ch’a’ colpi tuoi,
non dee corpo celeste esser soggetto.
La palma, che di me morte non ebbe,
a te sol si concede, a te si debbe.
125
Ma che più tardo a disvelar quest’ombra,
che tiene il mio splendor di nube cinto?
S’or che le mie bellezze in parte adombra
magica benda, il mio aversario è vinto,
che fia quando ogni nebbia intutto sgombra,
verrà che ceda al vero oggetto il finto? –
Disse e squarciando le fallaci larve,
in propria effigie al giovinetto apparve.
126
Qual vergine talor semplice e pura
s’avien, ch’astuta mano alzi e discopra
drappo, ch’alcuna in sé sacra figura
effigiata ad arte abbia di sopra,
ma secreta nasconda altra pittura,
di lascivo pennel piacevol opra,
tingendo il bel candor di grana fina,
dal’inganno confusa, i lumi inchina,
127
tal si smarrisce Adon, quando scoverto
dela dea gli si mostra il lume intero;
e tanto più, pur di sognar incerto,
d’alta confusion colma il pensiero,
perché conosce espressamente aperto
del sogno suo nela vigilia il vero,
rivedendo colei, che poco dianzi,
rubatrice del cor gli apparve innanzi.
128
Al bel garzon, che stupefatto resta
veduto il primo aspetto in aria sciolto,
la bella dea discopre e manifesta
in un punto medesmo il core e ‘l volto:
– Ben mio (dicea) qual meraviglia è questa,
che tra dubbi pensier ti tiene involto?
quel traveder, che ti fa star dubbioso,
fu di mia deità scherzo amoroso.
129
Or non più mi nascondo. Io mi son quella
per cui d’amore il terzo ciel s’accende;
quella son io, la cui lucente stella
innanzi al sole, emula al sol risplende.
Taccio che dal mio bel, qualunque bella
bella è detta quaggiù, bellezza prende,
taccio che figlia son del sommo padre:
dirò sol ch’amo e che d’Amor son madre.
130
Quando ben fusse a tua notizia ignoto
quelche t’abbaglia, insolito splendore,
qual è clima sì inospito e remoto,
alma qual’è, che non conosca amore?
Che se pur poco agli altri sensi è noto,
malgrado suo n’ha conoscenza il core.
Se ti piace d’amor dunque il piacere,
dimmi il tuo stato e dammi il tuo volere. –
131
Sì disse e Pito il persuase e vinse,
ch’entro le labra dela dea s’ascose;
Pito, ministra sua, d’ambrosia intinse
quelle faconde ed animate rose;
Pito in leggiadri articoli distinse
le note accorte e ‘l bel parlar compose;
Pito dala dolcissima favella
sparse catene ed aventò quadrella.
132
Fusse la gran soavità di queste
voci, che ‘l giovenil petto percosse,
o del bel cinto, ond’ella il fianco veste,
pur la virtù miracolosa fosse,
dal dolce suon del ragionar celeste
invaghito il fanciul tutto si mosse;
ma quelche ‘n lui più ch’altro ebbe possanza,
fu la divina oltramortal sembianza.
133
Un diadema Ciprigna avea gemmante,
gemme possenti a concitare amore:
v’era la pietra illustre e folgorante,
ch’ha dala luna il nome e lo splendore,
la calamita, ch’è del ferro amante
e l’giacinto, ch’a Cinzio accese il core.
Ma la virtù de’ lucidi gioielli
fu nulla appo l’ardor degli occhi belli.
134
La destra ella gli stese e ‘l vago lino
scorciò, che nascondea la neve pura,
ond’implicato in un cerchietto fino,
che con mista di gemme aurea scultura
facea maniglia al gomito divino
rigido di barbarica ornatura,
fuss’arte o caso, dilicato e bianco
fece il fuso veder del braccio manco.
135
Tenea, com’io dicea, le membra belle
appannate d’un vel candido e netto
e, quai d’Adria veggiam donne e donzelle,
infin sotto le poppe ignudo il petto.
Fe’ vista allor tra ‘l seno e le mammelle
voler groppo annodar non ben ristretto
e più leggiadra e più secreta parte
fingendo di coprir, scoverse ad arte.
136
Mentre languia l’innamorata dea,
Adon con fise ciglia in lei rivolto
tutto rapito a contemplar godea
le meraviglie del celeste volto
e quivi in vista attonito scorgea
il bel del bello in breve spazio accolto.
Fra i detti intanto e fra gli sguardi amore
gli entrò per gli occhi e per l’orecchie al core.
137
Nel’udir, nel mirar s’accese ed arse
di non sentite ancor fiamme novelle
e del foco del cor l’incendio sparse
su per le guance dilicate e belle.
Inchinò a terra, onestamente scarse,
vergognosetto le ridenti stelle,
poi verso lei con un sospir le volse,
alfin lo spirto in queste voci sciolse:
138
– O dea cortese, o s’altro è pur fra noi
titol, ch’a maestà tanta convegna,
qual può mai cosa offrir vil servo a voi,
la cui pietà di cotal grazia il degna?
Lo scettro no, poiché ne’ regni suoi
povero diredato or più non regna;
la vita no, che da voi dei fatali
il vivere e ‘l morir pende a’ mortali.
139
Voi siete tal, ch’altri non può mirarvi,
che mirando d’amor non sen’accenda;
ma non può alcuno accendersi ad amarvi,
ch’amando non v’oltraggi e non v’offenda.
Offesa v’è servirvi ed adorarvi,
v’oltraggia uom vil, che cotant’alto intenda,
perché con quel, ch’ogni misura passa,
proporzion non ha scala sì bassa.
140
Non dee tanto avanzarsi umano ardire,
che presuma d’amar bellezza eterna,
ma curvar le ginocchia e reverire
con devota umiltà chi ‘l ciel governa.
È ben ver che, qualora entra in desire
d’inferior natura alma superna,
quella bontà, quella virtù sublime
nel’amato suggetto il merto imprime.
141
Quel merto, ch’esser suol d’amor cagione
in noi mortali, è in voi celesti effetto,
siché, quando alcun dio d’amar dispone
uom terreno e caduco, il fa perfetto;
che, benché disegual sia l’unione,
l’un del’altro però sgombra il difetto;
e d’ogni indignità purgando il vile,
ciò ch’è per sé villan, rende gentile.
142
Amor di voi m’innamorò per fama
pria ch’a veder vostra beltà giungessi
e da lunge v’amai non men che s’ama
oggetto bel, ch’ingorda vista appressi.
Orché, quanto il mio cor sospira e brama
son condotto a mirar con gli occhi istessi,
e ch’oltre il rimirarvi altro m’è dato,
vo’, contentando voi, far me beato.
143
Quanto darvi mi lice e quanto è mio
vi sacro e del’ardir cheggio perdono.
Se degno son di voi, vostro son io
e se il cor vi fia in grado, il cor vi dono.
Se mendica è la man, ricco è il desio,
siete donna di me più ch’io non sono.
Né fuorché l’amor vostro amar potrei,
né potendo voler, poter vorrei.
144
Il mio volere al voler vostro è presto
tanto che quasi in me nulla n’avanza.
Lo stato mio, s’a tutti è manifesto,
come a voi di celarlo avrei baldanza?
Mirra, dirollo, il cui nefando incesto
la vergogna rinova ala membranza,
fu la mia genitrice e da colui
che generolla, generato io fui.
145
Ed or selvaggio cacciator ramingo,
sagittario di damme e di cervette,
l’arco per mio trastullo incocco e stringo
ed impenno la fuga ale saette.
Felice error, che per l’orror solingo
di quest’ombre beate e benedette
fuor di via mi tirò, né ciò mi dole,
poiché perdo una fera e trovo un sole.
146
Ne’ be’ vostr’occhi, per cui vivo e moro,
l’anima omai depositar mi piace;
ma perché ‘l cor sacrificato in loro
già sento già, che ‘n vivo ardor si sface
e perch’a quella bocca, ov’è ‘l tesoro
d’amor, non è d’avicinarsi audace,
ecco, con questo bacio, ancorché indegno,
a te, candida mano, io la consegno. –
147
Ed ella allor: – Che tu ti sia, mia vita,
esperto arcier, saettatore accorto
altra prova non vo’che la ferita,
che ‘n mezzo al petto immedicabil porto.
Ma d’aver tal beltà mai partorita,
Mirra, credilo a me, si vanta a torto,
perché fra l’ombre il sol non si produce,
né può la notte generar la luce.
148
Ella il padre ingannò di notte oscura
e tu porti negli occhi un dì sereno.
Ella di scorza alpestra il corpo indura
e tu più che di latte hai molle il seno.
Ella amara e spiacente è per natura
e tu sei tutto di dolcezza pieno.
Ella distilla lacrimosi umori
e tu fai lagrimar l’anime e i cori.
149
Sol quelle luci tue rapaci e ladre,
ch’involando da’ petti i cori vanno,
parto furtivo di furtiva madre
t’accusan nato e con furtivo inganno.
Or se membra sì belle e sì leggiadre
fur concette di furto e furar sanno
non ti meravigliar, se voglio anch’io,
che chi mi fura il cor sia furto mio.
150
Non pur gli occhi e le mani a tuo talento,
la bocca e ‘l sen t’è posseder concesso,
ma t’apro il proprio fianco e ti presento
in cambio del tuo core il core istesso.
Vedrai, che quell’amor, ch’al core io sento,
t’ha sculto no, ma trasformato in esso,
ché sei de’ miei pensieri unico oggetto
e ch’altro cor che te non ho nel petto. –
151
Con tai lusinghe il lusinghiero amante
la lusinghiera dea lusinga e prega.
Ella arditetta poi la man tremante
gli stende al collo e dolcemente il lega.
Qui, mentr’Amor superbo e trionfante
l’amoroso vessillo in alto spiega,
strette a groppi di braccia ambe le salme,
ammutiscon le lingue e parlan l’alme.
152
Dolce de’ baci il fremito rimbomba
e, furandone parte invido vento,
degli assalti d’amor sonora tromba,
per la selva ne mormora il concento;
a cui la tortorella e la colomba
rispondono con pur con cento baci e cento.
Amor de’ furti lor dal vicin speco,
occulto spettator, sorrise seco.
153
Fu così stretto il nodo, onde s’avinse
l’aventurosa coppia e sì tenace,
che non più forte vite olmo mai strinse,
smilace spina o quercia edra seguace.
Vaga nube d’argento ambo ricinse,
quivi gli scorse e chiuse Amor sagace,
la cui perfidia vendicando l’onta
con mille piaghe una sferzata sconta.
154
La bella dea, che ‘nsanguinò la rosa,
benché trafitta il sen di colpo acerbo,
contro il figliuol non si mostrò sdegnosa
per non farlo più crudo e più superbo;
ma premendo nel cor la piaga ascosa,
si morse il dito e disse: – Io tela serbo.
Per questa volta con l’altrui cordoglio
tanta mia gioia intorbidar non voglio. –
155
Poi le luci girando al vicin colle,
dov’era il cespo, che ‘l bel piè trafisse,
fermossi alquanto a rimirarlo e volle
il suo fior salutar pria che partisse;
e vedutolo ancor stillante e molle
quivi porporeggiar, così gli disse:
– Salviti il ciel da tutti oltraggi e danni,
fatal cagion de’ miei felici affanni.
156
Rosa riso d’amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
dela terra e del sol vergine figlia,
d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor del’odorifera famiglia,
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de’ fior donna sublime.
157
Quasi in bel trono imperadrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d’aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia dintorno e ti seconda
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d’or la corona e d’ostro il manto.
158
Porpora de’ giardin, pompa de’ prati,
gemma di primavera, occhio d’aprile,
di te le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda ala chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra o zefiro gentile,
dai lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
159
Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
ch’ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle,
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra, ed egli rosa in cielo.
160
E ben saran tra voi conformi voglie,
di te fia ‘l sole e tu del sole amante.
Ei de l’insegne tue, dele tue spoglie
l’Aurora vestirà nel suo levante.
Tu spiegherai ne’ crini e nele foglie
la sua livrea dorata e fiammeggiante;
e per ritrarlo ed imitarlo a pieno
porterai sempre un picciol sole in seno.
161
E perch’a me d’un tal servigio ancora
qualche grata mercé render s’aspetta,
tu sarai sol tra quanti fiori ha Flora
la favorita mia, la mia diletta.
E qual donna più bella il mondo onora
io vo’ che tanto sol bella sia detta,
quant’ornerà del tuo color vivace
e le gote e le labra. – E qui si tace.
162
Il palagio d’Amor ricco e pomposo
da quel bosco lontan non era guari,
ma di ciò che tenea nel grembo ascoso
degni giamai non fece occhi vulgari.
Non molto andar, che di fin or squamosi
vider lampi vibrar fulgidi e chiari
il tetto, onde facea mirabilmente
l’edificio sublime ombra lucente.
163
Quella casa magnifica, che raro
al’altrui vista i suoi secreti aperse,
al novo comparir d’oste sì caro
quanto di bello avea tutto gli offerse;
e non sol di quel loco illustre e chiaro
la gloria incomparabile scoverse,
ma l’attuffò nel pelago profondo
di quante ha gioie e meraviglie il mondo.
164
Nela torre primiera a destra mano
entrando il bell’Adon le piante mosse
e si trovò dentro un cortile estrano,
il più ricco, il più bel, che giamai fosse.
Quadro è il cortile e spazioso e piano
ed ha di pietre il suol candide e rosse.
Par che ‘l pavese un tavolier somigli
scaccheggiato a quartier bianchi e vermigli.
165
Torreggiante nel mezzo ampia e sublime
sorge lumaca, onde si scende e poggia.
Quattr’archi, ch’escon fuor dele sue cime,
fanno una croce, ch’ai balcon s’appoggia,
a cui congiunte son le stanze prime,
onde scorrer si può di loggia in loggia,
sì ch’una scala abbraccia e signoreggia
per quattro corridoi tutta la reggia.
166
Ne’ quattro quarti intorno, onde il cortile
dala croce diviso si comparte,
havvi intagliate da scarpel fabrile
quattro illustri fontane, una per parte,
di lavor sì stupendo e sì sottile,
che ben si scorge che divina è l’arte.
Due d’alabastro e d’agata scolpite,
una di corniola, una d’ofite.
167
Nettuno è in una, in atto effigiato
di ferir col tridente un scoglio alpino
e ne fa scaturir per ogni lato
fiume d’acqua lucente e cristallino.
Sta sovra un nicchio da delfin tirato,
vomita ancor cristallo ogni delfino.
Quattro tritoni intorno in mille rivi
versan per le lor trombe argenti vivi.
168
Nel’altra entr’una pila incisi e scolti,
ch’a colonnetta picciola fa tetto,
stan tergo a tergo l’un l’altro rivolti
Piramo e Tisbe con la spada al petto;
e spruzzan fuor molti ruscelli e molti
per la piaga mortal di vino schietto,
onde viene a cader per doppia canna
dentro il vaso maggior purpurea manna.
169
Tien l’altra fonte in una conca tonda
seno a seno congiunto e bocca a bocca
Ermafrodito insu la fresca sponda,
che la bella Salmace abbraccia e tocca
ed a questa ed a quello in guisa d’onda
dale membra e da’ crini ambrosia fiocca
e su i lor capi una grand’urna piena
piove nettare puro in larga vena.
170
La quarta esprime Amor, che sovra un sasso
quasi dormendo si riposa in pace.
Le Grazie sotto lui stan più da basso,
come per custodir l’arco e la face.
Sparge balsamo fuor per lo turcasso
l’orbo fanciul, che sonnacchioso giace;
e l’amorose sue vaghe donzelle
stillan l’istesso umor per le mammelle.
171
Per l’alloggio d’Adon tra quelle mura
va in volta la sollecita famiglia;
ma mentreché la dea minuta cura
degli affari domestici si piglia,
col figlio a risguardar l’alta struttura
in disparte il garzon trattien le ciglia;
e chi sia dela fabbrica che vede,
il possessor, l’abitator, gli chiede.
172
– Questo (con un sospiro Amor risponde)
che cotante in sé chiude opre sublimi,
è il mio diletto albergo ed ho ben donde
pregiarlo sì, che sovra ‘l ciel lo stimi.
Qui già le dolci mie piaghe profonde,
qui, lasso, incominciar gl’incendi primi,
qui per colei, che preso ancor mi tiene,
fu il principio fatal dele mie pene.
173
Non creder tu che libera se n’vada
dale forze amorose alma divina,
ch’a bramar quel piacer, che tanto aggrada,
forte desir naturalmente inclina.
Ch’a questa legge sottogiaccia e cada
anco il re de’ celesti, il ciel destina.
Ed io pur io, dala cui mano istessa
piove gioia e dolor, passai per essa.
174
Non restai di languir, perch’io possegga
la face eterna, insuperabil dio,
e tratti l’arco onnipotente e regga
gli elementi e le stelle a voler mio.
E se m’ascolterai, vo’ che tu vegga,
che fui dal proprio stral ferito anch’io
e che del proprio foco acceso il core
ed arse e pianse innamorato Amore. –
175
Così l’arcier, che di Ciprigna nacque,
venia di Mirra al bel figliuol parlando;
e perch’assai d’udirlo ci si compiacque,
ale sue note attenzion mostrando,
il dir riprese e, poich’alquanto tacque,
non però già di passeggiar lasciando,
nel grazioso Adon gli occhi converse
e ‘n più lungo parlar le labra aperse.
LA NOVELLETTA.

ALLEGORIA

La favola di Psiche rappresenta lo stato dell’uomo. La città dove nasce, dinota il mondo. Il re e la reina, che la generano, significano Iddio e la materia. Questi hanno tre figliuole, cioè la Carne, la Libertà dell’arbitrio e l’Anima; la qual non per altro si finge più giovane, se non perché vi s’infonde dentro dopo l’organizzamento del corpo. Descrivesi anche più bella, percioch’è più nobile della Carne e superiore alla Libertà. Per Venere, che le porta invidia, s’intende la Libidine. Costei le manda Cupidine, cioè la Cupidità, laquale ama essa Anima e si congiunge a lei, persuadendole a non voler mirar la sua faccia, cioè a non volere attenersi ai diletti della concupiscenza né consentire agl’incitamenti delle sorelle Carne e Libertà. Ma ella a loro instigazione entra in curiosità di vederlo e discopre la lucerna nascosta, cioè a dire palesa la fiamma del disiderio celata nel petto. La lucerna, che sfavillando cuoce Amore, dimostra l’ardore della concupiscibile, che lascia sempre stampata nella carne la macchia del peccato. Psiche, agitata dalla Fortuna per diversi pericoli e dopo molte fatiche e persecuzioni copulata ad Amore, è tipo della istessa anima, che per mezzo di molti travagli arriva finalmente al godimento perfetto.

ARGOMENTO

Giunto al’albergo de’ vezzosi inganni
il bell’Adon, là dov’Amor s’annida,
gli conta Amor, che lo conduce e guida,
le fortune di Psiche e i propri affanni.

1
È di dura battaglia aspro conflitto
questa che vita ha nome, umana morte,
dov’ognor l’uom con mille mali afflitto
vien combattuto da nemica sorte.
Ma fra l’ingiurie e fra i contrasti invitto
non però sbigottisce animo forte,
anzi contr’ogni assalto iniquo e crudo
s’arma e difende, e sua virtù gli è scudo.
2
Talor ne tocca la paterna verga,
ma ‘l suo giusto rigor non è crudele,
anzi perché la polvere disperga
ne scote i panni e porta in cima il mele.
Non desperi mai sì che si sommerga
chi per quest’ocean spiega le vele,
ma de’ flutti e de’ venti al fiero orgoglio
faccia un’alta costanza ancora e scoglio.
3
Sembra il flagel, che correggendo avisa
anima neghittosa, amaro in vista,
ma di salubre pur calice in guisa
la purga e giova altrui, mentre ch’attrista.
Vite dal podador tronca e recisa
fecondità dale sue piaghe acquista.
Statua dalo scarpel punta e ferita
ne diventa più bella e più polita.
4
Selce, ch’auree scintille in seno asconde,
il lor chiuso splendor mostrar non pote,
se dal’interne sue vene profonde
non le tragge il focil che la percote.
Corda sonora a dotta man risponde
con arguta armonia di dolci note
e ‘l vantaggio che trae di tal offesa,
quanto battuta è più, vie più palesa.
5
Rotta la conca da mordace dente,
la porpora real si manifesta.
Né del gran, né del vin si gusta o sente
l’eccellenza e ‘l valor, se non si pesta.
Stuzzicato carbon vien più cocente,
soffiata fiamma più s’accende e desta,
palla a terra sospinta al ciel s’inalza
e sferzato palco più forte sbalza.
6
La fatica e ‘l travaglio è paragone,
dove provar si suol nostra finezza;
né senz’affanno e duol, premi e corone
può di gloria ottener vera fortezza.
Del’amica d’Amor, tel mostri Adone
la tribulata e misera bellezza,
orch’egli i tanti suoi strani accidenti
ti prende a raccontar con tali accenti:
7
– In real patria e di parenti regi
nacquer tre figlie, d’ogni grazia ornate.
Natura l’arricchì di quanti pregi
possa in un corpo accumular beltate.
Ma versò de’ suoi doni e de’ suoi fregi
copia maggior nela minore etate,
peroché la più giovane sorella
era del’altre due troppo più bella.
8
Le prime due, quantunque accolta in esse
fusse d’alte bellezze immensa dote,
tai non eran però, che non potesse
umana lingua esprimerla con note.
Ma l’ultima di loro, a cui concesse
quanto di bello il ciel conceder pote,
tanto d’ogni beltà passava i modi,
ch’era intutto maggior del’altrui lodi.
9
Per alpestri sentier stampando l’orme
nazion peregrine e genti estrane
per veder s’era al grido il ver conforme
vi concorrean da region lontane
e, giunte a contemplar sì belle forme,
dico quel fior dele bellezze umane,
si confessavan poi tutti costoro
obligati per sempre agli occhi loro.
10
Dal desir mossi e dala fama tratti
or quinci or quindi artefici e pittori,
per fabricarne poi statue e ritratti,
veniano e con scarpelli e con colori
e, sospesi in mirarla e stupefatti,
immobili non men de’ lor lavori
dal’attonita mano e questi e quelli
si lasciavan cader ferri e pennelli.
11
Quel divin raggio di celeste lume,
ch’avrebbe il ghiaccio istesso arso e distrutto,
risplendea sì, che qual terrestre nume
adorata era omai dal popol tutto;
loqual dela gran dea, che dale spume
prodotta fu del rugiadoso flutto,
tutti gli onor, tutte le glorie antiche
publicamente attribuiva a Psiche.
12
Sì di Psiche la Fama intorno spase,
tal era il nome suo, celebre il grido,
che questa opinion si persuase
di gente in gente in ogni estremo lido.
Pafo d’abitator vota rimase,
restò Citera abbandonata e Gnido;
nessun più vi recava ostia, né voto
orator fido o passaggier devoto.
13
Manca il concorso ai frequentati altari,
mancano i doni ala gran diva offerti;
non più di fiamme d’or lucenti e chiari,
ma son di fredde ceneri coverti.
Da simulacri venerati e cari
omai non pendon più corone o serti.
Lasciando d’onorar più Citerea,
sacrifica ciascuno a questa dea.
14
Crede ciascun, che stupido s’affisa
di que’ begli occhi ai luminosi rai,
novo germe di stelle in nova guisa
veder, non più quaggiù veduto mai;
e dala terra e non dal mar s’avisa
esser più degna e più gentile assai
pullulata altra Venere novella,
casta però, modesta e verginella.
15
La vera dea d’amor, che dal ciel mira
cotanto insolentir donna mortale,
e vede pur, che ‘ndegnamente aspira
a divin culto una bellezza frale,
impaziente a sostener più l’ira,
dassi in preda ai furori in guisa tale,
che crollando la fronte e ‘l dito insieme,
questi accenti fra sé mormora e freme:
16
«Or ecco là chi da’ confusi abissi
l’universo costrusse e ‘l ciel compose,
per cui distinto in bella serie aprissi
l’antico seminario dele cose;
colei ch’accende i lumi erranti e i fissi
e ne fa sfavillar fiamme amorose;
di quanto è nato, e quanto pria non era
la madre prima e la nutrice vera.
17
Con la mia deità dunque concorre
un corpo edificato d’elementi?
Soffrirò ch’ogni vanto a me di torre
creatura caduca ardisca e tenti?
che sovra l’are sue vittime a porre,
sprezzando i templi miei, vadan le genti?
che ‘l sacro nome mio con riti insani
in suggetto mortale or si profani?
18
Sì sì soffriam, che con oltraggio indegno
nostra compagna pur costei si dica;
che commune abbia meco il nume e ‘l regno
la mia vicaria in terra, anzi nemica.
Ancor di più: dissimuliam lo sdegno,
che siam dette io lasciva, ella pudica;
ond’io ceda in tal pugna e far non basti,
che non mi vinca ancor, nonché contrasti.
19
Deh, che mi val, già figlia al gran tonante,
posseder d’ogni onor le glorie prime?
e poter dela via bianca e stellante
a mio senno varcar l’eccelse cime?
qual prò, ch’ogni altro dio m’assorga avante
come a dea tra le dee la più sublime?
e che quantunque il sol vede e camina,
mi conosca e confessi alta reina?
20
Lassa, i’ son pur colei, ch’ottenni in Ida
titolo di beltà sovra le belle,
e ‘l litigato d’or pomo omicida
trionfando portai meco ale stelle;
che fu principio a così lunghe strida
ed esca del’argoliche fiammelle,
onde sorser tant’armi e tanti sdegni,
per cui già d’Asia inceneriro i regni.
21
Ed or fia ver, che ‘n temeraria impresa
la palma una vil femina mi tolga?
Attenderò, che fin in cielo ascesa
l’orbe mio, la mia stella aggiri e volga?
Ah, di divina maestate offesa
giusto fia ben ch’omai si penta e dolga;
ché l’ingiuria, in colui che tempo aspetta,
cresce col differir dela vendetta.
22
Qualqual si sia, l’usurpatrice ardita
del grado altier di sì sublime altezza,
non molto gioirà, non impunita
n’andrà lunga stagion di sua sciocchezza;
vo’ che s’accorga, alfin tardi pentita,
che dannosa le fu tanta bellezza.
Stolta del’alte dive emula audace,
io ti farò.» Qui tronca i detti e tace.
23
Il carro ascende e d’impiegar disegna
del figlio in quest’affar le forze e l’armi;
ma convien ch’i suoi cigni a fren ritegna,
ché dubbiosa non sa dove trovarmi.
Per le belle contrade, ov’ella regna,
di lido in lido invan prende a cercarmi,
poiché quivi e pertutto in terra e ‘n cielo,
come e quando mi piace, altrui mi celo.
24
Prendo qual forma voglio a mio talento
e con l’acque e con l’aure io mi confondo.
Talor grande così mi rappresento,
che visibil mi faccio a tutto il mondo.
Talvolta poi sì picciolo divento,
ch’entro il giro d’un occhio anco m’ascondo.
Infin son tal, che benché m’abbia in seno
chi più mi sente, mi conosce meno.
25
Lascia la Grecia e prende altri sentieri,
vaga d’udir novelle, ov’io mi sia;
né più del’Asia entro i famosi imperi
dele vestigia mie la traccia spia,
ma stimulando i musici corsieri,
verso le piagge italiche s’invia,
ché sa ben quanto in que’ fioriti poggi,
vie più ch’altrove, io volentieri alloggi.
26
Giunge in Adria la bella e quivi intese
che v’albergava il mio nemico Onore
e Beltà cruda ed Onestà cortese,
Nobiltà, Maestà, Senno e Valore.
Passò poscia a Liguria e vi comprese
apparenza d’amor vie più ch’amore,
ch’io ne’ begli occhi e ne’ leggiadri aspetti
sol vi soglio abitar, ma non ne’ petti.
27
Vide poi la Marecchia e ‘l Serchio e ‘l Varo
la Brenta, il Brembo e la Livenza e ‘l Sile
e l’Adda e l’Oglio e ‘l Bacchiglione alparo,
superbo il Mincio, il picciol Reno umile,
il Tanaro, il Tesin, la Parma e ‘l Taro,
e la Dora, che d’or riveste aprile,
e Stura e Sesia e, di fresche ombre opaco,
da foce aurata scaturir Benaco.
28
Quindi al gran trono degli erculei regi
su l’Po volando i bianchi augei rivolse,
dove ricca sedea d’illustri fregi
la città, che dal ferro il nome tolse.
Ma le fu detto, che Fortuna i pregi,
di cui fiorir solea, sparse e disciolse;
mille già v’ebbi un tempo e palme e prede,
poi tra Secchia e Panara io cangiai sede.
29
Non lunge dal maggior fiume toscano
vide l’Arbia con l’Ombro, indi il Metauro
e con l’Isapi, suo minor germano,
presso il Ronco e ‘l Monton correr l’Isauro
e ‘l Tremisen, là dove il verde piano
vermiglio diverrà del sangue mauro,
e dal freddo Appennin discender Trebbia,
genitor di caligine e di nebbia.
30
Tra’ campi arrivò poi fertili e molli,
dove del Tebro il mormorio risona
e de’ suoi sette trionfanti colli
il gran capo del Lazio s’incorona.
Ma seppe quivi furiosi e folli
più tosto soggiornar Marte e Bellona
e con Perfidia e Crudeltà tra loro
baccar sete di sangue e fame d’oro.
31
Posciaché quindi le lombarde arene
ha tutte scorse e quanto irriga l’Arno
e quinci di Clitunno e d’Aniene
e d’altri frati lor le rive indarno,
a visitar dal Gariglian ne viene
Crati, Liri, Volturno, Aufido e Sarno
e vede irne tra lor pomposo e lieto
degli onori di Bacco il bel Sebeto.
32
Quivi tra ninfe amorosette e belle
trovommi a conquistar spoglie e trofei.
E seben tempo fu ch’io fui di quelle
già prigionier con mille strazi rei,
alme però non ha sotto le stelle
che sien più degni oggetti a’ colpi miei,
né so trovar altrove in terra loco,
dove più nobil esche abbia il mio foco.
33
Allor mi stringe entro le braccia e mille
groppi mi porge d’infocati baci,
poi per l’oro immortal, per le faville
dele quadrella mie, dele mie faci,
quanto può mi scongiura e vive stille
mesce di pianto a suppliche efficaci,
che senza vendicarla io non sopporti
più lungamente i suoi dispregi e i torti.
34
Dela bella rubella in voce amara
l’orgoglio e ‘l fasto a raccontar mi prende
e come seco in baldanzosa gara
contumace beltà pugna e contende.
Distinto alfine il suo desir dichiara
e quanto brama ad esseguir m’accende.
Vuol che di stral villano il cor le punga,
e ch’a sposo infelice io la congiunga.
35
Uom, che povero d’or, colmo di mali
e da Natura e da Fortuna oppresso,
sia, cadavere vivo infra i mortali,
sich’abbia invidia ai morti, odio a sestesso
e senza essempio di miserie eguali
tutto voti Pandora il vaso in esso.
Ch’a tal consorte, in tal prigion la stringa
mi comanda, mi prega e mi lusinga.
36
Scorgemi intanto al loco, ove m’addita
la meraviglia dele cose belle,
che, circondata intorno e custodita
da vago stuol di leggiadrette ancelle,
par, tra le spine sue, rosa fiorita,
par la luna, anzi il sole infra le stelle.
«Mira colà, quella è la rea (mi dice)
dele bellezze mie competitrice.»
37
Dal carro, che con morso aureo l’affrena,
scioglie, ciò detto, le canute guide
e d’un delfino insu l’arcuta schiena
solca le vie de’ pesci e ‘l mar divide.
Così di Cipro ala nativa arena
torna, che lieta al suo ritorno arride;
ed io rimango a contemplar soletto
quel sovruman, sovradivino oggetto.
38
Veggio doppio oriente e veggio dui
cieli, che doppio sol volge e disserra,
dico que’ lumi perfidi, ch’altrui
uccidon prima e poi bandiscon guerra,
siché mirando un cor quel bello, a cui
paragon di beltà non ha la terra,
quando pensa al riparo il malaccorto
e vuol chieder mercé, si trova morto.
39
Né dele guance la vermiglia aurora
al sol degli occhi di bellezza cede,
i cui candori un tal rossor colora,
qual in non colto ancor pomo si vede.
Ombra soave, ch’ogni cor ristora,
un rilievo vi fa, che non eccede,
e con divorzio d’intervallo breve
distingue in duo confin l’ostro e la neve.
40
Somiglia intatto fior d’acerba rosa,
ch’apra le labra dele fresche foglie
l’odorifera bocca e preziosa,
ch’un tal giardino, un tal gemmaio accoglie,
che l’India non dirò ricca e famosa,
ma ‘l ciel nulla ha di bel, s’a lei nol toglie.
Se parla o tace, o se sospira o ride,
che farà poi baciando? i cori uccide.
41
In reticella d’or la chioma involta,
più ch’ambra molle e più ch’elettro bionda,
o stretta in nodi, o in vaghe trecce accolta,
o su gli omeri sparsa ad onda ad onda,
tanto tenace più, quanto più sciolta,
tra procelle dorate i cori affonda.
L’aure imprigiona, se talor si spiega,
e con auree catene i venti lega.
42
Che dirò poi del candidetto seno,
morbido letto del mio cor languente?
ch’a’ bei riposi suoi, qualor vien meno,
duo guanciali di gigli offre sovente?
Di neve in vista e di pruine è pieno,
ma nel’effetto è foco e fiamma ardente;
e l’incendio, che ‘n lor si nutre e cria,
le salamandre incenerir poria.
43
Quand’ebbi quel miracolo mirato,
dissi fra me, da me quasi diviso:
«Sono in ciel? sono in terra? il ciel traslato
è forse in terra? o cielo è quel bel viso?
sì sì, son pur lassù, son pur beato
tuttavia, come soglio, in paradiso.
Veggio la gloria degli eterni dei;
la bella madre mia non è costei?
44
No che non è, vaneggio, il ver confesso,
Venere da costei vinta è di molto.
Ahi! che ‘l pregio ala madre a un punto istesso
ed al figlio egualmente il core ha tolto.
Chi può senza morir mirar l’eccesso
di sì begli occhi, oimé! di sì bel volto,
vadane ancora poi, vada e s’arrischi
a mirar pur securo i basilischi.
45
O macelli de’ cori, occhi spietati,
di chi morir non pote anco omicidi,
voi voi possenti a soggiogare i fati
siate le sfere mie, siate i miei nidi.
In voi l’arco ripongo e i dardi aurati;
che se poi contro me saranno infidi,
più cara, in tali stelle è la mia sorte,
del’immortalità mi fia la morte».
46
Veggiola, mentre parlo, in atti mesti
starsi sola in disparte a trar sospiri;
ché, quantunque le sue più che celesti
forme, ben degne degli altrui desiri,
da mille lingue e da quegli occhi e questi
vagheggiate e lodate, il mondo ammiri,
alcun non v’ha però di genti tante,
che cheggia il letto suo, cupido amante.
47
Le suore, ancorché fussero appo lei
vie più d’età che di beltà fornite,
a grandi eroi con nobili imenei
per giogo maritale erano unite.
Ma Psiche, unico sol degli occhi miei,
parea dal’olmo scompagnata vite
e ne menava in dolorosi affanni,
sterili e senza frutto i più verd’anni.
48
Il miser genitor, mentr’ella geme
l’inutil solitudine che passa,
perché l’ira del ciel paventa e teme,
che spesso ai maggior re l’orgoglio abbassa,
pensoso e tristo infra sospetto e speme
la cara patria e ‘l dolce albergo lassa
e va per esplorar questo secreto
dal’oracolo antico di Mileto.
49
Là dove giunto poi, porge umilmente
incensi e preghi al chiaro dio crinito,
da cui supplice chiede e reverente,
al’infeconda sua, nozze e marito.
Ed ecco intorno rimbombar si sente
spaventoso fragor d’alto muggito
e col muggito alfin voce nascosta
dale cortine dar questa risposta:
50
«La fanciulla conduci in scoglio alpino
cinta d’abito bruno e funerale.
Né genero sperar dal tuo destino
generato d’origine mortale,
ma feroce, crudele e viperino,
ch’arde, uccide, distrugge e batte l’ale
e sprezza Giove ed ogni nume eterno,
temuto in terra, in cielo e nel’inferno».
51
Pensa tu qual rimase e qual divenne
il sovr’ogni altro addolorato vecchio.
Pensa qual ebbe il cor, quando gli venne
la sentenza terribile al’orecchio.
Torna ne’ patrii tetti a far sollenne
di quelle pompe il tragico apparecchio,
accinto ad ubbidir, quantunque afflitto,
del decreto d’Apollo al sacro editto.
52
Del vaticinio infausto e del’aversa
sorte nemica si lamenta e lagna
e con l’amare lagrime che versa,
dele rughe senili i solchi bagna;
e la stella accusando empia e perversa,
l’antica moglie i gemiti accompagna;
e pietoso non men piagne con loro
dele figlie dolenti il flebil coro.
53
Ma del maligno inevitabil fato
il tenor violento è già maturo.
Del’influsso crudel già minacciato
giunto è l’idol mio caro al passo duro.
Raccoglie già con querulo ululato
la bella Psiche un cadaletto oscuro,
laqual non sa fra i tanti orrendi oggetti
se ‘l talamo o se ‘l tumulo l’aspetti.
54
Di velo avolti tenebroso e tetro
e d’arnesi lugubri in vesta nera,
van padre e madre il nuzzial feretro
accompagnando e le sorelle in schiera.
Segue la bara il parentado e dietro
vien la città, vien la provincia intera;
e per tale sciagura odesi intanto
del popol tutto un publico compianto.
55
Ma più d’ogni altro il re meschin piangendo
sfortunato s’appella ed infelice,
e gli estremi da lei baci cogliendo
la torna ad abbracciar, mentre gli lice.
«Così dunque da te congedo io prendo?
così figlia mi lasci? (egli le dice)
son questi i fregi?, oimé! la pompa è questa,
ch’al tuo partire il patrio regno appresta?
56
In essequie funebri inique stelle
cangian le nozze tue liete e festanti?
le chiare tede in torbide facelle
le tibie in squille e l’allegrezze in pianti?
sono i crotali tuoi roche tabelle?
ti son gl’inni e le preci applausi e canti?
e là dove destin crudo ti mena
reggia il lido ti fia, letto l’arena?
57
O troppo a te contrario, a me nemico,
implacabil rigor d’avari cieli!
Te del tuo bel, me del mio ben mendico
perché denno lasciar fati crudeli?
Qual tua gran colpa o qual mio fallo antico
cagion, che tu t’affligga, io mi quereli,
te condanna a morire ed a me serba,
in sì matura età, doglia sì acerba?
58
Ad esseguir quanto lassù si vole
dura necessità, lasso! m’affretta
e, vie più ch’altro, mi tormenta e dole,
ch’a sì malvagio sposo io ti commetta.
Ch’io deggia in preda dar l’amata prole
a mostro tal che l’universo infetta,
questo so ben, che ‘l fil farà più corto,
che fu da Cloto ala mia vita attorto.
59
Ma poiché pur la maestà superna
così di noi disporre or si compiace,
cancellar non si può sua legge eterna,
ma convien, figlia mia, darsene pace.
De’ consigli di lui, che ne governa,
è l’umano saver poco capace,
poiché i giudici suoi santi e divini
son ordinati a sconosciuti fini.
60
Bench’a sposar lo struggitor del mondo
ti danni Apollo in suo parlar confuso,
chi sa s’altro di meglio in quel profondo
archivio impenetrabile sta chiuso?
Spesso effetto sortì lieto e giocondo
temuto male, ond’uom restò deluso.
Servi al ciel, soffri e taci.» E con tai note
verga di pianto le lanose gote.
61
La sconsolata e misera donzella
vede ch’ei viva a sepelir la porta
e tal sollennità ben s’accorg’ella,
ch’a sposa nò, ma si conviene a morta;
magnanima però non men che bella,
l’altrui duol riconsola e riconforta,
e i dolci umori, onde il bel viso asperge,
col vel purpureo si rasciuga e terge.
62
«Che val pianger? (dicea) che più versate
lagrime intempestive e senza frutto?
a che battete i petti ed oltraggiate
di livore e di sangue il viso brutto?
Ah non più no; di lacerar lasciate
la canicie del crin con tanto lutto,
offendendo con doglia inefficace
e la vostra vecchiezza e la mia pace.
63
Fu già, quando la gente a me porgea,
al ciel devuto, onor profano ed empio,
quando quasi d’amor più bella dea
ebbi, voi permettenti, altare e tempio,
allor fu da dolersi, allor devea
pianger ciascuno il mio mortale scempio.
Or è il pianto a voi tardo, a me molesto;
di mia vana bellezza il fine è questo.
64
L’invidia rea, che l’altrui ben pur come
suo proprio male aborre, allor mi vide.
I’ so pur ben, che l’usurpato nome
dela celeste Venere m’uccide.
Che bado? andianne pur; quest’auree chiome
con vil ferro troncate, ancelle fide;
quel sì temuto omai consorte mio
già di veder, già d’abbracciar desio.»
65
Qui tace e già d’una montagna alpestra
eccola intanto giunta ala radice,
ch’al sol volge le terga e piega a destra
sotto il gran giogo l’ispida cervice.
Quindi di sterpi e selci aspra e silvestra
pende sassosa e rigida pendice,
rigida sì ch’apena s’assecura
d’abitarvi l’Orror con la Paura.
66
Il mar sonante a fronte ha per confine,
da’ fianchi acute pietre e schegge rotte,
dirupati macigni e rocce alpine,
oscure tane e cavernose grotte,
precipizi profondi, alte ruine,
dove riluce il dì come la notte,
dove inospiti sempre e sempre foschi
dilatan l’ombre lor baratri e boschi.
67
Ecco l’infausto monte, ov’a fermarsi
ne venne il funeral tragico e mesto.
Quivi ha, quant’ognun crede, a consumarsi
il maritaggio orribile e funesto.
Ond’ai fieri imenei da celebrarsi
scelto già per teatro essendo questo,
dopo lagrime molte al vento sparte
la mestissima turba alfin si parte.
68
Partissi alfin, poiché tesor sì caro
depositò nel destinato loco,
lasciando nel partir col pianto amaro
dele fiaccole sacre estinto il foco.
Ai regi alberghi i genitor tornaro
e, la luce vital curando poco,
dannaro gli occhi a lunga notte oscura
e si chiusero vivi in sepoltura.
69
Restò la giovinetta abbandonata
su la deserta e solitaria riva
sì tremante, sì smorta e sì gelata,
ch’apena avea nel cor l’anima viva.
Veder quivi languir la sventurata
quasi di senso e movimento priva,
del’onde esposta al tempestoso orgoglio,
altro già non parea, che scoglio in scoglio.
70
Le man torcendo e ‘n vermiglietti giri
dolcemente incurvando i mesti lumi,
con che lagrime, o Dio! con che sospiri
si scioglie in acque e si distempra in fumi;
ma, raccogliendo il mar tra’ suoi zaffiri
dele stille cadenti i vivi fiumi,
ambizioso e cupido d’averle,
le serba in conche e le trasforma in perle.
71
Con le man su ‘l ginocchio, in terra assisa,
filando argento da’ begli occhi fore,
china al petto la fronte e ‘n cotal guisa
tra sestessa consuma il suo dolore.
Poi, mentre ai salsi flutti il guardo affisa,
sfoga parlando l’angoscioso core
e perde, apostrofando al mar crudele,
tra gli strepiti suoi queste querele:
72
«Deh placa, o mare, i tuoi furori alquanto,
pietoso ascoltator de’ miei cordogli,
e di quest’occhi il tributario pianto,
che ‘n larga vena a te sen corre, accogli.
Teco parlo, or tu m’odi, e fa che ‘ntanto
abbian quest’onde tregua e questi scogli;
né sen portino intutto invidi i venti,
come fer le speranze, anco i lamenti.
73
Nacqui agli scettri e ‘nsu i reali scanni
più di me fortunata altra non visse.
Bella fui detta, e ‘l fui, se senza inganni
lo mio specchio fedele il ver mi disse.
Or a quel fin su ‘l verdeggiar degli anni
corro, che ‘l fato al viver mio prescrisse,
abbandonando insu l’età fiorita
la bella luce e la serena vita.
74
Di ciò non mi dogl’io né mi lamento
dela bugiarda adulatrice speme;
né del colpo fatal prendo spavento,
che mi porti sì tosto al’ore estreme.
Chi sol vive al dolore ed al tormento
e suol vita aborrir, morte non teme;
a chi malvive il viver troppo è greve,
chi vive in odio al ciel viver non deve.
75
Lassa, di quelch’io soffro, aspro martire
vie maggiore e più grave è il mal ch’attendo.
Ch’io deggia entro il mio seno, oimé! nutrire
un mostro abominevole ed orrendo,
questo innanzi al morir mi fa morire,
questo morte sprezzar mi fa morendo.
Deh! dammi pria ch’un tanto mal succeda,
padre Nettuno, ale tue fere in preda.
76
Se provocò del ciel l’ira severa
da me commesso alcun peccato immondo
e da te deve uscir l’orrida fera,
che me divori e che distrugga il mondo,
fia ventura miglior, ch’absorta io pera
da questo ingordo pelago profondo.
Più tosto il ventre suo tomba mi sia,
e lavin l’acque tue la macchia mia.
77
Ma s’egli è ver, che pur a torto e senza
colpa incolpata e condannata io mora,
e se nume è lassù, che l’innocenza
curi e prego devoto oda talora,
da lui cheggio pietà, spero clemenza;
e quando il reo destin sia fermo ancora,
venga, e ‘l suo nero strale in me pur scocchi,
morte per sempre a suggellar quest’occhi.»
78
Più altro, ch’io ridir né so né posso,
parlava la dolente al sordo lito,
ch’avria qual cor più perfido commosso,
anzi il porfido istesso intenerito.
Il cavo scoglio mormorar percosso
per gran pietà fu d’ognintorno udito
e, rispondendo in roche voci e basse
parea che de’ suoi casi il mar parlasse.
79
Per risguardar chi sia che si consuma
in note pur sì dolorose e meste,
rompendo in spessi circoli la spuma
molte ninfe e tritoni alzar le teste,
ma, vinti da quel sol che l’acque alluma
e tocchi il freddo sen d’ardor celeste,
per fuggir frettolosi, i bei cristalli
seminaro di perle e di coralli.
80
Mentre là dove il vertice s’estolle
del’erta rupe, è posta in tale stato,
novo sente spirar di lungo il colle
di mill’aure sabee misto odorato,
indi d’un aere dilicato e molle
sibilar, sussurrar placido fiato,
che, dolcemente rincrespando l’onde,
fa tremar l’ombre e sfrascolar le fronde.
81
Era Zefiro questi. Io già, che ‘ntento
altrove non avea l’occhio e ‘l pensiero,
volsi far quel benigno amico vento
dele mie gioie essecutor corriero.
Gonfia la mobil gonna e, piano e lento,
col suo tranquillo spirito leggiero,
dala scoscesa e ruinosa balza
senz’alcun danno ei la solleva ed alza,
82
e colà presso, ove di fior dipinta
fa sponda al mar quella valletta erbosa
e di giovani allori intorno è cinta,
soavissimamente alfin la posa.
Qui da novo stupor confusa e vinta
su ‘l fiorito pratel siede pensosa,
che fresco insieme e morbido le serba
tetto di fronde e pavimento d’erba.
83
Poiché ‘l dolor, che de’ suoi sensi è donno,
satollato ha di pianti e di lamenti,
stanca omai sì, che le palpebre ponno
apena sostener gli occhi cadenti,
viensene il sonno a torla in braccio, il sonno,
tranquillità dele turbate menti.
Dal sonno presa al fremito del’acque
su ‘l verde smalto addormentossi e giacque.
84
Negli epicicli lor duo soli ascosi
i begli occhi parean dela mia Psiche,
dove chiusi traean dolci riposi
dal’amorose lor lunghe fatiche.
Duo padiglioni lievemente ombrosi
le velavan le luci alme e pudiche.
Le belle luci, onde languisco e moro,
legate eran dal sonno ed io da loro.
85
Vedesti ala stagion, quando le spine
fioriscon tutte di novella prole,
sparso di fresche perle e mattutine,
piantato in riva al mar, nascosto al sole,
spiegar il molle e giovinetto crine
giardinetto di gigli e di viole?
Dirai ben tal sembianza assai conforme
ala leggiadra vergine che dorme.
86
Così posava; e vidi a un tempo istesso
liev’Aura, Aura vezzosa, Aura gentile
scherzarle intorno e ventilarle spesso
il crespo dela chioma oro sottile.
Per baciarla talor si facea presso
a quella bocca ov’è perpetuo aprile,
ma, timidetta poi quanto lasciva,
da’ respiri respinta, ella fuggiva.
87
I’ non so già se Zefiro cortese
fu, che spettacol dolce allor m’offerse,
che la tremula vesta alto sospese
e dele glorie mie parte m’aperse.
So ben, che con sua neve il cor m’accese,
quando il confin del bianco piè scoverse.
Scoverse il piede e del’ignuda carne
quanto a casta beltà lice mostrarne.
88
Poich’assai travagliato e poco queto
in più pezzi ha carpito un sonno corto,
destasi e da quel loco ameno e lieto
piover si sente al cor novo conforto.
Sorge dal’odorifero roseto
e qua ne vien, dove ‘l mio albergo ha scorto.
Questo istesso palagio, ov’ora sei,
come raccoglie te, raccolse lei.
89
Nel limitar dela gemmata soglia
mette le piante e va mirando intorno;
mira il bel muro e di pomposa spoglia,
di fulgid’oro il travamento adorno,
sì che può far, quantunque il sol non voglia,
col proprio lume a sé medesmo il giorno.
Mira gli archi, le statue e l’altre cose,
che senza prezzo alcun son preziose.
90
Senza punto inchinar le luci al basso
del tetto ammira le mirabil opre,
ma pur del tetto il rilucente sasso
la superbia del suol chiara le scopre;
stupisce il guardo e si trattiene il passo
al bel lavor, che ‘l pavimento copre,
perché tante ricchezze in terra vede,
che di calcarle si vergogna il piede.
91
Ella rapita da sì ricchi oggetti
entra e d’alto stupor più si confonde,
poich’ala maestà di tai ricetti
ben la gran supellettile risponde.
Ecco, dove al cantar degli augelletti
fermossi; ivi spiegò le trecce bionde;
qui, poiché intorno a spaziar si mise,
respirò dolcemente e qui s’assise.
92
Quelche più l’empie il cor di meraviglia,
è che negletto è qui quanto si gode.
Casa sì signoril non ha famiglia,
abitante non vede, ostier non ode,
castaldo alcun di lei cura non piglia
né di tanto tesor trova custode.
Vaga con gli occhi e ‘l vago piè raggira,
tutto insomma possiede e nessun mira.
93
Voce incorporea intanto ode, che dice:
«Di che stupisci? o qual timor t’ingombra?
sappi cauta esser sì, come felice,
omai dal petto ogni sospetto sgombra;
non bramar di veder quelche non lice,
spirito astratto ed impalpabil ombra.
Gli altri beni e piacer tutti son tuoi,
ciò che qui vedi o che veder non puoi».
94
Da non veduta man sentesi in questa
d’acque stillate in tepida lavanda
condur pian piano, indi spogliar la vesta
e i bei membri mollir per ogni banda.
Dopo i bagni e gli odor, mensa s’appresta
coverta di finissima vivanda;
e sempre ad operar pronte e veloci
son sue serve e ministre, ignude voci.
95
Dato al lungo digiun breve ristoro
con cibi, che del ciel foran ben degni,
entra pur ala vista occulto coro,
sceso quaggiù da’ miei beati regni,
concordando lo stil dolce e canoro
ala facondia degli arguti legni.
Benché né di cantor né di stromenti
scorga imagine alcuna, ode gli accenti.
96
Già l’Oblio taciturno esce di Lete,
già la notte si chiude e ‘l dì vien manco,
e le stelle cadenti e l’ombre chete
persuadono il sonno al mondo stanco,
onde disposta alfin di dar quiete
al troppo dianzi affaticato fianco,
ricovra a letto in più secreto chiostro,
piumato d’oro, incortinato d’ostro.
97
Allor mi movo al dolce assalto e tosto
ch’entro la stanza ogni lumiera è spenta,
invisibile amante, a lei m’accosto,
che dubbia ancor, ciò che non sa paventa.
Ma se l’aspetto mio tengo nascosto,
le scopro almen l’ardor che mi tormenta
e, da lagrime rotti e da sospiri,
le narro i miei dolcissimi martiri.
98
Ciò ch’al buio tra noi fusse poi fatto,
più bel da far che da contar, mi taccio.
Lei consolata alfin, me sodisfatto,
basta dir ch’amboduo ne strinse un laccio.
Dela vista il difetto adempie il tatto,
quelche cerca con l’occhio, accoglie in braccio;
s’appaga di toccar quelche non vede,
quanto al’un senso nega, al’altro crede.
99
Ma su ‘l bel carro apena in oriente
venne del’ombre a trionfar l’Aurora
e i suoi destrier con l’alito lucente
fugate non avean le stelle ancora,
quando al bell’idol mio tacitamente
uscii di braccio e sorsi innanzi l’ora;
innanzi che del sol l’aurato lume
spandesse i raggi suoi, lasciai le piume.
100
Tornan da capo ala medesma guisa
l’ascose ancelle ed aprono i balconi
e dela sua virginitate uccisa
motteggian seco; ed ecco i canti e i suoni.
Si leva e lava ed ode, a mensa assisa,
epitalami in vece di canzoni
e le son pur non conosciute genti
camerieri, coppier, scalchi e sergenti.
101
Così dal’uso assecurata e fatta
più coraggiosa omai dala fidanza,
già già meco e co’ miei conversa e tratta
con minor pena e con maggior baldanza.
E leggiadra e gentil, seben s’appiatta,
imaginando pur la mia sembianza,
dal suono incerto dela voce udita
prende trastullo ala solinga vita.
102
Ma quant’ella però contenta vive,
tanto menano i suoi vita scontenta,
e di tal compagnia vedove e prive
più d’ogni altro le suore il duol tormenta.
Vigilando, il pensier lor la descrive,
dormendo, il sogno lor la rappresenta;
ond’alfin per saver ciò che ne sia,
là dove la lasciar, prendon la via.
103
Io, come soglio, insu la notte ombrosa
seco in tal guisa il ragionar ripiglio:
«Psiche caro mio cor, dolce mia sposa,
fortuna ti minaccia alto periglio,
là dove uopo ti fia d’arte ingegnosa,
di cautela sottile e di consiglio.
Ignoranti del ver, le tue sorelle
di te piangendo ancor cercan novelle.
104
Su que’ sassi colà ruvidi ed erti,
onde campata sei, son già tornate.
Io farò, se tu vuoi, per compiacerti
che sieno a te da Zefiro portate.
Ma ben t’essorto, a quant’io dico averti,
fuggi le lor parole avelenate.
Nel resto io ti concedo interamente,
che le lasci da te partir contente.
105
Vo’ che de’ petti lor l’avare fami
satolli a piena man d’argento e d’oro.
Non ti lasciar però, se punto m’ami,
persuader dale lusinghe loro.
Non l’ascoltar; se d’ascoltarle brami,
pensa ascoltar dele sirene il coro,
dal cui dolce cantar tenace e forte,
mascherata di vita, esce la morte.
106
E se pur troppo credula vorrai
prestar fede ala coppia iniqua e ria,
in ciò ti prego almen non l’udir mai,
in cercar di saver qual io mi sia.
Con un tardo pentir, se ciò non fai,
ti soverrà del’avertenza mia.
A me sarai cagion di grave affanno,
ed a te porterai l’ultimo danno.»
107
Taccio ed ella ascoltando i miei ricordi,
promette d’osservar quanto desio.
«Di mestessa (dicea) fia che mi scordi
pria che gli ordini tuoi ponga in oblio.
A’ tuoi fian sempre i miei desir concordi,
tu se’, qualunque sei, lo spirto mio.
Abbine di mia fe’ pegno securo,
per me, per te, per Giove stesso il giuro.»
108
Già dando volta al bel timon dorato
e de’ monti indorando omai le cime,
il carro di Lucifero rosato
dale nubi vermiglie il giorno esprime,
quando a quel dir svanitole da lato,
volo per l’aure e fo portar sublime
l’indegna coppia innanzi ala mia vita
dal bel signor dela stagion fiorita.
109
Le ‘ncontra e bacia e ‘n dolci atti amorosi
fa lor liete accoglienze, ossequi cari.
Le ‘ntroduce ala reggia, ov’entro ascosi
servon senza scoprirsi i famigliari.
Tra ricchi arnesi e tra tesor pomposi
trovan cibi e lavacri eletti e rari,
sich’elle a tanto cumulo di bene
già nutriscon l’invidia entro le vene.
110
Le dimandan chi sia di cose tante
signor, di che fattezze il suo diletto.
Ella, fin a quel punto ancor costante,
non obliando il marital precetto,
s’infinge e dice: «Il mio gradito amante
più ch’altro leggiadro un giovinetto;
ma l’avete a scusar, ch’agli occhi vostri,
occupato ale cacce, or non si mostri».
111
Ciò detto le ribacia e le rimanda
colme di gemme e di monili il seno.
Ai cari genitor si raccomanda,
poi le consegna al venticel sereno,
che, presto ad esseguir quanto comanda,
rapido più che strale o che baleno,
con vettura innocente in braccio accolte
le riporta alo scoglio, onde l’ha tolte.
112
Elle di quel velen tutte bollenti,
che sorbito pur dianzi avea ciascuna,
borbottavan tornando e ‘n tali accenti
con l’altra il suo furor sfogava l’una.
«Or guata cieca, ingiusta e dale genti
forsennata a ragion detta Fortuna.
Tal de’ meriti umani ha cura e zelo?
e tu tel vedi e tu tel soffri o cielo?
113
Figlie d’un ventre istesso al mondo nate
perché denno sortir sorti diverse?
Noi le prime e maggior, malfortunate
tra le sciagure e le miserie immerse;
ed or costei, che ‘nsu l’estrema etate
già stanco in luce il sen materno aperse,
se fu del nostro ben trista pur dianzi,
lieta del nostro mal fia per l’innanzi.
114
Un marito divin chi né godere
né conoscer sel sa, gode a sue voglie.
Vedesti tu per quelle stanze altere
quante gemme, quant’oro e quali spoglie?
S’egli e pur ver che con egual piacere
giovane così fresco in braccio accoglie
e di tanta beltà, quant’ella dice,
più non vive di lei donna felice.
115
Altri certo non può che dio celeste
esser l’autor di meraviglie tali;
e s’ei pur l’ama, com’appar da queste,
la porrà tra le dee non più mortali.
Non vedi tu, ch’ad ubbidirla preste
insensibili forme e spiritali,
quasi vili scudier, move a suo senno?
comanda ai venti ed e servita a cenno?
116
Misera me, cui sempre il letto e ‘l fianco
ingombra inutilmente un freddo gelo,
impotente fanciullo e vecchio bianco,
uom che vetro ha la lena e neve il pelo.
Né sposo alcun, sicome infermo e stanco,
più spiacente e geloso è sotto il cielo,
che custode importun la casa tiene
sempre di ferri cinta e di catene.»
117
«Ed io (l’altra soggiunge) un ne sostegno
impedito dal morbo e quasi attratto
e calvo e curvo e men che sasso o legno
ai congressi amorosi abile ed atto;
cui più serva che moglie esser convegno,
con le cui ritrosie sempre combatto;
conviemmi ognor curarlo e ‘n tali affanni,
vedova e maritata, io piango gli anni.
118
Ma tu sorella, con ardir ti parlo,
con cor troppo servil soffri i tuoi torti.
Io non posso per me dissimularlo,
né più oltre sarà che mel sopporti.
Mi rode il petto un sì mordace tarlo,
che non trovo pensier, che mi conforti.
Animo, generoso aborre e sdegna
tal ventura caduta in donna indegna.
119
Non ti sovien con qual superbia e quanto
fasto, quantunque a non curarla avezze,
poiché n’accolse, ambizioso vanto
si diè di tante sue glorie e grandezze?
E pur a noi, benché n’abondi tanto,
poca parte donò di sue ricchezze
e poiché fastidita ne rimase,
subito ne scacciò dale sue case.
120
Quando a farla pentir di tanto orgoglio
vogli tu, come credo, unirti meco,
esser detta mai più donna non voglio,
s’a mortal precipizio io non la reco.
Per or, tornando al solitario scoglio,
nulla diciam d’aver parlato seco;
non facciam motto del suo lieto stato,
per non farlo col dir vie più beato.
121
Assai noistesse pur visto n’abbiamo
e di troppo aver visto anco ne spiace.
A que’ poveri alberghi omai torniamo,
dove mai non si gode ora di pace.
Là consiglio miglior vo’ che prendiamo
a punir di costei l’insania audace,
onde s’accorga alfin d’aver sorelle
suo malgrado più degne e non ancelle.»
122
Tal accordo conchiuso, a quella parte
le scelerate femine sen vanno
e con guance graffiate e chiome sparte
pur l’usato lamento aprova fanno.
I ricchi doni lor celano ad arte,
tra sé ridendo del’ordito inganno.
Così con finti pianti e finti modi
van machinando le spietate frodi.
123
Tosto che la stagion serena e fosca
l’aere abbraccia dintorno, io l’ali spiego
e qual velen quelle due furie attosca
racconto ala mia Psiche e la riprego
a voler, bench’apien non mi conosca,
contentarsi del più, se ‘l men le nego.
le scopro il cor, coprendole il sembiante,
e può veder l’amor, se non l’amante.
124
Le mostro che soverchio è voler poi
investigar la mia vietata faccia,
poiché però non crescerà tra noi
quel grand’amor, che l’un e l’altro allaccia.
L’essorto che non guasti i piacer suoi
per un lieve desio, ma goda e taccia:
quanto può giusto sdegno io le rammento
e la fede promessa e ‘l giuramento.
125
Le fo saver che nel bel sen fecondo
un fortunato infante ha già concetto,
che fia divino ed immortale al mondo,
se s’asterrà dal mio conteso aspetto.
Ma se vorrà mirar quelche l’ascondo,
a morte lo farà nascer soggetto.
L’ammonisco a schivar tanta ruina
al fanciul sovrastante, a lei vicina.
126
Ella giura e scongiura e ‘nsomma vole
pur riveder quella sorella e questa;
e fa con lagrimette e con parole
un bacio intercessor dela richiesta;
ed io col proprio crin, mentre si dole,
rasciugando le vo’ la guancia mesta;
lasso, che non potrà, se in me può tanto
l’amorosa eloquenza del bel pianto?
127
Nulla alfin so negarle e tosto quando
s’apre il ciel mattutino ai primi albori,
risorgo e lieve insu lo scoglio mando
il padre fecondissimo de’ fiori.
Già l’empie, che stan pur quivi aspettando,
delo spirto gentil senton gli odori;
ed ei pur quasi a forza insu le spalle
le ritragitta ala fiorita valle.
128
Trovan la bella e sotto liete fronti
coprono il fiel che ‘l cor fellone asconde.
Ella con atti pur cortesi e pronti
ala mentita affezzion risponde.
Caldi vapori d’odorati fonti
in conche d’oro ai lassi membri infonde
e ‘n ricchi seggi infra delizie immense
degne le fa dele beate mense.
129
Comanda poscia agli organi sonanti,
chiama al concerto le canore voci
e i ministri invisibili volanti
al primo cenno suo vengon veloci.
Ma quella melodia di suoni e canti,
che placherebbe gli aspidi feroci,
dele serpi infernali, ancorché dolce,
la perfidia crudel punto non molce,
130
anzi, con lo stupor, tanto più fiera
cresce l’invidia che le morde e lima,
onde la pregan pur che chiara e vera
del vago suo la qualitate esprima.
La semplicetta garrula e leggiera,
cui non sovien ciò che lor disse in prima,
perch’accusar del fatto il ver non vole,
aviluppa e compon novelle fole;
131
dice che ricco d’or per varie strade
con varie merci a traficar intende
e che la neve dela fredda etade
già già le tempie ad imbiancar gli scende.
Poi, perché ratto ale natie contrade
le riconduca, a Zefiro le rende
che, come suole, ale paterne spiagge
di novi doni onuste indi le tragge.
132
«Deh! che ti par dele menzogne insane,
(l’una al’altra dicea) di questa sciocca?
cacciator dianzi, dale prime lane
quel suo non avea pur la guancia tocca;
or mercando sen va per rive estrane
e la bruma senil su ‘l crin gli fiocca;
o che finge, o che mente, o ch’ella stessa
non sa di ciò la veritate espressa.
133
Tempo è, comunque sia, da far cadere
tutte le gioie sue disperse e rotte.»
Con sì fatto pensier vanno a giacere
e ‘n vigilia crudel passan la notte.
Col favor di favonio indi leggiere
a Psiche insu ‘l mattin son ricondotte,
che gode pur d’accarezzar le due,
sorelle non dirò, vipere sue.
134
Giunte, esprimendo a forza in larghe vene
lagrime fuor degli umidetti rai,
che sempre, e dir non so dove le tiene,
quel sesso a voglia sua n’ha pur assai
«Dolce (presero a dirle) amata spene,
tu secura qui siedi e lieta stai
e, malcauta al periglio e trascurata,
l’ignoranza del mal ti fa beata.
135
Ma noi, noi che sollecite ala cura
dela salute tua siam sempre intente,
convien ch’a parte d’ogni tua sciagura
abbiam del commun danno il cor dolente.
Sappi che quel, che ‘nsu la notte oscura
giacer teco si suole, è un fier serpente;
un serpente crudele esser per certo
quelche teco si giace, abbiam scoverto.
136
Videl più d’un pastor non senza rischio
quando a sera talor torna dal pasto,
guadar il fiume e, variato a mischio,
trarsi dietro gran spazio il corpo vasto.
Intorno a sé dal formidabil fischio
lasciando il ciel contaminato e guasto,
con lunghe spire per l’immonde arene,
se vederlo sapessi, a te ne viene.
137
Viensene in più volubili volumi
divincolando il flessuoso seno.
Da minacciosi e spaventosi lumi
esce strano fulgor, ch’arde il terreno
e di nebbia mortal torbidi fumi
infetti di pestifero veleno
sbuffando intorno, a lato a te si caccia
e fa la cova sua fra le tue braccia.
138
Par ch’oltre a sé si sporga e ‘n sé rientre
e ne’ lubrici tratti onda somiglia,
e fuggendo e seguendo il proprio ventre,
lascia sestesso e sestesso ripiglia.
Poi chiude i giri in un sol groppo e mentre
in mille obliqui globi s’attortiglia,
di ben profondo solco, ove s’accampa,
quasi vomere acuto, il prato stampa.
139
Quando del cupo suo nativo bosco
dala fame ad uscir per forza è spinto,
d’un verde bruno e d’un ceruleo fosco
mostra l’ali fregiate e ‘l dorso tinto.
Squallido d’oro e turgido di tosco,
di macchie il collo a più ragion dipinto,
scopre di quanti al sol vari colori
l’arco suo rugiadoso iride infiori.
140
Ahi! che figura abominanda e sozza,
se talor per lo pian stende le strisce,
e poiché vomitata ha dala strozza
carne di gente uccisa, ei la lambisce,
o, se del sangue che maisempre ingozza
avien che ‘l tergo e ‘l petto al sol si lisce,
il tergo e ‘l petto armato a piastre e maglie,
di doppie conche e di minute scaglie:
141
livido foco che le selve appuzza
spira la gola ed aliti nocenti.
Vibra tre lingue e nele fauci aguzza
un tripartito pettine di denti.
Sanguigne schiume dala bocca spruzza
ed ammorba co’ fiati gli elementi;
l’aure corrompe, mentre l’aria lecca,
strugge i fior, l’erbe uccide e i campi secca.
142
Guarditi, o suora, il ciel dala sua stizza,
scampiti Giove pur da quella peste,
qualor per ira si contorce e guizza
e sbarra le voragini funeste,
la superba cervice in alto drizza,
erge del capo le spietate creste,
e ribattendo le sonore squamme,
Mongibello animato, aventa fiamme.
143
Perché con tanta industria e secretezza
credi la propria effigie ei tenga ascosa,
senon perché sua natural bruttezza
agli occhi tuoi manifestar non osa?
Ma seben or t’adula e t’accarezza
sotto quel dolce titolo di sposa,
pensi però che la sua cruda rabbia
lungo tempo digiuna a tener abbia?
144
Aspetta pur che del tuo ventre cresca,
come già va crescendo, il peso intutto.
Lascia che venga con più stabil esca
di tua pregnanza a maturarsi il frutto.
Allor vedrai, sii certa, ove riesca
il sozzo amor d’un animal sì brutto.
Allor fia, chi nol sa? che fuor d’inganni,
preda a suo modo opima, ei ti tracanni.
145
S’a noi non credi, ed oh, queste parole
sparse sien pur al vento e non al vero!
credi a quel che mentir né può né suole,
del’oracol febeo presagio fiero.
Il presagio in oblio por non si vuole,
ch’imaginandol pur trema il pensiero,
ch’esser ti convenia moglie d’un angue,
morte e strage del mondo e foco e sangue.
146
Che farai dunque? o col tuo scampo a noi
consentirai, d’ogni sospetto sciolta,
o tanto attenderai che tu sia poi
nele ferine viscere sepolta?
Se ‘n tal guisa nutrir più tosto vuoi,
non so s’io dica o pertinace o stolta,
l’empia ingordigia del’osceno mostro,
adempito abbiam noi l’ufficio nostro.
147
Ma se non vuoi dele voraci brame
cibo venir di sì vil bocca indegno,
pria ch’alfin sazia la lascivia infame
teco trangugi l’innocente pegno,
dela fera crudel tronchi lo stame
senz’altro indugio un generoso sdegno,
e prendi a un colpo d’estirpar consiglio
il proprio essizio e ‘l publico periglio».
148
Sentesi Psiche a quel parlar, d’orrore
tremare i polsi ed arricciare i crini;
sudan l’estremità, palpita il core,
spariscon dal bel volto ostri e rubini,
gelan le fibre e di gelato umore
lucidi canaletti e cristallini
stilla essangue la fronte, a punto quali
suole aurora d’april rugiade australi.
149
Contrarie passion, tra cui s’aggira,
in quel semplice cor fan guerra interna.
D’amore e d’odio e di spavento e d’ira
gran tempesta la volge e la governa.
Nave rassembra a cui mentr’ostro spira
or garbino or libecchio i soffi alterna.
Pur dopo molti alfin pensier diversi
nel fondo d’ogni mal lascia cadersi.
150
Dimenticata già d’ogni promessa,
tutto il secreto a buona fè rivela.
Del furtivo marito il ver confessa
e che fugge la luce e che si cela.
Rapita dal timor, dal duolo oppressa,
geme, freme, s’afflige e si querela,
e, mancandole in ciò saldo discorso,
di pietà le riprega e di soccorso.
151
Contro il tenero core allor si scaglia
dele donne malvage il furor crudo
e, con aperta e libera battaglia,
stringon già dela fraude il ferro ignudo.
«Fuorché ‘l partito estremo, altro che vaglia
non hanno i casi estremi o schermo o scudo.
Al’intrepide genti e risolute
la desperazion spesso è salute.
152
Ti puoi dela salute il calle aprire,
se la speme non mente, assai spedito.
Né scemar deve in te punto l’ardire
biasmo di fellonia con tal marito.
Chi t’inganna ingannar non è tradire,
giusto è che sia lo schernitor schernito,
ché, quando ad opra rea vien che consenta,
la fede sceleragine diventa.
153
Sotto il letto vogliam che tu nasconda
un ferro acuto ed una luce accesa,
e come pria la creatura immonda
nel’usato covil si sia distesa
e nel colmo del’ombra alta e profonda
sarà dal maggior sonno avinta e presa,
sorgi pian piano e tuo ministro e duce
sprigiona il ferro e libera la luce.
154
La luce il modo allor fia che ti scopra,
ben oportuna e consigliera e guida.
Non temer no, che d’ambe noi nel’opra
avrai, s’uopo ti fia, l’aita fida.
Senz’alcuna pietà, giuntagli sopra,
fa che del fier dragone il capo incida,
perché con bestia sì feroce e strana
qualunque umanità fora inumana.»
155
E, così detto, l’una e l’altra prende
commiato e parte; ella riman soletta,
senon sol quanto agitatrici orrende
seco le Furie in compagnia ricetta.
Ma, seben risoluta al’opra intende
e la machina appresta e ‘l tempo aspetta,
pur con affetti vari in tanta impresa
litigando tra sé pende sospesa.
156
Ancor dubbia e pensosa ed ama e teme,
or confida, or diffida, or vile, or forte.
Quinci e quindi in un punto il cor le preme
ardimento d’amor, terror di morte.
In un corpo medesmo insieme insieme
aborrisce il serpente, ama il consorte;
e stan pugnando in un istesso loco
tra rispetto e sospetto il ghiaccio e ‘l foco.
157
Già nel’occaso i suoi corsier chiudea,
giunto a corcarsi, il gran pianeta errante,
e già vicin, mentre nel mar scendea,
sentiva il carro d’or stridere Atlante,
quand’io, che cieco in tenebre vivea
dal mio terrestre sol lontano amante,
per far giorno al mio cor, dal’alto polo
men venni ingiù precipitando il volo.
158
Psiche mia con lusinghe mi riceve,
l’apparecchio crudel dissimulando.
Ma poich’alato a lei mi vengo in breve,
stanco da’ primi assalti, addormentando,
mentre piacevolmente il sonno greve
sto con leggieri aneliti soffiando,
sorge e sospinta da pensier maligni
del sacrilegio suo prende gli ordigni.
159
Dele pria care e poscia odiate piume
viensi accostando inver la sponda manca.
Nela destra ha il coltel, nel’altra il lume,
d’orrore agghiaccia e di paura imbianca.
Ma per farle esseguir quanto presume
sdegno il suo debil animo rinfranca
e la forza del fato al’atto fiero
arma d’audacia il feminil pensiero.
160
Fa l’ascolta pertutto e ‘nsu la porta
dela stanza si ferma e guata pria.
Sporge innanzi la mano e la fa scorta
al piè che lento al talamo s’invia.
Tende l’orecchie e sovr’aviso accorta
ogni strepito e moto osserva e spia.
Sospende alto le piante e poi leggiere
le posa in terra e non l’appoggia intere.
161
Quando là dov’io poso è giunta appresso
voce non forma, accento non esprime,
di tirar non s’arrischia il fiato istesso
e, se spunta un sospir, tosto il reprime.
Caldo desio rinvigorisce il sesso,
freddo timor le calde voglie opprime;
brama e s’arretra, ardisce e si ritiene,
bollon gli spirti e gelano le vene.
162
Ma non sì tosto il curioso raggio
del lume esplorator venne a mostrarse,
dal cui chiaro splendor del cortinaggio
ogni latebra illuminata apparse,
che, sbigottita del’ingiusto oltraggio,
stupì repente e di vergogna n’arse.
Non sa s’è sogno o ver, ché, quando crede
veder un drago, un garzonetto vede.
163
Gran villania le parve aver commessa
e di tanta follia forte le ‘ncrebbe.
Spegner la luce perfida e con essa
l’arrotato coltel celar vorrebbe.
Fu per celarlo in sen quasi a sestessa
e senza dubbio alcun fatto l’avrebbe
se dala man tremante il ferro acuto
non le fusse in quel punto al suol caduto.
164
Mentr’ella in atto tal si strugge e langue,
di toccar l’armi mie desio la spinge
e con man palpitante e core essangue
le prende e tratta e le tasteggia e stringe.
Tenta uno strale e di rosato sangue
l’estremità del pollice si tinge;
mirasi punto incautamente il dito
e si sente in un punto il cor ferito.
165
Così si stava e romper non ardiva
la mia quiete placida e tranquilla.
Ed ecco allor la liquefatta oliva
del’aureo lucernier scoppia e sfavilla,
e, vomitando dala fiamma viva
di fervido licor pungente stilla,
al’improviso con tormento atroce
su l’ala destra l’omero mi coce.
166
Desto in un tratto io mi risento e salto
fuor dela cuccia, ed ella a me s’apprende,
m’abbraccia i fianchi e con vezzoso assalto
per vietarmi il partir pugna e contende.
M’afferra il piè fugace, io meco in alto
la traggo a volo ed ella meco ascende.
Così pendente per l’aeree strade
mi segue e tiene, alfin mi lascia e cade.
167
Da me spiccata, amaramente al suolo
ululando e piangendo ella si stese.
Io mi volsi a que’ pianti e del suo duolo
in mezzo al’ira la pietà mi prese,
onde l’ali arrestai, fermando il volo,
a sì tristo spettacolo sospese,
e mi posi a mirarla intento e fiso
d’un cipresso vicin tra i rami assiso.
168
«Ingrata (a dirle indi proruppi) ingrata,
sì tosto in Lete un tanto ardore è spento?
Così dala memoria smemorata
l’aviso mio ti cadde in un momento?
Quest’è l’amor? quest’è la fè giurata?
Dunque tu paglia al foco, io foco al vento?
tu dunque onda alo scoglio, io scoglio al’onda?
io stabil tronco e tu volubil fronda?
169
Io, dela madre mia posto in non cale
l’ordin, cui convenia pur ch’ubbidissi,
quando d’ogni sventura e d’ogni male
sepelir ti volea sotto gli abissi,
il cor per tua cagion col proprio strale
inavedutamente mi trafissi;
per te trafitto e per tuo bene ascoso
volsi ad onta del ciel farmiti sposo.
170
E tu sleal, pur come fusse poco
d’invisibil ferita il cor piagarmi,
volesti me, ch’era tua gioia e gioco,
quasi serpe crudel, ferir con l’armi;
e non contenta d’amoroso foco
co’ tuoi begli occhi l’anima infiammarmi,
hai voluto con arte empia e malvagia
ardermi ancora il corpo in viva bragia.
171
Già più volte predetto il ver ti fue,
né frenar ben sapesti un van desire.
Ma quelle egregie consigliere tue
la pena pagheran del lor fallire.
Giusto flagel riserbo ad ambedue,
te sol con la mia fuga io vo’ punire.
Rimanti, a Dio; da te cercato invano
e col corpo e col cor già m’allontano.»
172
Tanto le dissi; ed ella, a cui più dolse
che la caduta sua la mia salita,
poiché gran tratto d’aria alfin le tolse
l’amata imago in apparir sparita,
per lung’ora di là sorger non volse,
dove attonita giacque e tramortita;
poi la fronte levando afflitta e bassa
tra sospiro e sospir ruppe un «ahi lassa».
173
«Lassa (dicea) tu m’abbandoni e vai
da me lontano e fuggitivo, Amore.
Fuggisti, Amor. Che più mi resta omai,
senon sol di mestessa odio ed orrore?
Ben dala vista mia fuggir potrai,
ma non già dal pensier, non già dal core.
Se ‘l ciel dagli occhi miei pur ti dilegua,
fia che col core e col pensier ti segua.
174
Sì per poco ti sdegni? e tocco apena
da picciola scintilla t’addolori?
Quest’alma or che farà d’incendio piena?
Che farà questo cor fra tanti ardori?»
Così doleasi, e copiosa vena
versando intanto d’angosciosi umori,
sommersi dale lagrime cadenti
in bocca le morir gli ultimi accenti.
175
Dopo molto lagnarsi in piè risorge,
ratto poi drizza al vicin prato il passo,
ché con corso pacifico vi scorge
torcersi un fiumicel tra sasso e sasso.
Va su l’estremo margine, che sporge
l’orlo curvo e pendente al fondo basso,
e desperata e dal dolor trafitta
precipitosamente ingiù si gitta.
176
Ma quel cortese e mansueto rio,
o ch’a me compiacer forse volesse,
ricordevole pur che son quell’io
che so fiamme destar tra l’acque istesse,
o che con gli occhi, ov’arde il foco mio,
rasciutte un sì bel sol l’onde gli avesse,
del’altra riva insu le spiagge erbose
con innocente vomito l’espose.
177
Vede, uscita dal rischio, al’ombra assiso
d’Arcadia il rozzo dio ch’ivi