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Giovanni  Pascoli
POEMI DEL RISORGIMENTO  -  POEMI ITALICI






































































































Giovanni
Pascoli




IDEOLOGIA E POETICA




periodo in cui alle contraddizioni della società borghese si stava cercando una soluzione nel socialismo emergente, che in Italia si presentava nella variante anarchica, mentre la grande borghesia, alleata con gli agrari del Sud, la cercava in un governo forte e reazionario.
Quando il Pascoli rinuncia alle idee del socialismo anarchico (politicamente impegnato), approda progressivamente alla convinzione che il mondo e la nuova società borghese sono dominati da forze negative troppo superiori per essere vinte. Al massimo -pensa il Pascoli- è possibile attenuare l'impatto di queste forze sugli uomini, mediante una sorta di socialismo umanistico e filantropico (nel senso che tutte le classi sociali devono trovare ai loro conflitti una relativa conciliazione, nella consapevolezza di sentirsi reciprocamente indispensabili), e mediante una sorta di patriottismo-nazionalistico, per il quale le classi oppresse hanno il diritto a un'espansione coloniale verso l'Africa e di conquistare le terre irredente del nord-Italia, al fine di dimostrare le loro grandi capacità lavorative e civilizzatrici: in tal modo il Pascoli sperava di attenuare le forti tensioni sociali che erano scoppiate in tutta la nazione. Il suo discorso La grande proletaria, pronunciato nel 1911, al tempo dell'impresa libica, destò grandi entusiasmi nella stampa e nei teatri. Il Pascoli eredita chiaramente la fine delle illusioni del secondo Ottocento nelle capacità della scienza-tecnica-industrializzazione di superare il dolore, la sofferenza, le contraddizioni degli uomini. Tutte queste cose non hanno tolto ma hanno anche creato nuovi dolori (la scienza -per il Pascoli- è solo servita a togliere le illusioni della religione). Il male, per lui, non è generato dalla natura (che anzi è "madre dolcissima") ma dall'uomo sociale (ritenuto assai diverso dall'uomo primitivo, "buono per natura"). Mentre il positivismo, fiducioso nella scienza, aveva concepito l’inconoscibile come una sorta di territorio ignoto da sottoporre progressivamente a una ricerca condotta col metodo sperimentale, Pascoli ne fa il centro di una sofferta meditazione. La scienza, secondo lui, ha ricondotto la mente dell’uomo alla coscienza del suo destino inesplicabile, non ha assolutamente donato libertà all’uomo, ma, anzi, la società industriale, valorizzata dal positivismo, soffoca l’uomo, gli nega ogni piacere: viene così definito il "rifiuto della storia" secondo il quale la storia viene contrapposta al mondo campestre delle piccole cose.
Unico rimedio al male consiste infatti nel fuggire tutto ciò che è prodotto di civiltà, rifugiandosi nel puro sentimento, nella solitudine, in un contatto più stretto con la natura, vista esteticamente ma anche come fonte di consolazione, come luogo simbolico in cui poter rievocare un passato, un'innocenza perduta definitivamente.
La natura è anche un luogo in cui si può meditare sul problema del dolore, della morte, della sofferenza degli uomini in maniera distaccata, cioè senza cercare nel conflitto delle classi una soluzione alle contraddizioni sociali. La meditazione sul dolore e sul mistero di una vita che ci fa nascere felici e ci fa diventare infelici, deve portare l'uomo ad avere pietà del suo simile. Il dolore infatti ha qualcosa di sacro e di necessario e per renderlo più sopportabile occorre la fraternità universale.
Bisogna ancora inserire Pascoli nel generale orientamento del tempo, il decadentismo, che rifiutava la civiltà contemporanea: mentre autori come Huysmans, Wilde, D’Annunzio concretizzano questo rifiuto con il vagheggiamento di un mondo di pura bellezza , Pascoli lo concretizza o con il ripiegamento intimistico, spesso vittimistico, oppure nel vagheggiamento della campagna e delle umili cose, di un paradiso perduto. Nel poeta, inoltre, il rifiuto della storia dà come conseguenza amara la solitudine, l’autocommiserazione, lo smarrimento di chi non riesce a vedere altro che la Terra come un atomo opaco del male. Ne deriva, quindi, la visione di una vita tutta raccolta nell’ambito della famiglia, gelosamente custodita e difesa.
Quella del Pascoli viene chiamata "poetica decadentistica della consolazione". Egli però definì la propria poetica con l'espressione "poetica del fanciullino". Il poeta cioè è un fanciullo che sogna e vede cose che gli altri non vedono né possono vedere, essendo abituati ai nessi logici, razionali delle cose. Il "fanciullino" privilegia l'intuizione alla ragione, il sogno al vero, l'invenzione alla riproduzione, l'arbitrarietà della parola alla normalità comunicativa (grandissimo, in questo senso, fu il contributo stilistico del Pascoli).

LO STILE

Il linguaggio: Pascoli usa un linguaggio poetico lirico, con echi e risonanze melodiche ottenute talvolta con ripetizioni di parole e di espressioni cantilenanti, arricchite di rapide note impressionistiche e di frasi spesso ridotte all’essenziale. In questo egli prelude ai poeti del novecento.

Il lessico: è nuovo, con mescolanze di parole dotte e comuni ma sempre preciso e scrupolosamente scientifico quando nomina uccelli (cince, pettirossi, fringuelli, assiuoli...) o piante (viburni o biancospini, timo, gelsomini, tamerici...).

Realtà e simbolismo: egli ricerca " nelle cose il loro sorriso", la loro anima, il loro significato nascosto e simbolico. Ecco perché la sua poesia è sempre ricca di allusioni e di analogie simboliche.

La sintassi: preferisce periodi semplici, composti di una sola frase, o strutture paratattiche con frasi accostate mediante virgole o congiunzioni.

Aspetto metrico e fonico: partendo dalla metrica classica e tradizionale vi innesta forme e metri nuovi, adatti ad esprimere timbri e toni nascosti, assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora, gli effetti musicali di onomatopee espressive e di pause improvvise.

Figure retoriche: fa grande uso di metafore, analogie, sinestesie, metonimie in linea con lo stile della poesia decadente del periodo

Accorgimenti stilistici: molto curate le scelte espressive. Per rendere le immagini più vive e sintetiche, Pascoli ama talvolta eliminare congiunzioni e verbi (ellissi) o fare accostamenti nuovi trasformando aggettivi e verbi in sostantivi (un nero di nubi... il cullare del mare...). Ne risulta uno stile impressionistico e nuovo.

I TEMI

IL NIDO:
La famiglia viene concepita, da Pascoli, come famiglia d'origine chiusa ed esclusiva che si costituisce come alternativa al matrimonio.
In poesia il tema del nido simboleggia la famiglia e viene visto come un luogo caldo, protettivo e segreto. Tale protezione comporta però l'isolamento dalla realtà: si ha quella che viene definita "chiusura sentimentale". Questa è una situazione psicologica sofferta che lo conduce anche ad esasperare il tema dell'eros che verrà visto in maniera regredita.

I MORTI:
Collegato al tema del nido, ricorrente è il tema dei morti: la vita di Pascoli, infatti, scandita da lutti, ha influito molto sulla sua produzione. Il tema dei morti viene espresso, attraverso la tecnica del correlativo-oggettivo, che consiste nel proiettare i propri stati d'animo su oggetti della realtà che, così, si carica di significati simbolici.
Così avviene in Myricae e nei Canti di Castelvecchio.

LA NATURA E LE PICCOLE COSE:
La Natura è concepita da Pascoli come una presenza misteriosa e complessa che il poeta deve interpretare attivando l'immaginazione e aguzzando i sensi. Inoltre, condividendo le posizioni antipositivistiche e negando l'idea che la scienza abbia portato la felicità, Pascoli crede che la società industriale soffochi l'uomo condizionandolo pesantemente. Per questo contrappone la società alla Natura, agli aspetti semplici e dimessi della campagna. Perciò egli assume uno stato d'animo tipicamente decadente in quanto evade dalla realtà misteriosa e ostile rifugiandosi in luoghi chiusi, circondandosi di piccole e semplici cose rassicuranti e protettive.


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
I
Ora egli è solo, tra le lontane acque,
sul borro solo. A che vegliate in armi
guardando lui dal Bosco della morte?
Veglia a' suoi piè l'Oceano, lo guarda
l'Oceano insonne che notturno canta
per non dormire, ed asseconda l'onde,
alterne, eterne. E l'uomo solo ascolta
il canto e quindi il respirare uguale
del suo custode steso sulla soglia
rotta, e ne sente l'umido alito acre,
dalla invisibile isola, fumosa
d'accavallate nubi oscure.

Era per lui quell'isola da quando.
spuntò sull'ampio ondeggiamento azzurro,
unica. E il grande Spirito che ancora
irrequieto errava là, sulle acque,
vi s'avventò, stette anelando in guato
cinto di nubi, tra le bronzee rupi.
Esso attendeva l'Unico: chi fosse
per dire, nate non trovando ancora
le sue parole, – Io, come Dio, sono io –,
l'uomo promesso da che, dopo un grande
scheggiar di selci, uscì dall'antro il bruto
brandendo la sua prima scure.

Italia a lui fu madre. Essa lo fece
del suo granito dentro i suoi vulcani.
Per tre millenni lo portò nel grembo.
L'anime in una ella fondea dei grandi
Cesari, in una Parte le sue Parti
crudeli, il ferro degli Sforza e il ferro
dei Buonarroti, tutte l'arti e l'armi.
Poi, pieni i tempi, ben temprata al gelo
l'anima, in sella lo levò, gli pose
le dee Fortuna e Guerra alle due staffe,
gli pose il sogno, in mezzo al cuor, di Dante,

e grave gli mormorò: Va!
II
La nera Terra lo attendea, tremando
già del portento. Ora credé vederlo
uscir col capo di sparvier da templi
invasi d'ombra e di pensose sfingi,
ora passar con mille carri d'oro
con suvvi gli archi di barbari arcieri,
ora con infiniti dromedari
rigar le solitudini sabbiose
fulve di sole, ora venir tra un muglio
di bovi immenso, qual se al mondo un solo
gran mandrïano ormai parasse tutti
gli armenti e tutti gli armentari.

Non era ancora. O forse era il divino
efebo cinto d'ellera che apparve
novello eroe con la peliade lancia,
or con la cetra or con la face in mano.
E no. Forse il Quirite era incedente
al misurato passo dei triari,
e poi sedente sull'eburnea sella
imperïoso pacificatore.
Ma no. Non era il re chiomato assiso
appiè dell'olmo, l'orifiamma al vento,
e giganteschi attorno con le spade
ignude i dodici suoi pari.

Ma quando uscì dall'isola selvaggia
piccolo, e parve scialbo e glabro in sella;
con gli occhi vuoti, vitrei, coi lunghi
capelli lisci, simile a nessuno;
ed ella udì che ad ogni sosta ansante
del suo cavallo rimbombava il tuono:
– Sei tu – gridò la nera Terra – alfine!
Dimmi il tuo nome! – Ed ella intese il nome
dove la fiera si mesceva al dio,
donde sonava l'inno dell'eterna

cetra del cielo puro ed il ruggito
della deserta immensità.
III
Ora egli è avvinto all'isola lontana
che sola spunta di tra le grandi acque;
che, sola tra la serenità calma,
è di perpetue nuvole involuta;
come se imperversasse una tempesta
là, vorticosa, interminabilmente;
una tempesta pallida e segreta,
incominciata all'albeggiar del mondo.
Tutte le nubi erranti per quel cielo
dagli alisei sono parate, a branchi,
là, con assidui sibili, e son chiuse
tra mura d'invarcabile aria.

Sbalzano su, rotolano le nubi,
s'urtano, vanno per fuggir dal chiuso,
calano per vanire entro i burroni,
s'alzano per oltrepassar li scogli,
strisciano a terra: invano, perché il vento
pur le riprende; e, reduci, le vane
lagrime loro versano sul caldo
suolo che fuma. Tornano alle nubi
le loro vane lagrime, che ancora
piovono in terra. E sempre in volta il vento
con lunghi assidui sibili minaccia
nella penombra solitaria.

È l'invisibile isola dei morti,
tutta fiorita d'aridi elicrisi.
Né luce v'è né buio. Una muffita
nebbia nasconde il popolo dei sogni.
Vi sono sterili alberi, curvati
come a fuggire; ma li tiene il suolo
disvincolanti. Fuggono le navi
a vele aperte, tutte per un rombo.
L'hanno veduto. Tra lo stridìo lieve,

di pianto, un pianto immenso, un campo immenso
che piange, tutto un piangere di madri;
e fuoco, sangue, orrore, morte; e un grido
solo: L'Imperatore è là!
V
Or tra gli smerghi e l'aquile marine
è là, celato; e raro e breve il sole
s'affaccia e getta, per vederlo, un raggio:
ché brama il sole di veder quel pari
a sé terrestre; ché anche il sole è solo.
Guarda, e si cela. E non appena il giorno
egli ha compiuto, subito nel buio
precipita, né roseo s'indugia
nella soave ora crepuscolare
a consolare il cielo d'una blanda
chiarità ampia che si muta in ombra,
così, più dolce che la luce.

No: ch'egli, come il simile terrestre,
precipita. Se non è dì, sia notte.
E rare a notte vengono le stelle
vergini, vengono all'Ignoto ignote,
la Croce insieme e la Corona australi,
per veder l'uomo che nella sua mano
tenne il timone dell'opaca Terra
e volle unico reggerla sul mare
del rezzo eterno. Cercano le stelle
quell'Orïone cacciator di fiere,
armato d'oro, cercano quel nuovo
divino pùgile Polluce.

Avea lottato, il Pùgile, con Dio!
Avea ghermito una sua stella a Dio!
Volea rapire una sua stella errante!
la nera Terra! E l'altre stelle erranti
già ne' lor pii crepuscoli il pianeta
vedean, tremando, prigionier d'un uomo;
vedeano rosso al placido orizzonte

spuntare il globo, vario di grandi ombre,
soffuso forse, ogni dì più, di sangue;
nel cielo ancora ma non più del cielo.
Empia e sicura al non tuo cielo, o Terra,
montavi lentamente su.
VI
L'anima egli era, e tutto il mondo, il bruto.
Soltanto braccia egli chiedeva, e l'ebbe.
Fu come il Brahma, a cui sporgean dai lati
mille migliaia di guizzanti braccia,
mille, di mani, ognuna d'esse un ferro.
Né città v'era né deserto al mondo,
né tempio augusto, né sublime reggia,
né foro né castello né ruina;
o dove nasce o dove cade il sole,
a sud, a nord; sopra la cui parete
non apparisse; alfine un giorno, l'ombra
adunca d'una sua gran mano.

Egli era dio d'un proprio suo diviso
regno di dio. Per tutto egli era, e tutto.
Ne ripeteva, paventando, il nome
l'eco dei monti e la marea dei mari.
Empiano i suoi migranti padiglioni
le nivee steppe e le assolate arene.
Gittava al Tutto egli le braccia armate,
calmo, dal perno, e tra lo scatto enorme,
tra l'infinito riscintillamento
delle sue braccia, si vedea quel mezzo
Sorriso breve cui covava eterna
la sua tristezza di Titano.

Ed egli volle un vicedio ch'eterno,
per il dio triste, sorridesse al mondo.
Volle, e compose un idolo fasciato
di bianca seta, rilucente d'oro,
aspro di gemme, gli occhi pii, le labbra
sottili, aperte sempre al dolce assenso.

E lo vegliava, ché dovea placare
gli uomini a Dio, con la gemmata mano
benedicente, e gli uomini pregare
per l'immortale. Ond'egli cupo in vista
mostrava il placido idolo alle torve
inginocchiate sue tribù.
VII
Altri al timone siedono del mondo.
Son mozze alfine le sue mille e mille
e mille braccia, e guizzano per tutto,
cadute a terra, le convulse mani
cercando il ferro. Egli nell'aria fosca
leva, stillanti sangue, i moncherini.
È chiuso là nell'isola deserta
tra le grandi acque, che l'attendamento
de' re terrestri il suo dolor non turbi
con l'alte grida. Sullo scoglio assiso
forse nel mar tuffa le braccia, e lava
le innumerabili ferite.

Credono i re di udire la selvaggia
querela atroce, l'aspro grido acuto
ch'egli dal lido getti alle fuggiasche
vele atterrite. No; ch'ei tace, o parla
soltanto a smerghi ed aquile marine.
Ei siede e tace, mentre sull'Oceano
purpureggiante le sue braccia affonda.
Tace ed assiduo, tra la nebbia, lava
il sangue inesauribile che sgorga
dai milïoni delle braccia, il sangue
che sgorga dalla pallida sua vita,
di milïoni d'altre vite.

Non è fragore ondoso di risacca
alla scogliera, non è vento urlante
nei boschi morti, non tempesta in mare
che l'isola urti, e sciacqui nell'abisso.
È lui che sparge sopra sé l'immenso

intorno ai ceppi al rapitor del fuoco,
son quelle dove tuffa le sue braccia
inutile l'uomo. E il suo pensier soggiace
all'universo, ch'egli può, l'invitto.
Ma il triste cuore e il fegato, rombando
nella penombra con le sue grandi ali,
a lacerarli senza fine scende
l'imperïale aquila giù.

IL RE DEI CARBONARI
I
Nella foresta murmuri notturni:
breve nel buio balenìo di luci.
Forse non son che lucciole e che gufi:
gufi con gli occhi tondi ne' lor buchi.
O non son essi. Vanno attorno i lupi
con passi sordi sulle felci e i muschi.
O forse vanno per la solitudine
anacoreti con lor pii sussurri.
Bussano andando i cavi tronchi duri,
che ognun si scosti e qua o là s'occulti.
No: sono boscaioli con le scuri,
così lontani che gli ansiti lunghi
e i grandi colpi sembrano minuti
picchi di picchi e singultìo di chiù.
II
Il fuoco dorme in mezzo alla foresta
nella sua piazza. Dai cagnoli il fuoco
occhieggia e guizza. Ma di foglie mista
la terra chiude la fumante bocca.
Il fuoco è dentro: inconsumabile arde.
Nelle baracche, cui di frondi è il tetto,
i carbonari dalle lunghe barbe
su tronchi assisi, vegliano, tenendo
la scure in mano. Una lucerna brilla
sul maggior tronco con le sue tre fiamme.
Il gran maestro alza le mani al Santo

e intuona il canto nel silenzio sacro:
III
– Oh! questa è gioia, questo al mondo è bene,
in un sol luogo dimorar fratelli.

È come unguento sparso sui capelli,
che piove giù dal capo sulla barba.

È come unguento scorso sulla barba,
che scorre, e bagna l'orlo della veste.

Come sereno piovere celeste,
come rugiada che vien giù dal cielo;

rugiada che discende dal Carmelo,
discende ai colli, e poi da' colli al piano.

Ché Dio segnò quei luoghi di sua mano,
e vita avranno fin che secol duri.

E voi le mani alzate con le scuri
stando nell'atrio, in cuor pensosi e pronti.

La notte cade. Luce è già sui monti.
Le scuri alzate contro il dì che viene. –
IV
Il gran maestro con la scure il tronco
batte tre volte. Grave parla, e dice:
«Udite, o nati da fratelli. All'uscio
d'una baracca uno picchiò notturno.
Era smarrito tra la notte e il nembo,
nella foresta. Vide il fuoco in una
radura, acceso. Vide le tre luci
nella capanna. Entrò. Giovane e bello
era, coi segni del dolore in fronte.
Era un'errante zingara sua madre.
Per lunghe strade lo traea fanciullo
meditabondo. Sempre gli occhi al cielo
teneva, fissi, per vedere un astro,

che non sorgeva. E nel suo cuore il sangue
del Conte Verde era e del Conte Rosso.
Re, per destino, egli sarà dei monti;
ma noi l'ungemmo re della foresta.
Contro lui geme ed ulula il lupatto
dell'Apennino, e l'aquila a due rostri
lo spia dall'alto senza muover l'ale,
tacita, intenta. Ma il re nostro un giorno
trarrà la spada, leverà lo scudo,
ché Dio lo vuole, con la bianca croce,
mettendo in fuga tutti i lupi e i gufi,
allor che la grande aquila ferita.
trasvolerà, rauca strillando, l'Alpi.»
V
– O Carbonari, uscite dalle porte
dell'acque, con le accette sulle spalle.

Uscite al monte, andate nella valle,
tagliate rami verdi d'oleastro.

Recate ognuno frondi d'oleastro,
rami di mirto, calami di canna.

Fatevi, come è scritto, una capanna,
un vostro asilo tacito e selvaggio.

Una capanna, usciti di servaggio,
fate di rami d'acero e di pino;

ove beviate in pace il dolce vino
e vi cibiate della pingue carne.

Ma la sua parte niuno oblii mandarne,
a chi non n'ha, ché questo è il giorno santo.

E lieti siate, ed obliate il pianto.
Gioia è di Dio che il cuore ci fa forte. –
VI
Così celati aspetteranno il giorno

batté la vela e sibilò nei fiocchi;
e sorse allora un mozzo biondo, il figlio
del padron vecchio, col grondante remo;
e stette a prua guardando muto il fiume,
l'Albula chiara, del color d'argilla;
a cui d'estate non mescean le pioggie,
non i ghiacciai, ma grandi opachi laghi,
sotterra, ignoti. E contro lui correva,
fremendo al sommo, il Tevere immortale.
Ma il vento salso avea seguito a volo
dal mar tirreno il marinar fanciullo,
e fischiò tra gli stragli e arruffò fresco
la lunga sua capellatura fulva.
II
La prua solcava l'ombre ora di glauchi
canneti in fiore, ora di rade quercie.
Dove accosciata era la scrofa bianca
coi trenta bianchi suoi porcelli intorno?
Dove la reggia alta tra i boschi sacri,
nell'atrio i sacri vecchi re di cedro?
Là, da pantani pieni d'erbe e giunchi,
sporgean la testa i bufali selvaggi.
Dov'era il bosco della Dea Larenzia
co' grandi suoi dodici figli arvali,
danzanti al sole ed invocanti il sole
con bionde spighe sulle lanee bende?
Brulla, ondulata, solitaria, mesta
vedeva il mozzo tutta la campagna,
sparsa di cippi, ruderi, muri, archi
intorno a cui pascevano le greggi,
piccole. Qualche buttero a cavallo
tra i suoi cavalli riguardava il fiume,
la bianca vela e il mozzo biondo al sole,
ch'era in lui fiso e s'appoggiava al remo.
III
A Ripa Grande a terra balzò. Roma!
Roma era sempre. E la cercò sognando

col passo ondante come su la tolda,
con gli occhi aperti come dalla coffa;
e bevve l'acqua delle sue fontane,
e mangiò il pane sulle sue rovine.
Ristette al piede, e sogguardò la cima
brillante al sole d'obelischi rossi.
Vide scogliere di muraglie e d'archi
sparire nella oscurità d'un nembo.
Errava assòrto, e la sonante pioggia
riparò sotto un arco quadrifronte.
Meriggiò stanco al parlottìo d'un fonte
nella spelonca della ninfa Egeria.
Sorseggiò, arso, l'acqua dolce a bocca
a bocca da un leone di basalto.
Salì sul clivo, e vide i due cavalli
condotti al morso dagli dei giganti.
Placido, con la mano alta protesa,
cavalcò verso lui l'imperatore.
IV
E si trovò tra ruderi di templi,
mozze colonne, e grigi archi di marmo.
Crescea per tutto il caprifico e il rovo,
e s'udiva una lunga eco di mugli.
E fanciulle ciociare erano assise
presso l'ignota fonte di Iuturna;
per la Via Sacra andava lento un frate;
giaceano bovi in una piazza erbosa;
giaceano lì nel tempio della Pace
butteri all'ombra delle rosse arcate.
E si trovò presso un'immensa mole
semisepolta, rotta, ispida, sola.
E un eremita come in un deserto,
v'era, e condusse il biondo mozzo in alto.
Errò pei muti portici; ma quando
il capo sporse e riguardò da un arco,
ruggì un leone, e sorse di sotterra
il sordo urlo di mille altri leoni,

e un plauso enorme; poi tutto improvviso
lo scroscio e il crollo della città morta.
V
Ed ei fuggì con nell'orecchio il rombo
del tempo antico, verso il fiume eterno;
e passò il fiume, e s'avviò soletto
per luoghi ignoti. Egli saliva il colle
del Dio che il grande cielo apre e lo chiude.
Udì strepito d'acque e salmodie
ché già cadea la sera. Ed una porta
gli era davanti, e domandò qual era.
– Di San Pancrazio. – Uscì. Vide una villa,
il marinaio, simile a un vascello,
grande, impietrito. Agli alberi suoi neri
venian da Roma strepitando i corvi.
Ed altre ville ai quattro venti, e neri
pini e cipressi cui sfiorava il sole.
Stette: un'immensa cupola in disparte
vegliava in alto. E Roma era ai suoi piedi.
Il giovinetto udì squillare intorno
tutte le squille e ne tremava il cielo:
ed un rintocco era tra lor più cupo.
Poi fu silenzio. – E apparvero le stelle. –

GARIBALDI COI SANSIMONIANI
I DODICI ESULI

Filava la goletta ad ali aperte. Quasi
striscia di luna ardea la scia fosforescente.
Soffiava ancora il caldo odore delle oàsi.
Era la notte luminosa d'Orïente.
*
Sovra coverta un gruppo era adagiato a tondo,
di dodici stranieri in lunghe vesti bianche.
Avean bordone al lato ed una corda all'anche.
Avanti loro, dritto e grave, era il Secondo.


del tempo avanti noi, non dietro noi: miraggio
che sembra un sogno in cielo ed è un'oàsi in terra;
dove riposerà l'uomo che soffre ed erra,
e pace avrà dal forte, e bere avrà dal saggio.

E poi, sotto le stelle, essi giaceano vinti
dal sonno. Ed il Secondo anche restò sul ponte
e guardava, tra l'acqua e l'aria, all'orizzonte,
là, tra i presagi informi ed i ricordi estinti.

Parea di là guardarlo, allora apparso, Arturo.
E Garibaldi assòrto era nel ricordare
di qual Argo il timone esso reggea, securo,
in una sacra notte, in un ignoto mare...

A TAGANROK

IL CREDENTE

A Taganrok, nella taverna a mare,
sedean nocchieri. Uno parlava a tutti.
I
« O della sera giunti qui sui flutti,
la patria vive in un silenzio all'erta.

Pare la patria un'isola deserta,
con soltanto il gridìo dei cormorani.

Si parlano nel cavo delle mani
scrivendo il nome con le caute dita.

Presso un antico tempio è la lor vita:
ne son gli eredi ed i maestri e l'opre.

Ma il muschio al tempio non si sa se copre
i primi muri o l'ultima rovina.

Stanno in capanne d'erica e savina:
un lume brilla nella notte oscura.


Marre, squadre, il grembiule alla cintura:
vegliano muti fin che il gallo canti.

Noi tra il cielo e l'abisso, o naviganti,
possiam gettare al vento al mare un nome;

ed il vento urla e il mare sbalza, come
per afferrarlo, questo nome: Italia!»

Gridaron tutti: Italia! Italia! Italia!
Parve, in un canto, che un leon ruggisse...
II
Quegli guardò verso il ruggito; e disse:
«L'Italia è vinta, ora non v'è più guerra.

Ma non v'è pace. Cova ancor sotterra
nato dal fuoco il genitor del fuoco.

Annerisce sotterra a poco a poco:
ora si fredda perché poi più bruci.

Brilla la macchia qua e là di luci:
sono baracche in mezzo alle radure.

Vegliano i boscaioli: hanno la scure
tra i piedi, hanno la zappa, hanno la pala.

S'appoggia alla parete alta una scala.
Siedon su tronchi, verdi ancor, di querce.

La venderanno, la lor fosca merce,
allor che il sole tocchi la foresta.

Ma cantò il gallo, l'aquila s'è desta,
il toro muglia, è sorta già l'aurora.

È nato il sole, il sole è alto, è l'ora:
è sempre l'ora. ora, fratelli, e sempre.»

ora – gridaron tutti a un tratto – e sempre!
Sobbalzò il fulvo, le pupille fisse...

III
Quegli guardò la fulva giuba, e disse:
«È sorto un uomo, un messo da Dio venne.

O tu dal bosco, prendi la bipenne!
Lascia annerire il tuo carbon sotterra.

Lascia la zappa, e il grande albero atterra,
lascia la pala, e taglia doga e trave.

Esci dalla foresta e fa la nave
per questa Italia e per la sua fortuna:

giovine Italia, grande, libera, una.
Tu lascia squadre e marre: ecco la spada.

Il caval nero pasce erba e rugiada
nel cimitero, il lenzuol morto indosso.

Móntavi ancora su, monaco rosso!
Galoppa ancora, cavalier templare!

In questa Terra Santa fa volare
sul saio rosso il gran bianco mantello!

Popolo, avanti! teco è Dio!» – Fratello! –
Il giovin fulvo si lanciò, s'apprese

alla sua mano, l'abbracciò, gli chiese:
– Chi è? – Tu? – Garibaldi. – Egli, Mazzini.

GARIBALDI IN CERCA DI MAZZINI

ORA E SEMPRE

I
Mazzini e i suoi dispersi nello stesso
luogo sedeano attorno alla parete.
Giovanni al seno gli piangea sommesso.


O re, più brilla, quanto più cancelli!

Vendetta! Ogni uomo è diventato erede,
Iacopo, tuo. L'Italia oggi t'adora,
martire primo d'una nuova fede.

Furon le dita rosee d'un'aurora,
con che scrivesti nella cella nera!
La nuova Italia cominciò d'allora.

E cominciò d'allora la nuova Èra
che rivedrà nell'avvenir profondo,
con terra e cielo nella sua bandiera,

Roma al timone, placida, del mondo. »
III
Gli esuli lontanare vedean quella
gran nave. Egli, il profeta, stupì come
sbocciasse a lui dall'anima una stella.

La stella illuminava le tre Rome;
auree cupole, archi trionfali
e una città che non avea che il nome.

Erano un atrio, i ruderi immortali,
di questa. Antica su l'antica croce
quetava l'aquila il rombar dell'ali...

Egli guardava... Ed esclamò con voce
alta e profonda: « O gioventù latina,
se non è il fonte, non sarà la foce.

Dio t'urla in cuore, o gioventù: Cammina!
Ascendi il monte! Sosta sulla vetta!
Snuda la spada e butta la guaina!

O gioia mattinale! uno in vedetta
sul picco, mentre dormono i trecento
sopra le foglie morte, nella stretta


dei monti, e in mezzo la bandiera al vento
sibila e schiocca, ed egli ode lontane
della città grida e rintocchi, attento...

– All'armi! all'armi! – Tra il tumulto immane
passi la rossa schiera con la romba
della sua corsa, e sopra le campane

squilli secura lieta alta, la tromba. »
IV
Tre colpi all'uscio. Era un fratello. Avanti!
Un uom di mare entrò, larga la fronte,
bronzato, con fulvi capelli ondanti.

Stette sereno come ancor sul ponte
della sua nave, fisso alla Polare.
ora! – sembrò parlasse il mare al monte

con un'ondata. – e sempre – il monte al mare
immobilmente. « Giunsi or ora in porto...
da Taganrok... Voi siete a comandare

qui sul ponte, io... vengo a supplire un morto »
. . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . .

MAZZINI

LA TEMPESTA DEL DUBBIO

I
Mazzini, già, come Gesù trentenne,
era già solo. Un'ombra si diffuse
su la solinga anima, e il dubbio venne.

Tutto crollato: le speranze, morte,
e morti i cuori. S'erano richiuse
per sempre – con un lento addio – le porte.

II
Con ferro suo la palma volta in mano
cadea l'Italia! Ora non più risveglio.
Tutto era stato, ed ora e sempre, in vano!

Solo – e dal volgo si credea ch'esangue,
cupo, mandasse i fidi, come il veglio
della montagna, ebbri d'haschisch, al sangue.
III
Spenta la fede anche ne' suoi più cari;
chi lontanò crollando il capo stanco,
chi lo seguiva con sorrisi amari.

Fuggiano, al verno, come morte foglie:
scendea dal ciel, non loro, il lenzuol bianco
ch'eternamente a gli occhi altrui ci toglie.
IV
Sol gli restava la sua madre, in pianto,
pianto lontano sul deserto mare,
cui esso, o madre! era dolor soltanto.

O madre! o madre! o alte mute grida
vedendo in sogno il figlio suo passare
scalzo, col velo nero – un parricida! –
V
O le altre madri ai piedi della croce
pregare udiva ed accusare a Dio
lui, col materno pianto nella voce.

E le vedeva in fila uscir dal chiostro
per dire a lei: – Che piangi? Il pianto è mio:
non voglio. Il pianto è nostro! Il pianto è nostro!
VI
È di noi madri, che i figliuoli appena
presti alla vita li sappiamo in grotte,
sotterra, come bestie, alla catena.


un cuore amico, per placar con esso
quei morti in ira, quelle madri in pena...

per non vedere l'altro figlio d'Eva,
il reo, l'uguale, l'altro sé, sé stesso,
cui malediva, sopra cui piangeva...
XII
E sì, qualcuno era pur giunto... Forse
quei che move all'intorno un nembo d'aria
salsa di mare, il giovane dell'Orse,

quel timoniere d'anime tranquillo
avvezzo ai gridi della procellaria,
Borel! ch'ha nella voce alta lo squillo.
XIII
Né lui, né altri. Era Borel lontano
tutto l'Oceano e le sue cento aurore.
A Cabo Frio portava ferro e grano.

La sua sumaca era agghindata a festa.
Ma il cabottiere si mangiava il cuore,
ed anelava al largo e alla tempesta.
XIV
Egli era stanco d'udir sempre il rombo
della risacca contro la scogliera,

e dove giungea l'ombra di Colombo,
di bordeggiar con una garapera.

Borel, un giorno, in mare mutò rombo;
virò di bordo, issò nuova bandiera.
XV
Dodici cacciatori di jaguari,
re delle Pampe, mulattier dell'Ande,

eran con lui, sbuffanti dalle nari
il tedio di quel navigare a rande.


Ei disse: « Siate, d'ora in poi, corsari.
La nostra Italia, ora sarà Rio Grande.
XVI
Noi più non siamo mercatanti ignavi
che in ogni rada gettino i grippini;

noi combattiamo per pezzenti e schiavi,
siamo l'Italia, o miei lupi marini.

Avanti! un guscio contro cento navi!
contro un impero, il nome tuo, Mazzini! »
XVII
Mazzini un giorno si destò tranquillo,
sereno. Ognuno, non il suo destino,
ma porta dentro il cuore il suo vessillo.

Avanti! L'uomo, alta la fronte o bassa,
non è, lieto o piangente, un pellegrino:
ma è un celeste messagger che passa.
XVIII
Avanti! Tutti hanno il lor fine al mondo.
Tutti hanno un posto loro nel gran mare
dell'essere, e sia pur l'alga del fondo!

Avanti! Dice Dio: Quando son io
che mando, andate, senza mai sostare
senza mai riposare. – E dove, o Dio? –

Tu che devi morire, uomo, a morire!
Tu che devi soffrire, uomo, a soffrire!

GARIBALDI IN AMERICA
I
VIAGGIO A ESCOTÈRO
Torna al Rio Grande col suo pro' compagno,
torna il Filibustiere, ora a cavallo.
Prese il cavallo nella mandra al laccio,

frenò, sellò: lo domerà stradando.
Galoppa dietro il cavalier selvaggio
tutto con un cupo tumulto il branco:
falbe giumente col pulledro accanto,
stalloni in corsa inalberati al salto.
Ed egli, quando il suo cavallo è stanco,
getta le frombe sibilanti a un altro;
lo frena e sella e monta su fischiando.
Il vento in mare gl'insegnò il suo canto.

I mustang, le giumente e le pulledre,
liberi seguono il Filibustiere.
Sul feltro suo beccheggiano due penne,
lunga la chioma al vento si distende.
Ma queta il passo ove la steppa è verde,
perché i cavalli pascano le alte erbe,
perché bevano chiaro le giumente
a qualche stagno ombrato di ninfee.
Sembra un pastore. E indugia perché vede
i puledrini ancora alle mammelle.

L'armento nell'oscurità s'aduna,
fa un grande cerchio in mezzo alla pianura.
Le teste l'una all'altra hanno congiunte:
sognano insieme orecchio a orecchio, il puma,
l'uomo, il jaguar: l'un dopo l'altro, sotto
l'ombra stellata, rigna e scalcia al sogno.
E l'uomo giace sulla terra nuda
e guarda in cielo e naviga lassù.

Passa tra grigie nebulose ed erra
tra gruppi ignoti. Avvista Altair e Vega
che riconosce. E sempre più s'inciela.
Da stelle a stelle, è sopra la sua terra.
Dal cielo azzurro grida Italia! Italia!
E sbalza in piedi ad un nitrito. È l'alba.

Per boschi e campi passa il cavaliere
tra uno svolar di code e di criniere,

Vede un mare verde là che sogna
d'esser terra né fiottare più.
L'aria porta beli di vigogna
alti e bassi fischi di gnandù...

Oh! le pampe dell'immenso Plata
verdi sotto il cielo senza nubi,
una solitudine ondulata
sparsa d'isolette di carrubi,

sola terra degna che vi scenda
il marino che patì fortuna;
egli d'una vela fa la tenda,
e vi sogna sotto l'alta luna.

Ecco un tuono, un calpestìo di zampe
che s'appressa sempre sempre più...
Va sul mare verde delle pampe
lo stallone e la sua gioventù.

Come è bello il libero stallone
con la coda e la criniera ai venti!
Mai ne' fianchi non ebbe lo sprone
né il ribrezzo del ferro tra i denti.

Pura è l'unghia di fimo di stalle,
brilla al sole la lucida groppa.
E' raccoglie le sparse cavalle,
annitrisce al pampero, e galoppa.

Va, galoppa! Va libero e fiero
della tua solitudine tu!
più veloce sei tu del pampero,
più del tempo... del tempo che fu...

INNO A ROMA
[1911]
hymni
anno ab Italia in libertatem vindicata
quinquagesimo
carmen composuit latina lingua
tum veteri tum recenti
Johannes Pascoli
Gl'Itali non mutato dal tempo di Romolo il nome,
Roma, ti serbano: Roma era ne' secoli, ed è.
IL NOME MISTERIOSO
O – ma qual nome ora, de' tuoi tre nomi,
dirà l'Italia? Il nome arcano è tempo
che si riveli, poi ch'è il tempo sacro.
Risuoni il nome che nessun profano
sapea qual fosse, e solo nei misteri
segretamente s'inalzò tra gl'inni:
mentre sull'ombra attonita una strana
alba appariva, un miro sole, e i cavi
cembali intorno si scotean bombendo –
Amor! oh! l'invincibile in battaglia!
oh! tu che alberghi nei tuguri agresti!
oh! tu che corri l'infinito mare!
Vennero in prima schiere a te, per l'onde,
d'esuli armati, ed una stella d'oro
reggea le navi incerte del cammino;
a te noi genti italiche la stella
d'allora, tra le fiamme e tra le morti,
col raggio addusse che giammai non muta.
IL PRIMO EROE
Chi per te primo, immensamente amata,
cercò la morte? Fu nella penombra
dei tempi, grande, lungo il Tebro, un pianto.
L'eroe Pallante era caduto. Offerse
l'àlbatro il bianco de' suoi fiori, il rosso
delle sue bacche e le immortali fronde.


Gli fu tessuto il letto di quei rami
de' tre colori, e furono compagni
mille al fanciullo nel ritorno a casa.
E fisi in quella bara tricolore
i mille eroi con le possenti mani
premean le spade; ed era in esse il fato.
Oh! ma che pianto fu così tornando
al vecchio padre! Era suo padre un vecchio
povero re, dalla silvestra reggia.
Fauno, il suo nome; ed abitava i sassi
del Palatino, tra le antiche selve
misteriose. E tu non eri, o Roma.
Anzi per il rupestre Campidoglio
eran macerie già muscose, e bianchi
ruderi sparsi si vedean tra i folti
cespugli del Gianicolo: rovine
di due città vinte dal tempo; ed ora
quelle rovine trite e sonnolente
empiva a volte del suo rauco augurio
lo stuol de' corvi. E Fauno avea per reggia
una capanna piccola, coperta
di felci e stoppia. E guardie sulla soglia
avea due cani, che correndo innanzi
bandìan, lieti abbaiando, il suo ritorno.
Al re non tromba dividea la notte
buia in vigilie: gli diceva – È l'alba –
di sul colmigno il passero, e la rondine,
anche più presso, gliel garrìa dal trave.
E quindi il tempo portò via quel Fauno
e il suo dolore, e la caduca reggia;
e sul Palazio ignare le giovenche
pascevano, e la valle posta al piede
si mescolava d'un belar d'agnelli.
E se il pastore aveva udito un qualche
urlo di lupi, egli, racchiuso il gregge
in uno speco, s'addormìa tranquillo.
Veniva allora, per le tenebre, una
lupa, e fiutava il chiuso lupercale.

L'ARATORE
Uno arava.
Egli segnava, sull'aurora, un solco
quadrato intorno al colle Palatino.
Sentian le zolle il primo aratro allora.
E sotto il giogo era una vacca bianca
e un rosso toro, che di quando in quando
il rauco fiato si gemean sul collo,
molto anelando. E la città futura
stava e mirava, coi vincastri in mano
e con indosso pelli irte di capre.
Ma gli altri fieri, a chi piacea l'andare
col gregge errante, e l'erba che più bella
rinasce sempre sotto il dente al gregge,
ridean dei semi che dovean sotterra
marcire al buio. E gli uni e gli altri torvi
aveano gli occhi, e l'ansito ondeggiante.
Stava il fratello, qua, del Capo, anch'esso,
con lui, lattonzo della lupa; ed ora
schifiva, lui villano, egli pastore.
Taciti i buoi tiravano nel cupo
tacer di tutti; ché fuggiano il grande
bifolco orrendo ch'era loro a tergo.
E qui, con l'ale largamente aperte
al sole, apparve un'aquila, che ferma
mirava a lungo qual lavoro in terra.
Poi, fisa sempre, s'affondò nel cielo.
LE VOCI DEL FIUME E DEL MARE
Il pazïente aratro col suo coltro,
allora, più splendente della spada,
prendeva a forza, con ferite a fondo,
la terra; e il Tebro che lambiva il colle
con l'acque torbe, vie più alto un suono
mettea chiamando l'anima dei forti:
«Oh! voi, che aprite con un rostro adunco
la terra, omai la prora che toglieste
alla mia nave, a lei rendete, o figli;

ed ora in me, con quella ch'è il mio coltro,
segnate un lungo solco sino al mare,
sino al gran mare, azzurro e piano; e oltre!
Bene avverrà!» Così diceva il Tebro
con l'incessante murmure; ma il vento
di primavera dal lontano lido,
sempre più forte, le narici aperte
a lor bagnando de' suoi salsi spruzzi,
– Oh! voi che fate una città pastori, –
diceva – eccovi l'atrio, ecco le porte
color di cielo, e il limitar che tuona
sparso di schiuma dalle larghe ondate.
O cittadini, ecco la via già fatta,
labile, piana, e ne son pietre i flutti.
Dall'urbe uscite: avanti voi c'è l'orbe! –
Allor li prese un vago amor dell'onde
che sempre vanno a modo de' pastori;
di sempre andare e pascolare il mondo.
LA RISSA
Pales, o grande e buona Iddia, di latte,
munto d'allora, ti facean l'offerta.
Nella città non nata la giovenca
cimava steli e fiori; a lunghi sorsi
beveva il toro; ed il tuo colle a un tratto
suona di grida. Rissano i pastori
proprio nel solco, un passo dall'aratro,
che riposava. Gli uni avean lo spiedo
da caccia, gli altri aveano l'ascia in mano.
Questi già pietre, qua e là, da terra
traean tagliando e scalpellando; e quelli
piangean la terra duramente offesa.
«Non era assai picchiarla con la zappa,
fenderla poi col vomere! Ecco, rossa
vogliono ancora frangere alla madre!»
Vennero all'armi, e l'ascia del lavoro
sentì la morte, e tu nell'aria rosa
tremavi, o stella d'oro della sera,
vedendo in cielo nuvole suffuse

del sangue ch'era sparso in terra.
L'ASCIA
Roma
purificata balzò su dal solco
rosso di sangue, ché alla Terra Madre
consacrò l'ascia onde l'avea ferita,
onde l'avrebbe per le genti tutte
ferita ancora. O ascia, in ogni plaga
ti dedicò, per questa grande Italia,
ti seminò, ti sotterrò nel mondo.
Tu sotto i templi e sotto l'are e sotto
gli anfiteatri semiruinati
ti trovi e sotto l'ardue terme, infrante
presso le nubi. Te nel cor le sponde
sentirono del Reno e del Danubio,
t'ebbero le foreste invïolate
e le sabbie arse che il leon sue rugge.
Tu sei presso le moli, ove sepolti
sono i giganti; sotto gli occhi fissi
eternamente della muta Sfinge;
tu sotto accampamenti che nessuno
più moverà. Tu scalpellasti i massi
per le infinite pompe del trionfo.
E per te l'Arco trionfal si prese
l'arco del cielo, e sulle vie la Gloria
aprì tra due colonne le sue porte
senza battenti.
LE STRADE
Era vicino al tempio
del dio Saturno, dio seminatore
e falciatore, un grande cippo, d'oro.
Di lì per l'orbe tutto lanciò Roma
le strade sue di duro sasso e duro
suono. Di lì, dal cippo d'oro, sette
vie quattro volte si lanciarono oltre,
ai quattro venti, e prima tra sepolcri
moveano, a piè di tumuli e cipressi,

E dominava sotto giusto impero,
tutti, il sottile tralcio d'una vite.
I MESSAGGERI
Alle battaglie, in mezzo ad una nube,
eran presenti i due gemelli Dei.
E niuno mai li vide; ma soltanto
tra squilli gravi delle trombe, acuti
de' litui, e grida ed ansimar feroce,
s'udiano al vento alti selvaggi ringhi.
L'uno era chiaro come l'aureo sole;
l'altro parea la notte opaca, ed era
avviluppato in ombra di dolore.
Ivano a paro avanti le coorti
di bronzo, i forti giovinetti in fiore,
erti su gl'immortali lor cavalli.
Ma in mezzo al mare, quando sulle lievi
liburne erano le aquile, ondeggianti
per la fortuna, e l'armi contro l'armi
cozzanti, allora divenian due stelle,
che rifulgeano fisse tra il brandire
degli alberi e l'oscillar delle antenne.
Erano questi i tuoi corrieri, al cenno
pronti, o Vittoria. All'apparir del vespro,
volgean del pari il corso de' cavalli,
e per le strade andava il colpo e il tonfo
dei risonanti zoccoli; e i cavalli,
ecco, anelanti, essi adduceano all'acqua:
o dea Iuturna, all'acqua tua perenne:
né già cadean le stelle, né le nubi
dalla prima alba erano ancora orlate.
Vegliava un solo focolare in Roma,
v'era una sola casa, che mandasse
baglior di luce dalle sue transenne.
Vesta attendeva i reduci seduta
al fuoco inestinguibile.

AI DUE GEMELLI
Fratelli!
O in pace alfine (come voi chiamasse
il tempo antico) ora; non già, fratelli,
allora, anche pugnaci sotto il ventre
della nutrice vostra lupa fosca:
tante pendean le poppe, e tra voi d'una
sorgea contesa, per averla entrambi:
voi che la lupa con la scabra lingua
non ammansava, ed ammansò la morte:
che stretti poi con infrangibil patto,
come la notte è giunta al dì, celesti
cavalcatori, componete il tempo,
non interrotto, con la luce e l'ombra;
su! le criniere v'attorcete in mano,
saltate su, lanciateli: da tanto
hanno i cavalli l'émpito nel cuore!
Al lor ritorno avvinti per le briglie
alle colonne vostre, dagli augusti
ruderi il loglio antico pasceranno.
Ma ora andate a rivedere i campi
delle legioni, a riveder le terre
onde v'avvenne riportare il nunzio
della vittoria. Si combatte ancora
con ferro e fuoco. Sono le coorti
d'allora; al cielo va la polvere, alto
suona il fragore. Colmano bassure,
piantano i valli, sfanno i colli, occulte
forano vie per entro le montagne.
Sono picconi l'armi nostre. Andate
propiziando! il Popolo pilumno
pensi i trionfi che menò, le leggi
che fece, il dritto che impartì, la pace
che diede, e allievi il suo lungo lavoro
d'oggi con la sua gloria veterana.

LA VERGINE MASSIMA
Ora, ascoltando le sorsate al fonte
sacro, e il bussar dell'unghie alterne in terra,
nel tempio augusto pallida taceva,
fisa con gli occhi, la sacerdotessa;
poi, nell'alto silenzio risonando
una voce mirabile: Vittoria!
ella premea nel cuore quella voce
e quel portento e s'avviava all'arce
del Campidoglio. E il popolo mirava
tacitamente ascendere il pontefice
e la vergine massima.
IL PASSO DI ROMA
Divina,
così, con passo, sempre ugual, di gloria
andava Roma verso il grande imperio.
E monti e valli e fiumi e selve al passo
fremean sonanti sotto il piè di Roma,
della Immortale sempre più lontana.
E mille passi delle sue legioni
fulgureggianti di metallo al sole,
ella chiudeva in uno dei suoi passi.
Ed una pietra ne segnava l'orma
tutte le volte, e i popoli, a quell'orme
così distanti, abbrividian nel cuore.
I DUE IMPERATORI
Oh! ben temeano i popoli le scuri.
Ché per il mondo si vedea passare
un uomo grande più che l'uomo, un grande
che dava a tutto, il freno o l'urto, ei solo,
della sua mano. Egli partìa la terra
con la sua spada e il cielo col suo lituo,
augure circondato dalle rote
degli avvoltoi. Lanciava egli all'assalto
con un suo cenno l'aquile, e le lievi
turme al galoppo, e l'ululo di morte
ravvolto nella polvere veloce.

prendesti a bordo della ma gran nave.
Tu sei, d'antico, un santo limitare
d'asilo ai popoli esuli, tu sacra
fossa cavata, in cui le genti i semi
posero, e zolle della patria, e cose
sacre, e le lor memorie ed i lor Mani.
Fosti l'altare per gl'iddii fuggiaschi;
pur solo ad uno implacida, ad un solo,
povero, un dio sì umilmente dio!
Altri alla luce aperta gli stranieri
numi adorando, i lor pingui altari
facean vermigli di taurino sangue;
altri in cortei, per la città, solenni,
batteano i cupi timpani e le strade
tutte accendean di queruli ululati.
Ma quelli per le volte e per le ambagi
d'un nero sotterraneo laberinto
seguivano una fiaccola, e con voce
segreta, là, benedicean cantando,
ignoti a tutti, il loro ignoto Dio.
Per tempio avean, per i lucenti altari
di Roma, alcun muffito sepolcreto,
e la lor vita era coi lor sepolti.
Avanti l'arche, fiale rugginose
di sangue, e lumi dall'esigua fiamma.
Dicea quel lume che la vita scorsa
era col sangue, sì, ma invano. Il morto
dormiva. E il sonno era leggero e breve.
Una colomba col suo roseo becco
svellea da un canto un ramicel d'ulivo,
e si levava, con la frasca, a volo.
Ed un pastore s'era messo in collo
l'agnello stanco, e andava con la verga
sua pastorale e col secchiello in mano.
C'era la croce, e dubbio era, se croce
fosse od àncora. Sbalzata dal vento,
percossa dalla folgore, la nave
era al sicuro, alfine in pace: aveva


gettata l'àncora nel cielo.

LE FAVISSE
Intanto, quali in una torba sera
fuggon le nubi d'ogni parte e vanno,
gemendo, spinte qua e là dai venti,
tali gli dei cacciati dai lor templi
empìan notturni il cielo di querele.
E di quei templi l'umide cisterne,
sin le favisse sotto il Campidoglio,
fervean d'un cupo murmure. Ché i molti
idoli sacri, l'uno dopo l'altro,
vi discendeano. E Venere, la vita,
vedea la prima volta ora i vetusti
lupi e cignali, e là pur mo' gettata
schifìa Minerva i rozzi cippi e il vano
dio, ch'era un legno putrido, ed ansante
non ravvisava, nel Mamurio irsuto,
Marte sé stesso. E scese alfin dal sommo
dell'arce, dietro gli altri dei consenti,
Giove pieno di nubi il sopracciglio.
O già potenti in cielo, sulla terra,
nel mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo
altri dal soglio, ed altri noi discaccia.
Ma non è vano l'aspettar vicenda.
Quel dio rifatto, a cui cedemmo contro
cuore, fuggiasco, povero, deforme,
il cui soglio è la croce, ed il cui serto
sono le spine dei roveti... » Ed altro
egli diceva, ma seguì con voce
piena d'orrore la Carmenta antica
vaticinante, a nessun dio più nota,
ch'ella da molti secoli nell'ombra
era discesa, tutta rughe e muffa:
«... non cadrà più, poi ch'è il dolore umano!
Gli uomini eretto i templi hanno al dolore!
È il dio sol esso, il solo dio fra tutti,
che non può mai morire!»

L'ESECRAZIONE
Cadean gli dei; restava il Campidoglio,
invïolato; e immobile la rupe
pendea sull'urbe. E il Barbaro selvaggio
invase l'urbe, e la guastò col ferro
e con la fiamma, e l'unghia de' cavalli,
grave, pestò le sue ceneri: invano.
Fin ch'un di loro decretò che lento
mortal languore la struggesse. Vinta,
egli poteva anche spianarla al suolo.
«Ma no» diss'egli: «la sommuova il verno,
la inondino le pioggie, e disdegnando
da sé la scuota e gitti via la terra:
la frangano le folgori tonanti:
sia sacra a Dio, precipitino i cieli
sulla lor cosa.» Tanto ei volle, e tutti
al suo comando, partono, e le madri
sono strappate all'are, ed i fanciulli
vanno e le indarno verginette in fiore.
Poi, per le vie del duro suono, i plaustri
Goti e i cavalli e le Àmale coorti,
piene di preda, andarono sull'orme
degli antichi manipoli, e lontano
il vincitore in sua lorica d'oro
svanì lasciando gli edifici soli,
già balenanti, già meditabondi
tra sé e sé, del crollo ultimo, e Roma,
Roma, sotto il suo sole almo, deserta.
IL GRANDE SEPOLCRO
E fu silenzio dentro le muraglie
sacre, e il pomerio grande ora cingeva
grande un sepolcro. E il sole che la vide
tacita, a poco a poco calò, lento
sfiorando con un alito di luce
le cupole e i lunghissimi obelischi;
e poi nel trarre fuori il dì, tentando
invano di svegliarla dal gran sonno,

ascoli si è formato fuori del Risorgimento, è  cresciuto  cioè   in  un
porpora. Per nessuno, dal sepolcro,
dal suo sepolcro, ch'era anch'esso infranto,
spargea, versava senza fine al cielo,
nel tempo dolce ch'è il suo tempo, i fiori
che sono suoi, quella che in cielo è Flora.
A FLORA
Flora! madre dei fiori, o tu cui sempre
è primavera, o tu che per le genti
immense hai sparso il nuvolo dei semi,
la Terra aiuta! Questa pia saturnia
terra produca in maggior copia i frutti
che già versava dal fecondo grembo.
Nutra di sé quelli che già nutriva,
armenti e greggi, e tornino gli uccelli,
ormai spariti, a liberare i campi,
e per i campi floridi echeggiare
facciano la dolcezza del lor canto.
Alle mammelle opime della Terra
sugga una prole più gagliarda il latte
e insiem col latte la virtù romana;
ed ogni mare solchi ed ogni terra
calchi, anche il cielo navighi, sembrando
candidi stormi di canori cigni.
La tua città non lasciar più che cinta
sia di deserti e verdi acque muggenti
del torvo bue selvaggio che vi guazza.
Riguarda quei villaggi di capanne,
quelle capanne squallide di stoppia,
o Flora! Dunque non distrusse il fuoco
de' primi dì tutti i tuguri? Dunque
non toccò tutti gli uomini il Diritto
con la sua verga? Guarda: sono schiavi,
sotto le bestie! Rendi a quei meschini,
o Flora, il suo; liberatrice abbraccia
quelli spogliati; e per sé solo, o Flora,
raccolga chi le seminò, le messi,
come allorquando si lasciava a mezzo

solco l'aratro e s'assumeano i fasci.
Rinnova l'arte antica, cingi al capo
l'antico serto e fa che mai non cada
l'inno di gloria che beò l'Italia.
Sian, per i colli, glauchi olivi e verdi
viti, e di spighe rigogliose ondeggi
la valle immensa. E fiacchino la forza
del vento e il nembo struggitor le selve
veglianti a guardia sul cigliar dei monti.
Il Rubicone, ecco, già bianchi ammira
enormi tori. Egli che vede andare
per la campagna tante paia e vede
da dieci bovi tratto un solo aratro,
egli che già non obliò nel sonno
le bronzee file della forte Alauda,
pensa all'imperio, a Cesare, ai trionfi.
Noi non l'imperio, non i cortei lunghi
di quei trionfi a te chiediamo. Un'Ara
abbiamo, e noi, di Pace, eretta, o Flora.
I fiori dà color di sangue ogni anno
(solo nei fiori tu il color di sangue
lodi e nel casto viso di fanciulle:
miele, olio, vino, o Flora, ami; non sangue),
dà le memori foglie dell'acanto
per adornar quest'ara. Alto nel mezzo
noi collocammo in una vampa d'oro
chi la portò; questa concordia augusta.
E quanti ancora col lor sangue, eccelsi
spiriti, questa pace e questa patria
fecero a noi, là stanno. E sono, o Flora,
la messe tua che cade sì, ma sempre
nuova nei lunghi secoli germoglia.

IL PRIMO COLLE E I PRIMI PASTORI
Certo è che vive in questa terra occulto
qualche portento, e sì, nel monte, dove

Roma quadrata germinò dal solco.
Pastori un tempo (luce ed ombra incerte
vi si spargean sotto la falce d'oro)
erano là coi rastri. Era la gloria
vanita già di Roma, era d'Apollo
sparito il tempio. Tutto il sacro colle
tenean le infrante vecchie pietre ingombro.
Cespi d'acanto, nuove polle uscenti
da qualche ceppa d'albero che appena
sapea sé stesso, s'opponeano al piede.
Giacean rottami candidi di marmo
tra i rovi e i pruni, e sorrideano al suolo
i capitelli ai cardi ispidi e duri.
Muri con archi, cui copriva il musco,
pendean crollanti, si scoteano al vento
ad ogni crepa le parïetarie
come ciarpame pendulo a finestre
d'un abituro. Qua le acquate al tutto
finìan gli dei dipinti nella calce,
qua le ventate stridule uno straccio
sempre rapìan da tende non più fisse.
Scabbia di pietre, lue di sassi verdi
per tutto, ed archi che teneano ancora
sol per l'abbraccio d'edere contorte.
Credean gl'ignari di veder spelonche
di giganti che dopo un'ardua rissa
con massi enormi, ora, cocendo l'ira,
lontani e soli errassero sui monti.

IL SEPOLCRO DEL PRIMO EROE
Ed i pastori, come un tempo, in cerca
di preda, una spelonca aprono, un sasso
movendo, immenso, e vedono nel fondo
della spelonca balenare un lume.
E quindi – era un sepolcro – gigantesche
membra d'un uomo vedono, che il petto
aveva aperto da una lunga piaga.
Stupor li prese di quel corpo cinto

da tutti i venti, tu col piè calcando
le tue ceneri, tu le me macerie,
sempre più alta, celebri il più grande
dei tuoi trionfi; ché la morte hai vinta.
Tu in faccia a tutti i popoli che a parte
chiamasti del tuo dritto, ora apparisci
nel primo fior di giovinezza ancora,
meravigliosa, simile a Pallante,
difesa intorno dal fulgor dell'armi,
e con la spada; e pende sopra il mondo
quella al cui lume accesero le genti
tutte il lor lume, quella che noi rompe
l'ombra: o Roma possente, la possente
tua più che il tempo lampada di vita.

INNO A TORINO
I
Toro divino ch'oltra due fiumane
giaci e, fiso nel gran murmure, guardi
l'Eridano, che passa e che rimane:

macro pascesti sotto i baluardi
donde i Titani si sporgean, le spine
dei rovi, un tempo, ed il salistio e i cardi!

Ti distendevi immenso sul confine
delle montagne, nella notte, attento
tra il fioccar bianco e le tormente alpine;

facesti il nerbo di cento anni in cento,
solo e rubesto, caute le pupille,
sbalzando al piano, corneggiando al vento,

Amavi l'ombra; amavi le tranquille
acque e verzure; eppure avesti in sorte
la guerra eterna, dai mille anni ai mille.

Passavi i fiumi baldo allora e forte,
cedevi passo passo, e insanguinato

col dosso all'Alpi combattevi a morte.

Da due nemici preso a volte in guato,
di qua di là, volgevi tu d'un salto
a questo e quello il fiero capo armato.

Alfine come statua di basalto
tu ti piantasti quadro sulle sponde
Ticine, or pronto a rintuzzar l'assalto,

or volto verso il piano, oltre quell'onde,
verde, ove il tuo nemico, il tuo rivale,
erbe non sue pasceva e non sue fronde:

il collo in arco, a fronte bassa, male
pensando, e il sì nel fiero cuore e il no...
finché mugliasti, rauco, trionfale,

lungo; e l'Italia tutta ne sonò.
II
Quale eri tu? Non l'italo tu forse
che per la grande terra della sera
trasse un fatale popolo, e la corse
tutta col nome che tuttor non era?

Fuggìano, andando, le paludi oscure
tinte d'un lividore di tramonti;
fuggìan le macchie vergini di scure
e il fuoco acceso notte e dì sui monti.

Sospesi, se temere, se sperare,
tendean l'orecchio ad altri gridi umani;
ma non s'udiva che scrosciare il mare
e rintronare lava di vulcani.

Emergeano cavalli-d'-acqua a torme,
spruzzando pioggia dalle froge grosse.
Volgeano i piccoli occhi e il muso enorme,
chiedendo a sé, quella tribù, che fosse.


Fendeva i boschi un calpestìo selvaggio
ed un fragor di grandi alberi infranti.
Pareva un cieco nembo; era il passaggio,
là, di rinoceronti e d'elefanti.

E quando a notte era sparita, avvolta
d'aride foglie la raminga gente,
a prender sonno, tutta notte in volta
andava l'ombra del leon ruggente.

Ma sempre tu, senza guardarti attorno,
guidavi, o Toro, i tuoi Taurini erranti,
allor che i piè, sempre più lenti, un giorno
fermasti. T'era una palude avanti:

una palude gialla che tra l'ulva
lasciava sette cime già scoperte
di colli. La rapace aquila fulva
gridava all'acqua che stagnava inerte.

Ma nubi nere e sfavillìo di lava
uscian di notte dalle verte nude
dei monti, intorno, e sempre sussultava
la terra e balenava la palude.

Era lontana l'augurale aurora,
che s'aspettava. E tu, col tuo profondo
muglio, colei ch'era nascosta ancora
dall'acqua ed alga, la chiamavi al mondo.

Dopo gran tempo era per balzar fuori
Roma, nei dì che da te spunta il sole,
Toro che spargi sulla terra i fiori
e in ciel t'impenni tra le stelle sole.

Roma era allora cinta dalla dia
vigile Terra. Tardo, a poco a poco,
continuasti, o Toro, la tua via,
volgendo al tuono il capo, spesso, e al fuoco.


Ma tu posasti, dove due fiumane
angolo fanno, certo del destino.
Si sparse intorno per capanne e tane
il tuo tenace popolo Taurino.

Appiè dell'Alpi t'accostasti come
sopra una soglia. Il tuo viaggio vano
pensavi e il lido cui tu desti il nome,
e l'avvenire, grande, alto, lontano.
III
Itale vergini, Alpi dal bel velo
bianco, tendenti all'alto, che la veste
lasciate lungi dagli sguardi impuri,
la veste, sì, di prati e di foreste
cader lasciate, ma soltanto in cielo:

di quali voci allora e qual concento
empian le Madri i neri boschi cupi!
quali lontani portentosi auguri
gemean negli antri, o dritte sulle rupi
gridavan alto tra la neve e il vento!

– Un re verrà (fermo è nel fato e fisso)
dalla sventura. Caccerà camosci
per l'Alpi sue. Sempre nel cuore il fischio
avrà dei venti, sempre avrà gli scrosci
delle valanghe e l'anelante abisso.

Il re vedrà, tra nubi grigie e meste,
un segno bianco e snuderà la spada.
Il re porrà tutto sé stesso al rischio
per liberare tutta la contrada,
alzando al cielo il suo segno celeste.

Il re trarrà dalle grandi Alpi al piano
di nuovo il Toro; dal suo doppio fiume,
lungo la terra della stella, al mare;
a riveder la prima Italia al lume
del pino acceso dal suo gran vulcano.


Questi, quel Donno, il Regolo fatale.
Gl'Itali udrà gridare di dolore.
Gl'Itali lo vedranno cavalcare
con l'asta lunga. O Roma, egli, vittore,
dell'elmo ferreo t'armerà, che ha l'ale. –

Così le madri predicean nel santo
orror dei boschi, ed ora al sacro fonte
sotterra dell'Eridano. E, pur bassa
fosse la voce, trascorrea dal monte
Vesulo sino al mare Adriaco il canto.

Via via le ripe faceano eco; e in doppi
lunghi filari le sorelle fise
a rimirar l'acqua ch'eterna passa,
tutte, in udir, crollavano improvvise
le loro chiome tremule di pioppi.

Abbrividiano come per un blando
soffio di venti. Un dolce suono usciva
dalle lor foglie ov'era un usignolo.
Così lunghesso la lunata riva
parcano andare in compagnia, cantando.

Faceano un solo inno d'amore i puri
virginei canti. E tu, come una nave
bianca dall'acqua fluttuando a volo,
cantavi ancor più forte e più soave
le morti, o cigno, degli eroi futuri.

Gli eroi nel bosco del perenne alloro
erano insieme assisi al sacro fonte
dell'Eridano, e tutti, redimita
già delle vitte candide la fronte,
diceano l'inno della gloria in coro.

Anime pure, anime senza sangue
erano ancora, ancor sul limitare;
che alfin trovato il lume della vita,
alla lor Patria dar la vita, dare

tutto voleano alla lor Patria il sangue.
IV
Taurina gente, sacra sin dagli anni
primi all'Italia, o fuochi accesi in vetta
delle bianche Alpi, o saldi cuori e forti,
o guardie eterne poste a vigilare
l'estrema, immensa, ardua trincèa di Roma!
L'avea, la forza del maggior nemico,
varcata già la cerchia di granito,
le avea forzate l'ultime muraglie
sacre d'Italia e della sacra Roma.
Veniva già col vento e la tempesta,
invisibile in mezzo alla tormenta.
Sul capo suo cadeva franto il cielo
che nascondea nel polverìo le turbe.
Per cime e valli andava, e il suo cammino
dalle macerie era, del cielo, ingombro.
Ma egli andava, come in un gran sogno,
sempre, non mai volgendo gli occhi, avanti.
Intorno a lui sonava il faticoso
nitrito de' cavalli, a cui le sabbie,
auree nel caldo anelito del sole,
rideano al cuore; avvezze a pascolare
sotto le palme, le turrite mandre
barcollanti incedean degli elefanti.
Alle sue spalle, un fragor grande, crolli,
fuga, tumulto, e scrosci di foreste
schiantate e grosso crepitar di fiamme.
Era un serpente enorme che con torve
spire seguiva, e i culti campi larga–
mente prostrava e sradicava i boschi
e con la coda distruggea le intere
città; che tutto con la bocca ardente
dava alle fiamme, insieme, ed alla morte.
Era la vïolenta idra straniera,
la sventura d'Italia, che d'allora
avrebbe osato rompere i confini
sacri, in eterno, e sulla devastata

motti avventava contro il re dei monti,
gran cacciatore, e l'un mostrava all'altro
quel re seduto sulla panca al fuoco,
rugoso in fronte ed accigliato. Ed uno
disse: «E' mi pare il dio Cernunno, il dio
della ricchezza, con le corna in capo.»
Cesare, grave, disse allora: «Io primo
sia qui piuttosto che secondo in Roma!»
Regolo alpino, tu balzasti allora,
a un tratto, su, dalla massiccia panca.
Di nera luce ardevano al Romano
gli occhi mortali; dalle tue pupille,
splendeano ignude due cerulee spade.
Nel focolare arse più chiaro il fuoco,
vampeggiò, crepitò, fece faville.
E per le forre, con un'eco arcana
dell'infinito, a lungo mugliò una
raffica, come se parlasse il Tempo.
Allora avanti Cesare quel Gallo,
irto di peli il labbro, stette, e parve
grande del pari, ed esclamò: «L'augurio
accetto. Viva io qui tranquillo e pago
di questo regno povero, cacciando
i cervi, errando pei selvaggi monti,
fin ch'io non possa essere il primo in Roma!»
Risero tutti, sì, ma la lontana
posterità ventò sulla coorte,
quasi alitando i secoli futuri.
Cesare quindi una città di guerra
fece ai Taurini, e la munì di vallo,
e di due torri ornò le porte, e, cauto
dell'avvenire, i veterani astati
pose in questo romano accampamento,
forti coi forti. E la quadrangolare
città nel suolo si piantò, sicura
per le sue pietre e più per i suoi cuori.
A destra poi, per una grande porta,
badava ad ogni voce, ad ogni suono,

se udisse mai venire le coorti,
se un clangor, lungi, si levasse al vento,
frangesse il vento uno squillar di trombe,
la via strepesse al duro cuoio e ai chiodi
della legione, e Roma ritornasse:
o se, di tra gli stipiti rimasti
l'eterna fuga a contemplar degli anni,
s'avesse alfine a ritornare a Roma.
Fuggiva il tempo, e l'acqua dei due fiumi
fuggiva anch'ella, in grande oblìo di tutto.
Dalle sue porte la città spiava
i quattro venti, rivolgendo a un tratto
l'attento orecchio ognor dall'Alpi a Roma.
Ecco luccicar d'armi ampio e di schiere.
Ferro era tutto, che copria cavalli
e cavalieri, e tutto il piano era aspro
come di fulva ruggine di ferro.
– Romani voi? Partiti sì da Roma,
ma non Romani. Dove i pili e i valli?
Che v'appiattate sotto il fosco ferro? –
Ed altre schiere ecco venir dall'Alpi
traboccando dall'alto arco dell'ampia
porta d'Italia. Per il ciel sereno
in faccia ad essi era una bianca croce.
Stupore ebbe le genti, e il condottiere
– Prendi l'insegna della tua vittoria! –
udì. Vinsero in vero, e le lor brevi
spade la via trovarono del sangue
sotto le squamme, in mezzo al vostro cielo
restò, Taurini, quella bianca croce,
ora lucente nell'azzurro, ed ora
scialba, e da un triste nimbo incoronata;
finché quel segno fu dalla vittoria
ripreso in mano, quando, o Italia, forte
martire, Italia, delle genti, orlavi,
recando in alto la tua verde palma,
la veste bianca di purpureo sangue.
E Roma intanto dalle sette cime

era crollata, e dell'Esperia guasta
da ferro e fuoco, nulla più che l'ombra
era, del nome. E tempo corse, e il nome
anche svanì, come in un rogo immenso
ultima brilla e muore una favilla.
Duca era allora dei Taurini un uomo
di quei barbari, che nemici a Roma
avea la biondeggiante Elba mandati.
Il duca era partito per le liete
nozze del re, per le fiorenti mense.
Appena giunto era nell'aula: un tuono
rimbombò, subito, ed un lampo insieme
illuminò per l'aula le criniere
fulve e le barbe e le dense aste e l'azze
razzanti, e il re. Li scosse e impietrò tutti,
ed il palagio con un lungo rombo
scrollò. – Del re breve la vita e il regno!
Duca Agilulf, diremo noi tra breve
te re. – Queste parole e' le nascose
nel cuore, il duca, e ne ronzava il cuore
profondo. Ma non volsero molti anni:
furono vere. Né, concordi, a grida
sonore i duchi porsero a lui l'asta,
a lui dicendo di regnar su loro;
ma la regina fu che il regno e un colmo
calice, prima a fior di labbro attinto,
offerse a lui di rosso italo puro
vino, e gli disse: «Generose genti
come codesto vino vendemmiato,
Re Agilulf, su colli che il sole ama,
tu reggerai; ma l'arte dell'impero
è presso loro, e tu da lor l'apprendi.»
Fecero quindi un tempio. Era, sull'alba
dei secoli, uno errante nel deserto.
«Fate le vie» gridava, «e le spargete
di palme: l'Aspettato è per venire!»
Fecero a lui di marmo un tempio, e dono
posero, in esso una corona d'oro

fermò, trasse le redini, e nascose
nella guaina la sua grande spada.
Non fosti tu, tu stesso, che, tre volte
volti cent'anni, la levasti al sole?
Grida di morte, grida di dolore,
in ogni tempo, d'ogni parte, al cuore
giungeano ardenti. Quel rapace drago
strisciava per la terra della sera,
tutto abbattendo, e il popolo le ingiuste
verghe provava e le superbe scuri
dei re tiranni. Sì, ma tu le udisti
quelle infinite grida di dolore,
la grande spada tu, d'un dì, snudasti,
la croce bianca tu, d'un dì, levasti.
Oltra Ticino, sommovesti all'armi
tutte le genti e le guidasti a guerra
ch'è santa e pia, se libera e redime.
Poi col tuo nome mille eroi due navi
salgono, e vanno all'isola che porta
chiare di dei, di semidei, le traccie.
Rossa la veste dei remigatori
divini; capo era il divino Ulisse.
E tu combatti ancora e sempre. Alfine
re dell'Italia tutta imponi al capo
il ferro e l'oro della sua corona.
La croce alfine segno di vittoria,
splendé dal cielo sulla terra verde
ch'ha neve al sommo e che nel fondo ha fuoco.
Ed a nessuno e in nulla mai secondo,
piccolo alpino re selvaggio, a Roma
stai grande, e resti eternamente a Roma.
V
Accampamento fatto a piè del monte
già dal grifagno Cesare ai futuri
figli d'Italia, o tempio dei vessilli,
o ara donde il Console gli augùri
prendeva, augusti, col nemico a fronte!


Per guerre, qui di secoli lontani,
erano poste le aquile dell'oro;
qui ripetea la bùccina i suoi squilli
brevi, che un coro ricevea canoro
di trombe e il busso dei timpani vani.

Qui sempre il suolo trito di stridenti
plaustri, qui di concordi ferree péste.
Erano le coorti e le legioni.
Qui si guardava la purpurea veste
da dar, sull'alba della pugna, ai venti.

Qui sempre avvenne di mirar le squadre
dei fluttuanti veliti e il tumulto
delle torme dai quadruplici tuoni;
qui sempre alcun triario, come sculto,
star tra' novelli: – Narra dunque, o padre! –

Perché accampato in questo accampamento
era un ultimo esercito romano.
La sua milizia era infinita e dura.
Esso tra il monte s'attendava e il piano,
fedele ad un antico giuramento.

Scórsero gli anni e i secoli. Ed armato
esso aspettava di ritornar, quando
fosse chiamato, sotto quelle mura.
Aspettò qui per secoli, il comando;
ma Roma ve l'avea dimenticato.

Bianchi frattanto, sotto il muschio e i pruni,
marmi e colonne e lapidi, grandi orme
della gran madre, archi e sepolcri infranti,
vedeano intorno, e dure austere forme,
stele di primipili e di tribuni.

Vedean già rotti ancor salire al monte
archi che l'acque conduceano al basso.
Parean lontane file di giganti,

d'ardui giganti, i quali passo passo
salìan con l'urne, un dopo l'altro, al fonte.

E custodìano, nel domar la rude
terra, l'antica arte e l'antico onore
dei forti aratri e delle industri falci.
Ondeggia il campo di frumento in fiore,
di verdi steli ondeggia la palude!

Verdi, i bei campi, verdi, le canore
acque, ma più sorridono i giocondi
clivi con l'ampio serpeggiar dei tralci,
donde i purpurei calici ed i biondi,
che dànno gioia o dànno forza al cuore.

L'un vino, austero per gli austeri, ed abbia
lode dai forti. L'altro poi s'effonde
aureo nell'ampio calice iridato
col tremolante mormorio dell'onde
cui, vasta, succhia, nel tornar, la sabbia.

Ma l'uno e l'altro, è bello, tra i nepoti
e i dolci amici, nella patria terra,
bere in convito parco, ove l'armato
deposte l'armi narri della guerra
e sciolga, salvo e di sé pago, i voti.
VI
Salve, o città forte di vallo e fosso!
salve, o bivacco italico di scelte
anime! o campo che non fu mai mosso!
o insegne mai dal loro suolo svelte!

Te la dea Roma disegnò quadrata,
qual essa fu, premendo il solco a fondo,
col grande aratro dalla prua ferrata,
con cui fendé fecondatrice il mondo.

Come legione ferrea che si schiera,
con pari file, dritte e quadre, invade

li chiama un cenno, un lieve urto, e veloci
scendono più del solco della folgore...

ove con morsi e redini li frena
l'artiere, o caccia con la sferza al segno;
l'artier che intento a un canto di sirena
doma, con loro, il ferro, il marmo, il legno.

Non solo. I chicchi ai bimbi e' foggia, e, come
pegni d'amor, già prima li accarezza;
ciò che ti fa non nota sol per nome,
ma dolce ancora d'intima dolcezza,

ad ogni madre, o città buona, o pia
madre su tutte, che con dolce affetto
la prole tua, per tanta ch'ella sia,
tutta la stringi e te la scaldi al petto.

A lei prepari i bei giardini in fiore,
le scuole ornate, l'agile palestra:
così ti muti, non mutando amore,
da dolce madre, in dolce e pia maestra.

O Iulia Augusta armipotente! In pace,
non sembri un campo cinto d'armi attorno;
un nido sembri, un gran nido loquace
di mille cuori salutanti il giorno;

schiere bensì, ma parvole, vestite
di bianco e rosa, altre e le stesse ogni anno:
né paga tu di tante proprie vite,
altre ne cerchi che pur me saranno.

O Grande Madre, hai del tuo grande cuore
dato ai fanciulli, dato alle fanciulle,
o sotto volte splendide e sonore,
o sotto travi di capanne brulle.

A tutti, a tutte! Sia dolore o gioia
la vita loro, spremi a lor quel pianto

che fa non che l'un cresca e l'altra muoia:
fa pia la gioia ed il dolor fa santo.

Simili quindi, ormai stretti ad un patto,
ad una mensa siedono imbandita
del pane stesso. O festa del riscatto
sul limitar del tempio e della vita!

O sacrifizio onde ogni dì t'elevi,
Amor, Pietà, Pace albeggiante, a volo!
O fiori umani, tremoli di lievi
petali, o fiori che ne fate un solo!

Viene scorrendo sulle penne, appena
battute, viene, lievemente anelo,
lo stormo e un inno per la via serena
canta, che pare un astro nuovo in cielo...
VII
E voi cantate – ché la madre Italia
non altre voci ode al cuor suo più care –
cantate dunque: Italia! Italia! Italia!

Gracili voci: ma da queste pare
balzar l'eco di quelle dei grandi avi:
marcie, comandi, cariche, fanfare.

Dite, o fanciulli e vergini soavi,
l'Italia ch'ora è su lontane sponde:
la Patria: itale tende, itale navi.

Forse il gabbier ch'esplora ciò che asconde
la notte e il flutto, in mezzo al ciel sospeso,
sopra l'oscuro murmure dell'onde;

forse il vegliante bersaglier, che, teso
l'Occhio nel buio, tra' palmizi esplora
un guizzo spento prima ancor che acceso;

alzano il capo a quel trillar d'aurora,
levano gli occhi all'improvvisa romba,

all'improvvisa nuvola canora.

– Era sepolta; e il nome sulla tomba
era la lode simile ad oltraggio:
ma balzò su, come ad un suon di tromba.

Balzò, sbocciò, come un fiorir di maggio.
Ecco, sublime con la spada in mano,
al mondo chiede il suo grande retaggio.

Ogni straniero ella cacciò lontano,
ogni barbarie, gli altrui mali e i suoi,
e il suo destino strinse a sé, romano. –

Per onde e sabbie i giovinetti eroi
in sentinella, dànno il «Chi va là?».
– Quella ch'è dietro voi, ch'è innanzi voi,

ch'è sopra voi: l'Italia, eroi, che va! –

NVNC IGITVR CANITE ITALIAM

Poemi Italici

Ad Alfredo Straccali a Fedele Romani a Giovanni Setti
SANTI CUORI CHE NON BATTONO PIU'
NOBILI MENTI CHE PENSANO ANCORA
DOLCI MEMORIE CHE RESTERANNO SEMPRE

Paulo Ucello
CAP. I
In prima come Paulo dipintore fiorentino s'invogliò d'un monachino o ciuffolotto e non poté comprarlo e allora lo dipinse.

Di buona ora tornato all'abituro
Paulo di Dono non finì un mazzocchio
ch'egli scortava. Dipingea sul muro

un monachino che tenea nell'occhio
dalla mattina, che con Donatello
e ser Filippo era ristato a crocchio.

Quelli compravan uova. Esso un fringuello
in gabbia vide, dietro il banco, rosso
cinabro il petto, e nero un suo mantello;

nero un cappuccio ed un mantello indosso.
Paulo di Dono era assai trito e parco;
ma lo comprava, se ci aveva un grosso.

Ma non l'aveva. Andò a dipinger l'arco
di porta a San Tomaso. E gli avveniva
di dire: E` un fraticino di San Marco.

Ne tornò presto. Era una sera estiva
piena di voli. Il vecchio quella sera

dimenticò la dolce prospettiva.

Dipingea con la sua bella maniera
nella parete, al fiammeggiar del cielo.
E il monachino rosso, ecco, lì era,

posato sopra un ramuscel di melo.
CAP.II
Della parete che Paulo dipingeva nella stanzuola, per sua gioia, con alberi e campi in prospettiva.

Ché la parete verzicava tutta
d'alberi: pini dalle ombrelle nere
e fichi e meli; ed erbe e fiori e frutta.

E sì, meraviglioso era a vedere
che biancheggiava il mandorlo di fiori,
e gialle al pero già pendean le pere.

Lustravano nel sole alti gli allori:
sur una bruna bruna acqua di polle
l'edera andava con le foglie a cuori.

Sorgeva in fondo a grado a grado un colle,
o gremito di rosse uve sui tralci
o nereggiante d'ancor fresche zolle.

Lenti lungo il ruscello erano i salci,
lunghi per la sassosa erta i cipressi.
Qua zappe in terra si vedean, là falci.

E qua tra siepi quadre erano impressi
diritti solchi nel terren già rotto,
e là fiottava un biondo mar di messi.

E là, stupore, due bovi che sotto
il giogo aprivan grandi grandi un solco,
non eran grandi come era un leprotto

qua, che fuggiva a un urlo del bifolco.

CAP. III
Come in essa parete avea dipinti d'ogni sorta uccelli, per dilettarsi in vederli, poi che averli non poteva.

E uccelli, uccelli, uccelli, che il buon uomo
via via vedeva, e non potea comprare:
per terra, in acqua, presso un fiore o un pomo:

col ciuffo, con la cresta, col collare:
uccelli usi alla macchia, usi alla valle:
scesi dal monte, reduci dal mare:

con l'ali azzurre, rosse, verdi, gialle:
di neve, fuoco, terra, aria, le piume:
con entro il becco pippoli o farfalle.

Stormi di gru fuggivano le brume,
schiere di cigni come bianche navi
fendeano l'acqua d'un ceruleo fiume.

Veniano sparse alle lor note travi
le rondini. E tu, bruna aquila, a piombo
dal cielo in vano sopra lor calavi.

Ella era lì, pur così lungi! E il rombo
del suo gran volo, non l'udian le quaglie,
non l'udiva la tortore e il colombo.

Sicuri sulle stipe di sodaglie,
tranquilli su' falaschi di paduli,
stavano rosignoli, forapaglie,

cincie, verle, luì, fife, cuculi.
CAP. IV
Come mirando le creature del suo pennello non disse l'Angelus e fu tentato.

Poi che senza né vischio ebbe né rete
anche, nella stanzuola, il ciuffolotto,
Paulo mirò la bella sua parete.


Ch'egli è pur, credo, il singolar conforto
un capodaglio per chi l'ha piantato!
Basta. Di bene, io ho questo in iscorto,

dipinto a secco. E s'io non son Donato,
son primo in far paesi, alberi, e sono
pur da quanto chi vende uova in mercato.

Ora, al nome di Dio, Paulo di Dono
sta contento, poderi, orti, a vederli:
ma un rosignolo io lo vorrei di buono.

Uno di questi picchi o questi merli,
in casa, che ci sia, non che ci paia!
un uccellino vero, uno che sverli,

e mi consoli nella mia vecchiaia".
CAP. VI
Come santo Francesco discese per la bella prospettiva che Paulo aveva dipinta, e lo rimbrottò.

Cotale fu la mormorazione,
sommessa, in cuore. Ma dagli alti cieli
l'intese il fi di Pietro Bernardone.

Ecco e dal colle tra le viti e i meli
Santo Francesco discendea bel bello
sull'erba senza ripiegar gli steli.

Era scalzo, e vestito di bigello.
E di lunge, venendo a fronte a fronte,
diceva: "O frate Paulo cattivello!

Dunque tu non vuoi più che, presso un fonte,
del tuo pezzuol di pane ora ti pasca
la Povertà che sta con Dio sul monte!

Non vuoi più, frate Paulo, ciò che casca
dalla mensa degli angeli, e vorresti
danaro e verga e calzamenti e tasca!


O Paulo uccello, sii come i foresti
fratelli tuoi! Ché chi non ha, non pecca.
Non disfare argento, oro, due vesti.

Buona è codesta, color foglia secca,
tale qual ha la tua sirocchia santa,
la lodoletta, che ben sai che becca

due grani in terra, e vola in cielo, e canta".
CAP. VII
Come il santo intese che il desìo di Paulo era di poco ed ei gli mostrò che era di tanto.

Così dicendo egli aggrandìa pian piano,
e gli fu presso, e con un gesto pio
gli pose al petto sopra il cuor la mano.

Non vi sentì se non un tremolìo,
d'ale d'uccello. Onde riprese il Santo:
"O frate Paulo, poverel di Dio!

E` poco a te quel che desii, ma tanto
per l'uccellino che tu vuoi prigione
perché gioia a te faccia del suo pianto!

E' bramerebbe sempre il suo Mugnone
o il suo Galluzzo, in cui vivea mendico
dando per ogni bruco una canzone.

O frate Paulo, in verità ti dico
che meglio al bosco un vermicciòl gli aggrada
che in gabbia un alberello di panico.

Lasciali andare per la loro strada
cantando laudi, il bel mese di maggio,
odorati di sole e di rugiada!

A' miei frati minori il mio retaggio
lascia! la dolce vita solitaria,
i monti, la celluzza sur un faggio,


il chiostro con la gran cupola d'aria!"
CAP. VIII
Come il santo partendosi da Paulo, che pur bramava sì piccola cosa, disse a lui una grande parola.

Partiva, rialzando ora il cappuccio:
ché con l'ignuda Povertà tranquilla
Paulo avea pace dopo il breve cruccio.

Lasciava Paulo, al suono d'una squilla
lontana, quando quel tremolìo d'ale
d'uccello vide nella sua pupilla.

Ne lagrimò, ché ben sapea che male
non era in quel desìo povero e vano,
ch'unico aveva il fratel suo mortale.

Venìa quel suono fievole e lontano
di squilla, lì dai monti, da un convento
che Paulo vi avea messo di sua mano.

Veniva il suono or sì or no col vento,
dai monti azzurri, per le valli cave;
e cullava il paese sonnolento.

Santo Francesco sussurrò: "Di' Ave
Maria"; poi senza ripiegar gli steli
movea sull'erba, e pur dicea soave:

"Sei come uccello ch'uomini crudeli
hanno accecato, o dolce frate uccello!
E cerchi il sole, e ne son pieni i cieli,

e cerchi un chicco, e pieno è l'alberello".
CAP. IX
Come il santo gli mostrò che gli uccelli che Paulo aveva dipinti, erano veri e vivi anch'essi, e suoi sol essi.

E lontanando si gettava avanti,

E tacque un poco, e poi sommesso e lento
ne interrogò le nubi a una a una;
poi con un trillo alto ne chiese al vento.

E poi ne pianse al lume della luna,
bianca sul greto, tremula sul prato;
che alluminava nella stanza bruna

il vecchio dipintore addormentato.

Rossini

PRELUDIO
Di sghembo entrò, cantarellando roco,
nella sua stanza, e s'avviò pian piano
alla finestra. Aveva, dentro, il fuoco.

Nella via scura, ormai deserta, un coro
ebbro e discorde si perdea lontano.
Ma il cielo pieno era di note d'oro.

Era la Lira, appesa al cielo, in riva
della Galassia, sovra il monte santo.
Al soffio eterno ella da sé tinniva.

Al suo tinnir cantava il Cigno immerso
nell'onde bianche, e col suo grande canto
placido navigava l'Universo.

Ma no: Rossini non udia che quelle
voci ebbre e scabre. L'uggiolìo terreno
velava tutto il canto delle stelle.

Prese una carta e la lasciò cadere.
S'alzò, sedé, non la guardò nemmeno.
La carta piena era di note nere.

Imprecò muto. Minacciò per aria
Otello e Iago. Prese un foglio, e disse:
"Che altro occorre? una romanza? un'aria?


Assisa a piè..." Rise, e piantò nel cielo
della sua stanza due pupille fisse.
Pensava a un roseo fiore senza stelo...

Poi sbadigliò, poi chiuse pari pari
gli occhi, e nella dolcezza di quell'ora
dormì, sbuffando il sonno dalle nari.

Quegli stridori come d'aspra sega
stupì la Lira risonante ancora
del cilestrino tremolìo di Vega;

e sobbalzò dall'angolo solingo
il clavicembalo, e ronzava a lungo...

CANTO PRIMO
I.
E si levò la Parvoletta in pianto.
Piangea, la povera anima, e mirava
il suo fratello rauco gramo franto...

"Se tu crescesti, se, qual ero, io resto,
piccola, perché farne la tua schiava,
di me che nacqui, tu lo sai, più presto?"

Piangea la semplice anima fanciulla:
"Sono più grande! Quando tu, smarrito
del mondo immenso, pigolavi in culla,

io era là, tra l'ombre mute e sole,
fui io che il tenero umido tuo dito
guidai ver' gli occhi di tua madre e il sole!

Fui io che prima, per un tuo gran male,
ti dissi, St! ascolta!... Una soave
nenia sonava presso il tuo guanciale.

E tu la udisti, e ti chetavi, attento
attento, di sulla tua lieve nave
che uguale uguale dondolava al vento...


Io, che così, con una piuma, il viso
ti vellicai, che tu torcesti alquanto
le labbra, e nacque il primo tuo sorriso!

Io, che picchiando sulla sponda un giglio,
battevo il tempo, e tu movesti al canto
la bocca, e nacque il tuo primo bisbiglio!

Io, che girai, per darti gioia, il talco
d'una stellina, che agitai gli squilli
d'un sistro, onde stridivi come un falco

di nido; e quando, solo, in mano a Dio,
restavi, a sera, in casa, coi gingilli
tuoi, bono bono, era che c'ero anch'io!"
II
Lagrime salse le piovean dagli occhi.
Piangea la povera anima, una mano
sul tenue seno e l'altra sui ginocchi.

"Oh! la tua buona Parvola, che chiudi
sola, laggiù, nel carcere lontano,
pieno di spettri e di fantasmi nudi!

E mi spaura, chiusa in fondo anch'ella
come son chiusa io così pura e saggia,
fragrante ancora dell'odor di stella,

la Bestia, ahimè! che mangia e ringhia e freme
sopra il presepe, e scalpita selvaggia
tutta la notte! Noi vegliamo insieme,

la Bestia e io! così che i dolci modi
che ti cantai, che andavi zingarello
di fiera in fiera, ora non più tu li odi.

Allor, sul carro, io ti mutava in note
d'una viola e d'un violoncello
lo strido assiduo delle trite rote.


Io per te colgo il suono d'ogni cosa.
Su tutte io picchio le mie tenui dita,
stelle del cielo o petali di rosa.

Di tutte io sento il dolce flutto occulto,
il cadenzato palpito di vita,
la gioia e il pianto, il riso ed il singulto.

E tu mi scacci! E chiudi me che volo!
che senza me, per te sarebbe il mondo
tutto silenzio! un grande fragor solo!

Ma, non so come, tutto quel fragore
interminabile, io te lo nascondo
dietro il ronzio d'un'ape attorno un fiore".

Parlava; e l'altro udiva in sogno; anch'esso,
il clavicembalo; e fremea sommesso.

CANTO SECONDO
I
La Parvoletta volse gli occhi muta
alle sue stelle. Erano nuove ancora,
ancora ansanti della lor venuta:

come quand'ella dirigea la prora
tra queste e quelle, stando presso al bianco
timonier cauto che attendea l'aurora;

o quando sola era a vegliar tra il branco
ed i pastori: ella sentìa crosciare
le foglie secche ad un mutar di fianco.

Sola vegliava la crepuscolare
pia fanciulletta sulla terra oscura,
soletta sull'irrequieto mare.

Mirava in alto, alta gentile e pura.
Ed era pieno anche lassù d'erranti,
navi sull'onde, greggi alla pastura;


di lenti carri, d'uomini giganti,
pieno di draghi, pieno di chimere;
e risonava anche lassù di pianti.

Vedeva dietro sartie nere o nere
quercie passare il cielo a poco a poco.
Nascean le stelle al puro suo vedere.

Poi si spegneano come in terra il fuoco.
Raggiava allora qualche striscia viva
come gli stami dentro fior di croco.

Era l'eternamente fuggitiva...
- Son come te: la prima: avanti giorno:
rorida e fresca anche nell'afa estiva -

dicea fuggendo. - Fuggo sì, ma torno
sempre! - Ed il sole ecco appariva truce
e solo; e tutti, con un guardo intorno,

traeva dietro il gran carro di luce.
II
E si scopriva, il mondo, a lei! Ma quanto
ella vedeva, ella voleva, piena
di meraviglia, e lo chiedea col canto.

Tutto chiedeva l'esile Sirena
con dolci lodi: anche, prendeva andando
una conchiglia od uno stel d'avena;

e vi soffiava l'alito suo blando,
che ciò che amava e trascorrea veloce,
sostasse un poco, udisse il suo dimando.

Tutto fluiva verso la sua foce.
Ella ascoltava, ella cantava a prova
gittando lor di terra la lor voce.

In mezzo a tanta meraviglia nuova
era quaggiù come l'uccello, attento

da un ramo o di sulle sue tepide ova:

studia e rifà le querule acque, e il vento
cupo, e la pioggia stridula, e, nel fine,
lo sgocciolare cristallino e lento,

il crepito di scorze aspre e di pine,
i sussulti dell'eco ultimi, il frale
fruscìo di frondi e sgrigiolìo di brine;

che impara a volo il sibilo dell'ale
sue stesse aperte... Anch'ella, sì, la romba
dell'ale sue, la vergine immortale!

Fermava il volo sopra la sua tomba,
tremulo; appiè, gli accordi avea del mare
che sciacqua, stride, squilla, urla, rimbomba.

Cantava ella, chiamando al lor passare
lo sciame, a sé, degli attimi disperso,
e nel ronzante piccolo alveare,

libero, e suo, chiudeva l'Universo!
III
Ed ora è ancora, l'esile fanciulla,
quella che fu. Tutto le par novello.
Ancor non parla: canta; e non sa nulla.

Tutto è fanciullo, tutto è suo gemello,
nato con lei; perciò le piace, e l'ama;
e perché l'ama, è così buono e bello!

Ell'è terrena verginetta grama,
ma il sole è pure della sua famiglia;
e quando va, lo piange e lo richiama.

Sbocciano, dopo, sotto oscure ciglia
occhi ridenti. Sono le sue suore;
tutta la notte ella con lor bisbiglia.


Io t'ho donato i canti dell'aurora,
quando sbocciava il tutto su, dal nulla:
eppure al mondo niuno li ode ancora!"

Piangea la pura vergine: "Io so molti,
molti altri canti, ma perché li canto,
se tu sei come un morto, e non m'ascolti?

Io ne so uno così tristo e pio,
dolce come l'amore dopo il pianto...
Ma tu non odi, tu non mi ami, addio!

Io voglio andare, e più con te non resto.
Che è? Gli occhi mi pungono. Non voglio...
Salice! Salice! oh! il mio canto mesto!

Un vecchio canto. E non l'udrai, mio bene!
E sembra fatto per il mio cordoglio.
E questa notte sempre al cor mi viene.

Cantate il verde salice! Non t'amo,
ché t'amo sola. E sola io parto. Avanti,
pur mi farò ghirlanda d'un suo ramo.

E non so fare ch'io non pieghi, o caro,
da un lato il capo, e che tra me non canti
il vecchio canto dell'amore amaro..."
II
Ecco... le stelle chine sullo stelo
si richiudean nei bocci rosa ed oro:
trascolorava in oro e rosa il cielo...

l'uomo la vide! Ella sedeva in riva
d'un ruscel fresco, presso un sicomoro.
L'acqua gemeva, l'albero stormiva.

E delle stelle aperte era la bella
sola. Il suo florido alito lontano
giungeva all'aspra terra, alla sorella.


Alla fanciulla, le cadea dagli occhi
dentro il ruscello il pianto. Ed una mano
tenea sul petto e il capo sui ginocchi.

Erano i suoi sospiri che le fronde
facean brusire, e le lagrime amare
facean or sì or no risonar l'onde.

Come era grande, il suo dolore, e grave!
Ma ella lo sentiva tramutare
in un accordo tinnulo e soave.

Ella piangea l'aurora senza giorno,
ella piangea l'amore senz'amore,
e la felicità senza ritorno.

Piangeva sotto il sicomoro, in riva
del bel ruscello. Al grande suo dolore
l'acqua cantava, l'albero brusiva.

Soltanto luce ed ombra era a mirarla,
e la sua voce era esile, di morta,
di morta quando torna in sogno, e parla.

Apriva un po' le palpebre come ali
d'una farfalla, un po' la bocca smorta:
salice... salice... salice...
III
E balzò su, come di sé stupita,
e levò alto e vie più alto un canto,
toccando l'arpa con le lievi dita.

Filò, guizzò nel cielo azzurro ed oro
il puro canto e rimbalzò rinfranto
in un immenso singultìo sonoro.

Sfavillò. Si spegneva... era già spento
No: riviveva e distendea le bianche
ali nel cielo e palpitava al vento.


Risaliva con palpiti e sussulti
alto, più alto, per rinfrangersi anche
in un'onda, in un'ansia di singulti.

Gridò. Morì. Sola le cristalline
lagrime l'arpa ora stillava; quando
risorse la dolcezza senza fine,

riprese il canto, alto tra cielo e mare,
a plorar forte, ad implorare blando,
spezzarsi, unirsi, sospirare, ansare;

un grido, e pace. Ecco le goccie d'oro
tinnir sull'arpa, dalle corde mosse
di quell'acuta gioia di martòro;

e il canto alzarsi e i palpiti argentini
piovere giù, poi risalire a scosse,
a spiri, a strida...
E balzò su, Rossini.

Tacita l'alba, tacita la strada.
Sul mare alcune lievi nubi rosse.
Sopra la terra fresco di rugiada.

Ronzava quella voce di preghiera
e di dolore, quasi ancora fosse
con lui la povera anima; e sì, c'era!

Molle di pianto, egli percosse i tasti
tuoi, clavicembalo, e tu palpitasti...

ASSISA A PIE` D'UN SALICE...

TOLSTOI
I
Cercava sempre, ed era ormai vegliardo.
Cercava ancora, al raggio della vaga
lampada, in terra, la caduta dramma.
L'avrebbe forse ora così sorpreso

Ed una voce udì soave accanto:
"Frate Leone, Dio ti benedica".
Ed era un poverello, ch'avea rotta
la tonica e il cappuccio ripezzato,
e scalzo andava, con la tasca al collo
sospesa, cinto d'un capestro i fianchi.
Erano intorno strida di cicale,
canti d'uccelli in chiarità di sole.
E il poverello disse al pellegrino
così: "Frate Leone pecorella,
ben tu scrivesti, ove è perfetta gioia.
Quando giungiamo al nostro loghicciolo
Santa Maria degli Angeli, e la porta
picchiamo, ed esce il portinaio, e dice:
- Chi siete voi? - Siam due dei vostri frati -
e colui dice: - Voi non dite vero;
andate via, che siete due ribaldi -
se noi gli obbrobri sosteniamo in pace;
frate Leone, ivi è perfetta gioia.
E se picchiamo ancora, ed egli ancora
esce e ci caccia con gotate e dice:
- Partitevi indi, o vili ladroncelli! -
se questo ancora noi portiamo in pace;
frate Leone, ivi è perfetta gioia.
E se, da fame stretti pur, picchiamo
e in pianto e per l'amor di Dio preghiamo
ed egli esce e ci batte a nodo a nodo
con un bastone, e noi soffriamo in pace;
frate Leone, ivi è perfetta gioia.
E però scrivi, che se il male al mondo
resta, soffrirlo è meglio assai che farlo;
meglio che dare, è che ti diano; meglio
giacer Abel, che stare in piè Caino.
E però scrivi, che non è nel mondo
pregio maggiore, ch'essere dispetti,
e somigliare, in anco noi volere
beffe, gotate, verghe, fiele e croce,
all'uomo in terra ch'era Dio nei cieli".


III
E per la via moveano i due più oltre.
E li seguiva, a bocca aperta, un lupo,
grande, peloso. E ne vedeva l'ombra
il pellegrino, e lo credè venuto
dietro i suoi passi dalla bianca steppa.
Ma il poverello: "È frate Lupo, un lupo
ch'era omicida pessimo, e la terra
gli era nemica; ma gli accattai grazia
e feci dar le spese, ch'io sapeva
che tutto il male lo facea per fame".
Così dicendo il poverello, il lupo
chiuse la bocca che teneva aperta
per anelare, e mosse un po' la coda.
E per la via moveano i due più oltre.
E la campagna piena era d'uccelli
lieti del sole; e il poverello disse:
"Frate Leone, nella via m'aspetta
tanto che un poco io predichi a gli uccelli".
Entrò nel campo, e cominciò da quelli
ch'erano in terra; e subito a lui tutta
venne la moltitudine infinita
che v'era, di su gli alberi; ed insieme
coglieano il frutto delle sue parole,
aprendo i becchi, distendendo i colli,
movendo l'alie; e quando fine e' pose,
in schiera su frullarono cantando.
E per la via moveano i due più oltre.
Ed un mendico venne loro incontro
e chiese loro carità d'un pane
per Dio; ma il poverello nella tasca
non avea pane, e n'era assai dolente.
Ma un libro avea, ch'era il sol che avesse,
ed e' lo prese dalla tasca, e diello
all'uom digiuno, e: "To'" gli disse "e vendi
questo a chi voglia, poi ch'a me non giova:
e compra pane, e Dio ringrazia e loda".
E questi prese il libricciolo e corse

verso una terra, per mutarlo in pane.
E 'l libro era il Vangelo di Gesù.

IV
Nella città rissavano i maggiori
ed i minori; e gli uni avean le spade,
gli altri i pugnali, ed erano di cenci
questi coperti, e que' vestian di ferro;
gli uni più forza, gli altri avean più odio.
Ed ai minori si mescean le donne
forte strillanti e i figlioletti ignudi.
E quelle labbra quasi rosse ancora
del bere al petto, impallidian già d'ira.
E dagli obbrobri si veniva al sangue.
E il poverello si gettò nel mezzo
a gl'infelici, ferro fosse o cenci
lor vestimento, avessero più forza
ovver più odio, e per il santo amore,
e questi e quelli scongiurò, ch'è Dio.
E pregò tutti, poveri e banditi,
servi e padroni, artieri ed aratori,
vergini e spose, giovani e vegliardi,
malati e sani, gente d'ogni lingua,
uomini d'ogni parte della terra,
quelli che sono, quelli che saranno,
li pregò tutti, esso minor di tutti,
di star uniti, di formar un solo,
un solo in terra, come un solo è in cielo.
Così pregava e caddero le spade
ed i pugnali, e ruppero in singulti
uomini e donne, e gli uomini di ferro
prendean in collo i cattivelli ignudi,
che ognun vedesse tra la turba il Santo.
E tutti insieme, tese al ciel le mani,
davano lode a Dio ch'aveano in cuore,
che mai non muta, cui non vede alcuno,
né alcun comprende, dolce, alto... e la terra
tutta echeggiava Amore! Amore! Amore!

come d'uccelli, delle pallide ombre,
volgendo gli occhi in giro, il suo fantasma,
nel mezzo, nudo l'arco, sta.
IV
Ma dall'ignoto Spirito sferzate
corrono a lui le riluttanti nubi,
strisciano appiè di lui, sorgono a un tratto,
lo velano, lo celano. È sparito
sotto la pioggia fumida, sparito
nel grembo grigio. Né baleno guizza
mai da due nubi frante che divida
l'oscurità. Niuno lo veda! Niuno
veda la fronte cupa, niuno veda
quegli occhi tristi, i tristi occhi veglianti,
come due tristi uccelli della notte,
sul suo terribile sorriso.

Non lampo mai; né mai rimbomba il tuono
seguace; ch'altri non lo creda il tuono
della sua secca chioccia bronzea voce,
usa a guattire sola tra il silenzio
di cupi pallidi uomini e il sommesso
loro anelare; ch'altri mai non pensi
che dalla tacita isola dei morti,
d'oltre l'Oceano e il popolo dei sogni,
sia quella voce che di tra l'eterna
penombra, sopra il sonno delle genti,
sul mondo forse immemore, passando,
scoppi e si franga all'improvviso,

e chiami e scuota, e susciti nel mondo
squilli di trombe, rulli di tamburi,
scroscio di marcie, suon di ferro, strido
di ruote, émpito e ringhio di cavalli,
polvere e fumo, e grandinar di palle,
scintillar d'armi, e rombo di cannoni,
assalti, fughe, mura umane, stagni
di sangue umano: ululi d'odio, strazi

Oceano rosso, per lavare il sangue.
A grandi ondate abbraccia il mare, e tutto
l'attira a sé. Cupo silenzio è intorno.
Là, nell'oscurità caliginosa,
vedono l'ombra del ferito immane
i brevi re, tremando ancor dell'uomo
ch'è tutto ancora, e non è più.
VIII
Anch'egli vede nella lontananza
perduta, un altro, indissolubilmente,
tra l'acqua e l'aria, a' suoi travagli avvinto.
Lo vede: egli solleva alte le braccia.
Egli sostiene il polo sulle spalle,
del cielo, ed allontana con le braccia
dal capo suo le costellazioni,
e la marea mugge a' suoi piedi infranta.
Passano lente sopra lui le ruote
del Carro, e geme sotto lui l'Abisso,
e lungo lui scrosciano andando i fiumi
alle voragini profonde.

Ed anche un altro ei vede: una vedetta,
stante, ed insonne, e immobile, sospesa
al duro scoglio, attraversato il petto
dal cuneo lungo di mordace acciaio,
serrato da infrangibili catene
l'un piede e l'altro a due lontane rupi.
E tra i due piedi passano le navi,
ch'egli insegnò; ché diede all'uomo il fuoco
delle cento arti e delle cento morti.
Ora egli sta, né più goder del bene
può né vietare il male, avanti il riso
innumerevole dell'onde.

E solo, come i due Titani, è il nuovo
venuto, solo tra sé stesso e il mondo.
L'onde che s'accavallano spumando
sulle ginocchia al reggitor del cielo,

d'andare incontro al gentil re crociato.
Libereranno dalle piote arsite
allor la bocca, e il carbon nero al vento
prenderà fuoco e brillerà sul filo
di mille scuri, e da quel fuoco il fumo
a grandi spire salirà nel cielo.
Nero il vessillo come carbon nero,
e rosso e azzurro come fuoco e fumo,
sia nelle vostre mani, o boscaiuoli,
o taglialegne nati da fratelli,
o carbonari, avanti al re che viene!
VII
Passano intanto i carbonati occulti
la notte, alzando le due mani ai puri
astri del cielo, tra gli scabri fusti
d'annose quercie, nei romani luchi.
Gittano sangue al lor passaggio i pruni,
scrosciano foglie, fischiano virgulti.
Sotterra il fuoco hanno sepolto muti,
siccome seme gli aratori ignudi.
Germinerà. Nei taciti interlunii,
chiusi nei tabernacoli fronzuti,
pensano al re fanciullo, che tra i lupi
ignaro passa, che di tra le nubi
l'aquila veglia, e piomba già su lui
stringendo sempre il nero volo più.

GARIBALDI FANCIULLO A ROMA
PEPIN
I
L'isola sacra, l'isola dei morti
aveano a poggia, piena d'asfodeli.
Là bianchi i morti, volti alla marina,
sui tumoleti, tendono le mani
al sole occiduo. Ora al chiaror dell'alba
v'erano voci di piombini e chiurli.
E la tartana lontanò. Ma il vento

Lungo, il cammino loro! Avean patito fame,
avean falciato il fieno, avean mietuto il grano,
parlato a turbe, tesa a qualche pio la mano,
e maledetto al sangue a piè del palco infame.

Rincorsi dalla plebe e dalla legge oppressi,
s'erano posti in via, pellegrinando assòrti.
Dormian nei cimiteri, in compagnia dei morti,
sul marmo dei sepolcri, al tronco dei cipressi.

Ma ora discendea la pace. Era l'avvento.
Parlavano soave al lume delle stelle.
E dalla Terra Nera ov'è la Sfinge, il vento
moriva in un ronzio di sartie e di griselle.
*
– Dio! Tutto ciò che è. Noi siamo in lui, da lui.
Nessuno è Dio, nessuno è fuor di Dio, ch'è tutto.
Che è ciascun vivente? Un seme. Il seme, il frutto.
Io sono: sarò sempre. Io sono: sempre fui.

È l'Universo un tempio: il tempio di Dodona.
Pendono bronzei vasi ad una selva immensa.
Uno ne tocchi, vibra ogni altro. Il Cielo pensa,
e la Terra lontana a quel pensier risuona.

Amore. sei tu, Dio! Ma solo ti riveli
pensiero e forza: l'occhio e la possente mano.
O nuovo Adamo ed Eva, o riprincipio umano,
ti sia, qual è, la Terra: una stella dei cieli!

Lavora, adora. Sappi e crea. Sempre più! Chiedi
alla messe il tuo pane, e non al mietitore.
Abbiano la tua vita, e non l'altrui, gli eredi.
E in terra sarà Dio, ché vi sarà l'amore. –
*
E David intonò l'inno di pace; e calme
sorsero su le calme onde le voci in coro.
Cantarono la Madre, Eva del tempo d'oro,
Eva aspettante al pozzo, all'ombra delle palme:


Ei disse: « Il pianto è l'acqua per la sete
del cuore. Anela per il suo deserto
a quella fonte l'anima. Piangete.

Iacopo! Era il mio primo, era il più certo,
era il più mite. Amava l'ombra. Volle
essere, ma dall'odor suo, scoperto.

Parea quei gigli fatti di corolle
né d'altro; d'una purità di cima,
ma nati a valle, nati a piè del colle:

chino anche lui non come fior che opprima
la pioggia, ma che il solo essere fiore
pieghi sul tenue gambo, da sé, prima.

Oh! egli aveva la mestizia al cuore
di quei ch'è solo, perché primo, in via,
e vede appena Chanaàn, che muore.

Ma ei sapeva, avea già detto: – Sia!
anche s'è morto l'albero onde nacque,
il seme è buono; ed uno gittò via

il pane, ed altri lo trovò su l'acque. – »
II
Gli esuli intorno singultian pian piano.
« Male ei gittò, ciò ch'è di Dio, la vita?
Fu, come il bimbo ch'ha il suo pane in mano:

il pane e il pomo che sua madre, uscita,
diede al fanciullo che mangiasse intanto:
ed altri l'urta e fa ch'apra le dita.

O no, ma disse: – Eccomi afflitto, affranto!
Per non peccare contro i miei fratelli,
contro te pecco, che perdoni, o Santo! –

Ora il suo sangue grida ne' lavelli
là della Torre. Un grido che si vede.

È di noi madri, umili ignare oscure,
cui tolse i nati, al fine della notte,
su la dolce alba, piombo corda scure. –
VII
Ed ei pensava: – E perché mai v'ho tolti:
figli, alle madri? Era di voi più morta,
o per lei morti, o dentro lei sepolti,

l'Italia. Dunque... Oh! per un mio delirio!
Fra terra e cielo io la vedea risorta
con su la chioma il tremolìo di Sirio! –
VIII
E nella notte insonne, lunga, vuota,
che aveva del giorno anche obbliato il nome,
sbalzava al suono d'una voce nota,

la voce, d'uno che passava, d'uno
che si fermava, lo chiamava – Come?...
Iacopo! – S'affacciava, ansio... Nessuno!
IX
Su tre lunghi anni avea soffiato un breve
attimo – Vive! Ha franto i ceppi! È meco! –
Nessuno là nel grande albor di neve.

Oh! dal sepolcro... egli credea che fosse
bianco vanito nel biancor, senz'eco.
C'erano sulla neve goccie rosse...
X
Era vanito nella forra brulla
dicendo, Vieni, in suo passaggio, e il vento
vaniva anch'esso per la via del nulla;

vaniva là con lunghe voci, e gemiti
e fremiti, urla d'ira e di spavento
e di minaccia e di rampogna – Eh? Tremi! –
XI
Oh! avesse accanto un'anima serena,

e groppe mosse su e giù come onde,
e ringhi acuti ed ansie fremebonde,
ed urli e calci al vento e salti a sghembo,
e il subito ampio rotolar d'un nembo.
II
A PIRATINIM – IL CAPO
E in nove giorni giungono al silvestre
Piratinim. Il popolo ribelle
avea sui muli e in carri la sua legge
portata là coi fasci delle verghe.
Là, Bento, un vecchio alto e salcigno siede
in terra, in mezzo alle araucarie nere.

« Ospite, siedi. Hai molto pel Rio Grande
fatto e patito, in terra e in mare. Grazie.
Or verrai meco, ch'io mi vuo' condurre
in armi al passo delle due Lagune. »

Cavalli a un tronco avvinti per la briglia,
pascono intanto melega e gramigna.
Ed arde un fuoco lì da parte e brilla;
un uomo, un Combo, lento su vi gira
l'arrosto pingue: cola, sfrigge il sangue
e un grasso odore nell'aria si spande.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

GARIBALDI VECCHIO A CAPRERA
AL FOCOLARE
Garibaldi siede al focolare,
siede avanti fuoco di lentischio.
A Caprera cupo batte il mare,
il libeccio l'empie del suo fischio.

Egli vecchio dalla barba bianca
cova il fuoco, cova il suo pensiero;
e si trova sur una barranca,
la gran chioma scossa dal pampero.


E Fauno, il buono, nelle selve ombrose
cantava il canto delle foglie ai venti,
invisibile. E sulle antiche quercie
picchierellando senza fine il picchio
sacro contava gli anni tanti, gli anni
tardi a venire.
LUPI E AQUILE
Aprile, che s'apriva
il fiore, venne, e il Tevere più gonfio
portava l'onde con un grande rombo:
e d'ogni parte sulle piane e i colli
arsero fuochi nella notte sacra.
Tutto splendé. Fiamme correva il fiume.
Però che, intorno, alle selvaggie stanze
fuoco i pastori davano, mutando
già le capanne, d'erbe e frasche, in case.
E poi saltando sulle fiamme, un canto
diceano, sacro: «Fuoco puro, Fuoco
grande, buon Fuoco, che ammollisci e domi,
portati via queste capanne, portati
via questi nidi! Noi non siamo uccelli,
lupi noi siamo. Addio, cose d'un'ora!
Siamo per fare una città ch'eterna
duri, ed un proprio focolare, in mezzo,
sarà per te, che mai non dormi, o Fuoco!»
Ed una torma giovanil più fiera
diceva: «Oh! bello andare al vento! È bella
l'ora che fugge, e sempre un altro il sole!
La terra sempre nuova sotto quelle
antiche stelle! Voi da voi ponete
tra il mondo e voi pur quella fossa ignava:
sia senza fine a noi la via, la terra
senza confine! Lupi, sì; ma ora...
dateci l'ale, o aquile!»

sotto la tacita ombra funerale;
poi via per verdi campi e per deserti,
diritte come solchi, e via tra rupi
tagliate da scalpelli, e via per selve
profonde, mute, solo allor ferite
dal ferro ignoto, e via sopra veloci
fiumi aggiogati con eterni ponti,
e via per l'Alpi, che vincean con giri
blandi, le irate. Da quel sasso, a forza
ruppero un tempo tante vie sul mondo.
Parea che un luminoso Sagittario
via via volgesse a tutti i venti il grande
arco fatale, e saettasse intorno
intorno, stante nel bel mezzo, il cielo.

LA LEGIONE
Le dure suole e i cerchi delle ruote
fecero i solchi in queste vie, battute
dalle coorti che movean le insegne
contro i terrestri. Andavano, e la schiera
villesca alzava per insegna un fascio
d'erba. Prima la falce e poi la spada.
Mai non mancava fra le spighe il rosso
di qualche fiore. Fissa, poi, sull'asta
era una mano, ch'è una pianta sola
con più rampolli. Della via fu guida
poscia la lupa; e si vedean passare
cignali e smisurati liofanti.
E fausta, infine, di tra un baglior d'oro
l'aquila uscì: le ignare terre e l'onde
remote corse un brivido ed un fremito
al ventilare delle sue grandi ale.
E le legioni col lor pilo grave
per quelle vie senza la meta e il fine,
mossero intorno. Ed assembrava allora
tutte le genti e i popoli l'antica
bùccina, che al pastore fuor di mano
sul far di notte avea mandato un segno.

Eppur mostrava placido alle genti
placate il volto, e calmo i cavalloni,
ancora irati dopo la tempesta,
con quella mano che impugnò la spada,
calmava, e dal belligero cavallo
dicea le leggi e l'arti della pace.

Salve, o possente Roma! Tu le terre
hai dissodate col tuo duro coltro;
la macchia hai franta perché desse il grano
placido. Il grande imperio era il tuo fato.
Quando a te fu dagli ampi omeri tolta
la porpora, ecco il re de' sacrifizi
uscì da templi novi e da miti are.
E poi levò di terra la corona
e ne cinse la lunga chioma bionda
d'un re che aveva la fràmea per lancia;
e poi, volgendo i secoli, battaglia
mosse, egli re dei riti, al re dell'armi.
E tempo venne che dall'alto soglio,
con la corona sulla fronte eretta,
con nella mano la stellante spada
(stettero i messi attoniti nell'aula,
e reprimeano i secoli la corsa
infrenabile, come visto un cenno
rapido di far sosta e di dar volta),
«Che domandate?» addimandò. «Ciò ch'egli,
il vostro re, domanda, è mio. Son io
il Cesare, son io l'Imperatore!
Andate!» E il re sacrìfico si prese
i fasci albani; e l'ara vide al lume
dei sacri ceri scintillar le scuri.
GLI DEI
Fu la tua parte. Era il tuo fato, o Roma.
Tu sulla poppa assisa, non volesti
per nessun vento abbandonar la barra.
Profughe genti vennero dal mare
a darti inizio; e i profughi tu sempre

stupiva di vederla altra e la stessa.
Suono non v'era se non d'improvviso
crollo di muro o il tonfo di finestre,
cui si provava di serrare il vento.
Talvolta andando e riandando i corvi,
gracchianti, a stormo, quel letargo strano
scotean, nell'ira, d'uomini e di cose.
E molti discendean dall'Aventino
foschi avvoltoi, che ripetean l'augurio
natale, in alto, sulla città morta.
E poi notturna i cuccioli la volpe
guidava, e le basiliche del Foro
cauta girava e le colonne antiche.
E dopo i lunghi secoli le lupe
del tempo primo vennero, cercando
gli antri per l'alte sedi imperïali.
Parean, destati dal lor sonno i templi,
aperti stare, stare ed aspettare
i sacerdoti immemori. Giaceva,
abbandonata per i sette monti,
Roma. E le acquate assidue la battono
e le raffiche rapide del vento,
e la fiammante folgore del cielo
ormai fa divampare il rogo.
IL NOME CELESTE
Aprile
era vicino, era, con lui, vicino
il dì natale della città morta.
E di narcissi dalla chioma d'oro,
di crochi dagli stami d'oro rise
la solitudine, e dalle rovine
dei templi il rosso smìlace comparve;
e le vïole al fonte di Iuturna,
caste, s'abbeveravano, e gli sparsi
ruderi si gremìano di giacinti;
e tutti i bronchi e pruni aspri, nel Foro
Romano, in cima avevano una rosa,
e sopra i marmi antichi era l'antica

d'armi cangianti, di quel capo ignoto
dentro l'irsuta gàlea. Ché tutte
l'arme egli avea, fuor della spada, e il petto
non gli cingeva il balteo d'oro, vario
di spesse borchie. Sull'ignoto capo,
alto, vegliava un fuoco e gli sfiorava
l'antica piaga con l'assidua fiamma.
Un dei pastori, simile ad un Fauno,
vide fra tanto impallidire il cielo,
languire insiem le tenebre e le stelle.

LA LAMPADA INESTINGUIBILE
Ogni maceria gorgheggiava. I nidi
s'erano desti, delle rondinelle,
in fila sotto i capitelli neri.
E si vedean le macchie, e tremolando
splendean le cime delle selve, e i pini
alti sopra la vetta Pallantea.
Ed il pastore trasse fuori all'alba
la lampada e l'oppose al mattutino
vento. E il suo lume si sbatté, ma visse.
E vi soffiò con le selvaggie labbra,
e la tuffò nell'acqua d'una pozza;
ma il lume visse. Ed e' la rese ardente
al suo sepolcro e l'appendé dov'era,
e col suo masso chiuse la spelonca.
Dove ancor pende e raggia ancor la luce
su te, giovine eroe primo, che fosti
di tanta gloria e tanta lotta e tanto
dolore e amore la primizia santa.
Son tre millenni ch'ella dal sepolcro
veglia su Roma con l'eterna luce.

A ROMA ETERNA
Spirito eterno, eterna forza, o Roma!
Dopo il gran sangue, dopo l'oblìo lungo,
e il fragor fiero e il pallido silenzio,
e tanti crolli e tante fiamme accese

Tutta così la terra senza nome
varcasti lungo il risonante mare
passando fiumi e valli oscure; e come
fosti alla fine del fatale andare;

la Primavera Sacra che dai solchi
natii fu data ai venti e alle venture,
il tuo ramingo popolo, i bifolchi,
italo, tuoi, levando l'aste pure,

dissero: Italia! Vollero che il breve
lido del mare fosse Italia, fosse
di te. L'Etna alitava, tra la neve,
nuvole, ver' la verde Italia, rosse.

Poi dove il Sole ha i pascoli, tu insieme
ai tuoi Taurisci a nuoto un dì passavi.
Ma sopravenne dalle prode estreme
l'Eroe più dio che gl'Immortali ignavi.

«Indietro!» disse, e tese l'arco. Indietro
volgesti allor, parando le tue torme,
girando spesso attorno gli occhi tetro,
ponendo i piedi sulle tue grandi orme.

Passando, quella ch'era un dì palude,
vedesti arare e seminar già doma.
Era un pastore dalle membra nude
che seminava l'avvenir di Roma.

Aveva atteso te, la primavera
tua, la ma stella. Anche di lì cacciato,
spingevi innanzi la tribù tua fiera,
volgendo il capo, ed obbedendo al fato.

T'era alle spalle, simigliante a notte
oscura, te seguendo sempre al varco,
una grande ombra in mezzo a nubi rotte,
l'ombra di lui, con nudo e teso l'arco.


terra l'immane corpo arrotolare
e covar sopra ceneri di messi
e sopra roghi di città distrutte.
Allora in prima il mal serpente infranse,
per farsi via, le rupi ond'è costrutto,
insino al cielo, il Termine d'Italia;
Termine immenso che da mare a mare,
col fondamento nel lor fondo, incurva
sé stesso e sembra, a Dio caduto, un arco.
Allora in prima con le spade in mano
guizzanti, voi sbalzaste su, Taurini,
e sulla soglia della patria terra
gettaste il sangue, sin d'allor col sangue
segnando il patto con il vostro fato.
Ma voi vedeste chi, le italiche Alpi,
da questa Italia le ascendea Romano;
ma voi vedeste poi le italiche armi
oltre i confini propagar la pace
del giusto Lazio. In mezzo a voi, Taurini,
come nel marmo in cui la vita scorra,
Cesare apparve. Nel paludamento
imperïale ei conducea l'Alauda
fulva le chiome: intorno a lui le scuri
nei fasci, e i pili della sua coorte.
Oppur liete parole egli intrecciava
coi fidi amici, o nella molle cera
solchi imprimea col vomere, gittando
in quella il seme del suo gran pensiero.
Ora i fasti romani, ora le guerre
per terra e mare, e il mondo vinto, e, in mezzo
ai suoi trionfi e alla sua pace, Roma;
or meditava arguti versi e dolci
esili carmi, e si beava il cuore.
Qui mentre un dì cadea la neve a fiocchi,
dicono, entrò nella capanna trista
d'un re selvaggio. Largo il re, di latte
giovò gl'ignoti, e loro appose i frusti
d'uno stambecco. E la coorte in tanto

fulgida, cui cingesse l'aspettato,
il re d'Italia ch'era omai per via.
Ma l'oro puro intorno inanellato
era di ferro, che già ferreo chiodo
fu della croce. – Oh! come tutto è vero!
Ma lo vedranno i secoli lontani.
Vero! Alla croce sarà reso il chiodo!
Vero! Al sovrano de' Taurini resa
sarà l'aurea corona. Egli su tutta
l'Italia re dominerà. L'Italia
renderà questi agli Itali e al destino.
Ma dopo lunghi secoli con molto
purpureo sangue, ma con fuoco e ferro! –
Allor col ferro impresero i Taurini
a perigliar la cara vita, e sempre
alla futura patria addimostrarsi,
in disventura ed in povertà, forti.
E sì pareano immemori del fato
e pur del nome e dei costumi antichi
e del linguaggio che fu già di Roma.
Né più le genti capo avean: l'augusta
città fatta straniera: e valli e monti
dell'armi ostili eran per tutto ingombri.
E tramontata era la sacra insegna,
né v'era alcuno che levarla al cielo
potesse ancora: Donno era lontano;
esilïato Donno era dalle Alpi.
Presso i due fiumi, come corpo morto,
come travolto da una gran valanga,
Toro progenitore, eri prostrato:
quando, Testa di ferro, tutto ferro,
alto levando, come alfier, la spada,
puntando ai fianchi del destrier gli sproni,
egli tornò. Tornava dall'esilio:
dalla vittoria. E il popolo Taurino
gridò: «Già viene! Ecco il signor con noi!
Vero il tuo nome dice Emanuele!»
Egli ristette e il suo cavallo immane

il vasto campo; così tu, guerriera,
con le tue case e con le tue contrade.

In te milizia è tutto; anche l'austere
voci e parole e l'anime dei tuoi;
che, se squilli la tromba del dovere,
corrono a morte, umili ed alti eroi.

Né, pur sempre crescendo in ogni parte,
oblìo ti prese del mensor di Roma,
o fida al primo cardine, ed all'arte,
ubbidïente, dell'antica groma.

Ma le diritte nuove strade intorno
son or tenute da coorti nuove,
e un fragor d'armi nuovo, e notte e giorno,
l'immenso accampamento empie e sommuove.

Sono telai dalle infinite spole,
dagli infiniti pettini sonanti;
sono gran magli che sulla gran mole
del rosso ferro piombano incessanti.

Esce il vapor con fischi di tempesta.
Ogni metallo intenerisce e strugge.
Morsa da mille denti ogni foresta
si fende e scinde, e intanto freme e fugge.

Fiumi lontani che, da un alto balzo,
a valle giù precipitano bianchi
di schiuma, un uom divino, nel rimbalzo
loro, li prese e li serrò nei fianchi.

Così cavalli come prima, a schiere
ubbidïenti, li guidò dall'erte
al piano, dando ai vento le criniere,
spruzzando l'acqua dalle froge aperte.

Mentre là stanno tra ghiacciai, tra foci
crine, lontani dal rumor del volgo;

E non udì che gli avea fatto motto
la vecchia moglie; e non udì sonare
l'Avemaria dal campanil di Giotto.

Le creature sue piccole e care
mirava il terziario canuto
nella serenità crepuscolare.

E non disse, com'era uso, il saluto
dell'angelo. Saliva alla finestra
un suono di vivuola e di leuto.

Chiara la sera, l'aria era silvestra:
regamo e persa uliva sui balconi,
e giuncava le vie fior di ginestra.

Passeri arguti empìan gli archi e gli sproni
incominciati di ser Brunellesco.
Cantavano laggiù donne e garzoni.

C'era tanto sussurro e tanto fresco
intorno a te, Santa Maria del fiore!
E Paulo si scordò Santo Francesco,

e fu tentato, e mormorò nel cuore.
CAP. V
Della mormorazione che fece Paulo, il quale avrebbe pur voluto alcun uccellino vivo.

Pensava: "Io sono delle pecorelle,
Madonna Povertà, di tua pastura.
E qui non ha né fanti né fancelle.

E vivo di pan d'orzo e d'acqua pura.
E vo come la chiocciola ch'ha solo
quello ch'ha seco, a schiccherar le mura.

Oh! non voglio un podere in Cafaggiolo,
come Donato: ma un cantuccio d'orto
sì, con un pero, un melo, un azzeruolo.


a mo' di pio seminator, le brice
cadute al vostro desco, angeli santi.

Paulo guardava, timido, in tralice.
Le miche egli attingeva dallo scollo
del cappuccio, e spargea per la pendice.

Ecco avveniva un murmure, uno sgrollo
di foglie, come a un soffio di libeccio.
Scattò il colombo mollemente il collo.

Si levava un sommesso cicaleccio,
fin che sonò la dolce voce mesta
delle fedeli tortole del Greccio.

Dal campo, dal verzier, dalla foresta
scesero a lui gli uccelli, ai piedi, ai fianchi,
in grembo, sulle braccia, sulla testa.

Vennero a lui le quaglie coi lor branchi
di piccolini, a lui vennero a schiera
sull'acque azzurre i grandi cigni bianchi.

E sminuiva, e già di lui non c'era,
sui monti, che cinque stelline d'oro.
E, come bruscinar di primavera,

rimase un trito becchettìo sonoro.
CAP. X
All'ultimo come cantò il rosignolo, e Paulo era addormito.

E poi sparì. Poi, come fu sparito,
l'usignolo cantò da un arbuscello,
e chiese dov'era ito... ito... ito...

Ne stormì con le foglie dell'ornello,
ne sibilò coi gambi del frumento,
ne gorgogliò con l'acqua del ruscello.


A cui, crescendo, s'aggiungean fanfare
di trombe e corni, ed, ecco, un infinito
coro di voci alte nel cielo e chiare.

Giungeva sempre più canoro il nembo
sopra il tuo capo pendulo, sopito,
ch'allor tua madre s'accostava al grembo.

Passava il nembo, lontanava l'inno
con le grandi ali tremole e sonore,
lasciando alfine un sol, di sé, tintinno,

piano, più piano... era dell'arpa mia...
e tu la udivi con l'orecchio al cuore
della tua madre, per la lunga via..."
III
Poi disse: "Pensa al giorno, così lento,
quand'eri messo a lavorare il ferro.
Movevi tu da striduli otri il vento.

E quattro fabbri mezzo neri e nudi
traeano il masso dal carbon di cerro
e lo battean sull'echeggiante incudine.

Ero con te. Battevo lieve l'ale
assecondando quell'ansar concorde
e quello squillo de' martelli uguale.

Toccavo un poco l'arpa tra il lavoro
sonante, e il suono tu delle mie corde
udivi sotto il muto gesto loro.

Io nel gran bosco ch'urla al nembo ignoto,
fo che tu senta il canto d'un uccello
che gonfia il collo ed apre il becco a vuoto.

Io fo che in mezzo ad un crosciar di frane
e di valanghe, là, d'un paesello
soavi e piane oda le tre campane.


Qualcuna scende fino a lei: ne muore.
Ma le ritrova in mezzo alle corolle,
essa, dei fiori, ancor tremanti il cuore.

Tra fiori e fiori, in cielo e in terra, molle
di guazza anch'ella, muove tra il frastuono,
de' quattro fiumi, all'ombra del bel colle.

E` il tempo primo, il primo tempo buono,
ch'è buona anche la Morte che deforme
segue la vita come l'eco il suono.

Buona anche lei, la nera ombra senz'orme,
la vecchierella che sa dir le fole,
trista bensì, ma che con quelle addorme!

Ognun la schifa. E la fanciulla suole,
benché la tema, esserle pia: s'attarda
spesso a sentire lunghe sue parole:

- C'è buio, sì. Non c'è che un lume, ch'arda.
Son io la guida del meandro vano;
io cieca. E brutta... Non guardarmi! Guarda

solo il lumino. Io vo con quello in mano. -

CANTO TERZO
I.
Fioriva il cielo azzurro già di stami
di fior di croco. "Io era innamorata
di te, ma tu, che amai, non mi riami!

T'amai più che nessuno, più che tutti.
Doni ti feci meglio che una fata:
ma non li prendi: a' piedi te li butti!

Fui la tua schiava e t'ebbi come sire;
eppur ti feci, povera fanciulla,
doni immortali: e tu li fai morire!


con quella fioca lampada pendente,
e gliel'avrebbe con un freddo soffio
spenta, la Morte. E presso a morte egli era!
e Dio gli disse: "Io già non venni a pace
mettere in terra; pace no, ma spada.
Venni a separar l'uomo da suo padre,
figli da madre, suocera da nuora.
I suoi di casa l'uomo avrà nemici".
E Dio soggiunse: "Non cercare adunque
ciò che le genti cercano; ma il regno
cerca di Dio, cerca la sua giustizia!
Né pensare al dimani: esso, ci pensi.
Ad ogni giorno basta la sua pena".
E Dio gridò: "Chi ama padre o madre
su me, non è degno di me. Chi ama,
più di me, figlio o figlia, non è degno
di me. E chi non prende la sua croce
e segue me, non è degno di me".
Ed e' vestì la veste rossa e i crudi
calzari mise, e la natal sua casa
lasciò, lasciò la saggia moglie e i figli,
e per la steppa il vecchio ossuto e grande
sparì. Tra i peli delle ciglia gli occhi
ardeano cupi nelle cave occhiaie,
e gli sferzava intorno al viso il vento
la bianca barba. Tra le betulle irte
andava, curvo sul bordone, ed aspra
scrosciava sotto il grave piè la neve.
E mentre andava, a lui più forte il cuore
un dì batté; spicciava dalla fronte
ghiaccia il sudore ed anelava il petto.
Ond'ei sostò nella nevata steppa
in un crocicchio, in mezzo a grandi selve.
E chiuse gli occhi sotto i fili d'erba
delle sue ciglia. Ma li aprì stupito...

II
E si trovò sotto un pallor d'ulivi.

P
Ma il Santo volto al suo compagno: "Frate
Leone," disse, "or va per altra via,
ché a me conviene ora fuggir celato..."
E sparve. E l'altro uscito dalla terra
andò ramingo per ignote strade.

V
E si trovò nel mezzo a una pineta.
Misto d'incenso v'era odor di mare.
Udì lontano un suono di compieta.

Pianger parea la squilla il dileguare
ad occidente d'assai più che un giorno!
E là tra il nero era un lucor d'altare.

Parea, la selva, un tempio. E quando intorno
tacque la squilla sola, ecco dei pini
s'udì l'aereo murmure piovorno.

Stridiano sulle stipe e sugli spini
tremuli i grilli, e rispondean le rane
a quando a quando di su gli acquastrini.

E notte venne, e fu tutt'ombre vane
l'antica selva, e risonò di rotte
grida di fiere e forse voci umane.

Uno sfrascare, un galoppare a frotte,
un grido acuto, e poi silenzio ancora,
e l'ansimare solo della notte.

E sorse il lume d'una strana aurora
notturna, che le strigi vagabonde
fece fuggir con muti voli anzi ora.

Trascolorò sotto le pallide onde
il tempio immenso con veloci fiumi
ed alte guglie e cupole rotonde.

E il pellegrino, in mezzo al lento fumi-

gare di luce vivida e spettrale,
un uomo vide lento errar tra i dumi.

Veniva dal gran Carro boreale.
Solcato d'ombre era il suo volto macro,
e fisso l'occhio, e sempre, il passo, uguale.

Egli avanzava per il luogo sacro,
tra un'infinita fuga di colonne.
Lo accompagnava il suono del lavacro

del mare eterno... di quell'altro insonne!

VI
E vide il vecchio, e gli mormorò: "Pace".
E il vecchio scosse il capo: "Andai, lontano,
per aver lei, da tutto ciò che piace!"

"Io fui cacciato": mormorò il silvano.
E poi soggiunse: "e mi sbalzò sul flutto
d'ogni procella il folle vento vano.

Così mostrai le piaghe mie per tutto.
Altro non fui che pianta di mal orto,
pianta silvestra senza fior né frutto.

A me fu questo che tu vedi, il porto.
Per questa selva m'aggirai cattivo
e lasso e tristo e cieco e nudo e morto.

Morto non pur, ma come non mai vivo.
Era il mio nome per fuggir disperso,
qual foglia secca su corrente rivo.

DANTE, il mio nome. Ero nel nulla immerso,
quando, guardato in viso la ventura,
sorsi e descrissi tutto l'universo.

Descrissi l'uomo, e il sonno nell'oscura
selva e il risveglio, e l'apparir di fiere,

l'una che attrae, la coppia che spaura.

Mi seppellii sotterra per vedere.
Vidi né vivi i più né morti, vidi
gli uomini bestie e l'anime più nere.

Ebbro di lai, d'urli, di guai, di gridi,
mi lasciai sotto capovolto il male,
e giunsi a santi solitari lidi.

A un santo monte su per aspre scale
salii, dove la pena era gioconda.
Gli angeli ventilavano con l'ale.

Nel fuoco entrai. N'ebbi la vista monda.
Entrai là dove bene è ciò che piace,
e l'uomo oblìa, poi si rinnova, all'onda

di sacre fonti. E ritrovai la pace".

VII
Poi disse: "Ritrovai la beatrice".
E il vecchio parve domandar qual era
quel monte, lungi, dov'è l'uom, felice.

Spirava un'aura placida e leggiera
che scivolava sopra i larghi pini,
recando odor di mare e primavera.

E con sommessi sibili tra i crini
irti soffiava, e giù garrian gli uccelli,
nell'ombra nera, gl'inni mattutini.

Già si vedean fioriti gli arboscelli
appiè dei pini, e l'acqua bruna bruna
moveva là, di limpidi ruscelli.

E il vincitore della sua fortuna
disse: "Non mossi il piè di qui. Del pianto
o della gioia, questa selva è una".


Sorgeva il sole; e più che dolce, intanto,
tra il sibilare de' chiomati rami,
fra l'infinito rompere del canto

degli uccelletti e il rombo degli sciami
e il singulto dell'acque andanti e l'almo
odor delle viole e de' ciclami,

accompagnato dal respiro calmo
del mare eterno, su per la pineta
veniva il suono d'un eterno salmo.

Venìa Matelda lieta oprando, lieta
cantando, con sue pause per un fiore,
sempre movendo verso il suo poeta.

Ora la selva antica dell'errore
e dell'esilio e d'ogni trista cosa,
splendea di gioia e sorridea d'amore.

Dall'oriente acceso in color rosa,
cinta d'ulivo sopra il bianco velo,
perennemente a lui scendea la sposa,

per trarlo in alto, al Libano del cielo.

VIII
E si trovò tra massi di granito,
il pellegrino, irsuti di lentisco
e di ginepro, e v'odorava il timo
e l'acre menta e il glauco rosmarino
dai fior cilestri. E vi s'udìa lo zirlo
dei tordi e il trillo delle quaglie e il fischio
dei merli. E sparso era un armento bigio
d'onagri. E stava, sopra un masso a picco,
bianca una vacca avanti il mar tranquillo.

Ed era quella un'isola selvaggia,
con grande odor di regamo e di salvia.
Pascea sui picchi la solinga capra,

 
GIOVANNI  PASCOLI
POEMI DEL RISORGIMENTO

EGREGIAS ANIMAS, QUAE SANGUINE NOBIS
HANC PATRIAM PEPERERE SUO, DECORATE SUPREMIS
MUNERIBUS.

NOTA PRELIMINARE
Avrei voluto tenere esclusivamente per me questo inizio di lavoro, e seguitare da sola su esso il mio segreto pianto. Ma ci sono dei buoni amici che aspettano, e aspettano perché avevano avuto qualche promessa. Ho risoluto perciò di pubblicare quello che c'è, come è, con la coscienza di compiere un dovere, di pagare, direi quasi, un debito d'onore contratto da Lui.

Dopo aver molto cercato e studiato sui manoscritti non ho potuto mettere insieme se non questi pochi poemi, alcuni incompiuti e alcuni compiuti sì, ma non limati. Le carte sono piene di appunti e di orditure. Per Lui era questione di un po' di tempo, libero e tranquillo. Ma, quando sperava arrivato il momento, quella mano, pronta e sicura, s'è fermata. Tutti quei foglietti, ignari di ciò che è accaduto, sembrano in attesa! Qui c'è il programma per il tal mese, più là per la settimana, spesso spesso per il giorno. Programmi che quasi mai gli era dato di eseguire. Perché... ma è inutile che ora io mi metta a enumerare i perché. Solo chi avesse tenuto un po' dietro a ciò che produceva e che appariva agli occhi di tutti, e agli innumerevoli fuor d'opera a cui lo costringeva la sua grande condiscendenza, potrebbe farsi un concetto di quanto vorrei dire e non dico. Il tempo non era suo: il no non sapeva dirlo.

Mi proverò a dare in poche parole un'idea de' suoi intendimenti intorno a questo lavoro, a cui attendeva con amore e fede, e che doveva essere, come Egli diceva, il suo supremo tributo alla Patria, e agli Eroi e ai Martiri del nostro Risorgimento. Proverò.

In tre volumi Egli avrebbe costretta l'opera sua. Nel primo si doveva arrivare fino al '48: dall'ultimo imperatore latino ai Bandiera. Mancano, quindi, secondo le sue note, Il tricolore, I templari, altri Poemi mazziniani, i poemi su Carlo Alberto, quasi tutto il ciclo di Garibaldi in America, che doveva conchiudersi col ritorno di lui in Italia con Anita e il piccolo Menotti; infine i più vibranti di passione: Nello Spielberg e I fratelli Bandiera. Via via, in mezzo ai poemi epici di vari metri, dovevano attraversare i volumi, con volo lucido e rapido, dei brevi poemetti lirici sul genere di Garibaldi vecchio a Caprera. Credo, anzi, che questo, già pronto, mentre il suo posto non l'avrebbe trovato se non alla fine dell'opera, sia stato eseguito quasi per prova o per modello.

Terminato l'Inno a Torino, Egli intendeva subito proseguire ordinatamente. Aveva già avuti in bozze e corretti una prima volta i primi due poemi: Napoleone e Il Re dei carbonari. Stava eseguendo il terzo. Un giorno, uno degli ultimi che si levò di letto, si recò mestamente nello studio e, dopo aver guardato i suoi libri e rilette alcune sue carte, su di un foglio bianco scrisse con mano ancora sicura il titolo del poema che l'attendeva:

22 marzo 1912 – Il tricolore!

e nient'altro! Lì presso in una cartellina si leggevano i quattro primi versi e gli appunti. Il giorno dopo non si levò! Non credo che possa dispiacere di conoscere qualcuno di quei palpiti che gli vibravano in cuore anche in mezzo alle sue crudeli sofferenze.

IL TRICOLORE

Nella città che è in mezzo a quattro strade
s'odono molti plaustri cigolare.
Mugliano bovi, squillano campane,
brillano spade, luccicano lancie.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
«Ma non sono le campane e i bovi dei carrocci... Un nuovo giuramento è stretto. Non a Pontida, non nei boschi... Nessun connubio con l'imperatore. Nessun esercito rimarrà o verrà in Italia... La lega, che sta nella sua città di paglia tra la Bormida e il Tanaro, ha inalzata la sua croce... Dove sei imperatore dalla Barba Rossa? Ecco la nuova bandiera... Salutatela, o trombe, o lancie, o bovi, o plaustri! Ella ha i colori nuovi... O tricolore d'Italia! sorto tra il nembo, tra i primi tuoni di primavera, in attesa del re, del primo re d'Italia!... Non ha più i colori del fuoco spento, del fuoco vivo, del fuoco operante...  È un'altra. O pianura del Po! o neve dell'Alpi! o rosso dei vulcani! o veste di Beatrice! Per te quanto si morrà! quanti saranno avvolti nelle tue pieghe! Quanti ti avranno sul loro feretro!... In quante battaglie... in quante tempeste!... Non lasciatevela prendere... stracciatela piuttosto... ponetevela sul petto, inabissatevi con lei nei gorghi del mare! – O sacro vessillo! ora deve venire il tuo re. Avanti contro gli stranieri! contro i crocifissori di Prometeo. – O città, nata nell'Aprile, come Roma! asilo di esuli, come Roma! o nata di profughi, come Roma! o subito in guerra, come Roma! Non è dei boschi di carbone la bandiera che tu inalzi, essa viene da più profonde lontananze...»

E, così preparato, quanto ce n'è del lavoro! «Possibile, soleva dire, che non debba aver mai un po' d'agio per dedicarmi alla poesia? Ne sono così pieno! ho ancora tutto da fare!» Non tutto, ma tanto sì. E questo tanto doveva dar vita a' suoi sogni d'artista, confortare le grandi ombre, incitare i giovani, e mostrare all'Italia la sua devozione...

Ho voluto accogliere in questo volume, sebbene non appartenga ai Poemi del Risorgimento, anche la versione italiana dell'Inno a Roma e dell'Inno a Torino, perché l'uno e l'altro furono da Lui composti in latino e poi tradotti in italiano negli ultimi mesi di sua vita per onorare e glorificare la sua diletta Italia.

I volumi che avrebbero seguito questo primo (rimasto pur troppo così incompleto) non è difficile imaginare che cosa dovevano contenere. Dal '48 in poi ce n'è della poesia da estrarre dagli avvenimenti della nostra patria! Egli l'aveva vista tutta e si riprometteva di farla vedere anche a noi.

Ed ora? Ora a me non resta che concludere con le parole ch'Egli prepose al principio del primo poema, e associare al suo nome quello del padre suo, ch'Egli voleva tener vivo nei cuori perché vittima invendicata.

« X agosto 1910 – Poemi del Risorgimento.

Si comincia il poema a onore e gloria feconda d'Italia, di quell'Italia ch'Egli amò così ardentemente nei tempi solenni e che non diede pure uno sguardo di pietà a lui insanguinato e morto, né ai figli di lui, soli e mendichi.
Ebbene?»

Perché siano chiare queste parole occorre leggere la seguente lettera:

comando civico Repubblica Romana
del
Comune di S. Mauro
nr– 34
Cittadino Governatore
A pronto riscontro del vostro dispaccio d'oggi N. 573, col quale mi date comunicazione di altro dispaccio del Cittadino Preside risguardante l'arruolamento di quel maggior numero di militi di questa Compagnia Nazionale che volonterosi volessero disporsi a marciare all'occorrenza; vi significo che io porrò in opera ogni premura e fatica per giungere allo scopo; ma è duopo ch'io faccia alcune riflessioni che desidero siano a cognizione del lodato Preside.

E primamente vi faccio conoscere, che essendo questa compagnia composta nella maggior parte di campagnuoli, sarà difficile poterli persuadere ad intraprendere una marcia; d'altronde essendo questo paese in mezzo alla campagna, la quale, come è ben noto, è assai avversa all'attuale governo per le perfide insinuazioni di malevoli; è necessario sopratutto l'attività della Guardia Nazionale, massime in questi tempi solenni, onde impedire reazioni e disordini, che purtroppo potrebbero suscitarsi.

Il numero dei militi, su cui possa contarsi per impedire e reprimere una reazione, si riduce a poco, e quindi di questi non sarebbe prudenza a privarsene; poiché lasciando il paese a difesa degli altri, non sarebbe difficile si mescolassero coi reazionari, ed ai medesimi cedessero le armi come amici.

Io, ripeto, farò dal canto mio quanto mi sarà possibile, ed assicurate il Preside di tutta la mia energia.

Salute e fratellanza.

S. Mauro, 3 maggio 1849 Il Capitano Comandante
Ruggero Pascoli

Perdonino i buoni amici e tutti i buoni, che leggeranno, l'insufficienza mia. E sopra tutti mi perdoni il dolce spirito, che mi è sempre accanto, se non so corrispondere degnamente alla sua fiducia. Ci metto tutta la mia buona volontà.

Castelvecchio, 30 aprile 1913.

Maria Pascoli

pascean le vacche chiuse nella tanga.
Né rissa mai v'ardeva, se non l'aspra
voce talora alta mettea la mandra
degli orecchiuti. E il mare sussurrava
come un po' stanco, con la placid'ansia
quasi di sonno, all'ineguale spiaggia.

Pur altre volte il vento udire il rullo
facea di cupi timpani e l'acuto
squillo di trombe, andando al ciel lo spruzzo
salso del mare; e un secco fragor lungo
dava, ai macigni ed allo scoglio, d'urto.
Fuggiano il vento pallide le nuvole,
accavallate all'orizzonte oscuro;
e palpitava scosso da un sussulto
il cielo, il cielo che v'è sempre azzurro.
Ma il sole allora limpido come oro,
scaldava i pingui cavoli nell'orto,
le prime fave, i fiori del fagiolo.
E del fior d'uva già per l'alto poggio
spremea l'odore. E i petali di fuoco
già dei gerani trasparian dal boccio.
E luccicava l'àlbatro e l'alloro...

IX
E il pellegrino vide un uomo rosso
che arava. E miti vacche erano al giogo.

Ed un altr'uomo, che vestìa di fiamma,
spargeva il seme con man lenta e savia.
Ed un altr'uomo, che vestìa di grana,
copriva il seme con la grave zappa.
E l'aratore dalla fronte larga
spargea sudore, e lietamente arava
con un sorriso tra la fulva barba.
La chioma bionda fluttuava all'aria.
Specchiava il sole la pupilla chiara.

E venner altri da vicini tetti

recando cibo, che vestìano anch'essi
tuniche rosse. Avevano nei cesti
fave fumanti e pan raffermo e pesci
seccati al vento. All'ombra di due lecci
sederon tutti, come dei, sereni.
Erano a loro sassi erbosi i seggi,
sassi le mense. E sparsi per i greppi
parlavan olio e grano, uve ed armenti.

E già pasciuti, bevvero sul pane
acqua di pozzo. Non aveva altre acque
l'isola dura, né, pur mo' piantate,
davan le viti ciò che fa buon sangue.
Né altro dava l'isola, che piante
di pino e tasso buoni per le fiamme
d'un grande rogo. Un'isola di capre
era, silvestri. Qualche angusta valle
sola pativa il ferro delle vanghe.

E il pellegrino s'indugiava, e stette
molto ammirando l'eremita agreste,
che aveva in odio lotte, risse e guerre,
che sazio e lieto, tolte ormai le mense,
sorgea dicendo: "Nella pace è il bene!"

X
Ma improvvisa ecco nitrì Marsala,
passò nitrendo la giumenta baia
libera e nuda. Un vento di battaglia
precipitò sull'isola selvaggia.

Era il corsaro, era il filibustiere
sfidante il fuoco in mezzo alle tempeste,
era il cavalcatore, era il truppiere
volante via tra un flutto di criniere,
via per le Pampe, via per le foreste,
un contro cento, e ora e dopo e sempre!

Era il romano difensor dell'Urbe:

Mario gli diede i fasci con la scure:
egli passò tra quattro genti, immune,
dalla tua rupe, o Giove, alla tua rupe,
Titano, da San Pietro alla Palude,
come l'eroe nascosto in una nube!

Era il nocchiero che volgea la barra
del navil mosso a ricercar l'Italia,
dietro una stella; e nel chiaror dell'alba
s'udì gridare: Italia! Italia! Italia!
Ella apparia tra fuoco ardente e lava
fumante. Egli vi scese con la spada...

E la giumenta ripassò nitrendo,
squillò quel ringhio come tromba al vento,
stettero, grandi, alti, col mento eretto,
guardando lungi, in fila ed in silenzio,
gli uomini rossi. Ognun pareva intento
a un'ombra dubbia, ad un rumor sospetto...

Ma l'aratore il liscio collo e l'anche
palpò plaudendo con le mani cave
alla giumenta e dielle del suo pane...
E presso lui si fece il vecchio errante,
vestito al modo delle sue campagne.
"Mugik eroe" disse: "io vuo' qui restare".

SVB ARBVTO

GIOVANNI PASCOLI
POEMI ITALICI

I Poemi italici, pubblicati l'anno prima della morte, si ricollegano idealmente a Odi e Inni, ma esasperano quel faticoso simbolismo che già era il limite alle Canzoni di Re Enzio.

Tre soli sono giunti a noi, oltre a poche «tracce» custodite dalla Biblioteca di Bologna. Quelli completamente sviluppati s'intitolano Paulo Ucello, Rossini e Tolstoi; quelli promessi, ignorando la morte vicina, avrebbero dovuto celebrare Marsilio Ficino, Michelangelo e Galileo.

POEMI DEL RISORGIMENTO

I Poemi del Risorgimento furono pubblicati postumi dalla sorella Maria nel 1913. Contro «i cento o dugento poemi patriottici» che il poeta aveva in animo «per ridestare negli italiani il sacro fuoco» soltanto nove ci sono pervenuti, e per di più in redazione non definitiva: sei su Garibaldi (da fanciullo a Roma a vecchio a Caprera), e tre rispettivamente intitolati Napoleone, il re dei carbonari, Mazzini. Dei tre grossi volumi immaginati dal Pascoli avrebbero dovuto far parte anche i due Inni a Roma e a Torino, già pubblicati in latino e in versione italiana, e farvi da premessa ideale i Carmina del mondo classico e cristiano, anch'essi continuati fino all'ultimo.

Infatti il poeta romagnolo sognava di poter completare un unico, ambiziosissimo «gran poema», nel solo modo «che la modernità permette: un poema di poemi a sé».