CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
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47 - Pendenti in forma di serpi

Quegli aspidi lucenti
che d'oro e smalto in picciol orbe attorti
dal'orecchie pendenti,
vaga Lilla, tu porti,
dimmi, che voglion dir? Sì sì, t'intendo:
son dele pene altrui crude ed indegne
misteriose insegne,
ché, qual aspe mordendo,
cruda ferisci altrui, sorda non senti
preghi, pianti o lamenti.

48 - Treccia riccamata di perle

Questo bel crine aurato,
prezzo del mio dolore,
ritegno del mio core,
dele lagrime mie tutto fregiato,
fu già tuo laccio, or è mio dono, Amore.
Ecco ch'io 'l bacio e godo,
e del mio ricco nodo
movo invidia agli amanti, e dico altrui:
"Vedete l'oro onde comprato io fui".






GIOVAN BATTISTA MARINO


AMORI
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Fortuna critica di
GIAMBATTISTA MARINO
_________

GIOVAN BATTISTA MARINO  - AMORI
La sua concezione di poesia, che, esasperando gli artifici del manierismo era incentrata su un uso intensivo delle metafore, delle antitesi e di tutti i giochi di rispondenze foniche, a partire da quelli paronimici, sulle descrizioni sfoggiate e sulla molle musicalità del verso, ebbe ai suoi tempi una fortuna immensa, paragonabile solo a quella del Petrarca prima di lui. Il suo metodo compositivo presupponeva una larga messe di letture "col rampino", ed era fondato in prima istanza sull'imitazione. La ricerca della novità, e l'adeguamento al gusto corrente, consisteva nel modo di porsi di fronte alla tradizione, selezionando una dorsale congeniale, non più con lo spirito enciclopedico del manierismo ma con atteggiamento collezionistico: il passato era così visto come una sorta di cantiere ingombro di detriti, che l'artefice poteva a piacimento reimpiegare per costruire qualcosa di nuovo.

Il barocco rappresentato dal Marino reagisce per altri aspetti al manierismo, peraltro, evitando le emergenze espressionistiche, l'enfasi, la cupezza che saranno invece spesso ravvisabili nella seconda fase del marinismo, che può essere fatta iniziare da una figura-spartiacque come Giuseppe Battista e che si concluderà, dopo una fioritura particolarmente ricca intorno al 1669, con l'opera dei fratelli Casaburi (specialmente Pietro), e di Giacomo Lubrano. Il Marino sicuramente si pose come caposcuola, o quantomeno offerse consapevolmente la sua produzione, sin dalla prefazione della Lira, come esempio ai giovani; ma non fu in nessun caso un teorico (può essere tralasciato un ipotetico Crivello critico , o Le esorbitanze, secondo il titolo detto allo Stigliani, contro gli eccessi dei poeti moderni, una delle tante promesse non mantenute), e anche le scarne affermazioni di poetica sono da prendere con le molle.

Sono due i luoghi più famosi in cui il Marino s'è lasciato sfuggire qualche accenno di poetica; il primo, che è quello con cui s'identifica tout court la sua maniera, è dato nel son. "Vuo' dare una mentita per la gola", il XXXIII. della Murtoleide, in cui, com'è universalmente noto, si dice:

« Vuo' dar una mentita per la gola / a qualunque uom ardisca d'affermare / che il Murtola non sa ben poetare, / e ch'ha bisogno di tornar a scuola. // E mi viene una stizza marïola / quando sento ch'alcun lo vuol biasmare; / perché nessuno fa meravigliare / come fa egli in ogni sua parola. // È del poeta il fin la meraviglia / (parlo de l'eccellente, non del goffo): / chi non sa far stupir, vada a la striglia. // Io mai non leggo il cavolo e 'l carcioffo, / che non inarchi per stupor le ciglia, / com'esser possa un uom tanto gaglioffo. »

Di là dal contesto (il riferimento al "cavolo e 'l carcioffo" è alla goffaggine con cui il Murtola, nella sua Creazione, intese celebrare la provvidenza anche attraverso le sue manifestazioni più umili e quotidiane), simili concetti all'epoca erano già frusti, e peraltro sono le stesse parole con cui lo stesso Chiabrera definiva la propria poetica (nella Vita di Gabriello Chiabrera da lui stesso descritta non mancano né la maraviglia né, quasi in posizione-rima, l'inarcar di ciglia). L'altro, più articolato e meritevole di esser preso maggiormente alla lettera, anche se il contesto rimane sempre polemico, è costituito da una lettera dell'estate 1624 a Girolamo Preti:

« Ma perché non voglio esser lapidato dai fiutastronzi e dai caccastecchi, mi basterà dire che troppo bene averò detto che le poesie d'Ovidio sono fantastiche, poiché veramente non vi fu mai poeta, né vi sarà mai, che avesse o che sia per avere maggior fantasia di lui. E utinam le mie fossero tali! Intanto i miei libri che sono fatti contro le regole si vendono dieci scudi il pezzo a chi ne può avere, e quelli che son regolati se ne stanno a scopar la polvere delle librarie. Io pretendo di saper le regole più che non sanno tutti i pedanti insieme; ma la vera regola, cor mio bello, è saper rompere le regole a tempo e luogo, accomodandosi al costume corrente ed al gusto del secolo. Iddio ci dia pur vita, ché faremo presto veder al mondo se sappiamo ancor noi osservar queste benedette regole e cacciar il naso dentro al Castelvetro. So che voi non sète della razza degli stiticuzzi, anzi non per altro ho stimato sempre mirabile il vostro ingegno, se non perché non vi è mai piacciuta la trivialità, ma senza uscir della buona strada negli universali avete seguita la traccia delle cose scelte e peregrine [...] »

Nessuno dei procedimenti da lui impiegati era, ovviamente, nuovo, ma mai era stato utilizzato con altrettanta assolutezza. Fu largamente imitato, oltreché in Italia, anche in Francia (dove fu il beniamino dei preziosisti, come Honoré d'Urfé, Georges de Scudéry, Vincent Voiture, Jean-Louis Guez de Balzac, e dei cosiddetti libertini, come Jean Chapelain, Tristan l'Hermite, Philippe Desportes, ecc.), in Spagna (dove influì su Luis de Góngora e soprattutto Lope de Vega), in altri paesi cattolici come il Portogallo e la Polonia, ma anche in Germania, dove i suoi più diretti seguaci furono Christian Hofmann von Hofmannswaldau, Daniel Casper von Lohenstein e Barthold Heinrich Brockes, che diede la versione tedesca della Strage degl'innocenti, e nei paesi slavi. In Inghilterra La strage degli innocenti ispirò John Milton, e fu imitata da John Crashaw.

Per quanto riguarda la ricezione del Marino in Italia, significative sono le censure di Pietro Sforza Pallavicino, teorico della letteratura secondo i dettami di Urbano VIII, in Del bene (1644) e Trattato dello stile e del dialogo (II ed. definitiva 1662); e per converso il riconoscimento del Marino come sostanziale "caposcuola" da parte di Emanuele Tesauro nelle varie redazioni del suo Cannocchiale aristotelico. Il Pallavicino condanna in blocco, senza premurarsi di fare distinguo (e dunque negando la possibilità stessa di una poesia non atteggiata, "classica"), i procedimenti paronimici mariniani, considerandoli comunque viziosi, in Del bene; mentre esalta lo Stigliani "tra que' pochi che della poetica e della lingua italiana possono parlare come scienziati" (Trattato dello stile), nelle Vindicationes societatis Iesu (1649) del Marino dirà che "in numero lascivire potius videtur quam incedere", che in genere "canoris nugis auditum fallere, non succo sententiarum atque argutiarum animos pascere", e che il Marino in particolare "carebat philosophico ingenio, quod in poeta vehementer exigit Aristoteles" - e nel Trattato, riferendosi ad un luogo della Galeria, definisce il ricorso a certi bisticci come segno "di poca maestria d'imitazione", aggiungendo che sono "poco fertili di maraviglia e anche poco ingegnosi".

È interessante notare come sia nel 1639 il massimo teorico delle Acutezze, Matteo Peregrini, sia sotto Urbano VIII il Pallavicino, sia il Tesauro nelle varie redazioni del Cannocchiale (1654-1670) non abbiano dato, o anche solo tentato, una definizione univoca dell'antitesi; laddove il Pallavicino, in particolare, ne fornisce una, nel Trattato, più prossima alla paronomasia, segno che la reale sostanza della "rivoluzione" mariniana, posto che rivoluzione ci fosse, gli sfuggiva quasi totalmente. Rimasto il punto di riferimento della poetica barocca per tutto il tempo in cui fu in voga, con il XVIII e il XIX secolo, pur essendo sempre ricordato per ragioni storiche, fu indicato come la fonte o il simbolo del "malgusto" barocco.

Le critiche dello Sforza Pallavicino per certi aspetti anticipano quelle del secolo dei lumi; Ludovico Antonio Muratori gli darà sostanzialmente ragione (per quanto respinga quella qualità "filosofica" che la poesia dovrebbe avere, e per cui il Pallavicino si rifaceva viziosamente ad un passo d'Aristotele - che s'era limitato a dire che il poeta è più filosofo dello storico, non che è filosofo in sé). Più oltre si spinge Giovanni Vincenzo Gravina, che non si limita a notare la mancanza di misura e di gusto della maniera barocca, ma ne dà una spiegazione storica: la poesia barocca è la poesia dell'età della scienza, e il suo errore è stato quello di dotarsi di una sua techne e di suoi strumenti proprii, e questo, pur aprendole possibilità nuove per alcuni versi, per altro l'ha fortemente limitata.

Gian Battista Vico, che conobbe e stimò l'"ultimo dei marinisti", Giacomo Lubrano, nella sua produzione in versi si tenne fedele ai principii di un castigato classicismo, ma diede grande importanza ai procedimenti analogici su un piano strettamente speculativo, contro l'aridità delle "griglie" nozionistiche sensiste, come strumento di indagine e palestra intellettuale (la stessa funzione che il Settembrini, invece, negherà loro). In effetti il Marino carente di "philosophico ingenio" è stato anche il primo ad applicare intensivamente procedimenti dialettici alla poesia, con eventuali ricadute sulla speculazione del suo tempo, e anche dei tempi a venire.

La critica non ha dedicato al Marino studii organici fino alla fine Ottocento. La critica romantica (salvo Luigi Settembrini) ha dato della sua opera un'interpretazione superficiale, da vulgata, identificando l'unica preoccupazione del poeta con la "maraviglia", conseguita tramite la ricercatezza dei particolari e le sfoggiate descrizioni. Francesco de Sanctis criticò pesantemente Marino, deprecandone l'esclusiva attenzione alla forma a discapito del sentimento, per quanto si riveli in grado di dare uno sguardo meno superficiale allo "studiolo" del Marino quando descrive la sua tecnica "col rampino", e identifica l'origine della sua ispirazione nel catalogismo erudito e voluttuoso.

Ma per quanto riguarda la critica romantica, più notevole è la severa, ma estesa ed intelligente lettura che nelle Lezioni di letteratura italiana (1872-1875) diede Luigi Settembrini. Immune da campanilismi (il Settembrini tace, per esempio, di Giovan Battista Basile), ripercorre il poema grande facendolo discendere direttamente dalla Liberata (in particolare dal giardino d'Armida) "come la voluttà nasce dall'amore"; antologizza diversi luoghi, e, negando recisamente un'assenza di struttura, riconosce numerosi luoghi mirabili e la sostanziale novità del Marino. Secondo la sua prospettiva storiografica - che è quella di chi deve dar conto di una storia della civiltà letteraria italiana - il Marino è in genere il sintomo di una fase di forte decadenza, caratterizzata dall'occupazione straniera e dallo strapotere della chiesa, e l'Adone, definito opera "voluttuosa", sarebbe una sorta di reazione alla crudeltà dei tempi (tesi non troppo distante da quella sostenuta a suo tempo anche da Pieri in Per Marino, 1977), e contemporaneamente loro ambigua espressione. Con questo, trascendendo la figura in sé dell'autore (comunque nobilitato da certi accostamenti: "Vedrete delirare Bruno e Marino", annuncia aprendo la trattazione del secolo "fangoso": ma questa di "delirio" non è in tutto una definizione negativa), secondo il Settembrini il marinismo è, tout court, il gesuitesimo applicato alla letteratura.

Peraltro il Settembrini rifiuta seccamente la valutazione dell'Arcadia come un movimento di restaurazione del buon gusto; e paragona il Barocco ad un pazzo furioso, il cui organismo cerca ancòra di difendersi dall'avanzata del male, mentre l'Arcadia sarebbe uno stato tranquillo, sì, ma come l'ebetudine che precede di poco la morte. Di quanto ci fu intorno al Marino rifiuta di parlare, facendo i nomi di Achillini e Preti e liquidandoli con tutti gli altri come "gesuitanti dello stile". Il primo studio approfondito sulla poetica mariniana e i suoi procedimenti è Sopra la poesia del cavalier Marino tesi di laurea di Guglielmo Felice Damiani (oltretutto finissimo conoscitore di Nonno di Panopoli) data alle stampe nel 1899, la quale seguiva La vita e le opere di Giambattista Marino di Mario Menghini (1888).

Ma il fondamentale esordio di una critica approfondita dell'opera mariniana è un testo a tutt'oggi di riferimento, Storia della vita e delle opere del cavalier Marino, di Angelo Borzelli, dato alle stampe in una prima versione nel 1898, e poi ristampato, con la cassazione di alcuni errori, nel 1927. Il lavoro, d'impostazione storica più che filologica, dava per la prima volta conto di tutta una serie di notizie sulla vita e sull'opera del Marino, curando anche il contesto e la biblioteca su cui si era formato, riportando anche una quantità d'inediti e primizie d'archivio. Nonostante alcuni errori, rimane a tutt'oggi un punto di riferimento sicuro. La seguente Storia dell'età barocca in Italia di Benedetto Croce, del 1929, è più significativa della ricezione della temperie da parte dell'intellettualità durante il fascismo che come studio in sé (anche perché del Marino si tratta pochissimo, e con sensibile nausea; ma interessanti le puntualizzazioni del Croce sulle artate deformità del dettato mariniano, evidenze del suo cinico nichilismo, sulle quali normalmente non ci si sofferma).

Ma L'Adone, così come gran parte della letteratura barocca, è stato ormai approfonditamente studiato e ampiamente rivalutato a partire da Giovanni Getto negli anni '60 e in seguito, nel 1975, dal Marzio Pieri e nel 1976 da Giovanni Pozzi (rist. Adelphi 1988), già editore delle Dicerie sacre (1960) e pioniere di un nuovo corso di studii sul Marino. A partire dai due studiosi, legati rispettivamente alle università di Parma e di Friburgo, si sono creati due filoni d'indagine, di ispirazione esegetica molto diversa e talora anche in contrasto tra loro. Pieri ha impostato la propria analisi dell'Adone, seguendo i criterii di edizione dei classici Laterza (privi di introduzioni "contenutistiche" o analisi estetiche e forniti dei soli apparati), dapprima in senso prettamente filologico, per poi accentuare, in un grande numero di testi a seguire, la centralità della figura del Marino come autore "moderno", capofila di una "letteratura minore" o addirittura "minima", non interessata ad affrontare tematiche presuntamente centrali ma sensibile alla vita dei sensi, alle più recondite suggestioni, agli effetti più sottili e sfuggenti, al mondo delle relazioni; un "grado zero" dell'attività poetica. Raggiungendo esiti anche di grande astrazione non ha esitato a trovare tra singoli versi del Marino e svariati contemporanei le 'rime interne' più impreviste e inaspettate, come accumulando "motivi per lèggere" il Marino.

Il Pozzi, invece, secondo un'impostazione esegetica più classica, ha praticamente completato lo spoglio delle fonti dell'Adone, in specie nella seconda, fondamentale impressione, e questo rimane il suo apporto primario. Per quanto riguarda gli aspetti formali del poema, di cui s'è occupato intensamente, gli esiti sono stati più opinabili. Negando la presenza di una struttura vera e propria all'Adone, gli ha riconosciuto una forma molto raffinata che definisce "bifocale ed ellittica" - che macrostrutturalmente dovrebbe rappresentare l'assetto dialettico del "contraposito" - e che rifletterebbe (secondo Pozzi) l'"irresoluzione dell'uomo secentesco di fronte ai due modelli cosmici contraddittori, tolemaico e copernicano". Ricordiamo che l' Adone ospita una stupenda apostrofe a Galileo Galilei, ma nonostante il viaggio interplanetario di Adone guidato da Mercurio, la struttura dell'universo mariniano non è esplicitata al punto da consentire di affiliare il Marino (verosimilmente assai poco interessato) o all'una o all'altra scuola di pensiero. Abortito, a causa dell'uscita per le stampe del primo Adone curato dal Pozzi, il progetto di Amedeo Quondam di ripercorrere l'intero testo come "poema di emblemi" (un'impostazione esegetica favorita da un'affermazione dello stesso Marino, ma ritenuta poi impraticabile per eccessiva ingenuità), un grande numero di studiosi si è concentrato poi su questo o quell'aspetto dell'opera, senza fornire altre impostazioni critiche complessive.

Più recentemente nel 2002 è da ricordare la pubblicazione in Francia del saggio di Marie-France Tristan La Scène de l'écriture, che cerca (sarà il lettore a giudicare quanto convincentemente) di mettere in evidenza il carattere filosofico della poesia del Marino, comunque fondendo la cosmogonia ironicamente cattolica delle Dicerie con quella pagana dell'Adone. Complementa gli sforzi della Tristan, nel 2010, Periferia continua e senza punto di Giuseppe Alonzo, che pone con più precisione la Weltanschauung mariniana con il continuismo filosofico secentesco, che ha avuto in Leibniz la sua espressione più articolata. Non necessariamente deve sortirne un filosofo-poeta, ma le motivazioni di una retorica considerata a lungo gratuitamente fiorita e priva di freno risultano sicuramente più chiare.





1 - Cantatrice crudele

O tronchi innamorati,
o sassi che seguite
questa fera canora,
ch'agguaglia i cigni e gli angeli innamora,
ah fuggite, fuggite:
voi prendete da lei sensi animati;
ella in se stessa poi
prende la qualità che toglie a voi,
e sorda e dura, ahi lasso,
diviene ai preghi un tronco, ai pianti un sasso.

2 - Poeta che canta

Qualor sì dolcemente,
caro Selvaggio, a la mia Lidia avanti
rime amorose canti
novo Anfion ti credo e fra me dico:
s'Amor costei non sente
or, che sente quel dolce
cantar che l'aria molce,
pietra non è, che s'ella fusse pietra
senso torria da sì soave cetra.








3 - Chiome sciolte

Mentre ch'al'aureo crine
il vel madonna toglie
e le chiome divine
per maggior pompa al sol tepido scioglie,
Amor le fila accoglie
e d'esse in mille modi
tesse al mio cor le reti, ordisce i nodi,
ch'avolto grida in sì ricco lavoro:
O che bella prigion, tra lacci d'oro.

4 - Errori di bella chioma

O chiome erranti, o chiome
dorate, innanellate,
o come belle, o come
e volate e scherzate:
ben voi scherzando errate
e son dolci gli errori,
ma non errate in allacciando i cori.





5 - Rete d'oro in testa della sua donna

Porta intorno madonna
lacci a lacci aggiungendo ed oro ad oro,
d'aurea prigion l'aurea sua chioma avolta.
Alma libera e sciolta
fra quel doppio tesoro
ove n'andrai, che non sii presa alfine,
s'ella ha rete nel crine e rete è il crine?

6 - Nel medesimo suggetto

Dal zoppo genitore
appreso hai forse l'arte
d'ordir le reti, industre fabro Amore?
Ecco le trecce bionde,
pur dianzi al'aura sparte,
ricca rete gentil lega ed asconde.
Ma se' mastro migliore
(sannol tua madre e Marte)
ed han le reti tue forza maggiore:
quelle stringono il corpo e queste il core.







7 - Lontananza consolata

Vita mia, di te privo,
sai tu com'io son vivo?
Poiché mi manca il vero
ti formo col pensiero
e ti parlo e t'adoro
e mirando l'imagine non moro.

8 - Nel medesimo suggetto

Mentre lunge ti stai
da me, dolce ben mio,
o bel ritratto che di te serb'io!
Questo ognor, se nol sai,
vaneggiando vagheggio,
vagheggiando vaneggio.
Qual la pittura sia, chi sia 'l pittore
forse cercando vai?
L'imagine se' tu, la tela il core,
il pennello lo strale, il fabro Amore.




9 - Nel medesimo suggetto

Or che da te, mio bene,
Amor lunge mi tiene, il pensier vago
spesso innanzi mi pon l'amata imago.
E qual ape ingegnosa,
quindi un giglio talor, quinci una rosa
scegliendo a suo diletto,
rappresentar mi sole
ne le più belle forme il caro oggetto;
e spesso mostra al cor, ch'egro si dole,
la tua beltà nel Ciel, gli occhi nel Sole.

10 - Anfione di marmo

Quel musico tebano,
lo cui soave canto
ale pietre diè vita,
or son di pietra imagine scolpita.
Ma benché pietra, io vivo, io spiro, e 'ntanto
così tacendo io canto.
Or ceda ogni altra il pregio ala tua mano,
fabro illustre e sovrano,
poich'animar la pietra
sa meglio il tuo scarpel che la mia cetra.




11 - Nel medesimo suggetto

Non è di vita privo,
non è di spirto casso
quest'Anfion di sasso,
anzi sì vive e spira
che, se 'l plettro movesse insù la lira,
quand'ei non fusse vivo,
la sua stessa armonia
avivar lo poria.

12 - Donna bella e crudele

Amor, com'esser può che per mia doglia
chiuda un tenero seno anima alpina?
Com'è che si nasconda e si raccoglia
mente infernal sotto beltà divina?

Sì bella guancia con sì cruda voglia
sembra cinta di fior tana ferina;
sì fero core in sì leggiadra spoglia
è qual vipera in rosa o rosa in spina.

Chi crederà che Morte empia si celi
in angelico sguardo? e che 'n un riso
dolce il pianto e 'l dolor si copra e veli?

Potrò ben dir, s'un mansueto viso
esser ministro dee d'opre crudeli
ch'abbia ancor le sue Furie il Paradiso.




13 - Inferno amoroso

Donna, siam rei di morte. Errasti, errai;
di perdon non son degni i nostri errori.
Tu, ch'aventasti in me sì fieri ardori;
io, che le fiamme a sì bel sol furai.

lo, ch'una fera rigida adorai;
tu, che fosti sord'aspe a' miei dolori.
Tu nel'ire ostinata, io negli amori.
Tu pur troppo sdegnasti, io troppo amai.

Or la pena, laggiù nel cieco Averno,
pari al fallo n'aspetta. Arderà poi
chi visse in foco, in vivo foco eterno.

Quivi (s'Amor fia giusto) amboduo noi
al'incendio dannati, avrem l'inferno:
tu nel mio core, ed io negli occhi tuoi.

14 - Beltà crudele

E labra ha di rubino
ed occhi ha di zaffiro
la bella e cruda donna ond'io sospiro.
Ha d'alabastro fino
la man che volge del tuo carro il freno,
di marmo il seno e di diamante il core.
Qual meraviglia, Amore,
s'a' tuoi strali, a' miei pianti ella è sì dura?
Tutta di pietre la formò natura.







15 - Seno

O che dolce sentier tra mamma e mamma
scende in quel bianco sen, ch'Amor allatta!
Vago mio cor, qual timidetta damma,
da' begli occhi cacciato, ivi t'appiatta;

dal'ardor, che ti strugge a dramma a dramma,
schermo ti fia la bella neve intatta:
neve ch'ognor dala vivace fiamma
di duo soli è percossa e non disfatta.

Vattene pur, ma per la via secreta
non distender tant'oltre i passi audaci
che t'arrischi a toccar l'ultima meta;

raccogli sol, cultor felice, e taci,
in quel solco divin (se 'l vel nol vieta)
da seme di sospir messe di baci.



16 - Seno

Da duo candidi margini diviso
apre quel sen, ch'ogni altro seno aborre,
con angusto canal, che latte corre,
una via che conduce in paradiso.

Non osa alcun, che non rimanga ucciso,
in quel fonte vital le labra porre,
ché quinci e quindi alabastrina torre
guarda in duo vivi scogli Amore assiso,

e, volando talor spedito e lieve
su quell'alpi d'avorio, aventa e scocca
strali di foco involti entro la neve;

onde, mentr'ivi a un punto ed arde e fiocca,
con amara dolcezza insieme beve
assenzio il core e nettare la bocca.

17 - Occhi

Occhi, s'è ver ch'uom saggio
le chiare luci pote
signoreggiar dele celesti rote,
a me perché non lice
posseder voi, voi luminose e belle,
nate a un parto col sol, terrene stelle?
Astrologia felice,
se potessi, baciando un vostro raggio,
dirvi: "Più non vi temo infausti e rei:
occhi, voi siete miei".



18 - Occhi

Occhi dela mia vita,
se dentro 'l cor mi state,
voi pur le fiamme ond'ardo ognor mirate.
Itene dunque e raccontate a lei
i gravi incendi miei.
Deh no, meco restate,
occhi, però che 'l core
per voi sol vive e senza voi si more.

19 - Occhi

Luci belle e spietate,
gli sguardi che girate
o di sdegno o d'amor son sempre eguali:
omicidi e mortali;
perché s'altrui mirate
colme d'ira e d'orgoglio
uccidete d'affanno e di cordoglio,
e se pietose ancor vi rivolgete
di dolcezza uccidete.

20 - Occhi

Chi vuol veder, chi vuole
veder, amanti, al mezzodì più chiaro
le stelle in fronte al sole,
venga a mirar del'idolo mio caro
gli occhi, onde 'l sole ha scorno:
che portan notte altrui, mentre fan giorno.



21 - Occhi

Luci serene e liete,
ond'ha la luce il sol, l'azzurro il cielo:
se del zaffiro è naturale il gelo,
come l'alme accendete?
O vie più di Neron perfide e felle,
luci crudeli e belle,
ch'amor non conoscete
e con fiamme amorose il mondo ardete!

22 - Sguardo

Altra mercè giamai
ch'esser da voi mirato io non bramai,
occhi avari e superbi, e voi 'l negaste.
Al fin pur mi miraste,
e se turbato il bel guardo sereno
ver me volgeste, almeno
pur negar non potete
che mirato m'avete.

23 - Occhi e mammelle

Miro i vostr'occhi belli,
donna, e rimiro le leggiadre mamme,
queste di latte e quelli
fabricati di fiamme.
Dico poi sospirando in doppia arsura:
"Non devea por Natura
per rischiarar da sì sereni poli
duo mondi di beltà men di duo soli".








24 - Bella schiava

Nera sì, ma se' bella, o di Natura
fra le belle d'Amor leggiadro mostro.
Fosca è l'alba appo te, perde e s'oscura
presso l'ebeno tuo l'avorio e l'ostro.

Or quando, or dove il mondo antico o il nostro
vide sì viva mai, sentì sì pura,
o luce uscir di tenebroso inchiostro,
o di spento carbon nascere arsura?

Servo di chi m'è serva, ecco ch'avolto
porto di bruno laccio il core intorno,
che per candida man non fia mai sciolto.

Là 've più ardi, o sol, sol per tuo scorno
un sole è nato, un sol che nel bel volto
porta la notte, ed ha negli occhi il giorno.



25 - Donna vestita di nero

Cinto di fosche e tenebrose bende,
di nero manto e di funesto velo
veggio rotar per l'amoroso cielo
quel sol che solo i miei desiri accende.

Lo mio cor che da lui virtù sol prende,
qual fiore oppresso da notturno gelo
cade languido e more, o quasi stelo
cui gelid'ombra o fero turbo offende.

Ed a ragion chi del suo sole ognora
per la luce vital convien che viva,
per l'eclisse mortal convien che mora.

Se sole è del mio cor chi 'l cor m'aviva,
e 'l mio cor vive sol nel sol ch'adora,
chi gli offusca il suo sol, di vita il priva.

26 - Amor secreto

Ardi contento e taci,
o di secreto amore
secretario mio core.
E voi sospiri, testimoni ascosi
de' miei furti amorosi,
che per uscire ador ador m'aprite
le labra, ah non uscite,
ch'ai saggi, oimè, del'amorosa scola
il sospiro è parola.





27 - Gelosia

Vecchio importun, che 'l rozzo labro irsuto
sporgi al labro di lei, ch'io prego invano,
onde con Citerea sembri Vulcano,
ed ella par Proserpina con Pluto,

e mentre curvo e pallido e barbuto
accosti al bianco sen la rozza mano,
passero insieme e cigno, ascondi insano
giovinetto pensiero in pel canuto,

fuggi, ah fuggi meschin, né tanto possa
quel desir, che t'innebria i sensi sciocchi
e che t'empie d'ardor le gelid'ossa.

Sai ch'alberga la morte in que' begli occhi,
e tu che 'l piè su l'orlo hai dela fossa,
in vece di fuggir, la stringi e tocchi.




29 - La lontananza

È partito il mio bene,
ho perduto il mio core. Oimè, qual vita
in vita or mi sostene?
Lasso, com'è rimaso
fosco il sol, negro il cielo!
Il dì giunto al'occaso,
amor fatto è di gelo.
Duro partir, che m'hai l'alma partita,
chi ti disse partire
devea con più ragion dirti morire.

O Dio, quel dolce a Dio
che piangendo mi disse, a cui piangendo
a Dio risposi anch'io,
deh, come dala spoglia
l'anima non divise?
E come per gran doglia
la vita non uccise?
Alma e vita io non ho, poiché, perdendo
il mio dolce conforto,
a Dio dirgli ho potuto, e non son morto.

Morto non sono ed ardo
lontan dal foco mio, dal caro foco
di quel celeste sguardo.
E quanto è men dapresso
la fiamma ond'io languisco,
dal grave incendio oppresso
più moro e 'ncenerisco.
Il foco, ahi no, che per cangiar di loco
da me non si disgiunge;
sol la cagion del foco è da me lunge.

==>SEGUE




28 - Lontananza

Ove ch'io vada, ove ch'io stia, talora
in ombrosa valletta o 'n piaggia aprica,
la sospirata mia dolce nemica
sempre m'è innanzi, onde convien ch'io mora.

Quel tenace pensier che m'innamora,
per rinfrescar la mia ferita antica,
l'appresenta a quest'occhi e par che dica:
io da te lunge, e tu pur vivi ancora?

Intanto verso ognor larghe e profonde
vene di pianto e vò di passo in passo
parlando ai fiori, al'erbe, agli antri, al'onde;

poscia in me torno, e dico: ahi folle, ahi lasso;
e chi m'ascolta qui? chi mi risponde?
Miser, che quello è un tronco, e questo è un sasso.



Tetto, già lieto e fido
tempio del'idol mio, ciel del mio sole,
or solitario nido,
spelunca abbandonata
di spavento e di morte,
chiudi, chiudi l'entrata
dele dolenti porte;
tenebrosa magion, misera mole,
cadi pur, cadi, ahi lasso,
ch'al mio core è saetta ogni tuo sasso.

Balcon gradito e caro,
che fosti già di più sereno die
oriente più chiaro,
or fatto atro soggiorno
di notte oscura e mesta,
serra, deh serra al giorno
la finestra funesta;
ché, qualor s'apre a queste luci mie,
con spada di dolore
me n'apre un'altra in mezzo al petto Amore.

Cameretta fedele,
già pacifico porto e dolce meta
dele mie stanche vele,
or che battuto ondeggio
per l'onde e per gli scogli,
poiché morir pur deggio
fra pianti e fra cordogli,
chi mi cela il mio polo? e chi mi vieta
che morte e tomba almeno
non mi dian que' begli occhi e quel bel seno?

==>SEGUE


Letto, del mio diletto
felice un tempo albergo, or del mio duolo
sconsolato ricetto,
se sei pur, come sembri,
di me pietoso tanto,
poich'accogli i miei membri
ed asciughi il mio pianto,
pietà più non chegg'io; cheggioti solo,
in questa notte oscura,
che ti cangi di letto in sepoltura.

Specchio, che ti specchiavi
nel sol del chiaro volto e nele stelle
de' begli occhi soavi,
or di quel lume ardente
vedovato ed oscuro,
ben sei cristallo algente,
anzi diamante duro,
se per più non stampar luci men belle
di quelle onde sei privo,
non distempri il tuo ghiaccio in pianto vivo.

Candido eburneo rastro,
non ch'agguagli però dela man bianca
l'animato alabastro,
tu che solevi, arando
i solchi dei bel crine,
l'oro gir coltivando
dele fila divine,
ahi come sono, or ch'ogni ben ti manca,
i tuoi minuti denti
sol per mordermi il cor fatti pungenti!

==>SEGUE


Acque felici e chiare,
cui d'esser tributario ebbe più volte
ambizione il mare;
in cui vivono ancora
le faville amorose
di quel sol che talora
ne' vostri umor s'ascose;
deh, perché non struggete, inun raccolte,
accresciute dal'onde
dele lagrime mie, l'infauste sponde?

Aria pura e gentile,
fatta serena già da sì bei rai,
non avrai dunque a vile
ch'altro petto, altro fiato
di te viva e respiri?
Terren sacro e beato,
non sdegni e non t'adiri
ch'altro men vago piè ti calchi mai,
quando ancora si serba
dele bell'orme in te fiorita l'erba?

Musici arnesi, e voi
che talor l'angel mio trattar solea,
dolci trastulli suoi,
che sua mercé rendeste
angelica armonia,
senza la man celeste
di voi, lassi, che fia?
Poscia che così vuol fortuna rea,
omai le vostre tempre
ché non sciogliete? o non piangete sempre?

==>SEGUE


Ma tu perché non torni,
o sol degli occhi miei?
Deb, che fai? chi t'accoglie? e dove sei?



30 - Sogno

È sogno o ver? Se sogno, ahi, chi depinge
viva la bella imagine ala mente?
Come fiamma sì lucida e sì ardente
gelid'ombra notturna esprime e finge?

S'è ver, qual lieta stella or la sospinge
cortese a consolar questo dolente?
Da qual nova pietà mossa repente
la sua man mi distende e la mia stringe?

Questo è pur il mio sol, l'idolo mio;
è pur la bianca man questa ch'io veggio.
lo la tocco, io la bacio. lo son pur io.

Ciò che sei, vero o sogno, altro non cheggio.
Se sei vero, è già pago il gran desio
e se sei sogno, io volentier vaneggio.







31 - Sogno

In sogno ancora (Amor, che puoi più farmi?)
gioco mi fai del tuo spietato impero.
Ecco colei, che già mi sparve, apparmi
in dolce atto vezzoso e lusinghiero.

Com'esser può che possa il sonno darmi
quel che 'n vigilia poi mi nega il vero?
Che mi conceda or tu quelche mostrarmi
non ardì mai l'adulator pensiero?

Ma se ben erro ed insensibil giaccio,
quanti oggetti più cari il senso formi
non vaglion l'ombra del'error ch'abbraccio.

Ahi, ben vegg'io che mentre in grembo a tormi
viene il riposo ed io gli dormo in braccio,
vegghia il mio incendio, e tu crudel non dormi.







32 - Sogno

Vien la mia donna in su la notte ombrosa
qual suole apunto il mio pensier formarla
e qual col rozzo stil tento ritrarla,
ma qual mai non la vidi a me pietosa.

"Pon freno al pianto, e pace spera, e posa,
o mio fedel, che tempo è da sperarla"
sorridendo mi dice, e mentre parla
m'offre del labro l'animata rosa.

Allor la bacio: ella ribacia e sugge;
lasso, ma 'l bacio in nulla ecco si scioglie,
e con la gioia insieme il sonno fugge.

Or qual, perfido Amor, fra tante doglie
deggio attender mercé da chi mi strugge,
se i mentiti diletti anco mi toglie?







33 - Giuoco di dadi

Stiamo a veder di quante palme adorna
sen vada, Amor, la man leggiadra e bianca,
mentre del mobil dado ardita e franca
travolge i punti e fa guizzar le corna.

L'aggira, il mesce, il tragge, indi il distorna,
né d'agitarlo e scoterlo si stanca;
e dala destra intanto e dala manca
stuolo aversario e spettator soggiorna.

Posto è in disparte, al vincitor mercede,
cumulo d'oro; e variar più volte
sorte il minuto avorio ognor si vede.

Felici in sì bell'urna ossa raccolte,
perché pur ale mie non si concede
in sì terso alabastro esser sepolte?







34 - Giuoco di primiera

Con venti e venti effigiate carte
(armi del'Ozio) il sol de' miei pensieri
esercitando gìa fra tre guerrieri
in domestico agon scherzi di Marte.

L'accogliean, le spendean confuse e sparte,
fatti di cieca dea campioni alteri,
e con assalti or simulati or veri,
or schernian l'arte, or si schermian con l'arte.

Quando ver me volgendo il guardo pio
(e gliele diè di propria mano Amore)
quattro ne prese il bell'idolo mio.

V'era col quadro e con la picca il fiore,
il cor non v'era già; ma gli died'io
(per farlo apien vittorioso) il core.







35 - Giuoco di pallone. Per una donna

Globbo gravido d'aure al ciel sospinto
ferir con cavo legno, il volto e 'l crine
sparso di vive fiamme e vive brine,
veggio scherzando il mio novel Giacinto,

e, crudel fra gli scherzi, al gioco accinto,
ma più molto ale stragi, ale rapine,
strugger mill'alme, e di chi vince alfine
trionfar vincitore, e vincer vinto.

E mentre, quasi un ciel ch'avampi e scocchi,
battendo il lieve suo volubil pondo
tuona col braccio e folgora con gli occhi,

par, degli strazi suoi lieto e giocondo,
o la man vaga, o 'l piè leggiadro il tocchi,
gioir percosso e ripercosso il mondo.







36 - Giuoco di racchetta. Per la medesima

Quasi in campo di Marte, in chiuso loco
contro mi vien di rete e d'arco armato,
non ignudo, non cieco e non alato
il mio novello Amore, il mio bel foco.

Già mi saetta, e contrastar val poco,
emulo del bel viso, il braccio amato.
Già m'imprigiona, e misero e beato
perdo in un punto stesso il core e 'l gioco.

Fuggitivo il mio cor, quasi farfalla
intorno alo splendor del caro oggetto
vola al volar dela volubil palla.

E quanti colpi intanto il mio diletto
m'aventa con la man, che mai non falla,
tanti fa nodi al'alma e piaghe al petto.







37 - Canto

O voi, che lieti ove vi spinge e mena
in mal secura nave aura seconda,
l'infido mar, che tanti legni affonda,
ite solcando d'una in altra arena,

di questa bella e micidial sirena
fuggite il canto inver la destra sponda:
canto, cui par non ha la terra o l'onda
dala riva d'Eurota ala tirrena.

Pur, se 'l ciel mai vi guida al dolce loco,
con greco ingegno, ove lusinga amore,
chiudete il varco al'armonia di foco.

Ma di fral cera a sì possente ardore
l'orecchio armar che val, s'anco val poco
armar di smalto adamantino il core?





38 - Bella cantatrice

O bella incantatrice,
quel tuo sì dolce canto
dolce canto non è, ma dolce incanto,
nova magia d'Amor, novella sorte
di far dolce la morte.
Allor la vita more
quando l'aura vital si manda fore,
ma in alma innamorata
con quell'aura mortal Morte ha l'entrata.

39 - Bella cantatrice

Abbi, musica bella,
anzi musa novella, abbiti il vanto
dele due chiare cetre,
che le piante movean, movean le pietre.
Che val però col canto
vivificar le cose inanimate,
se nel tuo vivo cor morta è pietate?
O chiari, o degni onori,
porger l'anima ai tronchi e torla ai cori!
O belle, o ricche palme,
dando la vita ai sassi, uccider l'alme!




40 - Pianto

Versar vid'io da' suoi begli occhi fore
la mia nemica lagrime dolenti,
dentro i cui puri e lucidi torrenti
tutto s'immerse e si sommerse il core.

Nela sua cote a quel soave umore
le quadrella arrotava aspre e pungenti,
e, qual vago augelletto a' giorni ardenti,
scotea le piume e si lavava Amore.

Forse pietosa feritrice e vaga
volse del petto, che trafisse a torto,
con l'armi, onde l'aprì, chiuder la piaga.

Dispietata pietà, tardo conforto:
nova serpe d'Egitto il cor m'impiaga,
e piagne il mio morir poiché m'ha morto.

41 - Pianto

O quali, o quali io sento
angelici spirar celesti odori,
mentre veggio tra' fiori
di due piagge animate
tenera distillar pioggia d'argento.
O lagrime odorate,
lagrime voi non già, ma preziose
acque d'angeli siete, acque di rose.







42 - Madonna chiede versi di baci

Le carte, in ch'io primier scrissi e mostrai
l'arte del ben baciar, Lilla mi chiedi.
Ma di tanti, che loro io già ne diedi,
tu crudel pur un solo a me non dai.

Deh, perché quei che'n lor baci stampai,
stampar nel volto tuo non mi concedi?
E quel piacer, che tu con gli occhi vedi,
con la bocca sentire a me non fai?

Saprai qual sia maggior de' duo diletti,
s'io di questi o di quei sia miglior fabro,
e quai più dolci sien, gustati o letti.

lo volentier con porpora e cinabro
cangio un vil don, se tu cangiar prometti
baci per versi e con un libro un labro.







43 - Piacere imperfetto

Alza costei dal fondo de' tormenti
dov'erger l'ali apena osan le voglie,
promettendo conforto a tante doglie,
le mie speranze debili e cadenti.

Ma come sol, che con suoi raggi ardenti
nube in alto solleva e poi la scioglie,
repulsa allor mi dà quando m'accoglie
e i più lieti pensier fa più dolenti.

Lasso, e perché con placid'aura e lieve
le mie vele omai stanche al porto alletta,
se poi tra' flutti abbandonar mi deve?

Così suol giocator, che palla aspetta
per ribbatterla indietro, e la riceve
sol per spingerla poi con maggior fretta.







44 - Nel medesimo suggetto

Il più mi dona e mi contende il meno
questa crudel, che del giardin d'Amore
mi nega il frutto e mi concede il fiore,
posto ai desir su 'l maggior corso il freno.

Desta la voglia e non l'appaga apieno,
tempra la fiamma e non spegne l'ardore,
m'alletta il senso e non mi sazia il core,
m'accoglie in braccio e non mi vuole in seno.

O spietata pietà, fiera bellezza,
per cui more il piacere, in fasce ucciso
apena nato, in grembo ala dolcezza!

Così congiunto a lei, da lei diviso,
povero possessor d'alta ricchezza,
Tantalo fatto sono in paradiso.


45 - Trastulli estivi

Era nela stagion quando ha tra noi
più lunga vita il giorno
e l'ombra ai tronchi intorno
stende minori assai gli spazi suoi;
allor che 'l sol congiunto
con la stella che rugge
dal più sublime punto
saetta i campi, e i fiori uccide e strugge;
ed era l'ora apunto
quando con linea egual la rota ardente
tien fra l'orto il suo centro e l'occidente.

Io tutto acceso d'amoroso affetto
col cor tremante in seno
stavami in parte e pieno
di desir, di speranza e di diletto,
gìa misurando l'ore
del mio promesso bene.
Fortunate dimore,
onde poscia il piacer doppio diviene!
Son le tue gioie, Amore,
tanto bramate più, quanto più rare,
tanto aspettate più, tanto più care.

Quinci con mente cupida e confusa
e gelava ed ardea;
dela finestra avea
l'una parte appannata e l'altra chiusa.
Qual suol lume che scende
torbido in folto bosco,
o qual sul'alba splende
misto ala notte il dì tra chiaro e fosco,
con tal luce s'attende,
perché 'l rossor si celi e la paura,
vergognosa fanciulla e mal secura.

==>SEGUE

Ed ecco allor soletta a me vid'io
venir Lilla la bella,
Lilla la verginella,
la mia fiamma, il mio sol, l'idolo mio.
Succinta gonna e breve,
quasi al più chiaro cielo
nebbia sottile e lieve,
ombra le fea d'un candidetto velo;
onde di viva neve
le membra, ch'onestà nasconde e chiude,
eran pur ricoverte e parean nude.

Tra le braccia la strinsi, in sen l'accolsi;
del'odorato lino
l'abito pellegrino
con frettolosa man le scinsi e sciolsi.
E benché frale spoglia
fusse fren maltenace
a sì rapida voglia,
non fu però ch'io la sciogliessi in pace.
Sdegno, alterezza e doglia
ne' begli occhi mostrò; pugnò, contese:
dolci risse, onte care e care offese.

Vidi per prova allor, sì come e quanto
mal volentier contrasta
o ritrosetta o casta
vergine, e qual sia l'ira e quale il pianto.
Falso pianto, ira finta:
ancorché pugni e neghi,
vuol pugnando esser vinta;
son le scaltre repulse inviti e preghi.
Di scorno il viso tinta,
dar non vuol mai né tor la giovinetta
ciò che brama in suo cor, se non costretta.

==>SEGUE


Corsi ale labra e, quant'ardente ardito,
con grata allor, non grave
violenza soave
più d'un spirto gentil n'ebbi rapito.
E la bocca divina,
pur contendente i baci,
crucciosa ala rapina,
gli prendea tronchi e gli rendea mordaci.
Ma chiunque destina
ai baci amor, né varca oltra quel segno,
quegli è de' baci stessi ancora indegno.

Qual mi fess'io, ciò ch'io scorgessi in lei,
poiché le falde intatte
del'animato latte
si svelaro, o beati, agli occhi miei,
ridir né so né voglio.
Mille oltraggi diversi
da quel tenero orgoglio,
mille ingiurie innocenti allor soffersi.
Ma, qual fra l'onde scoglio,
alcuna parte dei mio seno ignudo
dala candida man mi facea scudo.

Lentato il morso al'avido desire
(o dolcezze, o bellezze,
o bellezze, o dolcezze)
m'apersi il varco al'ultimo gioire.
Quivi a sfiorar m'accinsi
l'orto d'amor pian piano
e nel suo chiuso spinsi
l'ardita mia violatrice mano.
Dolce meco la strinsi,
appellandola pur luce gradita,
gioia, speranza, core, anima e vita.

==>SEGUE

"Che fai crudel?, dicea, crudel che fai?
Dunque me, che t'adoro,
del mio maggior tesoro,
del maggior pregio impoverir vorrai?
Tu signor del volere,
tu possessor del'alma,
a che cerchi d'avere
dela parte più vil men degna palma?
Ahi, per sozzo piacere
non curi, ingordo di furtive prede,
di macchiar la mia fama e la tua fede?"

Tre volte a questo dir giunto assai presso
ale dolcezze estreme,
qual'uom che brama e teme,
fui de' conforti miei scarso a me stesso,
e, del suo duol pietoso,
il mio piacer sostenni.
Pur del corso amoroso
ala meta soave al fin pervenni,
ed al'impetuoso
desir cedendo il fren libero in tutto,
colsi il suo fiore e de' miei pianti il frutto.

Ala piaga d'Amor cadde trafitta
e, vinta al dolce assalto,
di bel purpureo smalto
rigò le piume, inun lieta ed afflitta.
Io vincitor guerriero
dela nemica essangue
quasi in trionfo altero
portai nel'armi e nele spoglie il sangue .
Così l'alato arciero
l'arsura in me temprò cocente e viva
dela fiamma amorosa e del'estiva.
==>SEGUE



Canzon, lasciar intatta
da sé partire amata donna e bella
non cortesia, ma villania s'appella.




46 - Per la signora N. Vipereschi

Vipera mia, che di fin or lucenti
tergi le spoglie al sol del vero onore,
a cui di spine cinto aspre e pungenti
fatto è siepe il mio petto e nido il core:

spirano i cari tuoi fiati innocenti
di grave fiamma invece, arabo odore.
Sono i tuoi fischi angelici concenti,
e 'l tuo veleno è nettare d'amore.

O per grazia del ciel, sì com'io lessi
ch'a Cadmo ed Ermion fu dato in sorte,
anch'io cangiarmi in aspido potessi,

ché s'ambo un nodo poi tenace e forte
n'unisse, ed io baciassi, e tu mordessi,
chi da più dolci morsi ebbe la morte?







49 - Di Ravenna. Al sig. cavalier Andrea Barbazza

Barbazza, io mi son qui dove ristagna
l'onda nel pian che paludoso e molle
infra 'l Ronco e 'l Monton le sacre zolle
più di sangue che d'acqua impingua e bagna.

Ma del mio cor, che senza te si lagna,
non affrena già 'l volo o selva o colle,
né da te, di cui solo avampa e bolle,
tanto tratto di ciel mai lo scompagna.

Qui però duro intoppo il piè ritiene,
né mai luce di sol che non sia negra
porta l'ore per me poco serene.

Così passo la vita afflitta ed egra
e così sempre fia se'n te non viene
la metà di quest'alma a farsi integra.







50 - Al sig. Rafaello Rabbia

Rabbia, io men vò lungo il castalio rivo
qual già l'ebrea famelica e mendica,
dietro ai cultor del'eloquenza antica
per lo campo latino e per l'argivo.

E mentre d'Israel la strage scrivo,
altro frutto non ho di mia fatica
che qualche bella e preziosa spica
lor caduta di sen, raccor furtivo.

Ma la messe miglior recide e rade
la falce sì de' duo toscani illustri,
ch'omai poco per me n'avanza o cade.

Pur men'andrò fra metidori industri
dopo costor, se non ariste e biade,
solo cogliendo almen rose e ligustri.