CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Untitled





















































EUGENIO MONTALE



SATURA
(1962-1970)










3

Al Saint James di Parigi dovrò chiedere
una camera ‘singola’. (Non amano
i clienti spaiati). E così pure
nella falsa Bisanzio del tuo albergo
veneziano; per poi cercare subito
lo sgabuzzino delle telefoniste,
le tue amiche di sempre; e ripartire,
esaurita la carica meccanica,
il desiderio di riaverti, fosse
pure in un solo gesto o un’abitudine.









4

Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.



5

Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di essere visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Eugenio Montale

L'uomo e il Poeta
_________

da
Wikimedia
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- Ossi di Seppia

Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l'affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l'impossibilità di dare una risposta all'esistenza: in una delle liriche introduttive, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell'opera designa l'esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l'uomo, che con l'età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale. In tal modo Montale capovolge l'atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell'uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce "Divina Indifferenza", ciò che mostra una partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all'uomo. In un certo senso, si potrebbe affermare che tale "Divina indifferenza" è l'esatto contrario della "Provvidenza divina" manzoniana.
La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1916 e il 1925. Il libro si presenta diviso in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile sono le sue poesie: in un'epoca che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un'interpretazione compiuta della vita e dell'uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del poeta, da un paesaggio, come quello della Liguria, per esprimere temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Si affollano in queste poesie oggetti, presenze anche molto dimesse che non compaiono solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni sommessi, la sua analisi negativa del presente ma anche la non rassegnazione, l'attesa di un miracolo.
L'emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce comunque nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine da "reclusione" interiore genera il colloquio con le cose, quelle della riviera ligure, o del mare. Una natura "scarna, scabra, allucinante", e un "mare fermentante" dal richiamo ipnotico, proprio del paesaggio mediterraneo.
Il manoscritto autografo di Ossi di seppia è conservato presso il Fondo Manoscritti dell'Università di Pavia.

- Le occasioni

In Le occasioni (1939) la poesia è fatta di simbolo di analogia, di enunciazioni lontane dall'abbandono dei poeti ottocenteschi. Il mondo poetico di Montale appare desolato, oscuro, dolente, privo di speranza; infatti, tutto ciò che circonda il poeta è guardato con pietà e con misurata compassione. Simbolica la data di pubblicazione, 14 ottobre 1939, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Il fascicolo di poesie è dedicato a una misteriosa I.B, iniziali della poetessa e dantista americana Irma Brandeis, di origini ebraiche e perciò costretta a rimpatriare dopo la promulgazione delle leggi razziali.
La memoria è sollecitata da alcune "occasioni" di richiamo, in particolare si delineano figure femminili, per esempio la fanciulla conosciuta in vacanza a Monterosso, Annetta-Arletta (già presente negli Ossi), oppure Dora Markus, della omonima poesia: sono nuove "Beatrici" a cui il poeta affida la propria speranza.
La figura della donna, soprattutto Clizia (senhal di Irma), viene perseguita da Montale attraverso un'idea lirica della donna-angelo, messaggera divina. I tratti che servono per descriverla sono rarissimi, ed il desiderio è interamente una visione dell'amore fortemente idealizzata, che non si traduce necessariamente in realtà. Nel contempo il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi sono sottintesi, e anche se non di un ermetismo irrazionale, espressione di una sua personale tensione razionale e sentimentale.
In Le occasioni la frase divenne più libera e la riflessione filosofica, molto presente nella poesia di Montale, diviene più vigorosa. Il poeta indaga le ragioni della vita, l'idea della morte, l'impossibilità di dare una spiegazione valida all'esistenza, lo scorrere inesorabile del tempo (Non recidere, forbice, quel volto).

- La bufera e altro

Sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956. Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della "crisi" che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa possibilità di scoprire altre ragioni per essere poeti.

- Xenia e Satura

Negli ultimi anni Montale approfondì la propria filosofia di vita, quasi temesse di non avere abbastanza tempo "per dire tutto" (quasi una sensazione di vicinanza della morte); Xenia (1966) è una raccolta di poesie dedicate alla propria moglie defunta, Drusilla Tanzi, amorevolmente soprannominata "Mosca" per le spesse lenti degli occhiali da vista. Il titolo richiama xenia, che nell'antica Grecia erano i doni fatti all'ospite, e che ora dunque costituirebbero il dono alla propria moglie. Le poesie di Xenia furono pubblicate insieme alla raccolta Satura, con il titolo complessivo Satura, nel gennaio 1971. «Con questo libro - scrive Marco Forti nel risvolto di copertina dell'edizione Mondadori - Montale ha sciolto il gran gelo speculativo e riepilogativo della Bufera e ha ritrovato, semmai, la varietà e la frondosità, la molteplicità timbrica, lo scatto dell'impennata lirica e insieme la "prosa" che, già negli Ossi di seppia, costituirono la sua sorprendente novità.»

- La poetica e il pensiero

Montale ha scritto relativamente poco: quattro raccolte di brevi liriche, un "quaderno" di traduzioni di poesia e vari libri di traduzioni in prosa, due volumi di critica letteraria e uno di prose di fantasia. A ciò si aggiungono gli articoli della collaborazione al Corriere della sera. Il quadro è perfettamente coerente con l'esperienza del mondo così come si costituisce nel suo animo negli anni di formazione, che sono poi quelli in cui vedono la luce le liriche della raccolta Ossi di seppia.
La poesia è per Montale principalmente strumento e testimonianza dell'indagine sulla condizione esistenziale dell'uomo moderno, in cerca di un assoluto che è però inconoscibile. Tale concezione poetica – approfondita negli anni della maturità, ma mai rinnegata – non attribuisce alla poesia uno specifico ruolo di elevazione spirituale; anzi, Montale al suo lettore dice di "non chiedere la parola", non "domandare" la "formula" che possa aprire nuovi mondi. Il poeta può solo dire "ciò che non siamo": è la negatività esistenziale vissuta dall'uomo novecentesco dilaniato dal divenire storico.
A differenza delle "illuminazioni" ungarettiane, Montale fa un ampio uso di idee, di emozioni e di sensazioni più indefinite. Egli cerca infatti una soluzione simbolica (il "correlativo oggettivo", contemporaneamente adottato da Thomas Stearns Eliot) in cui la realtà dell'esperienza diventa una testimonianza di vita. Proprio in alcune di queste immagini il poeta crede di trovare una risposta, una soluzione al problema del "male di vivere": ad esempio, il mare (in Ossi di seppia) o alcune figure di donne che sono state importanti nella sua vita.
La poesia di Montale assume dunque il valore di testimonianza e un preciso significato morale: Montale esalta lo stoicismo etico di chi compie in qualsiasi situazione storica e politica il proprio dovere. Rispetto a questa visione, la poesia si pone per Montale come espressione profonda e personale della propria ricerca di dignità e del tentativo più alto di comunicare fra gli uomini. L'opera di Montale è, infatti, sempre sorretta da un'intima esigenza di moralità, ma priva di qualunque intenzione moralistica: il poeta non si propone come guida spirituale o morale per gli altri; attraverso la poesia egli tenta di esprimere la necessità dell'individuo di vivere nel mondo accogliendo con dignità la propria fragilità, incompiutezza, debolezza.
Montale non credeva all'esistenza di «leggi immutabili e fisse» che regolassero l'esistenza dell'uomo e della natura; da qui deriva la sua coerente sfiducia in qualsiasi teoria filosofica, religiosa, ideologica che avesse la pretesa di dare un inquadramento generale e definitivo, la sua diffidenza verso coloro che proclamavano fedi sicure. Per il poeta la realtà è segnata da una insanabile frattura fra l'individuo e il mondo, che provoca un senso di frustrazione e di estraneità, un malessere esistenziale. Questa condizione umana è, secondo Montale, impossibile da sanare se non in momenti eccezionali, veri stati di grazia istantanei che Montale definisce miracoli, gli eventi prodigiosi in cui si rivela la verità delle cose, il senso nascosto dell'esistenza.
Alcuni caratteri fondamentali del linguaggio poetico montaliano sono i simboli: nella poesia di Montale compaiono oggetti che tornano e rimbalzano da un testo all'altro e assumono il valore di simboli della condizione umana, segnata, secondo il poeta, dal malessere esistenziale, e dall'attesa di un avvenimento, un miracolo, che riscatti questa condizione rivelando il senso e il significato della vita. In Ossi di seppia il muro è il simbolo negativo di uno stato di chiusura e oppressione, mentre i simboli positivi che alludono alle possibilità di evasione, di fuga e di libertà, sono l'anello che non tiene, il varco, la maglia rotta nella rete. Nelle raccolte successive il panorama culturale, sentimentale e ideologico cambia, e quindi risulta nuova anche la simbologia. Per esempio nella seconda raccolta, Le occasioni, diventa centrale la figura di Clizia, il nome letterario che allude alla giovane ebrea-americana Irma Brandeis, (italianista ed intellettuale) amata da Montale, che assume una funzione "angelico-salvifica" e dalla quale è possibile aspettare il miracolo da cui dipende ogni residua possibilità di salvezza esistenziale.
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6

Non hai mai pensato mai di lasciar traccia
di te scrivendo prosa o versi. E fu
il tuo incanto – e dopo la mia nausea di me.
Fu pure il mio terrore: di essere poi
ricacciato da te nel gracidante
limo dei neòteroi.



7

Pietà di sé, infinita pena e angoscia
di chi adora il quaggiù e spera e dispera
di un altro... (Chi osa dire un altro mondo?).
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
‘Strana pietà...’ (Azucena, atto secondo).













8

La tua parola così stenta e imprudente
resta la sola di cui mi appago.
Ma è mutato l’accento, altro il colore.
Mi abituerò a sentirti o a decifrarti
nel ticchettìo della telescrivente,
nel volubile fumo dei miei sigari
di Brissago.














9

Ascoltare era il solo tuo modo di vedere.
Il conto del telefono s’è ridotto a ben poco.




10

<< Pregava? >>. << Sì, pregava Sant’Antonio
perchè fa ritrovare
gli obrelli smarriti e altri oggetti
del guardaroba di Sant’Ermete >>.
<< Per questo solo? >>. << Anche per i suoi morti
e per me >>.
<< E’ sufficiente >> disse il prete.













11

Ricordare il tuo pianto (il mio era doppio)
non vale a spenger lo scoppio delle tue risate.
Erano come l’anticipo di un tuo privato
Giudizio Universale, mai accaduto putroppo.














13

Tuo fratello morì giovane; tu eri
la bimba scarruffata che mi guardava
‘in posa’ nell’ovale di un ritratto.
Scrisse musiche inedite, inaudite,
oggi sepolte in un baule o andate
al màcero. Forse le riinventa
qualcuno inconsapevole, se ciò che è scritto è scritto.
L’amavo senza averlo conosciuto.
Fuori di te nessuno lo ricordava.
Non ho fatto ricerche: ora è inutile.
Dopo di te sono rimasto il solo
per cui egli è esistito. Ma è possibile,
lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi.












14

Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa.



















da XENIA II











1

La morte non ti riguardava.
Anche i tuoi cani erano morti, anche
Il medico dei pazzi detto lo zio demente,
anche tua madre e la sua ‘specialità’
di riso e rane, trionfo meneghino;
e anche tuo padre che da una minieffige
mi sorvegliaa dal muro sera e mattina.
Malgrado ciò la morte non ti riguardava.
Ai funerali dovevo andare io,
nascosto in un tassì restandone lontano
per evitare lacrime e fastidi. E neppure
t’importava la vita e le sue fiere
di vanità e ingordigie e tanto meno le
cancrene universali che trasformano
gli uomini in lupi.
Una tabula rasa; se non fosse
che un punto c’era, per me incomprensibile,
e questo punto ti riguardava.














2

Spesso ti ricordavi (io poco) del signor Cap.
<< L’ho visto nel torpedone, a Ischia, appena due volte.
È un avvocato di Klagenfurt, quello che manda gli auguri.
Doveva venirci a trovare>>.
E infine è venuto, gli dico tutto, resta imbambolato,
pare che sia una catastrofe anche per lui. Tace a lungo,
farfuglia, s’alza rigido e s’inchina. Conferma
che manderà gli auguri.
È strano che a comprenderti
siano riuscite solo persone inverosimili.
Il dottor Cap! Basta il nome. E Celia? Che n’è accaduto?










5

Ho sceso, dantoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato brave il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che a realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dantoti il braccio
Non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.









6

il vinattiere ti versa un poco
d’Inferno. E tu, atterrita: << Devo berlo? Non basta
esserci stata dentro a fuoco lento? >>.



11

Riemersa da un’infinità di tempo
Celia la filippina ha telefonato
per avere tue notizie. Credo che stia bene, dico,
forse meglio di prima. << Come, crede?
Non c’è più? >>. Forse più di prima, ma...
Celia, cerchi d’intendere...
Di là dal filo,
da Manila o da altra
parola dell’atlante una balbuzie
impediva anche lei. E riagganciò di scatto.

















da SATURA I



















GERARCHIE

La polis è più importante delle sue parti.
La parte è più importante d’ogni sua parte.
Il predicato è più impartante del predicante
e l’arrestato lo è meno dell’arrestante.
Il tempo s’infuria nel totale,
il totale è il cascame del totalizzante,
l’avvento è l’improbabile nell’avvenibile,
il pulsante una pulce nel pulsabile.

























NEL FUMO

Quante volte t’ho atteso alla stazione
nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo
tossicchiando, comprando giornali innominabili,
fumando Giuba poi soppresse dal ministro
dei tabacchi, il balordo!
Forse un treno sbagliato, un doppione oppure una
sottrazione. Scrutavo le carriole
dei facchini se mai ci fosse dentro
il tuo bagaglio, e tu dietro, in ritardo.
Poi apparivi, ultima. E’ un ricordo
tra tanti altri. Nel sogno mi perseguita.














LA POESIA

I

L’angoscainte questione
se sia a freddo o a caldo l’ispirazione
non appartiene alla scienza terrmica.
Il raptus non produce, il vuoto non conduce,
non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto.
Si tratterà piuttosto di parole
molto importune
che hanno fretta di uscire
dal forno o dal surgelante.
Il fatto non è imporetante. Appena fuori
si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi:
che sto a farci?




















TEMPO E TEMPI

Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. È quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.
















Provo rimorso per avere schiacciato
la zanzara sul muro, la formica
sul pavimento.
Provo rimorso ma eccomi in abito scuro
per il congresso, per il ricevimento.
Provo dolore per tutto, anche per l’ilota
che mi propina consigli di partecipazione,
dolore per il pezzente a cui non do l’elemosina,
dolore per il demente che presiede il consiglio
d’amministrazione.



















È RIDICOLO CREDERE

che gli uomini di domani
possano essere uomini,
ridicolo pensare
che la scimmia sperasse
di camminare un giorno
su due zampe

è ridicolo
ipotecare il tempo
e lo è altrettanto
immaginare un tempo
suddiviso in più tempi

e più che mai
supporre che qualcosa
esista
fuori dell’esistibile,
il solo che si guarda
dall’esistere.






LE PAROLE

Le parole
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta
di Fabriano, l’inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto;

le parole
quando si svegliano
si adagino sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto,
sulle partecipazioni
matrimoniali o di lutto;

le parole
non chiedono di meglio
che l’imbroglio dei tasti
nell’Olivetti portatile,
che il buio dei taschini
del panciotto, che il fondo
del cestino, ridottevi
in pallottole;

==>SEGUE









le parole
non sono affatto felici
di esser buttate fuori
come zambracche e accolte
con furore di plausi
e disonore;

le parole
preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;

le parole
sono di tutti e invano
si celano nei dizionari
perchè c’è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;

le parole
dopo un’eterna attesa
rinunziano alla speranza
di essere pronunziate
una vlta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.




















FINE DEL ‘68

Ho contemplato dalla luna, o quasi,
il modesto pianeta che contiene
filosofia, teologia, politica,
pornografia, letteratura, scienze
palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo,
ed io tra questi. E tutto è molto strano.

Tra poche ore sarà notte e l’anno
finirà tra esplosioni di spumanti
e di petardi. Forse di bombe o peggio,
ma non qui dove sto. Se uno muore
non importa a nessuno purché sia
sconosciuto e lontano.









DIVINITA’ IN INCOGNITO

Dicono
che di terrestri divinità tra noi
se ne incontrano sempre meno.
Molte persone dubitano
della loro esistenza su questa terra.
Dicono
che in questo mondo o sopra ce n’è una sola o nessuna;
credono
che i savi antichi fossero tutti pazzi,
schiavi di sortilegi se opinavano
che qualche nume in incognito
li visitasse.

Io dico
che immortali invisibili
agli altri e forse inconsci
del loro privilegio,
deità in fustagno e tascapane,
sacerdotesse in gabardine e sandali,
pizie assorte nel fumo di un gran falò di pigne,
numinose fantasime non irreali, tangibili,
toccate mai,
io ne ho vedute più volte
ma era troppo tardi se tentavo
di smascherarle.

==>SEGUE








Dicono
che gli dèi non discendono quaggiù,
che il creatore non cala col paracadute,
che il fondatore non fonda perchè nessuno
l’ha mai fondato o fonduto
e noi siamo solo disguidi
del suo nullificante magistero;

eppure
se una divinità, anche d’infimo grado,
mi ha sfiorato
quel brivido m’ha detto tutto e intanto
l’agnizione mancava e il non essente
essere dileguava.







L’ANGELO NERO

O grande angelo nero
fuligginoso riparami
sotto le tue ali,
che io possa sorradere
i pettini dei pruni, le luminarie dei forni
e inginocchiarmi
sui tizzi spenti se mai
vi resti qualche frangia
delle tue penne

o piccolo angelo buio,
non celestiale né umano,
angelo che traspari
trascolorante difforme
e multiforme, eguale
e ineguale nel rapido lampeggio
della tua incomprensibile fabulazione

o angelo nero disvélati
ma non uccidermi col tuo fulgore,
non dissipare la nebbia che ti aureola,
stàmpati nel mio pensiero
perchè non c’è occhio che resista ai fari,
angelo di carbone che ti ripari
dentro lo scialle della caldarrostaia

grande angelo d’ebano
angelo fosco
o bianco, stanco di errare
se ti prendessi un’ala e la sentissi
scricchiolare
non potrei riconoscerti coem faccio
nel sonno, nella veglia, nel mattino
perché tra il vero e il falso non una cruna
può trattenere il bipede o il cammello,
e il bruciaticcio, il grumo
che resta sui polpastrelli
è meno dello spolvero
dell’ultima tua piuma, grande angelo
di cenere e di fumo, miniangelo
spazzacamino.
















L’EUFRATE

Ho visto in sogno l’Eufrate,
il suo decorso sonnolento tra
tonfi di roditori e larghi indugi in sacche
di fango orlate di ragnateli arborei.
Chissà che cosa avrai visto tu in trent’anni
(magari cento) ammesso che sia qualcosa di te.
Non ripetermi che anche uno stuzzicadenti,
anche una briciola o un niente può contenere il tutto.
È quello che pensavo quando esisteva il mondo
ma il mio pensiero svaria, si appicciaca dove può
per dirsi che non s’è spento. Lui stesso non ne sa nullla,
le vie che segue sono tante e a volte
per darsi ancora un nome si cerca sull’atlante.




Si andava...

Si andava per funghi
sui tappeti di muschio dei castagni.

Si andava per grilli
e lucciole
erano i nostri fanali.

Si andavaper lucertole
e non ne ho mai
ucciso una.

Si andava sulle formiche
e ho sempre evitato
di pestarle.

Si andava all’abbecedario,
all’imbottimento primario,
secon-terziario, mortuario.

Si andava su male piste
e mai ne sono stato
collezionista.

Si andava per la gavetta,
per l’occupazione,
per la disdetta, per la vigilanza,
per la mala ventura.

Si andava non più per funghi
ma per i tempi lunghi
di un’età più sicura,
anzi per nessun tempo
perchè non c’era toppa
nella serratura.

















Vedo un uccello fermo sulla grondaia,
può sembrare un piccione ma è più snello
e ha un po’ di ciuffo o forse è il vento,
chi può saperlo, i vetri sono chiusi.
Se lo vedi anche tu, quando ti svegliano
i fuoribordo, questo è tutto quanto
ci è dato di sapere sulla felicità.
Ha un prezzo troppo alto, ma non fa per noi e chi l’ha
Non sa che farsene.






EX VOTO

Accade
che le afffinità d’anima non giungano
ai gesti e alle parole ma rimangano
effuse come un magnetismo. È raro
ma accade.

Può darsi
che sia vera soltanto la lontananza,
vero l’oblio, vera la foglia secca
più del fresco germoglio. Tanto e altro
può darsi o dirsi.

Comprendo
la tua caparbia volontà di essere sempre assente
perchè solo così si manifesta
la tua magia. Innumeri le astuzie
Che intendo.

Insisto
nel ricercarti nel fruscello e mai
nell’albero spiegato, mai nel pieno, sempre
nel vuoto: in quello che anche al trapano
resiste.

Era o non era
la volontà dei numi che presiedano
il tuo lontano focolare, strani
multiformi multanimi animali domestici;
fors’era così come mi pareva
o non era.

Ignoro
se la mia insistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca,
se l’innocenza è una colpa oppure
si coglie sulla soglia dei tuoi lari. Di me,
di te tutto conosco, tutto
ignoro.







PRIMA DEL VIAGGIO

Prima del vaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le pernottazioni
e le prenotazioni (di camere con bagno
o doccia, a un letto o due o addirittura un flat);
si consultano
le guide Hachette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi;
prime del viagggio s’informa
qualche amico o parente, si controllano
valigie e passaporti, si completa
il corredo, si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dà un’occhiata al testamento, pura
scaramanzia perchè i disastri aerei
in percentuale sono nulla;
prima
del vaggio si è tranquilli ma si sospetta che
il saggio non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto è O.K. e tutto
è per il meglio e inutile.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E ora che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo.













C’erano le betulle, folte, per nascondere
il sanatorio dove una malata
per torppo amore della vita, in bilico
tra il tutto e il nulla si annoiava.
Cantava un grillo perfettamente incluso
nella progettazione clinica
insieme col cucù da te già udito
in Indonesia a minore prezzo.
C’erano le betulle, un’infermiera svizzera,
tre o quattro mentecatti nel cortile,
sul tavolino un album di uccelli esotici,
il telefono e qualce cioccolatino.
E c’ero anch’io, naturalmente, e altri
seccatori per darti quel conforto
che tu potevi distribuirci a josa
solo che avessimo gli occhi. Io li avevo.












* * *
La mia strada è passata
tra i demoni e gli dèi, indistinguibili.
Era tutto uno scambio di maschere, di barbe,
un volapuk, un guaranì, un pungente
charabia che nessuno poteva intendere.
Ora non domandarmi perchè t’ho identificata
con quale volto e quale suono entrasti
in una testa assordita da troppi clacson.
Qualche legame o cappio è giunto fino a me
e tu evidentemente non ne sai nulla.
La priva volta il tuo cervello pareva
in evaporazione e il mio non era migliore.
Hai buttato in bicchiere dalla finestra,
poi una scarpa e quasi anhce te stessa
si io non fossi stato vigile lì accanto.
Ma tu non ne sai nulla : se fu sogno
laccio tagliola è inutile domandarselo.
Anche la tua strada sicuramete
scavalca l’inferno ed era come
dare l’addio a un eliso inabitabile.

















da XENIA I








1

Caro piccolo insetto
che chiamavano mosca non so perchè,
stasera quasi al buio
mentre leggevo il Deuteroisaia
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi
né potevo io senza quel luccichìo
riconoscere te nella foschia.





2

Senza occhiali né antenne,
povero insetto che ali
avevi solo nella fantasia,
una bibbia sfasciata ed anche poco
attendibile, il nero della notte,
un lampo, un tuono e poi
neppure la tempesta. Forse che
te n’eri andata così presto senza
parlare? Ma è ridicolo
pensare che tu avessi ancora labbra.

















da SATURA II





EUGENIO MONTALE  - SATURA






GLI UOMINI CHE SI VOLTANO

Probabilmente
non sei più chi sei nata
ed è giusto che così sia.
Ha raschiato a dovere la carta a vetro
e su di noi ogni linea si assottiglia.
Pure qualcosa fu scritto
sui fogli della nostra vita.
Metterli controluce è ingigantire quel segno,
formare un geroglifico più grande del diadema
che ti abbagliava.
Non apparirai più dal portello
dell’aliscafo o da fondali d’alghe,
sommozzatrice di fangose rapide
per dare un senso al nulla. Scenderai
sulle scale automatiche dei templi di Mercurio
tra cadaveri in maschera,
tu la sola vivente
e non ti chiederai
se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione
e chi di noi fosse al centro
a cui si tira con l’arco dal baraccone.
Non me lo chiedo neanch’io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.









* * *
Mentre ti penso si staccano
veloci i fogli dal calendario. Brutto
stamani il tempo e anche più pestifero
il Tempo. Di te il meglio
esplose tra lentischi rovi rivi
gracidìo di ranocchi voli brevi
di trampolieri a me ignoti (i Cavalieri
d’Itlaia, figuriamoci!) e io dormivo
insonne tra le muffe dei libri e di brogliacci.
Di me esplose anche il pessimo: la voglia
di risalire gli anni, di sconfiggere
il pièveloce Crono con mille astuzie.
Si dice ch’io non creda a nulla, se non ai miracoli.
Ignoro che cosa credi tu, se in te stessa oppure
lasci che altri ti vedano e ti creino.
Ma questo è più che umano, è il privilegio
di chi sostiene il mondo senza conoscerlo.






* * *
LAGGIU’

La terra sarà sorvegliata
da piattaforme astrali

Più probabili o meno si faranno
laggiù i macelli

Spariranno profeti e profezie
se mai ne furono

Scomparsi l’io il tu il noi il voi
dall’uso

Dire nascita morte inizio fine
sarà tutt’uno

Dire ieri domani
un abuso

Sperare – flatus vocis non compreso
da nessuno

Il Creatore avrà poco sa fare
se n’ebbe

I santi poi bisognerà cercarli
tra i cani

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Gli angeli resteranno inespungibili
refusi.




IL PRIMO GENNAIO

So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui si affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di fitro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzuffino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perchè,
pigramente indisposta
al disponibile,
distratta rassegnata al non importa,
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale si larve e arborascenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,
brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.

==>SEGUE

So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fonte dispaia il sengo timbrato
di Chi volle tu fossi... e se ne pentì.
Ora
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni dentro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme delgi intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perchè gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.







REBECCA

Ogni giorno di più mi scopro difettivo:
manca il totale.
Gli addendi sono a posto, inecceppibili,
ma la somma?
Rebecca abbeverava i suoi cammelli
e anche se stessa.
Io attendo alla penna e alla gamella
per me e per altri.
Rebecca era assetata, io famelico,
ma non saremo assolti.
Non c’era molt’acqua nell’uadi, forse quache pozzanghera,
e nella mia cucina poca legna da ardere.
Eppure abbiamo tentato per noi, per tutti, nel fumo,
nel fango con qualche vivente bipede o anche quadrupede.
O mansueta Rebecca che non ho mai incontrata!
Appena una manciata di secoli ci dividono,
un batter d’occhio per chi comprende la tua lezione.
Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola.
Solo la morte lo vince se chiede l’intera porzione.

Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
E. MONTALE
Autoritratto
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
FINE
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
Le figure femminili nella poesia di Montale
Ricorre nelle poesie di Montale la figura del visiting angel, l’angelo femminile visitatore che apre spiragli verso i sentieri che separano la realtà contingente dall’inconoscibile.

IRMA BRANDEIS, l’ebrea americana conosciuta negli anni Trenta, è da Montale raffigurata come Clizia ed è presente in molte sue raccolte. In lei il poeta ha riversato la sua attesa di sacro: Clizia rappresenta, per certi aspetti, il punto di convergenza della ragione illuministica e della tensione spirituale. Annunzia sia la pace storica (La Bufera ed altro) che una liberazione metafisica dal male.

MARIA LUISA SPAZIANI, che assume il nome di Volpe, si colloca tra la persistenza del visiting angel e l’irruzione della passionalità. Montale la conosce attorno al 1949 e, come Clizia, Volpe porta in sé la presenza del numinoso. Laddove il rapporto con Clizia è universalizzato, quello con Volpe è però più individualizzato. Alla Spaziani è dedicata la sezione della Bufera ed altro intitolata “Madrigali privati”.
DRUSILLA TANZI è la moglie di Eugenio Montale. Soprannominata dagli amici “la Mosca”, così ritorna nei versi del poeta. La sua presenza poetica diviene dominante nelle prime due sezioni di Satura, intitolate Xenia I e II scritte dopo la sua morte nel 1963, quasi come doni votivi alla donna. Con lei, l’angelo salvifico si presenta lontano dalla sacralità iniziatica della Clizia. Prevale, infatti, la dimensione del privato, della quotidiana vita in comune, fatta di consuetudini ed affetti che persistono anche nell’al di là.