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EUGENIO MONTALE



POESIE VARIE


Giorno e notte

Anche una piuma che vola può disegnare
la tua figura, o il raggio che gioca a rimpiattino
tra i mobili, il rimando dello specchio
di un bambino, dai tetti. Sul giro delle mura
strascichi di vapore prolungano le guglie
dei pioppi e giù sul trespolo s'arruffa il pappagallo
dell'arrotino. Poi la notte afosa
sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
da secoli, o da istanti, d'incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell'antro
incandescente - e ancora le stesse grida e i lunghi
pianti sulla veranda
se rimbomba improvviso il colpo che t'arrossa
la gola e schianta l'ali, o perigliosa
annunziatrice dell'alba,
e si destano i chiostri e gli ospedali
a un lacerìo di trombe...

(Eugenio Montale, Finisterre)

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Eugenio Montale

L'uomo e il Poeta
_________

da
Wikimedia
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- Ossi di Seppia

Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l'affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l'impossibilità di dare una risposta all'esistenza: in una delle liriche introduttive, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell'opera designa l'esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l'uomo, che con l'età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale. In tal modo Montale capovolge l'atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell'uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce "Divina Indifferenza", ciò che mostra una partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all'uomo. In un certo senso, si potrebbe affermare che tale "Divina indifferenza" è l'esatto contrario della "Provvidenza divina" manzoniana.
La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1916 e il 1925. Il libro si presenta diviso in otto sezioni: Movimenti, Poesie per Camillo Sbarbaro, Sarcofaghi, Altri versi, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere). Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile sono le sue poesie: in un'epoca che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un'interpretazione compiuta della vita e dell'uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del poeta, da un paesaggio, come quello della Liguria, per esprimere temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Si affollano in queste poesie oggetti, presenze anche molto dimesse che non compaiono solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni sommessi, la sua analisi negativa del presente ma anche la non rassegnazione, l'attesa di un miracolo.
L'emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce comunque nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine da "reclusione" interiore genera il colloquio con le cose, quelle della riviera ligure, o del mare. Una natura "scarna, scabra, allucinante", e un "mare fermentante" dal richiamo ipnotico, proprio del paesaggio mediterraneo.
Il manoscritto autografo di Ossi di seppia è conservato presso il Fondo Manoscritti dell'Università di Pavia.

- Le occasioni

In Le occasioni (1939) la poesia è fatta di simbolo di analogia, di enunciazioni lontane dall'abbandono dei poeti ottocenteschi. Il mondo poetico di Montale appare desolato, oscuro, dolente, privo di speranza; infatti, tutto ciò che circonda il poeta è guardato con pietà e con misurata compassione. Simbolica la data di pubblicazione, 14 ottobre 1939, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Il fascicolo di poesie è dedicato a una misteriosa I.B, iniziali della poetessa e dantista americana Irma Brandeis, di origini ebraiche e perciò costretta a rimpatriare dopo la promulgazione delle leggi razziali.
La memoria è sollecitata da alcune "occasioni" di richiamo, in particolare si delineano figure femminili, per esempio la fanciulla conosciuta in vacanza a Monterosso, Annetta-Arletta (già presente negli Ossi), oppure Dora Markus, della omonima poesia: sono nuove "Beatrici" a cui il poeta affida la propria speranza.
La figura della donna, soprattutto Clizia (senhal di Irma), viene perseguita da Montale attraverso un'idea lirica della donna-angelo, messaggera divina. I tratti che servono per descriverla sono rarissimi, ed il desiderio è interamente una visione dell'amore fortemente idealizzata, che non si traduce necessariamente in realtà. Nel contempo il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi sono sottintesi, e anche se non di un ermetismo irrazionale, espressione di una sua personale tensione razionale e sentimentale.
In Le occasioni la frase divenne più libera e la riflessione filosofica, molto presente nella poesia di Montale, diviene più vigorosa. Il poeta indaga le ragioni della vita, l'idea della morte, l'impossibilità di dare una spiegazione valida all'esistenza, lo scorrere inesorabile del tempo (Non recidere, forbice, quel volto).

- La bufera e altro

Sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956. Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della "crisi" che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa possibilità di scoprire altre ragioni per essere poeti.

- Xenia e Satura

Negli ultimi anni Montale approfondì la propria filosofia di vita, quasi temesse di non avere abbastanza tempo "per dire tutto" (quasi una sensazione di vicinanza della morte); Xenia (1966) è una raccolta di poesie dedicate alla propria moglie defunta, Drusilla Tanzi, amorevolmente soprannominata "Mosca" per le spesse lenti degli occhiali da vista. Il titolo richiama xenia, che nell'antica Grecia erano i doni fatti all'ospite, e che ora dunque costituirebbero il dono alla propria moglie. Le poesie di Xenia furono pubblicate insieme alla raccolta Satura, con il titolo complessivo Satura, nel gennaio 1971. «Con questo libro - scrive Marco Forti nel risvolto di copertina dell'edizione Mondadori - Montale ha sciolto il gran gelo speculativo e riepilogativo della Bufera e ha ritrovato, semmai, la varietà e la frondosità, la molteplicità timbrica, lo scatto dell'impennata lirica e insieme la "prosa" che, già negli Ossi di seppia, costituirono la sua sorprendente novità.»

- La poetica e il pensiero

Montale ha scritto relativamente poco: quattro raccolte di brevi liriche, un "quaderno" di traduzioni di poesia e vari libri di traduzioni in prosa, due volumi di critica letteraria e uno di prose di fantasia. A ciò si aggiungono gli articoli della collaborazione al Corriere della sera. Il quadro è perfettamente coerente con l'esperienza del mondo così come si costituisce nel suo animo negli anni di formazione, che sono poi quelli in cui vedono la luce le liriche della raccolta Ossi di seppia.
La poesia è per Montale principalmente strumento e testimonianza dell'indagine sulla condizione esistenziale dell'uomo moderno, in cerca di un assoluto che è però inconoscibile. Tale concezione poetica – approfondita negli anni della maturità, ma mai rinnegata – non attribuisce alla poesia uno specifico ruolo di elevazione spirituale; anzi, Montale al suo lettore dice di "non chiedere la parola", non "domandare" la "formula" che possa aprire nuovi mondi. Il poeta può solo dire "ciò che non siamo": è la negatività esistenziale vissuta dall'uomo novecentesco dilaniato dal divenire storico.
A differenza delle "illuminazioni" ungarettiane, Montale fa un ampio uso di idee, di emozioni e di sensazioni più indefinite. Egli cerca infatti una soluzione simbolica (il "correlativo oggettivo", contemporaneamente adottato da Thomas Stearns Eliot) in cui la realtà dell'esperienza diventa una testimonianza di vita. Proprio in alcune di queste immagini il poeta crede di trovare una risposta, una soluzione al problema del "male di vivere": ad esempio, il mare (in Ossi di seppia) o alcune figure di donne che sono state importanti nella sua vita.
La poesia di Montale assume dunque il valore di testimonianza e un preciso significato morale: Montale esalta lo stoicismo etico di chi compie in qualsiasi situazione storica e politica il proprio dovere. Rispetto a questa visione, la poesia si pone per Montale come espressione profonda e personale della propria ricerca di dignità e del tentativo più alto di comunicare fra gli uomini. L'opera di Montale è, infatti, sempre sorretta da un'intima esigenza di moralità, ma priva di qualunque intenzione moralistica: il poeta non si propone come guida spirituale o morale per gli altri; attraverso la poesia egli tenta di esprimere la necessità dell'individuo di vivere nel mondo accogliendo con dignità la propria fragilità, incompiutezza, debolezza.
Montale non credeva all'esistenza di «leggi immutabili e fisse» che regolassero l'esistenza dell'uomo e della natura; da qui deriva la sua coerente sfiducia in qualsiasi teoria filosofica, religiosa, ideologica che avesse la pretesa di dare un inquadramento generale e definitivo, la sua diffidenza verso coloro che proclamavano fedi sicure. Per il poeta la realtà è segnata da una insanabile frattura fra l'individuo e il mondo, che provoca un senso di frustrazione e di estraneità, un malessere esistenziale. Questa condizione umana è, secondo Montale, impossibile da sanare se non in momenti eccezionali, veri stati di grazia istantanei che Montale definisce miracoli, gli eventi prodigiosi in cui si rivela la verità delle cose, il senso nascosto dell'esistenza.
Alcuni caratteri fondamentali del linguaggio poetico montaliano sono i simboli: nella poesia di Montale compaiono oggetti che tornano e rimbalzano da un testo all'altro e assumono il valore di simboli della condizione umana, segnata, secondo il poeta, dal malessere esistenziale, e dall'attesa di un avvenimento, un miracolo, che riscatti questa condizione rivelando il senso e il significato della vita. In Ossi di seppia il muro è il simbolo negativo di uno stato di chiusura e oppressione, mentre i simboli positivi che alludono alle possibilità di evasione, di fuga e di libertà, sono l'anello che non tiene, il varco, la maglia rotta nella rete. Nelle raccolte successive il panorama culturale, sentimentale e ideologico cambia, e quindi risulta nuova anche la simbologia. Per esempio nella seconda raccolta, Le occasioni, diventa centrale la figura di Clizia, il nome letterario che allude alla giovane ebrea-americana Irma Brandeis, (italianista ed intellettuale) amata da Montale, che assume una funzione "angelico-salvifica" e dalla quale è possibile aspettare il miracolo da cui dipende ogni residua possibilità di salvezza esistenziale.
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Hai dato il mio nome ad un albero? ...

Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco
pure non mi rassegno a restar ombra, o tronco
di un abbandono nel suburbio. Io il tuo
l'ho dato a un fiume, a un lungo incendio, al crudo
gioco della mia sorte, alla fiducia
sovrumana con cui parlasti al rospo
uscito dalla fogna, senza orrore o pietà
o tripudio, al respiro di quel forte
e morbido tuo labbro che riesce,
nominando, a creare; rospo fiore erba scoglio -
quercia pronta a spiegarsi su di noi
quando la pioggia spollina i carnosi
petali del trifoglio e il fuoco cresce.

(Eugenio Montale, La bufera)




Ho tanta fede in te

A C.

Ho tanta fede in te
che durerà
(è la sciocchezza che ti dissi un giorno)
finché un lampo d'oltremondo distrugga
quell'immenso cascame in cui viviamo.
Ci troveremo allora in non so che punto
se ha un senso dire punto dove non è spazio
a discutere qualche verso controverso
del divino poema.

So che oltre il visibile e il tangibile
non è vita possibile ma l'oltrevita
è forse l'altra faccia della morte
che portammo rinchiusa in noi per anni e anni.

Ho tanta fede in me
e l'hai riaccesa tu senza volerlo
senza saperlo perché in ogni rottame
della vita di qui è un trabocchetto
di cui nulla sappiamo ed era forse
in attesa di noi spersi e incapaci
di dargli un senso.

Ho tanta fede che mi brucia; certo
chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere
senz'accorgersi ch'era una rinascita.

(Eugenio Montale, Altri versi, parte seconda)





Il sogno del prigioniero

Alba e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d'aria polare,
l'occhio del capoguardia dallo spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolìo dalle cave, girarrosti
veri o supposti - ma la paglia è oro,
la lanterna vinosa è focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d'oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d'altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel pâté
destinato agl'Iddii pestilenziali.

Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull'impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all'aurora dei torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto -

e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L'attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

(Eugenio Montale, La bufera)





L'anguilla

L'anguilla, la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di capello in capello, assottigliati,
sempre più addentro, sempre più nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il guizzo in pozze d' acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi d' Appennino alla Romagna;
l'anguilla, torcia, frusta,
freccia d'Amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l'anima verde che cerca
vita là dove solo
morde l'arsura e la desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto pare
incarbonirsi, bronco seppellito:
l'iride breve, gemella
di quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in mezzo ai figli
dell'uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?

(Eugenio Montale, La bufera;
Parte quinta - Silvae)









Commento a "L'Anguilla"

È la poesia conclusiva della V sezione, Silvae (in latino: poesie di diversa ispirazione), della Bufera, e apparve dapprima in "Botteghe oscure" nel luglio 1948. Ritenuta uno dei capolavori di Montale ("il ritmo ammaliatore di questa poesia - osserva Giovanni Orelli - deriva soprattutto da un'indovinatissima alternanza di endecasillabi, settenari e versi pari per entro un unico fiotto sin tattico") è costituita da un 'unica, lunga interrogazione retorica che già contiene in sé la risposta (il lungo periodo è apposizione illustrativa della proposizione principale divisa fra verso iniziale e finale: "L'anguilla [...] puoi tu non crederla sorella?"). "L'allegoria dell'anguilla - ha scritto Franco Fortini - proseguita in un unico periodo sinuoso e ansioso, dev'essere considerata tra le massime poesie di Montale e della nostra letteratura moderna. L'ostinazione biologica dell'animale, la grande avventura vitale che lo conduce dai mari nordici fino alle montagne europee e da queste lo riporta ai mari, è figura di una volontà spirituale che si afferma attraverso la concretezza della condizione terrena; ed è anche la poesia, 'l'anima / verde che cerca / vita là dove solo / morde l'arsura e la desolazione'".

In questa poesia, che è la manifestazione più intensa del 'leopardismo' del poeta, culmina lo slancio drammatico pessimistico-fraterno di Montale, qui si esprimono poeticamente gli esiti supremi del suo lungo sviluppo poetico in una profondissima originalità e densità di linguaggio e di ritmo. Qui tutta la luce interna, tutta la musica interna, tutta la concretezza del lessico interno, tutta la densità e il movimento del ritmo interno [...] sono risolti unitariamente entro un'articolata dinamica organicità che serra tutto il componimento in un unico periodo terminato nella parola suprema e nella domanda drammatica e affermativa (BINNI)
















L'inverno si prolunga, il sole adopera

L'inverno si prolunga, il sole adopera
il contagocce. Non è strano che noi
padroni e forse inventori dell'universo
per comprenderne un'acca dobbiamo affidarci
ai ciarlatani e aruspici che funghiscono ovunque?
Pare evidente che i Numi
comincino a essere stanchi de presunti
loro figli o pupilli.
Anche più chiaro che Dei o semidei
si siano a loro volta licenziati
dai loro padroni, se mai n'ebbero.
Ma...

(Eugenio Montale, Altri versi)





La bufera

Les princes n'ont point d'yeux pour voir ces grand's merveilles ,
Leurs mains ne servent plus qùà nous persécuter...
AGRIPPA D'AUBIGNÈ, A Dieu


La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell'oro
che s'è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)

il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d'istante - marmo manna
e distruzione - ch'entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l'amore a me, strana sorella, -

e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa...
                                    Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,

mi salutasti - per entrar nel buio.

(Eugenio Montale, La bufera; Parte prima - Finisterre)





La primavera hitleriana

Né quella ch'a veder lo sol si gira....
DANTE (?) a Giovanni Quirini

Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l'estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch'esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s'è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate,
di larve sulle golene, e l'acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? - e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l'orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell'orda (ma una gemma rigò l'aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell'avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani - tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio....
                                         Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela

==>SEGUE

in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell'Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
col respiro di un'alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz'ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud...

(Eugenio Montale, La bufera)










La vita in prosa

Il fatto è che la vita non si spiega
né con la biologia
né con la teologia.
La vita è molto lunga
anche quando è corta
come quella della farfalla -
la vita è sempre prodiga
anche quando la terra non produce nulla.
Furibonda è la lotta che si fa
per renderla inutile e impossibile.
Non resta che il pescaggio nell'inconscio
l'ultima farsa del nostro moribondo teatro.
Manderei ai lavori forzati o alla forca
chi la professa o la subisce. È chiaro che l'ignaro
è più che sufficiente per abbuiare il buio.

(Eugenio Montale, Poesie disperse)


















da SATURA I


















Lasciando un 'dove'
                                      Cattedrale di Ely

Una colomba bianca m'ha disceso
fra stele, sotto cuspidi dove il cielo s'annida.
Albe e luci, sospese; ho amato il sole,
il colore del miele, or chiedo il bruno,
chiedo il fuoco che cova, questa tomba
che non vola, il tuo sguardo che la sfida.

(Eugenio Montale, La bufera;
Parte quarta - 'Flashes'e dediche)
























Lungomare

Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.

Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.

(Eugenio Montale, Finisterre)












Nel dubbio

Stavo tenendo un discorso
agli 'Amici di Cacania'
sul tema 'La vita è verosimile?'
quando mi ricordai
ch'ero del tutto agnostico,
amore e odio in parti uguali e incerto
il risultato, a dosi alternate.
Poi riflettei ch'erano sufficienti
cinque minuti
due e mezzo alla tesi
altrettanti all'antitesi
e questo era il solo omaggio
possibile a un uomo senza qualità.
Parlai esattamente trentacinque secondi.
E quando dissi
che il sì e il no si scambiano le barbe
urla e fischi interruppero il discorso
e mi svegliai. Fu il sogno più laconico
della mia vita, forse il solo non sprovvisto
'di qualità'.

(Eugenio Montale, Altri versi)















Nella serra

S'empì d'uno zampettìo
di talpe la limonaia,
brillò in un rosario di caute
gocce la falce fienaia.

S'accese sui pomi cotogni,
un punto, una cocciniglia,
si udì inalberarsi alla striglia
il poney - e poi vinse il sogno.

Rapito e leggero ero intriso
di te, la tua forma era il mio
respiro nascosto, il tuo viso
nel mio si fondeva, e l'oscuro

pensiero di Dio discendeva
sui pochi viventi, tra suoni
celesti e infantili tamburi
e globi sospesi di fulmini

su me, su te, sui limoni...

(Eugenio Montale, La bufera)















Presto o tardi

Ho creduto da bimbo che non l'uomo
si muove ma il fondale, il paesaggio.
Fu quando io, fermo, vidi srotolarsi
il lago di Lugano nel vaudeville
di un Dall'Argine che probabilmente
in omaggio a se stesso, nomen omen,
non lasció mai la proda. Poi mi accorsi
del mio puerile inganno e ora so
che volante o pedestre, stasi o moto
in nulla differiscono. C'è chi ama
bere la vita a gocce o a garganella;
ma la bottiglia è quella, non si può
riempirla quando è vuota.

(Eugenio Montale, Diario del '72)





















Sera di Pasqua

Alla televisione
Cristo in croce cantava come un tenore
colto da un'improvvisa
colica pop.
Era stato tentato poco prima
dal diavolo vestito da donna nuda.
Questa è la religione del ventesimo secolo.
Probabilmente la notte di San Bartolomeo
o la coda troncata di una lucertola
hanno lo stesso peso nell'Economia
dello Spirito
fondata sul principio dell'Indifferenza.
Ma forse bisogna dire che non è vero
bisogna dire che è vera la falsità,
poi si vedrà che cosa accade. Intanto
chiudiamo il video. Al resto
provvederà chi può ( se questo chi
ha qualche senso ).Noi non lo sapremo.

(Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni)













Su una lettera non scritta

Per un formicolìo d'albe, per pochi
fili su cui s'impigli
il fiocco della vita e s'incollani
in ore e in anni, oggi i delfini a coppie
capriolano coi figli? Oh ch'io non oda
nulla di te, ch'io fugga dal bagliore
dei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra. Sparir non so né riaffacciarmi; tarda
la fucina vermiglia
della notte, la sera si fa lunga,
la preghiera è supplizio e non ancora
tra le rocce che sorgono t'è giunta
la bottiglia dal mare. L'onda, vuota,
si rompe sulla punta, a Finisterre.

(Eugenio Montale, La bufera; Finisterre)















Vento sulla mezzaluna

                                                       Edimburgo

Il grande ponte non portava a te.
T'avrei raggiunta anche navigando
nelle chiaviche, a un tuo comando. Ma
già le forze, col sole sui cristalli
delle verande, andavano stremandosi.

L'uomo che predicava sul Crescente
mi chiese "Sai dov'è Dio?". Lo sapevo
e glielo dissi. Scosse il capo. Sparve
nel turbine che prese uomini e case
e li sollevò in alto, sulla pece.

(Eugenio Montale, La bufera; Parte quarta)







Voce giunta con le folaghe

Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga
del sentiero da capre che mi porta
dove ci scioglieremo come cera,
ed i giunchi fioriti non leniscono il cuore
ma le vermene, il sangue dei cimiteri,
eccoti fuor dal buio
che ti teneva, padre, erto ai barbagli,
senza scialle e berretto, al sordo fremito
che annunciava nell'alba
chiatte di minatori dal gran carico
semisommerse, nere sull'onde alte.

L'ombra che mi accompagna
alla tua tomba, vigile,
e posa sopra un'erma ed ha uno scarto
altero della fronte che le schiara
gli occhi ardenti e i duri sopraccigli
da un suo biocco infantile,
l'ombra non ha più peso della tua
da tanto seppellita, i primi raggi
del giorno la trafiggono, farfalle
vivaci l'attraversano, la sfiora
la sensitiva e non si rattrappisce.

L'ombra fidata e il muto che risorge,
quella che scorporò l'interno fuoco
e colui che lunghi anni d'oltretempo
(anni per me pesante) disincarnano,
si scambiano parole che interito
sul margine io non odo: l'una forse
ritroverà la forma in cui bruciava
amor di Chi la mosse e non di sè,
ma l'altro sbigottisce e teme che
la larva di memoria in cui si scalda
ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

==>SEGUE





- Ho pensato per te, ho ricordato
per tutti. Ancora questa rupe
tu tenta? Sì. la bàttima è la stessa
di sempre, il mare che ti univa ai miei
lidi da prima che io avessi l'ali,
non si dissolve. Io le rammento quelle
mie prode e pur son giunta con le fòlaghe
a distaccarti dalle tue. Memoria
non è peccato fin che giova. Dopo
è letargo di talpe, abiezione

che funghisce su sè... -
                                  Il vento del giorno
confonde l'ombra viva e l'altra ancora
riluttante in un mezzo che respinge
le mie mani, e il respiro mi si rompe
nel punto dilatato, nella fossa
che circonda lo scatto del ricordo.
Così si svela prima di legarsi
a immagini, a parole, oscuro senso
reminiscente, il vuoto inabitato
che occupammo e che attende fin ch'è tempo
di colmarsi di noi, di ritrovarci...

(Eugenio Montale, La bufera;
Parte quinta - Silvae)











Chissà se un giorno butteremo le maschere

Chissà se un giorno butteremo le maschere
che portiamo sul volto senza saperlo.
Per questo è tanto difficile identificare
gli uomini che incontriamo.
Forse fra i tanti, fra i milioni c'è
quello in cui viso e maschera coincidono
e lui solo potrebbe dirci la parola
che attendiamo da sempre. Ma è probabile
ch'egli stesso non sappia il suo privilegio.
Chi l'ha saputo, se uno ne fu mai,
pagò il suo dono con balbuzie o peggio.
Non valeva la pena di trovarlo. Il suo nome
fu sempre impronunciabile per cause
non solo di fonetica. La scienza
ha ben altro da fare o da non fare.

(da Quaderno di quattro anni)









Elogio del nostro tempo

Non si può esagerare abbastanza
l’importanza del mondo
(del nostro, intendo)
probabilmente il solo
in cui si possa uccidere
con arte e anche creare
opere d’arte destinate a vivere
lo spazio di un mattino, sia pur fatto
di millenni e anche più. No, non si può
magnificarlo a sufficienza. Solo
ci si deve affrettare perché potrebbe
non essere lontana
l’ora in cui troppo si sarà gonfiata
secondo un noto apologo la rana.

(da Quaderno di quattro anni)







Piccolo testamento

Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d'officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest'iride posso
lasciarti a testimonianza
d'una fede che fu combattuta,
d'una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell'Hudson, della Senna
scuotendo l'ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora.
Non è un'eredità, un portafortuna
che può reggere all'urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione.
Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.

(Eugenio Montale, La bufera; Parte settima)















La caduta dei valori

Leggo una tesi di baccalaureato
sulla caduta dei valori.
Chi cade è stato in alto, il che dovevasi
dimostrare, e chi mai fu così folle?
La vita non sta sopra e non sta sotto,
e tanto meno a mezza tacca. Ignora
l’insù e l’ingiù, il pieno e il vuoto, il prima
e il dopo. Del presente non sa un’acca.
Straccia i tuoi fogli, buttali in una fogna,
bacalare di nulla e potrai dire
di essere vivo (forse) per un attimo.

(da Diario del ’71 e del ’72)










L'Arca

La tempesta di primavera ha sconvolto
l'ombrello del salice,
al turbine d'aprile
s'è impigliato nell'orto il vello d'oro
che nasconde i miei morti,
i miei cani fidati, le mie vecchie
serve - quanti da allora
(quando il salce era biondo e io ne stroncavo
le anella con la fionda) son calati,
vivi, nel trabocchetto. La tempesta
certo li riunirà sotto quel tetto
di prima, ma lontano, più lontano
di questa terra folgorata dove
bollono calce e sangue nell'impronta
del piede umano. Fuma il ramaiolo
in cucina, un suo tondo di riflessi
accentra i volti ossuti, i musi aguzzi
e li protegge in fondo la magnolia
se un soffio ve la getta. La tempesta
primaverile scuote d'un latrato
di fedeltà la mia arca, o perduti.

(Eugenio Montale, La bufera;)













Sulla colonna più alta
Moschea di Damasco
Dovrà posarsi lassù
il Cristo giustiziere
per dire la sua parola.
Tra il pietrisco dei sette greti, insieme
s'umilieranno corvi e capinere,
ortiche e girasoli.
Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice:
scura, l'ali ingrommate, stronche dai
geli dell'Antilibano; e ancora
il tuo lampo mutava in vischio i neri
diademi degli sterpi, la Colonna
sillabava la Legge per te sola.

(Eugenio Montale, La bufera;)














L’allegoria

     Il senso del costrutto non è chiaro
   neppure per coloro che riguarda.
   Noi siamo i comprimari, i souffleurs nelle buche
   ma i fili del racconto sono in mano di altri.
   Si tratta chiaramente di una allegoria
   che dura da una infinità di secoli supponendo
   che il tempo esista oppure non sia parte
   di una divinità o no macchinazione.
   Alcuni suggeriscono marchingegni
   che facciano crollare il tutto su se stesso.
   Ma tu non credi a questo: la gioia del farnetico
   è affare d’altri.

(da  “Altri Versi”.)

A galla

Chiari mattini,
quando l'azzurro è inganno che non illude,
crescere immenso di vita,
fiumana che non ha ripe né sfocio
e va per sempre,
e sta - infinitamente.

Sono allora i rumori delle strade
l'incrinatura nel vetro
o la pietra che cade
nello specchio del lago e lo corrùga.
E il vocìo dei ragazzi
e il chiacchiericcio liquido dei passeri
che tra le gronde svolano
sono tralicci d'oro
su un fondo vivo di cobalto,
effimeri...

Ecco, è perduto nella rete di echi,
nel soffio di pruina
che discende sugli alberi sfoltiti
e ne deriva un murmure
d'irrequieta marina,
tu quasi vorresti, e ne tremi,
intento cuore disfarti,
non pulsar più! Ma sempre che lo invochi,
più netto batti come
orologio traudito in una stanza
d'albergo al primo rompere dell'aurora.
E senti allora,
se pure ti ripetono che puoi
fermarti a mezza via o in alto mare,
che non c'è sosta per noi,
ma strada, ancora strada,

e che il cammino è sempre da ricominciare.

(Eugenio Montale, Poesie disperse)

Al mare (o quasi)

l'ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell'eucalipto
i bambini raccolgono pinòli
indispensabili per la galantina
un cane alano urla dall'inferriata
di una villa ormai disabitata
le ville furono costruite dai padri
ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati
di qui non si vede nemmeno la proda
se può chiamarsi così quell'ottanta per cento
ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi
una pace alcionica
il mare è d'altronde infestato
mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche
esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti. E c'è anche qualche boccio
di magnolia l'etichetta di un pediatra
ma qui i bambini volano in bicicletta
e non hanno bisogno delle sue cure
Chi vuole respirare a grandi zaffate
la musa del nostro tempo la precarietà
può passare di qui senza affrettarsi
è il colpo secco quello che fa orrore
non già l'evanescenza il dolce afflato del nulla
Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
alla morte (e questa piace solo ai giovani).

(Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni)


EUGENIO MONTALE  - POESIE VARIE












Al Congresso

Se l’uomo è l’inventore della vita
(senza di lui chi se ne accorgerebbe)
non ha l’uomo il diritto di distruggerla?
Tale al Congresso il detto dell’egregio
preopinante che mai mosse un dito
per uscire dal gregge.

(da Diario del ’71 e del ’72)









Non c’è morte

Fu detto che non si può vivere senza la carapace
   di una mitologia.
   Non sarebbe gran male se non fosse che sempre
   l’ultima è la peggiore.

   I vecchi numi erano confortevoli,
   non importa se ostili.
   I nuovi ci propinano una vile
   benevolenza ma ignorano la nostra sorte.
  
   Non solo sono al buio di chi vive
   ma restano all’oscuro di se stessi.
   Pure hanno un volto amico anche se uccidono
   e non è morte dove mai fu nascita.

(da Dario del ’71 e del ’72)








Il tuffatore

Il tuffatore preso au ralenti
   disegna un arabesco ragniforme
   e in quella cifra forse si identifica
   la sua vita. Chi sta sul trampolino
   è ancora morto, morto chi ritorna
   a nuoto alla scaletta dopo il tuffo,
   morto chi lo fotografa, mai nato
   chi celebra l’impresa.
  
     Ed è poi vivo
   lo spazio di cui vive ogni movente?
   Pietà per le pupille, per l’obiettivo,
   pietà per tutto che si manifesta,
   pietà per il partente e per chi arriva,
   pietà per chi raggiunge o ha raggiunto,
   pietà per chi non sa che il nulla e il tutto
   sono due veli dell’Impronunciabile,
   pietà per chi lo sa, per chi lo dice,
   per chi lo ignora e brancola nel buio
   delle parole!

(da Diario del ‘71 e del ‘72)



La Pendola a Carillon

La vecchia pendola a carillon
   veniva dalla Francia forse dal tempo
   del secondo Impero.
   Non dava trilli o rintocchi ma esalava
   più che suonare tanto n’era fioca la voce
   l’entrata di Escamillo o le campane
   di Corneville: le novità di quando
   qualcuno l’acquistò: forse il proavo
   finito al manicomio e sotterrato
   senza rimpianti, necrologi o altre
   notizie che turbassero i suoi non nati nepoti.
   I quali vennero poi e vissero senza memoria
   di chi portò quell’oggetto tra inospiti mura sferzate
   da furibonde libecciate – e chi
   di essi ne udì il richiamo? Era una sveglia
   beninteso che mai destò nessuno
   che non fosse già sveglio. Io solo un’alba
   regolarmente  insonne traudii l’ectoplasma
   vocale, il soffio della toriada,
   ma appena per un attimo. Poi la voce
   della boite non si estinse ma si fece parola
   poco udibile e disse non c’è molla né carica
   che un giorno non si scarichi. Io ch’ero
   il Tempo lo abbandono. Ed a te che sei l’unico
   mio ascoltatore dico cerca di vivere
   nel fuordeltempo, quello che nessuno
   può misurare. Poi la voce tacque
   e l’orologio per molti anni ancora
   rimase appeso al muro. Probabilmente
   v’è ancora la traccia sull’intonaco.

(da Diario del ‘71 e del ‘72)



Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
E. MONTALE
Autoritratto
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
FINE
Ritratto Eugenio Montale
Olio su tela di Gabriele Donelli
Le figure femminili nella poesia di Montale
Ricorre nelle poesie di Montale la figura del visiting angel, l’angelo femminile visitatore che apre spiragli verso i sentieri che separano la realtà contingente dall’inconoscibile.

IRMA BRANDEIS, l’ebrea americana conosciuta negli anni Trenta, è da Montale raffigurata come Clizia ed è presente in molte sue raccolte. In lei il poeta ha riversato la sua attesa di sacro: Clizia rappresenta, per certi aspetti, il punto di convergenza della ragione illuministica e della tensione spirituale. Annunzia sia la pace storica (La Bufera ed altro) che una liberazione metafisica dal male.

MARIA LUISA SPAZIANI, che assume il nome di Volpe, si colloca tra la persistenza del visiting angel e l’irruzione della passionalità. Montale la conosce attorno al 1949 e, come Clizia, Volpe porta in sé la presenza del numinoso. Laddove il rapporto con Clizia è universalizzato, quello con Volpe è però più individualizzato. Alla Spaziani è dedicata la sezione della Bufera ed altro intitolata “Madrigali privati”.
DRUSILLA TANZI è la moglie di Eugenio Montale. Soprannominata dagli amici “la Mosca”, così ritorna nei versi del poeta. La sua presenza poetica diviene dominante nelle prime due sezioni di Satura, intitolate Xenia I e II scritte dopo la sua morte nel 1963, quasi come doni votivi alla donna. Con lei, l’angelo salvifico si presenta lontano dalla sacralità iniziatica della Clizia. Prevale, infatti, la dimensione del privato, della quotidiana vita in comune, fatta di consuetudini ed affetti che persistono anche nell’al di là.