LA NOVELLETTA.
ALLEGORIA
La favola di Psiche rappresenta lo stato dell’uomo. La città dove nasce, dinota il mondo. Il re e la reina, che la generano, significano Iddio e la materia. Questi hanno tre figliuole, cioè la Carne, la Libertà dell’arbitrio e l’Anima; la qual non per altro si finge più giovane, se non perché vi s’infonde dentro dopo l’organizzamento del corpo. Descrivesi anche più bella, percioch’è più nobile della Carne e superiore alla Libertà. Per Venere, che le porta invidia, s’intende la Libidine. Costei le manda Cupidine, cioè la Cupidità, laquale ama essa Anima e si congiunge a lei, persuadendole a non voler mirar la sua faccia, cioè a non volere attenersi ai diletti della concupiscenza né consentire agl’incitamenti delle sorelle Carne e Libertà. Ma ella a loro instigazione entra in curiosità di vederlo e discopre la lucerna nascosta, cioè a dire palesa la fiamma del disiderio celata nel petto. La lucerna, che sfavillando cuoce Amore, dimostra l’ardore della concupiscibile, che lascia sempre stampata nella carne la macchia del peccato. Psiche, agitata dalla Fortuna per diversi pericoli e dopo molte fatiche e persecuzioni copulata ad Amore, è tipo della istessa anima, che per mezzo di molti travagli arriva finalmente al godimento perfetto.
ARGOMENTO
Giunto al’albergo de’ vezzosi inganni
il bell’Adon, là dov’Amor s’annida,
gli conta Amor, che lo conduce e guida,
le fortune di Psiche e i propri affanni.
1
È di dura battaglia aspro conflitto
questa che vita ha nome, umana morte,
dov’ognor l’uom con mille mali afflitto
vien combattuto da nemica sorte.
Ma fra l’ingiurie e fra i contrasti invitto
non però sbigottisce animo forte,
anzi contr’ogni assalto iniquo e crudo
s’arma e difende, e sua virtù gli è scudo.
2
Talor ne tocca la paterna verga,
ma ‘l suo giusto rigor non è crudele,
anzi perché la polvere disperga
ne scote i panni e porta in cima il mele.
Non desperi mai sì che si sommerga
chi per quest’ocean spiega le vele,
ma de’ flutti e de’ venti al fiero orgoglio
faccia un’alta costanza ancora e scoglio.
3
Sembra il flagel, che correggendo avisa
anima neghittosa, amaro in vista,
ma di salubre pur calice in guisa
la purga e giova altrui, mentre ch’attrista.
Vite dal podador tronca e recisa
fecondità dale sue piaghe acquista.
Statua dalo scarpel punta e ferita
ne diventa più bella e più polita.
4
Selce, ch’auree scintille in seno asconde,
il lor chiuso splendor mostrar non pote,
se dal’interne sue vene profonde
non le tragge il focil che la percote.
Corda sonora a dotta man risponde
con arguta armonia di dolci note
e ‘l vantaggio che trae di tal offesa,
quanto battuta è più, vie più palesa.
5
Rotta la conca da mordace dente,
la porpora real si manifesta.
Né del gran, né del vin si gusta o sente
l’eccellenza e ‘l valor, se non si pesta.
Stuzzicato carbon vien più cocente,
soffiata fiamma più s’accende e desta,
palla a terra sospinta al ciel s’inalza
e sferzato palco più forte sbalza.
6
La fatica e ‘l travaglio è paragone,
dove provar si suol nostra finezza;
né senz’affanno e duol, premi e corone
può di gloria ottener vera fortezza.
Del’amica d’Amor, tel mostri Adone
la tribulata e misera bellezza,
orch’egli i tanti suoi strani accidenti
ti prende a raccontar con tali accenti:
7
– In real patria e di parenti regi
nacquer tre figlie, d’ogni grazia ornate.
Natura l’arricchì di quanti pregi
possa in un corpo accumular beltate.
Ma versò de’ suoi doni e de’ suoi fregi
copia maggior nela minore etate,
peroché la più giovane sorella
era del’altre due troppo più bella.
8
Le prime due, quantunque accolta in esse
fusse d’alte bellezze immensa dote,
tai non eran però, che non potesse
umana lingua esprimerla con note.
Ma l’ultima di loro, a cui concesse
quanto di bello il ciel conceder pote,
tanto d’ogni beltà passava i modi,
ch’era intutto maggior del’altrui lodi.
9
Per alpestri sentier stampando l’orme
nazion peregrine e genti estrane
per veder s’era al grido il ver conforme
vi concorrean da region lontane
e, giunte a contemplar sì belle forme,
dico quel fior dele bellezze umane,
si confessavan poi tutti costoro
obligati per sempre agli occhi loro.
10
Dal desir mossi e dala fama tratti
or quinci or quindi artefici e pittori,
per fabricarne poi statue e ritratti,
veniano e con scarpelli e con colori
e, sospesi in mirarla e stupefatti,
immobili non men de’ lor lavori
dal’attonita mano e questi e quelli
si lasciavan cader ferri e pennelli.
11
Quel divin raggio di celeste lume,
ch’avrebbe il ghiaccio istesso arso e distrutto,
risplendea sì, che qual terrestre nume
adorata era omai dal popol tutto;
loqual dela gran dea, che dale spume
prodotta fu del rugiadoso flutto,
tutti gli onor, tutte le glorie antiche
publicamente attribuiva a Psiche.
12
Sì di Psiche la Fama intorno spase,
tal era il nome suo, celebre il grido,
che questa opinion si persuase
di gente in gente in ogni estremo lido.
Pafo d’abitator vota rimase,
restò Citera abbandonata e Gnido;
nessun più vi recava ostia, né voto
orator fido o passaggier devoto.
13
Manca il concorso ai frequentati altari,
mancano i doni ala gran diva offerti;
non più di fiamme d’or lucenti e chiari,
ma son di fredde ceneri coverti.
Da simulacri venerati e cari
omai non pendon più corone o serti.
Lasciando d’onorar più Citerea,
sacrifica ciascuno a questa dea.
14
Crede ciascun, che stupido s’affisa
di que’ begli occhi ai luminosi rai,
novo germe di stelle in nova guisa
veder, non più quaggiù veduto mai;
e dala terra e non dal mar s’avisa
esser più degna e più gentile assai
pullulata altra Venere novella,
casta però, modesta e verginella.
15
La vera dea d’amor, che dal ciel mira
cotanto insolentir donna mortale,
e vede pur, che ‘ndegnamente aspira
a divin culto una bellezza frale,
impaziente a sostener più l’ira,
dassi in preda ai furori in guisa tale,
che crollando la fronte e ‘l dito insieme,
questi accenti fra sé mormora e freme:
16
«Or ecco là chi da’ confusi abissi
l’universo costrusse e ‘l ciel compose,
per cui distinto in bella serie aprissi
l’antico seminario dele cose;
colei ch’accende i lumi erranti e i fissi
e ne fa sfavillar fiamme amorose;
di quanto è nato, e quanto pria non era
la madre prima e la nutrice vera.
17
Con la mia deità dunque concorre
un corpo edificato d’elementi?
Soffrirò ch’ogni vanto a me di torre
creatura caduca ardisca e tenti?
che sovra l’are sue vittime a porre,
sprezzando i templi miei, vadan le genti?
che ‘l sacro nome mio con riti insani
in suggetto mortale or si profani?
18
Sì sì soffriam, che con oltraggio indegno
nostra compagna pur costei si dica;
che commune abbia meco il nume e ‘l regno
la mia vicaria in terra, anzi nemica.
Ancor di più: dissimuliam lo sdegno,
che siam dette io lasciva, ella pudica;
ond’io ceda in tal pugna e far non basti,
che non mi vinca ancor, nonché contrasti.
19
Deh, che mi val, già figlia al gran tonante,
posseder d’ogni onor le glorie prime?
e poter dela via bianca e stellante
a mio senno varcar l’eccelse cime?
qual prò, ch’ogni altro dio m’assorga avante
come a dea tra le dee la più sublime?
e che quantunque il sol vede e camina,
mi conosca e confessi alta reina?
20
Lassa, i’ son pur colei, ch’ottenni in Ida
titolo di beltà sovra le belle,
e ‘l litigato d’or pomo omicida
trionfando portai meco ale stelle;
che fu principio a così lunghe strida
ed esca del’argoliche fiammelle,
onde sorser tant’armi e tanti sdegni,
per cui già d’Asia inceneriro i regni.
21
Ed or fia ver, che ‘n temeraria impresa
la palma una vil femina mi tolga?
Attenderò, che fin in cielo ascesa
l’orbe mio, la mia stella aggiri e volga?
Ah, di divina maestate offesa
giusto fia ben ch’omai si penta e dolga;
ché l’ingiuria, in colui che tempo aspetta,
cresce col differir dela vendetta.
22
Qualqual si sia, l’usurpatrice ardita
del grado altier di sì sublime altezza,
non molto gioirà, non impunita
n’andrà lunga stagion di sua sciocchezza;
vo’ che s’accorga, alfin tardi pentita,
che dannosa le fu tanta bellezza.
Stolta del’alte dive emula audace,
io ti farò.» Qui tronca i detti e tace.
23
Il carro ascende e d’impiegar disegna
del figlio in quest’affar le forze e l’armi;
ma convien ch’i suoi cigni a fren ritegna,
ché dubbiosa non sa dove trovarmi.
Per le belle contrade, ov’ella regna,
di lido in lido invan prende a cercarmi,
poiché quivi e pertutto in terra e ‘n cielo,
come e quando mi piace, altrui mi celo.
24
Prendo qual forma voglio a mio talento
e con l’acque e con l’aure io mi confondo.
Talor grande così mi rappresento,
che visibil mi faccio a tutto il mondo.
Talvolta poi sì picciolo divento,
ch’entro il giro d’un occhio anco m’ascondo.
Infin son tal, che benché m’abbia in seno
chi più mi sente, mi conosce meno.
25
Lascia la Grecia e prende altri sentieri,
vaga d’udir novelle, ov’io mi sia;
né più del’Asia entro i famosi imperi
dele vestigia mie la traccia spia,
ma stimulando i musici corsieri,
verso le piagge italiche s’invia,
ché sa ben quanto in que’ fioriti poggi,
vie più ch’altrove, io volentieri alloggi.
26
Giunge in Adria la bella e quivi intese
che v’albergava il mio nemico Onore
e Beltà cruda ed Onestà cortese,
Nobiltà, Maestà, Senno e Valore.
Passò poscia a Liguria e vi comprese
apparenza d’amor vie più ch’amore,
ch’io ne’ begli occhi e ne’ leggiadri aspetti
sol vi soglio abitar, ma non ne’ petti.
27
Vide poi la Marecchia e ‘l Serchio e ‘l Varo
la Brenta, il Brembo e la Livenza e ‘l Sile
e l’Adda e l’Oglio e ‘l Bacchiglione alparo,
superbo il Mincio, il picciol Reno umile,
il Tanaro, il Tesin, la Parma e ‘l Taro,
e la Dora, che d’or riveste aprile,
e Stura e Sesia e, di fresche ombre opaco,
da foce aurata scaturir Benaco.
28
Quindi al gran trono degli erculei regi
su l’Po volando i bianchi augei rivolse,
dove ricca sedea d’illustri fregi
la città, che dal ferro il nome tolse.
Ma le fu detto, che Fortuna i pregi,
di cui fiorir solea, sparse e disciolse;
mille già v’ebbi un tempo e palme e prede,
poi tra Secchia e Panara io cangiai sede.
29
Non lunge dal maggior fiume toscano
vide l’Arbia con l’Ombro, indi il Metauro
e con l’Isapi, suo minor germano,
presso il Ronco e ‘l Monton correr l’Isauro
e ‘l Tremisen, là dove il verde piano
vermiglio diverrà del sangue mauro,
e dal freddo Appennin discender Trebbia,
genitor di caligine e di nebbia.
30
Tra’ campi arrivò poi fertili e molli,
dove del Tebro il mormorio risona
e de’ suoi sette trionfanti colli
il gran capo del Lazio s’incorona.
Ma seppe quivi furiosi e folli
più tosto soggiornar Marte e Bellona
e con Perfidia e Crudeltà tra loro
baccar sete di sangue e fame d’oro.
31
Posciaché quindi le lombarde arene
ha tutte scorse e quanto irriga l’Arno
e quinci di Clitunno e d’Aniene
e d’altri frati lor le rive indarno,
a visitar dal Gariglian ne viene
Crati, Liri, Volturno, Aufido e Sarno
e vede irne tra lor pomposo e lieto
degli onori di Bacco il bel Sebeto.
32
Quivi tra ninfe amorosette e belle
trovommi a conquistar spoglie e trofei.
E seben tempo fu ch’io fui di quelle
già prigionier con mille strazi rei,
alme però non ha sotto le stelle
che sien più degni oggetti a’ colpi miei,
né so trovar altrove in terra loco,
dove più nobil esche abbia il mio foco.
33
Allor mi stringe entro le braccia e mille
groppi mi porge d’infocati baci,
poi per l’oro immortal, per le faville
dele quadrella mie, dele mie faci,
quanto può mi scongiura e vive stille
mesce di pianto a suppliche efficaci,
che senza vendicarla io non sopporti
più lungamente i suoi dispregi e i torti.
34
Dela bella rubella in voce amara
l’orgoglio e ‘l fasto a raccontar mi prende
e come seco in baldanzosa gara
contumace beltà pugna e contende.
Distinto alfine il suo desir dichiara
e quanto brama ad esseguir m’accende.
Vuol che di stral villano il cor le punga,
e ch’a sposo infelice io la congiunga.
35
Uom, che povero d’or, colmo di mali
e da Natura e da Fortuna oppresso,
sia, cadavere vivo infra i mortali,
sich’abbia invidia ai morti, odio a sestesso
e senza essempio di miserie eguali
tutto voti Pandora il vaso in esso.
Ch’a tal consorte, in tal prigion la stringa
mi comanda, mi prega e mi lusinga.
36
Scorgemi intanto al loco, ove m’addita
la meraviglia dele cose belle,
che, circondata intorno e custodita
da vago stuol di leggiadrette ancelle,
par, tra le spine sue, rosa fiorita,
par la luna, anzi il sole infra le stelle.
«Mira colà, quella è la rea (mi dice)
dele bellezze mie competitrice.»
37
Dal carro, che con morso aureo l’affrena,
scioglie, ciò detto, le canute guide
e d’un delfino insu l’arcuta schiena
solca le vie de’ pesci e ‘l mar divide.
Così di Cipro ala nativa arena
torna, che lieta al suo ritorno arride;
ed io rimango a contemplar soletto
quel sovruman, sovradivino oggetto.
38
Veggio doppio oriente e veggio dui
cieli, che doppio sol volge e disserra,
dico que’ lumi perfidi, ch’altrui
uccidon prima e poi bandiscon guerra,
siché mirando un cor quel bello, a cui
paragon di beltà non ha la terra,
quando pensa al riparo il malaccorto
e vuol chieder mercé, si trova morto.
39
Né dele guance la vermiglia aurora
al sol degli occhi di bellezza cede,
i cui candori un tal rossor colora,
qual in non colto ancor pomo si vede.
Ombra soave, ch’ogni cor ristora,
un rilievo vi fa, che non eccede,
e con divorzio d’intervallo breve
distingue in duo confin l’ostro e la neve.
40
Somiglia intatto fior d’acerba rosa,
ch’apra le labra dele fresche foglie
l’odorifera bocca e preziosa,
ch’un tal giardino, un tal gemmaio accoglie,
che l’India non dirò ricca e famosa,
ma ‘l ciel nulla ha di bel, s’a lei nol toglie.
Se parla o tace, o se sospira o ride,
che farà poi baciando? i cori uccide.
41
In reticella d’or la chioma involta,
più ch’ambra molle e più ch’elettro bionda,
o stretta in nodi, o in vaghe trecce accolta,
o su gli omeri sparsa ad onda ad onda,
tanto tenace più, quanto più sciolta,
tra procelle dorate i cori affonda.
L’aure imprigiona, se talor si spiega,
e con auree catene i venti lega.
42
Che dirò poi del candidetto seno,
morbido letto del mio cor languente?
ch’a’ bei riposi suoi, qualor vien meno,
duo guanciali di gigli offre sovente?
Di neve in vista e di pruine è pieno,
ma nel’effetto è foco e fiamma ardente;
e l’incendio, che ‘n lor si nutre e cria,
le salamandre incenerir poria.
43
Quand’ebbi quel miracolo mirato,
dissi fra me, da me quasi diviso:
«Sono in ciel? sono in terra? il ciel traslato
è forse in terra? o cielo è quel bel viso?
sì sì, son pur lassù, son pur beato
tuttavia, come soglio, in paradiso.
Veggio la gloria degli eterni dei;
la bella madre mia non è costei?
44
No che non è, vaneggio, il ver confesso,
Venere da costei vinta è di molto.
Ahi! che ‘l pregio ala madre a un punto istesso
ed al figlio egualmente il core ha tolto.
Chi può senza morir mirar l’eccesso
di sì begli occhi, oimé! di sì bel volto,
vadane ancora poi, vada e s’arrischi
a mirar pur securo i basilischi.
45
O macelli de’ cori, occhi spietati,
di chi morir non pote anco omicidi,
voi voi possenti a soggiogare i fati
siate le sfere mie, siate i miei nidi.
In voi l’arco ripongo e i dardi aurati;
che se poi contro me saranno infidi,
più cara, in tali stelle è la mia sorte,
del’immortalità mi fia la morte».
46
Veggiola, mentre parlo, in atti mesti
starsi sola in disparte a trar sospiri;
ché, quantunque le sue più che celesti
forme, ben degne degli altrui desiri,
da mille lingue e da quegli occhi e questi
vagheggiate e lodate, il mondo ammiri,
alcun non v’ha però di genti tante,
che cheggia il letto suo, cupido amante.
47
Le suore, ancorché fussero appo lei
vie più d’età che di beltà fornite,
a grandi eroi con nobili imenei
per giogo maritale erano unite.
Ma Psiche, unico sol degli occhi miei,
parea dal’olmo scompagnata vite
e ne menava in dolorosi affanni,
sterili e senza frutto i più verd’anni.
48
Il miser genitor, mentr’ella geme
l’inutil solitudine che passa,
perché l’ira del ciel paventa e teme,
che spesso ai maggior re l’orgoglio abbassa,
pensoso e tristo infra sospetto e speme
la cara patria e ‘l dolce albergo lassa
e va per esplorar questo secreto
dal’oracolo antico di Mileto.
49
Là dove giunto poi, porge umilmente
incensi e preghi al chiaro dio crinito,
da cui supplice chiede e reverente,
al’infeconda sua, nozze e marito.
Ed ecco intorno rimbombar si sente
spaventoso fragor d’alto muggito
e col muggito alfin voce nascosta
dale cortine dar questa risposta:
50
«La fanciulla conduci in scoglio alpino
cinta d’abito bruno e funerale.
Né genero sperar dal tuo destino
generato d’origine mortale,
ma feroce, crudele e viperino,
ch’arde, uccide, distrugge e batte l’ale
e sprezza Giove ed ogni nume eterno,
temuto in terra, in cielo e nel’inferno».
51
Pensa tu qual rimase e qual divenne
il sovr’ogni altro addolorato vecchio.
Pensa qual ebbe il cor, quando gli venne
la sentenza terribile al’orecchio.
Torna ne’ patrii tetti a far sollenne
di quelle pompe il tragico apparecchio,
accinto ad ubbidir, quantunque afflitto,
del decreto d’Apollo al sacro editto.
52
Del vaticinio infausto e del’aversa
sorte nemica si lamenta e lagna
e con l’amare lagrime che versa,
dele rughe senili i solchi bagna;
e la stella accusando empia e perversa,
l’antica moglie i gemiti accompagna;
e pietoso non men piagne con loro
dele figlie dolenti il flebil coro.
53
Ma del maligno inevitabil fato
il tenor violento è già maturo.
Del’influsso crudel già minacciato
giunto è l’idol mio caro al passo duro.
Raccoglie già con querulo ululato
la bella Psiche un cadaletto oscuro,
laqual non sa fra i tanti orrendi oggetti
se ‘l talamo o se ‘l tumulo l’aspetti.
54
Di velo avolti tenebroso e tetro
e d’arnesi lugubri in vesta nera,
van padre e madre il nuzzial feretro
accompagnando e le sorelle in schiera.
Segue la bara il parentado e dietro
vien la città, vien la provincia intera;
e per tale sciagura odesi intanto
del popol tutto un publico compianto.
55
Ma più d’ogni altro il re meschin piangendo
sfortunato s’appella ed infelice,
e gli estremi da lei baci cogliendo
la torna ad abbracciar, mentre gli lice.
«Così dunque da te congedo io prendo?
così figlia mi lasci? (egli le dice)
son questi i fregi?, oimé! la pompa è questa,
ch’al tuo partire il patrio regno appresta?
56
In essequie funebri inique stelle
cangian le nozze tue liete e festanti?
le chiare tede in torbide facelle
le tibie in squille e l’allegrezze in pianti?
sono i crotali tuoi roche tabelle?
ti son gl’inni e le preci applausi e canti?
e là dove destin crudo ti mena
reggia il lido ti fia, letto l’arena?
57
O troppo a te contrario, a me nemico,
implacabil rigor d’avari cieli!
Te del tuo bel, me del mio ben mendico
perché denno lasciar fati crudeli?
Qual tua gran colpa o qual mio fallo antico
cagion, che tu t’affligga, io mi quereli,
te condanna a morire ed a me serba,
in sì matura età, doglia sì acerba?
58
Ad esseguir quanto lassù si vole
dura necessità, lasso! m’affretta
e, vie più ch’altro, mi tormenta e dole,
ch’a sì malvagio sposo io ti commetta.
Ch’io deggia in preda dar l’amata prole
a mostro tal che l’universo infetta,
questo so ben, che ‘l fil farà più corto,
che fu da Cloto ala mia vita attorto.
59
Ma poiché pur la maestà superna
così di noi disporre or si compiace,
cancellar non si può sua legge eterna,
ma convien, figlia mia, darsene pace.
De’ consigli di lui, che ne governa,
è l’umano saver poco capace,
poiché i giudici suoi santi e divini
son ordinati a sconosciuti fini.
60
Bench’a sposar lo struggitor del mondo
ti danni Apollo in suo parlar confuso,
chi sa s’altro di meglio in quel profondo
archivio impenetrabile sta chiuso?
Spesso effetto sortì lieto e giocondo
temuto male, ond’uom restò deluso.
Servi al ciel, soffri e taci.» E con tai note
verga di pianto le lanose gote.
61
La sconsolata e misera donzella
vede ch’ei viva a sepelir la porta
e tal sollennità ben s’accorg’ella,
ch’a sposa nò, ma si conviene a morta;
magnanima però non men che bella,
l’altrui duol riconsola e riconforta,
e i dolci umori, onde il bel viso asperge,
col vel purpureo si rasciuga e terge.
62
«Che val pianger? (dicea) che più versate
lagrime intempestive e senza frutto?
a che battete i petti ed oltraggiate
di livore e di sangue il viso brutto?
Ah non più no; di lacerar lasciate
la canicie del crin con tanto lutto,
offendendo con doglia inefficace
e la vostra vecchiezza e la mia pace.
63
Fu già, quando la gente a me porgea,
al ciel devuto, onor profano ed empio,
quando quasi d’amor più bella dea
ebbi, voi permettenti, altare e tempio,
allor fu da dolersi, allor devea
pianger ciascuno il mio mortale scempio.
Or è il pianto a voi tardo, a me molesto;
di mia vana bellezza il fine è questo.
64
L’invidia rea, che l’altrui ben pur come
suo proprio male aborre, allor mi vide.
I’ so pur ben, che l’usurpato nome
dela celeste Venere m’uccide.
Che bado? andianne pur; quest’auree chiome
con vil ferro troncate, ancelle fide;
quel sì temuto omai consorte mio
già di veder, già d’abbracciar desio.»
65
Qui tace e già d’una montagna alpestra
eccola intanto giunta ala radice,
ch’al sol volge le terga e piega a destra
sotto il gran giogo l’ispida cervice.
Quindi di sterpi e selci aspra e silvestra
pende sassosa e rigida pendice,
rigida sì ch’apena s’assecura
d’abitarvi l’Orror con la Paura.
66
Il mar sonante a fronte ha per confine,
da’ fianchi acute pietre e schegge rotte,
dirupati macigni e rocce alpine,
oscure tane e cavernose grotte,
precipizi profondi, alte ruine,
dove riluce il dì come la notte,
dove inospiti sempre e sempre foschi
dilatan l’ombre lor baratri e boschi.
67
Ecco l’infausto monte, ov’a fermarsi
ne venne il funeral tragico e mesto.
Quivi ha, quant’ognun crede, a consumarsi
il maritaggio orribile e funesto.
Ond’ai fieri imenei da celebrarsi
scelto già per teatro essendo questo,
dopo lagrime molte al vento sparte
la mestissima turba alfin si parte.
68
Partissi alfin, poiché tesor sì caro
depositò nel destinato loco,
lasciando nel partir col pianto amaro
dele fiaccole sacre estinto il foco.
Ai regi alberghi i genitor tornaro
e, la luce vital curando poco,
dannaro gli occhi a lunga notte oscura
e si chiusero vivi in sepoltura.
69
Restò la giovinetta abbandonata
su la deserta e solitaria riva
sì tremante, sì smorta e sì gelata,
ch’apena avea nel cor l’anima viva.
Veder quivi languir la sventurata
quasi di senso e movimento priva,
del’onde esposta al tempestoso orgoglio,
altro già non parea, che scoglio in scoglio.
70
Le man torcendo e ‘n vermiglietti giri
dolcemente incurvando i mesti lumi,
con che lagrime, o Dio! con che sospiri
si scioglie in acque e si distempra in fumi;
ma, raccogliendo il mar tra’ suoi zaffiri
dele stille cadenti i vivi fiumi,
ambizioso e cupido d’averle,
le serba in conche e le trasforma in perle.
71
Con le man su ‘l ginocchio, in terra assisa,
filando argento da’ begli occhi fore,
china al petto la fronte e ‘n cotal guisa
tra sestessa consuma il suo dolore.
Poi, mentre ai salsi flutti il guardo affisa,
sfoga parlando l’angoscioso core
e perde, apostrofando al mar crudele,
tra gli strepiti suoi queste querele:
72
«Deh placa, o mare, i tuoi furori alquanto,
pietoso ascoltator de’ miei cordogli,
e di quest’occhi il tributario pianto,
che ‘n larga vena a te sen corre, accogli.
Teco parlo, or tu m’odi, e fa che ‘ntanto
abbian quest’onde tregua e questi scogli;
né sen portino intutto invidi i venti,
come fer le speranze, anco i lamenti.
73
Nacqui agli scettri e ‘nsu i reali scanni
più di me fortunata altra non visse.
Bella fui detta, e ‘l fui, se senza inganni
lo mio specchio fedele il ver mi disse.
Or a quel fin su ‘l verdeggiar degli anni
corro, che ‘l fato al viver mio prescrisse,
abbandonando insu l’età fiorita
la bella luce e la serena vita.
74
Di ciò non mi dogl’io né mi lamento
dela bugiarda adulatrice speme;
né del colpo fatal prendo spavento,
che mi porti sì tosto al’ore estreme.
Chi sol vive al dolore ed al tormento
e suol vita aborrir, morte non teme;
a chi malvive il viver troppo è greve,
chi vive in odio al ciel viver non deve.
75
Lassa, di quelch’io soffro, aspro martire
vie maggiore e più grave è il mal ch’attendo.
Ch’io deggia entro il mio seno, oimé! nutrire
un mostro abominevole ed orrendo,
questo innanzi al morir mi fa morire,
questo morte sprezzar mi fa morendo.
Deh! dammi pria ch’un tanto mal succeda,
padre Nettuno, ale tue fere in preda.
76
Se provocò del ciel l’ira severa
da me commesso alcun peccato immondo
e da te deve uscir l’orrida fera,
che me divori e che distrugga il mondo,
fia ventura miglior, ch’absorta io pera
da questo ingordo pelago profondo.
Più tosto il ventre suo tomba mi sia,
e lavin l’acque tue la macchia mia.
77
Ma s’egli è ver, che pur a torto e senza
colpa incolpata e condannata io mora,
e se nume è lassù, che l’innocenza
curi e prego devoto oda talora,
da lui cheggio pietà, spero clemenza;
e quando il reo destin sia fermo ancora,
venga, e ‘l suo nero strale in me pur scocchi,
morte per sempre a suggellar quest’occhi.»
78
Più altro, ch’io ridir né so né posso,
parlava la dolente al sordo lito,
ch’avria qual cor più perfido commosso,
anzi il porfido istesso intenerito.
Il cavo scoglio mormorar percosso
per gran pietà fu d’ognintorno udito
e, rispondendo in roche voci e basse
parea che de’ suoi casi il mar parlasse.
79
Per risguardar chi sia che si consuma
in note pur sì dolorose e meste,
rompendo in spessi circoli la spuma
molte ninfe e tritoni alzar le teste,
ma, vinti da quel sol che l’acque alluma
e tocchi il freddo sen d’ardor celeste,
per fuggir frettolosi, i bei cristalli
seminaro di perle e di coralli.
80
Mentre là dove il vertice s’estolle
del’erta rupe, è posta in tale stato,
novo sente spirar di lungo il colle
di mill’aure sabee misto odorato,
indi d’un aere dilicato e molle
sibilar, sussurrar placido fiato,
che, dolcemente rincrespando l’onde,
fa tremar l’ombre e sfrascolar le fronde.
81
Era Zefiro questi. Io già, che ‘ntento
altrove non avea l’occhio e ‘l pensiero,
volsi far quel benigno amico vento
dele mie gioie essecutor corriero.
Gonfia la mobil gonna e, piano e lento,
col suo tranquillo spirito leggiero,
dala scoscesa e ruinosa balza
senz’alcun danno ei la solleva ed alza,
82
e colà presso, ove di fior dipinta
fa sponda al mar quella valletta erbosa
e di giovani allori intorno è cinta,
soavissimamente alfin la posa.
Qui da novo stupor confusa e vinta
su ‘l fiorito pratel siede pensosa,
che fresco insieme e morbido le serba
tetto di fronde e pavimento d’erba.
83
Poiché ‘l dolor, che de’ suoi sensi è donno,
satollato ha di pianti e di lamenti,
stanca omai sì, che le palpebre ponno
apena sostener gli occhi cadenti,
viensene il sonno a torla in braccio, il sonno,
tranquillità dele turbate menti.
Dal sonno presa al fremito del’acque
su ‘l verde smalto addormentossi e giacque.
84
Negli epicicli lor duo soli ascosi
i begli occhi parean dela mia Psiche,
dove chiusi traean dolci riposi
dal’amorose lor lunghe fatiche.
Duo padiglioni lievemente ombrosi
le velavan le luci alme e pudiche.
Le belle luci, onde languisco e moro,
legate eran dal sonno ed io da loro.
85
Vedesti ala stagion, quando le spine
fioriscon tutte di novella prole,
sparso di fresche perle e mattutine,
piantato in riva al mar, nascosto al sole,
spiegar il molle e giovinetto crine
giardinetto di gigli e di viole?
Dirai ben tal sembianza assai conforme
ala leggiadra vergine che dorme.
86
Così posava; e vidi a un tempo istesso
liev’Aura, Aura vezzosa, Aura gentile
scherzarle intorno e ventilarle spesso
il crespo dela chioma oro sottile.
Per baciarla talor si facea presso
a quella bocca ov’è perpetuo aprile,
ma, timidetta poi quanto lasciva,
da’ respiri respinta, ella fuggiva.
87
I’ non so già se Zefiro cortese
fu, che spettacol dolce allor m’offerse,
che la tremula vesta alto sospese
e dele glorie mie parte m’aperse.
So ben, che con sua neve il cor m’accese,
quando il confin del bianco piè scoverse.
Scoverse il piede e del’ignuda carne
quanto a casta beltà lice mostrarne.
88
Poich’assai travagliato e poco queto
in più pezzi ha carpito un sonno corto,
destasi e da quel loco ameno e lieto
piover si sente al cor novo conforto.
Sorge dal’odorifero roseto
e qua ne vien, dove ‘l mio albergo ha scorto.
Questo istesso palagio, ov’ora sei,
come raccoglie te, raccolse lei.
89
Nel limitar dela gemmata soglia
mette le piante e va mirando intorno;
mira il bel muro e di pomposa spoglia,
di fulgid’oro il travamento adorno,
sì che può far, quantunque il sol non voglia,
col proprio lume a sé medesmo il giorno.
Mira gli archi, le statue e l’altre cose,
che senza prezzo alcun son preziose.
90
Senza punto inchinar le luci al basso
del tetto ammira le mirabil opre,
ma pur del tetto il rilucente sasso
la superbia del suol chiara le scopre;
stupisce il guardo e si trattiene il passo
al bel lavor, che ‘l pavimento copre,
perché tante ricchezze in terra vede,
che di calcarle si vergogna il piede.
91
Ella rapita da sì ricchi oggetti
entra e d’alto stupor più si confonde,
poich’ala maestà di tai ricetti
ben la gran supellettile risponde.
Ecco, dove al cantar degli augelletti
fermossi; ivi spiegò le trecce bionde;
qui, poiché intorno a spaziar si mise,
respirò dolcemente e qui s’assise.
92
Quelche più l’empie il cor di meraviglia,
è che negletto è qui quanto si gode.
Casa sì signoril non ha famiglia,
abitante non vede, ostier non ode,
castaldo alcun di lei cura non piglia
né di tanto tesor trova custode.
Vaga con gli occhi e ‘l vago piè raggira,
tutto insomma possiede e nessun mira.
93
Voce incorporea intanto ode, che dice:
«Di che stupisci? o qual timor t’ingombra?
sappi cauta esser sì, come felice,
omai dal petto ogni sospetto sgombra;
non bramar di veder quelche non lice,
spirito astratto ed impalpabil ombra.
Gli altri beni e piacer tutti son tuoi,
ciò che qui vedi o che veder non puoi».
94
Da non veduta man sentesi in questa
d’acque stillate in tepida lavanda
condur pian piano, indi spogliar la vesta
e i bei membri mollir per ogni banda.
Dopo i bagni e gli odor, mensa s’appresta
coverta di finissima vivanda;
e sempre ad operar pronte e veloci
son sue serve e ministre, ignude voci.
95
Dato al lungo digiun breve ristoro
con cibi, che del ciel foran ben degni,
entra pur ala vista occulto coro,
sceso quaggiù da’ miei beati regni,
concordando lo stil dolce e canoro
ala facondia degli arguti legni.
Benché né di cantor né di stromenti
scorga imagine alcuna, ode gli accenti.
96
Già l’Oblio taciturno esce di Lete,
già la notte si chiude e ‘l dì vien manco,
e le stelle cadenti e l’ombre chete
persuadono il sonno al mondo stanco,
onde disposta alfin di dar quiete
al troppo dianzi affaticato fianco,
ricovra a letto in più secreto chiostro,
piumato d’oro, incortinato d’ostro.
97
Allor mi movo al dolce assalto e tosto
ch’entro la stanza ogni lumiera è spenta,
invisibile amante, a lei m’accosto,
che dubbia ancor, ciò che non sa paventa.
Ma se l’aspetto mio tengo nascosto,
le scopro almen l’ardor che mi tormenta
e, da lagrime rotti e da sospiri,
le narro i miei dolcissimi martiri.
98
Ciò ch’al buio tra noi fusse poi fatto,
più bel da far che da contar, mi taccio.
Lei consolata alfin, me sodisfatto,
basta dir ch’amboduo ne strinse un laccio.
Dela vista il difetto adempie il tatto,
quelche cerca con l’occhio, accoglie in braccio;
s’appaga di toccar quelche non vede,
quanto al’un senso nega, al’altro crede.
99
Ma su ‘l bel carro apena in oriente
venne del’ombre a trionfar l’Aurora
e i suoi destrier con l’alito lucente
fugate non avean le stelle ancora,
quando al bell’idol mio tacitamente
uscii di braccio e sorsi innanzi l’ora;
innanzi che del sol l’aurato lume
spandesse i raggi suoi, lasciai le piume.
100
Tornan da capo ala medesma guisa
l’ascose ancelle ed aprono i balconi
e dela sua virginitate uccisa
motteggian seco; ed ecco i canti e i suoni.
Si leva e lava ed ode, a mensa assisa,
epitalami in vece di canzoni
e le son pur non conosciute genti
camerieri, coppier, scalchi e sergenti.
101
Così dal’uso assecurata e fatta
più coraggiosa omai dala fidanza,
già già meco e co’ miei conversa e tratta
con minor pena e con maggior baldanza.
E leggiadra e gentil, seben s’appiatta,
imaginando pur la mia sembianza,
dal suono incerto dela voce udita
prende trastullo ala solinga vita.
102
Ma quant’ella però contenta vive,
tanto menano i suoi vita scontenta,
e di tal compagnia vedove e prive
più d’ogni altro le suore il duol tormenta.
Vigilando, il pensier lor la descrive,
dormendo, il sogno lor la rappresenta;
ond’alfin per saver ciò che ne sia,
là dove la lasciar, prendon la via.
103
Io, come soglio, insu la notte ombrosa
seco in tal guisa il ragionar ripiglio:
«Psiche caro mio cor, dolce mia sposa,
fortuna ti minaccia alto periglio,
là dove uopo ti fia d’arte ingegnosa,
di cautela sottile e di consiglio.
Ignoranti del ver, le tue sorelle
di te piangendo ancor cercan novelle.
104
Su que’ sassi colà ruvidi ed erti,
onde campata sei, son già tornate.
Io farò, se tu vuoi, per compiacerti
che sieno a te da Zefiro portate.
Ma ben t’essorto, a quant’io dico averti,
fuggi le lor parole avelenate.
Nel resto io ti concedo interamente,
che le lasci da te partir contente.
105
Vo’ che de’ petti lor l’avare fami
satolli a piena man d’argento e d’oro.
Non ti lasciar però, se punto m’ami,
persuader dale lusinghe loro.
Non l’ascoltar; se d’ascoltarle brami,
pensa ascoltar dele sirene il coro,
dal cui dolce cantar tenace e forte,
mascherata di vita, esce la morte.
106
E se pur troppo credula vorrai
prestar fede ala coppia iniqua e ria,
in ciò ti prego almen non l’udir mai,
in cercar di saver qual io mi sia.
Con un tardo pentir, se ciò non fai,
ti soverrà del’avertenza mia.
A me sarai cagion di grave affanno,
ed a te porterai l’ultimo danno.»
107
Taccio ed ella ascoltando i miei ricordi,
promette d’osservar quanto desio.
«Di mestessa (dicea) fia che mi scordi
pria che gli ordini tuoi ponga in oblio.
A’ tuoi fian sempre i miei desir concordi,
tu se’, qualunque sei, lo spirto mio.
Abbine di mia fe’ pegno securo,
per me, per te, per Giove stesso il giuro.»
108
Già dando volta al bel timon dorato
e de’ monti indorando omai le cime,
il carro di Lucifero rosato
dale nubi vermiglie il giorno esprime,
quando a quel dir svanitole da lato,
volo per l’aure e fo portar sublime
l’indegna coppia innanzi ala mia vita
dal bel signor dela stagion fiorita.
109
Le ‘ncontra e bacia e ‘n dolci atti amorosi
fa lor liete accoglienze, ossequi cari.
Le ‘ntroduce ala reggia, ov’entro ascosi
servon senza scoprirsi i famigliari.
Tra ricchi arnesi e tra tesor pomposi
trovan cibi e lavacri eletti e rari,
sich’elle a tanto cumulo di bene
già nutriscon l’invidia entro le vene.
110
Le dimandan chi sia di cose tante
signor, di che fattezze il suo diletto.
Ella, fin a quel punto ancor costante,
non obliando il marital precetto,
s’infinge e dice: «Il mio gradito amante
più ch’altro leggiadro un giovinetto;
ma l’avete a scusar, ch’agli occhi vostri,
occupato ale cacce, or non si mostri».
111
Ciò detto le ribacia e le rimanda
colme di gemme e di monili il seno.
Ai cari genitor si raccomanda,
poi le consegna al venticel sereno,
che, presto ad esseguir quanto comanda,
rapido più che strale o che baleno,
con vettura innocente in braccio accolte
le riporta alo scoglio, onde l’ha tolte.
112
Elle di quel velen tutte bollenti,
che sorbito pur dianzi avea ciascuna,
borbottavan tornando e ‘n tali accenti
con l’altra il suo furor sfogava l’una.
«Or guata cieca, ingiusta e dale genti
forsennata a ragion detta Fortuna.
Tal de’ meriti umani ha cura e zelo?
e tu tel vedi e tu tel soffri o cielo?
113
Figlie d’un ventre istesso al mondo nate
perché denno sortir sorti diverse?
Noi le prime e maggior, malfortunate
tra le sciagure e le miserie immerse;
ed or costei, che ‘nsu l’estrema etate
già stanco in luce il sen materno aperse,
se fu del nostro ben trista pur dianzi,
lieta del nostro mal fia per l’innanzi.
114
Un marito divin chi né godere
né conoscer sel sa, gode a sue voglie.
Vedesti tu per quelle stanze altere
quante gemme, quant’oro e quali spoglie?
S’egli e pur ver che con egual piacere
giovane così fresco in braccio accoglie
e di tanta beltà, quant’ella dice,
più non vive di lei donna felice.
115
Altri certo non può che dio celeste
esser l’autor di meraviglie tali;
e s’ei pur l’ama, com’appar da queste,
la porrà tra le dee non più mortali.
Non vedi tu, ch’ad ubbidirla preste
insensibili forme e spiritali,
quasi vili scudier, move a suo senno?
comanda ai venti ed e servita a cenno?
116
Misera me, cui sempre il letto e ‘l fianco
ingombra inutilmente un freddo gelo,
impotente fanciullo e vecchio bianco,
uom che vetro ha la lena e neve il pelo.
Né sposo alcun, sicome infermo e stanco,
più spiacente e geloso è sotto il cielo,
che custode importun la casa tiene
sempre di ferri cinta e di catene.»
117
«Ed io (l’altra soggiunge) un ne sostegno
impedito dal morbo e quasi attratto
e calvo e curvo e men che sasso o legno
ai congressi amorosi abile ed atto;
cui più serva che moglie esser convegno,
con le cui ritrosie sempre combatto;
conviemmi ognor curarlo e ‘n tali affanni,
vedova e maritata, io piango gli anni.
118
Ma tu sorella, con ardir ti parlo,
con cor troppo servil soffri i tuoi torti.
Io non posso per me dissimularlo,
né più oltre sarà che mel sopporti.
Mi rode il petto un sì mordace tarlo,
che non trovo pensier, che mi conforti.
Animo, generoso aborre e sdegna
tal ventura caduta in donna indegna.
119
Non ti sovien con qual superbia e quanto
fasto, quantunque a non curarla avezze,
poiché n’accolse, ambizioso vanto
si diè di tante sue glorie e grandezze?
E pur a noi, benché n’abondi tanto,
poca parte donò di sue ricchezze
e poiché fastidita ne rimase,
subito ne scacciò dale sue case.
120
Quando a farla pentir di tanto orgoglio
vogli tu, come credo, unirti meco,
esser detta mai più donna non voglio,
s’a mortal precipizio io non la reco.
Per or, tornando al solitario scoglio,
nulla diciam d’aver parlato seco;
non facciam motto del suo lieto stato,
per non farlo col dir vie più beato.
121
Assai noistesse pur visto n’abbiamo
e di troppo aver visto anco ne spiace.
A que’ poveri alberghi omai torniamo,
dove mai non si gode ora di pace.
Là consiglio miglior vo’ che prendiamo
a punir di costei l’insania audace,
onde s’accorga alfin d’aver sorelle
suo malgrado più degne e non ancelle.»
122
Tal accordo conchiuso, a quella parte
le scelerate femine sen vanno
e con guance graffiate e chiome sparte
pur l’usato lamento aprova fanno.
I ricchi doni lor celano ad arte,
tra sé ridendo del’ordito inganno.
Così con finti pianti e finti modi
van machinando le spietate frodi.
123
Tosto che la stagion serena e fosca
l’aere abbraccia dintorno, io l’ali spiego
e qual velen quelle due furie attosca
racconto ala mia Psiche e la riprego
a voler, bench’apien non mi conosca,
contentarsi del più, se ‘l men le nego.
le scopro il cor, coprendole il sembiante,
e può veder l’amor, se non l’amante.
124
Le mostro che soverchio è voler poi
investigar la mia vietata faccia,
poiché però non crescerà tra noi
quel grand’amor, che l’un e l’altro allaccia.
L’essorto che non guasti i piacer suoi
per un lieve desio, ma goda e taccia:
quanto può giusto sdegno io le rammento
e la fede promessa e ‘l giuramento.
125
Le fo saver che nel bel sen fecondo
un fortunato infante ha già concetto,
che fia divino ed immortale al mondo,
se s’asterrà dal mio conteso aspetto.
Ma se vorrà mirar quelche l’ascondo,
a morte lo farà nascer soggetto.
L’ammonisco a schivar tanta ruina
al fanciul sovrastante, a lei vicina.
126
Ella giura e scongiura e ‘nsomma vole
pur riveder quella sorella e questa;
e fa con lagrimette e con parole
un bacio intercessor dela richiesta;
ed io col proprio crin, mentre si dole,
rasciugando le vo’ la guancia mesta;
lasso, che non potrà, se in me può tanto
l’amorosa eloquenza del bel pianto?
127
Nulla alfin so negarle e tosto quando
s’apre il ciel mattutino ai primi albori,
risorgo e lieve insu lo scoglio mando
il padre fecondissimo de’ fiori.
Già l’empie, che stan pur quivi aspettando,
delo spirto gentil senton gli odori;
ed ei pur quasi a forza insu le spalle
le ritragitta ala fiorita valle.
128
Trovan la bella e sotto liete fronti
coprono il fiel che ‘l cor fellone asconde.
Ella con atti pur cortesi e pronti
ala mentita affezzion risponde.
Caldi vapori d’odorati fonti
in conche d’oro ai lassi membri infonde
e ‘n ricchi seggi infra delizie immense
degne le fa dele beate mense.
129
Comanda poscia agli organi sonanti,
chiama al concerto le canore voci
e i ministri invisibili volanti
al primo cenno suo vengon veloci.
Ma quella melodia di suoni e canti,
che placherebbe gli aspidi feroci,
dele serpi infernali, ancorché dolce,
la perfidia crudel punto non molce,
130
anzi, con lo stupor, tanto più fiera
cresce l’invidia che le morde e lima,
onde la pregan pur che chiara e vera
del vago suo la qualitate esprima.
La semplicetta garrula e leggiera,
cui non sovien ciò che lor disse in prima,
perch’accusar del fatto il ver non vole,
aviluppa e compon novelle fole;
131
dice che ricco d’or per varie strade
con varie merci a traficar intende
e che la neve dela fredda etade
già già le tempie ad imbiancar gli scende.
Poi, perché ratto ale natie contrade
le riconduca, a Zefiro le rende
che, come suole, ale paterne spiagge
di novi doni onuste indi le tragge.
132
«Deh! che ti par dele menzogne insane,
(l’una al’altra dicea) di questa sciocca?
cacciator dianzi, dale prime lane
quel suo non avea pur la guancia tocca;
or mercando sen va per rive estrane
e la bruma senil su ‘l crin gli fiocca;
o che finge, o che mente, o ch’ella stessa
non sa di ciò la veritate espressa.
133
Tempo è, comunque sia, da far cadere
tutte le gioie sue disperse e rotte.»
Con sì fatto pensier vanno a giacere
e ‘n vigilia crudel passan la notte.
Col favor di favonio indi leggiere
a Psiche insu ‘l mattin son ricondotte,
che gode pur d’accarezzar le due,
sorelle non dirò, vipere sue.
134
Giunte, esprimendo a forza in larghe vene
lagrime fuor degli umidetti rai,
che sempre, e dir non so dove le tiene,
quel sesso a voglia sua n’ha pur assai
«Dolce (presero a dirle) amata spene,
tu secura qui siedi e lieta stai
e, malcauta al periglio e trascurata,
l’ignoranza del mal ti fa beata.
135
Ma noi, noi che sollecite ala cura
dela salute tua siam sempre intente,
convien ch’a parte d’ogni tua sciagura
abbiam del commun danno il cor dolente.
Sappi che quel, che ‘nsu la notte oscura
giacer teco si suole, è un fier serpente;
un serpente crudele esser per certo
quelche teco si giace, abbiam scoverto.
136
Videl più d’un pastor non senza rischio
quando a sera talor torna dal pasto,
guadar il fiume e, variato a mischio,
trarsi dietro gran spazio il corpo vasto.
Intorno a sé dal formidabil fischio
lasciando il ciel contaminato e guasto,
con lunghe spire per l’immonde arene,
se vederlo sapessi, a te ne viene.
137
Viensene in più volubili volumi
divincolando il flessuoso seno.
Da minacciosi e spaventosi lumi
esce strano fulgor, ch’arde il terreno
e di nebbia mortal torbidi fumi
infetti di pestifero veleno
sbuffando intorno, a lato a te si caccia
e fa la cova sua fra le tue braccia.
138
Par ch’oltre a sé si sporga e ‘n sé rientre
e ne’ lubrici tratti onda somiglia,
e fuggendo e seguendo il proprio ventre,
lascia sestesso e sestesso ripiglia.
Poi chiude i giri in un sol groppo e mentre
in mille obliqui globi s’attortiglia,
di ben profondo solco, ove s’accampa,
quasi vomere acuto, il prato stampa.
139
Quando del cupo suo nativo bosco
dala fame ad uscir per forza è spinto,
d’un verde bruno e d’un ceruleo fosco
mostra l’ali fregiate e ‘l dorso tinto.
Squallido d’oro e turgido di tosco,
di macchie il collo a più ragion dipinto,
scopre di quanti al sol vari colori
l’arco suo rugiadoso iride infiori.
140
Ahi! che figura abominanda e sozza,
se talor per lo pian stende le strisce,
e poiché vomitata ha dala strozza
carne di gente uccisa, ei la lambisce,
o, se del sangue che maisempre ingozza
avien che ‘l tergo e ‘l petto al sol si lisce,
il tergo e ‘l petto armato a piastre e maglie,
di doppie conche e di minute scaglie:
141
livido foco che le selve appuzza
spira la gola ed aliti nocenti.
Vibra tre lingue e nele fauci aguzza
un tripartito pettine di denti.
Sanguigne schiume dala bocca spruzza
ed ammorba co’ fiati gli elementi;
l’aure corrompe, mentre l’aria lecca,
strugge i fior, l’erbe uccide e i campi secca.
142
Guarditi, o suora, il ciel dala sua stizza,
scampiti Giove pur da quella peste,
qualor per ira si contorce e guizza
e sbarra le voragini funeste,
la superba cervice in alto drizza,
erge del capo le spietate creste,
e ribattendo le sonore squamme,
Mongibello animato, aventa fiamme.
143
Perché con tanta industria e secretezza
credi la propria effigie ei tenga ascosa,
senon perché sua natural bruttezza
agli occhi tuoi manifestar non osa?
Ma seben or t’adula e t’accarezza
sotto quel dolce titolo di sposa,
pensi però che la sua cruda rabbia
lungo tempo digiuna a tener abbia?
144
Aspetta pur che del tuo ventre cresca,
come già va crescendo, il peso intutto.
Lascia che venga con più stabil esca
di tua pregnanza a maturarsi il frutto.
Allor vedrai, sii certa, ove riesca
il sozzo amor d’un animal sì brutto.
Allor fia, chi nol sa? che fuor d’inganni,
preda a suo modo opima, ei ti tracanni.
145
S’a noi non credi, ed oh, queste parole
sparse sien pur al vento e non al vero!
credi a quel che mentir né può né suole,
del’oracol febeo presagio fiero.
Il presagio in oblio por non si vuole,
ch’imaginandol pur trema il pensiero,
ch’esser ti convenia moglie d’un angue,
morte e strage del mondo e foco e sangue.
146
Che farai dunque? o col tuo scampo a noi
consentirai, d’ogni sospetto sciolta,
o tanto attenderai che tu sia poi
nele ferine viscere sepolta?
Se ‘n tal guisa nutrir più tosto vuoi,
non so s’io dica o pertinace o stolta,
l’empia ingordigia del’osceno mostro,
adempito abbiam noi l’ufficio nostro.
147
Ma se non vuoi dele voraci brame
cibo venir di sì vil bocca indegno,
pria ch’alfin sazia la lascivia infame
teco trangugi l’innocente pegno,
dela fera crudel tronchi lo stame
senz’altro indugio un generoso sdegno,
e prendi a un colpo d’estirpar consiglio
il proprio essizio e ‘l publico periglio».
148
Sentesi Psiche a quel parlar, d’orrore
tremare i polsi ed arricciare i crini;
sudan l’estremità, palpita il core,
spariscon dal bel volto ostri e rubini,
gelan le fibre e di gelato umore
lucidi canaletti e cristallini
stilla essangue la fronte, a punto quali
suole aurora d’april rugiade australi.
149
Contrarie passion, tra cui s’aggira,
in quel semplice cor fan guerra interna.
D’amore e d’odio e di spavento e d’ira
gran tempesta la volge e la governa.
Nave rassembra a cui mentr’ostro spira
or garbino or libecchio i soffi alterna.
Pur dopo molti alfin pensier diversi
nel fondo d’ogni mal lascia cadersi.
150
Dimenticata già d’ogni promessa,
tutto il secreto a buona fè rivela.
Del furtivo marito il ver confessa
e che fugge la luce e che si cela.
Rapita dal timor, dal duolo oppressa,
geme, freme, s’afflige e si querela,
e, mancandole in ciò saldo discorso,
di pietà le riprega e di soccorso.
151
Contro il tenero core allor si scaglia
dele donne malvage il furor crudo
e, con aperta e libera battaglia,
stringon già dela fraude il ferro ignudo.
«Fuorché ‘l partito estremo, altro che vaglia
non hanno i casi estremi o schermo o scudo.
Al’intrepide genti e risolute
la desperazion spesso è salute.
152
Ti puoi dela salute il calle aprire,
se la speme non mente, assai spedito.
Né scemar deve in te punto l’ardire
biasmo di fellonia con tal marito.
Chi t’inganna ingannar non è tradire,
giusto è che sia lo schernitor schernito,
ché, quando ad opra rea vien che consenta,
la fede sceleragine diventa.
153
Sotto il letto vogliam che tu nasconda
un ferro acuto ed una luce accesa,
e come pria la creatura immonda
nel’usato covil si sia distesa
e nel colmo del’ombra alta e profonda
sarà dal maggior sonno avinta e presa,
sorgi pian piano e tuo ministro e duce
sprigiona il ferro e libera la luce.
154
La luce il modo allor fia che ti scopra,
ben oportuna e consigliera e guida.
Non temer no, che d’ambe noi nel’opra
avrai, s’uopo ti fia, l’aita fida.
Senz’alcuna pietà, giuntagli sopra,
fa che del fier dragone il capo incida,
perché con bestia sì feroce e strana
qualunque umanità fora inumana.»
155
E, così detto, l’una e l’altra prende
commiato e parte; ella riman soletta,
senon sol quanto agitatrici orrende
seco le Furie in compagnia ricetta.
Ma, seben risoluta al’opra intende
e la machina appresta e ‘l tempo aspetta,
pur con affetti vari in tanta impresa
litigando tra sé pende sospesa.
156
Ancor dubbia e pensosa ed ama e teme,
or confida, or diffida, or vile, or forte.
Quinci e quindi in un punto il cor le preme
ardimento d’amor, terror di morte.
In un corpo medesmo insieme insieme
aborrisce il serpente, ama il consorte;
e stan pugnando in un istesso loco
tra rispetto e sospetto il ghiaccio e ‘l foco.
157
Già nel’occaso i suoi corsier chiudea,
giunto a corcarsi, il gran pianeta errante,
e già vicin, mentre nel mar scendea,
sentiva il carro d’or stridere Atlante,
quand’io, che cieco in tenebre vivea
dal mio terrestre sol lontano amante,
per far giorno al mio cor, dal’alto polo
men venni ingiù precipitando il volo.
158
Psiche mia con lusinghe mi riceve,
l’apparecchio crudel dissimulando.
Ma poich’alato a lei mi vengo in breve,
stanco da’ primi assalti, addormentando,
mentre piacevolmente il sonno greve
sto con leggieri aneliti soffiando,
sorge e sospinta da pensier maligni
del sacrilegio suo prende gli ordigni.
159
Dele pria care e poscia odiate piume
viensi accostando inver la sponda manca.
Nela destra ha il coltel, nel’altra il lume,
d’orrore agghiaccia e di paura imbianca.
Ma per farle esseguir quanto presume
sdegno il suo debil animo rinfranca
e la forza del fato al’atto fiero
arma d’audacia il feminil pensiero.
160
Fa l’ascolta pertutto e ‘nsu la porta
dela stanza si ferma e guata pria.
Sporge innanzi la mano e la fa scorta
al piè che lento al talamo s’invia.
Tende l’orecchie e sovr’aviso accorta
ogni strepito e moto osserva e spia.
Sospende alto le piante e poi leggiere
le posa in terra e non l’appoggia intere.
161
Quando là dov’io poso è giunta appresso
voce non forma, accento non esprime,
di tirar non s’arrischia il fiato istesso
e, se spunta un sospir, tosto il reprime.
Caldo desio rinvigorisce il sesso,
freddo timor le calde voglie opprime;
brama e s’arretra, ardisce e si ritiene,
bollon gli spirti e gelano le vene.
162
Ma non sì tosto il curioso raggio
del lume esplorator venne a mostrarse,
dal cui chiaro splendor del cortinaggio
ogni latebra illuminata apparse,
che, sbigottita del’ingiusto oltraggio,
stupì repente e di vergogna n’arse.
Non sa s’è sogno o ver, ché, quando crede
veder un drago, un garzonetto vede.
163
Gran villania le parve aver commessa
e di tanta follia forte le ‘ncrebbe.
Spegner la luce perfida e con essa
l’arrotato coltel celar vorrebbe.
Fu per celarlo in sen quasi a sestessa
e senza dubbio alcun fatto l’avrebbe
se dala man tremante il ferro acuto
non le fusse in quel punto al suol caduto.
164
Mentr’ella in atto tal si strugge e langue,
di toccar l’armi mie desio la spinge
e con man palpitante e core essangue
le prende e tratta e le tasteggia e stringe.
Tenta uno strale e di rosato sangue
l’estremità del pollice si tinge;
mirasi punto incautamente il dito
e si sente in un punto il cor ferito.
165
Così si stava e romper non ardiva
la mia quiete placida e tranquilla.
Ed ecco allor la liquefatta oliva
del’aureo lucernier scoppia e sfavilla,
e, vomitando dala fiamma viva
di fervido licor pungente stilla,
al’improviso con tormento atroce
su l’ala destra l’omero mi coce.
166
Desto in un tratto io mi risento e salto
fuor dela cuccia, ed ella a me s’apprende,
m’abbraccia i fianchi e con vezzoso assalto
per vietarmi il partir pugna e contende.
M’afferra il piè fugace, io meco in alto
la traggo a volo ed ella meco ascende.
Così pendente per l’aeree strade
mi segue e tiene, alfin mi lascia e cade.
167
Da me spiccata, amaramente al suolo
ululando e piangendo ella si stese.
Io mi volsi a que’ pianti e del suo duolo
in mezzo al’ira la pietà mi prese,
onde l’ali arrestai, fermando il volo,
a sì tristo spettacolo sospese,
e mi posi a mirarla intento e fiso
d’un cipresso vicin tra i rami assiso.
168
«Ingrata (a dirle indi proruppi) ingrata,
sì tosto in Lete un tanto ardore è spento?
Così dala memoria smemorata
l’aviso mio ti cadde in un momento?
Quest’è l’amor? quest’è la fè giurata?
Dunque tu paglia al foco, io foco al vento?
tu dunque onda alo scoglio, io scoglio al’onda?
io stabil tronco e tu volubil fronda?
169
Io, dela madre mia posto in non cale
l’ordin, cui convenia pur ch’ubbidissi,
quando d’ogni sventura e d’ogni male
sepelir ti volea sotto gli abissi,
il cor per tua cagion col proprio strale
inavedutamente mi trafissi;
per te trafitto e per tuo bene ascoso
volsi ad onta del ciel farmiti sposo.
170
E tu sleal, pur come fusse poco
d’invisibil ferita il cor piagarmi,
volesti me, ch’era tua gioia e gioco,
quasi serpe crudel, ferir con l’armi;
e non contenta d’amoroso foco
co’ tuoi begli occhi l’anima infiammarmi,
hai voluto con arte empia e malvagia
ardermi ancora il corpo in viva bragia.
171
Già più volte predetto il ver ti fue,
né frenar ben sapesti un van desire.
Ma quelle egregie consigliere tue
la pena pagheran del lor fallire.
Giusto flagel riserbo ad ambedue,
te sol con la mia fuga io vo’ punire.
Rimanti, a Dio; da te cercato invano
e col corpo e col cor già m’allontano.»
172
Tanto le dissi; ed ella, a cui più dolse
che la caduta sua la mia salita,
poiché gran tratto d’aria alfin le tolse
l’amata imago in apparir sparita,
per lung’ora di là sorger non volse,
dove attonita giacque e tramortita;
poi la fronte levando afflitta e bassa
tra sospiro e sospir ruppe un «ahi lassa».
173
«Lassa (dicea) tu m’abbandoni e vai
da me lontano e fuggitivo, Amore.
Fuggisti, Amor. Che più mi resta omai,
senon sol di mestessa odio ed orrore?
Ben dala vista mia fuggir potrai,
ma non già dal pensier, non già dal core.
Se ‘l ciel dagli occhi miei pur ti dilegua,
fia che col core e col pensier ti segua.
174
Sì per poco ti sdegni? e tocco apena
da picciola scintilla t’addolori?
Quest’alma or che farà d’incendio piena?
Che farà questo cor fra tanti ardori?»
Così doleasi, e copiosa vena
versando intanto d’angosciosi umori,
sommersi dale lagrime cadenti
in bocca le morir gli ultimi accenti.
175
Dopo molto lagnarsi in piè risorge,
ratto poi drizza al vicin prato il passo,
ché con corso pacifico vi scorge
torcersi un fiumicel tra sasso e sasso.
Va su l’estremo margine, che sporge
l’orlo curvo e pendente al fondo basso,
e desperata e dal dolor trafitta
precipitosamente ingiù si gitta.
176
Ma quel cortese e mansueto rio,
o ch’a me compiacer forse volesse,
ricordevole pur che son quell’io
che so fiamme destar tra l’acque istesse,
o che con gli occhi, ov’arde il foco mio,
rasciutte un sì bel sol l’onde gli avesse,
del’altra riva insu le spiagge erbose
con innocente vomito l’espose.
177
Vede, uscita dal rischio, al’ombra assiso
d’Arcadia il rozzo dio ch’ivi