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CESARE PAVESE



POESIE VARIE
Parte seconda



Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Cesare Pavese

L'uomo e il Poeta
_________

da
http://www.pocherighe.org
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CESARE PAVESE  - POESIE VARIE - Parte seconda










































FINE
Nella vita dell’uomo c’è una lotta costante: lotta tra l’indifferenza verso tutto (gli altri, gli eventi, le cose) e l’ansia di possedere tutto (gli altri, gli eventi, le cose), e Pavese, il più intelligente (ma il meno astuto) tra i nostri scrittori della prima metà del 900, ha vissuto in tutte le sue fibre questa lotta umana, in un contrasto quotidiano, fatto di solitudine e ansia di comunione, di costante esame di coscienza quasi sempre impietoso verso se stesso, e di un lucido interrogarsi e interrogare la letteratura, la storia, la realtà tutta in attesa di trovare almeno un briciolo di verità.
E come lui, anche tutti noi lottiamo ogni giorno, - lui molto cosciente, noi spesso senza accorgercene - alla ricerca di un viottolo che ci conduca all’equilibrio tra queste due spinte contrarie e inquietanti (indifferenza e possesso), entrambe insoddisfacenti per quella pienezza cui l’anima umana anela. Tutta l’opera di Pavese ci fa capire che il viottolo dell’equilibrio tra queste due forze è un’illusoria tentazione, perché – come ci insegna il poeta Antonio De Petro - non si può soddisfare la sete bevendo stoicamente della sabbia: abbiamo bisogno, umilmente bisogno, di trovare l’acqua, cioè di trovare, di riconoscere quell’elemento giusto che sappia saziare la nostra sete. E per incontrare questo, sono convinta che sia necessario entrare in una dimensione totalmente diversa dalla stoica lotta tra indifferenza e anelo di possesso. Lo spirito umano – che Pavese chiama “spirito non santo” - è fatto per incontrare una risposta vera, e questa risposta si nasconde per lui dietro una maschera di eccessi: quell’eccesso di silenzio, quell’eccesso di osservazione, quell’eccesso di sincerità, quell’eccesso di
lettura e scrittura che pervadono le numerosissime pagine che Pavese ha scritto e che a noi tocca leggere, fare nostre e non dimenticare.
Umiltà e contemplazione sono due parole ricorrenti nell’opera di Pavese - e forse sono le più inascoltate dai suoi lettori (perchè sono da lui solo suggerite, mai imposte, pur in quella sua caparbia coscienza che “repetita iuvant”). Ecco direi che sono piene di umiltà e di pura contemplazione Paesi tuoi o La luna e i falò, Il Compagno, La spiaggia, La bella estate o Il diavolo sulla collina, Il mestiere di vivere, Le poesie del disamore e Lavorare stanca o I dialoghi con Leucò o La casa in collina e perfino Tra donne sole, ma anche i suoi racconti, i saggi, gli articoli e quella sua meravigliosa corrispondenza piena di umore, di forza e di intelligenza, rapida a volte, a volte frettolosa, a volte lentissima ed esauriente, mai sciatta o imprecisa.
L’umiltà Pavese la raggiunge attraverso il realismo con cui guarda se stesso e gli altri: è l’umiltà che nasce dall’ovvia evidenza del limite della persona umana. E, come succede a tutti, all’umiltà anche Pavese vi arriva per mezzo di umiliazioni non cercate. L’esperienza dell’umiliazione ci può sembrare quasi esagerata in lui, appunto un eccesso, un po’ come se ci trovassimo di fronte a un Jacopone da Todi del Nord, che parla in quel suo privato e speciale dialetto però del secolo ventesimo. Scrive Pavese a Billi Fantini: “Si convinca che fuori dei libri scritti, io non sono che una mezza cartuccia, un “angolino da ripulire”, un vermiciattolo” (20 luglio 1950). C’è una certa sottilissima ironia, propria di Pavese, ma c’è anche tanta profonda serietà in queste parole e non certo è a caso che va a un ricordo biblico, precisamente a Geremia nel capitolo 2, quando Dio si rivolge al profeta chiamandolo appunto “vermiciattolo”.
Se l’umiltà gli è costata cara, non è stato più a buon mercato che ha raggiunto quella capacità di contemplazione pura che stupisce e lo rende unico. Scrive a Piero Calamandrei il 21 agosto 1950: “Quella “serena contemplazione del ricordo” che lei rileva nei miei libretti non è stata se non a prezzo di tali rinunce nella mia vita che oggi ne sono tramortito”.
E vorrei a questo punto suggerire una domanda: in che modo dobbiamo leggere tutte queste sue pagine, così dense, mai fatue, di una poesia che quando non toglie il fiato spezza comunque il cuore? Cerco di rispondere, partendo da come l’ho letto e lo leggo io, cioè dalla mia esperienza diretta.
Per leggere bene questi che lui definisce “i miei libretti”, dobbiamo metterci nella stessa umiltà e nella stessa contemplazione con cui lui parla e scrive, osserva e trascrive, sente e trasmette: mi sembra che sia questa la chiave di lettura più sanamente generatrice per accogliere quel cavallo di razza che è stato Pavese, per farcelo “conoscere” in una più giusta e più esaustiva dimensione. Umiltà e contemplazione sono due virtù (cioè due forze), come abbiamo visto, che non sono facili da raggiungere e che costano care. Lui scrive il nome di queste due virtù (col dolore, con l’erudizione, con la curiosità, con la sua durezza, senza peli sulla lingua, ma mai con malvagità) su una specie di gigante lavagna, per così spingerci a farle nostre e a lasciar perdere quell’illusorio viottolo dell’equilibrio che vorremmo percorre, e indurci invece a cambiare strada. Pavese ci obbliga quasi, con la violenza propria dei timidi, a prendere la nostra croce umana e a camminare a piedi nudi verso sù, per una viuzza seminascosta, acciottolata e ripida, da cui vedremo un panormana che è anticipo di verità. E in mezzo alla vigna o mangiando ciliegie davanti alla notte, Pavese si offre come una primizia dell’uomo del secolo ventesimo che percorre questa viuzza in salita, dove ogni passo si nutre di una sempre più intima e inesorabile passione per il vero.
Dopo una settimana di intenso lavoro, di incontri, di poche ore di sonno, arriva finalmente il sabato pomeriggio, per riposare, magari di fronte al mare o a una bella collina o una serie di orti coltivati a verzura e colorati di fiori: qui, in questo silenzio che accompagna il riposo, ognuno di noi ce la fa sicuramente a leggere l’abitabile Pratolini, quello “schietto narratore” (3 ottobre del 44) che era il Boiardo, o si può leggere Boccaccio, l’Ariosto, persino Tolstoi (tanto odiato da Pavese) o quell’adolescente di Svevo (come lui lo definiva). Ma sicuramente nessuno ce la fa a leggere Pavese, a meno che non decida di rinunciare al riposo e rimettersi al lavoro.
Per poter entrare nella profondità e ampiezza di domande e di contraddizioni che Pavese offre, il nostro spirito non può essere in riposo: dev’ essere vigile, sveglio, pronto alla lotta. Ci si annoia subito con Pavese, se non ci si impegna sul serio ad ascoltarlo e a lottare con lui o contro di lui. Pavese è solo per lettori vigilanti, disposti a non lasciarsi soffocare dalla realtà che questo inusuale scrittore ci racconta senza difese e senza reti protettive. Insomma, Pavese è per lettori che vogliano diventare lettori di razza.
Pavese va letto lentamente: non è cibo da buffet o da fast food. Va letto piano piano anche quando – come succede soprattutto nelle sue poesie – uno vorrebbe mangiarsele tutte d’un fiato. Ma se si vince l’ imprudente tentazione di leggerlo in fretta e ci si dona all’arte della lenta lettura e dell’ascolto puro, ecco che a poco a poco il palato diventa regale e si può
assaporare tutta la ricchezza di un gusto mai provato prima, ci si nutre di un miele a volte dolcissimo a volte molto amaro, sempre in grado di suscitare domande ed emozioni importantissime e inevitabili. Con Pavese, dunque, s’impara a leggere lentamente e così, invece di mangiarli o metterli via, ci lasceremo interrogare dai suoi libri, e sarà un’esperienza di grande maturazione umana e letteraria.
Quando aveva solo diciottanni, in una lettera al suo amico Mario Sturani, Pavese indica qual è il vero motivo per cui scrive. Lo dice in uno dei suoi primi tentativi di poesia, non certo riuscito però chiarissimo: “Logoro, disilluso, disperato/ di mai riuscire a suscitare nell’anima/degli uomini una vampa di passione/con un’arte ben mia, così vivo/triste nei lunghi giorni...eppure a tratti/mi sento traboccare di una vita/ caldissima, potente, che se mai/ riuscissi a esprimere, sarebbe colma/ tutta la mia esistenza!”
Sotto la lamina del sottile gelido inverno del suo temperamento piemontese, c’è dunque un’anima che vibra intensamente e noi dobbiamo prendere in mano queste braci, se vogliamo incontrare quella scintilla che purifica ogni banalità.
Abbiamo detto che il primo passo è leggerlo lentamente per incontrare qualcosa che va al di là di quella barriera che Pavese frappone tra lui e noi – nonostante tutte le confidenze di cui pure è capace. Incontrare la porticina scavata in questo muro e trapassarla, entrando così in quell’inusuale suo lucidissimo sguardo sul mondo, è un passo non facile ma ne vale la pena: basta solo deciderlo e poi camminare. Dobbiamo dimenticarci di noi stessi che stiamo leggendo Pavese. Dobbiamo dimenticarci dell’autore e di tutto quello che di lui abbiamo ascoltato o sentito dire. Dobbiamo fare una sola cosa: lasciarci amare da quelle poesie,
da quei racconti, da quelle lettere, da quegli articoli, da quei saggi e da quelle novelle: perché Pavese è vivo e con lui dobbiamo instaurare un dialogo degno di un interlocutore che non spreca parole, che non riempie pagine a casaccio e che non intende ingannarci. Lo so che non è facile lasciarsi amare così, e d’altra parte lasciarsi amare è ancor più difficile che amare, e forse è per questo che Pavese, nel nostro mondo un po’ volgare, un po’ fatuo e un po’ distratto – che tanto assomiglia al rospo che si gonfia di vanità per due nozioni di psicologia imparate sulle riviste di moda o dagli oroscopi gratuiti – è notissimo di nome e sconosciuto di fatto. Ma io insisto nel dire che vale la pena trapassare quella soglia ed entrare direttamente in un dialogo personalissimo con lui, perché se di una cosa sono sicura è che, leggendo bene Pavese, uno diventa più uomo. Per questo, è sempre piuttosto deludente e a volte fa rabbia e a volte fa pena e sempre risulta ingiusto quello che tanti ne han fatto e ne fanno di lui: un personaggio di cui si raccontano, con piacere o con dolore, con malizia o compagnoneria, le più tristi banalità o i più privati presunti segreti.
Non voglio dire che di Pavese si siano scritte o dette cose solo superficiali o inutili: anzi. Molti lo hanno amato, come “lo scrittore” che ha avuto il coraggio di dire tutto di se stesso, attraverso il diario e le lettere, e che ha avuto la debolezza di non prendere in mano il fucile al tempo della battaglia e di aver ammazzato se stesso invece che altri, ma in troppi sono caduti nella trappola di ridurlo in fin dei conti a un oggetto di pettegolezzo, proprio come lui chiedeva di non fare, ben sapendo che di pettegolezzi s’immiserisce tutta l’umanità.
E– detto tutto questo – aggiungo che Pavese non è per me né un idolo né un personaggio mitico. E’ un grandissimo scrittore già classico, un punto di non ritorno per la letteratura italiana ed è, ripeto, un cavallo di
razza, e va letto come lui stesso ci invita a fare con ogni libro che ci troviamo tra le mani.
Cito da un articolo di Pavese pubblicato su “L’Unità” di Torino il 20 giugno del 1945:
“Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. Ma appunto per ciò dobbiamo guardarci dal farcene idoli, cioè strumenti della nostra pigrizia. In questo, l’uomo che fra i libri non vive, e per aprirli deve fare uno sforzo, ha un capitale di umiltà, di inconsapevole forza – la sola che valga – che gli permette d’accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia con cui ci si accosta a una persona prediletta.” Poi continua così: “E questo vale molto più che la “cultura”, è anzi la vera cultura. Bisogno di comprendere gli altri, carità verso gli altri, ch’è poi l’unico modo di comprendere e amare se stessi: la cultura comincia di qui. I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato.”
Se leggiamo Pavese con questa umile forza di chi non è uno scriba, cioé un sapientone già avvezzo ai libri, di chi non lo scruta al di qua dalla sottile lamina di metallo di cui parlavamo prima, i suoi libri ci serviranno, dunque, per imparare ad amare gli uomini. Perché, se amiamo i libri e non amiamo gli uomini, lui dice, siamo “fatui o dannati”, due parole molto forti che certamente dirige a se stesso, per quel senso di niente che aveva di sè, come spesso succede alle anime davvero grandi.
Di Pavese bisognerebbe leggere tutto e avere una mente come quella di Pico della Mirandola, per ricordare ogni parola e citare tutto a memoria. Ma questo purtroppo è per me impossibile. Mi limito dunque a cogliere alcuni punti in quel mare di materiale che ci ha lasciato e che è passibile
appunto di varie ipotesi di lettura. Io ne ho sempre scelta una, sopratuttutto perchè ho avuto in sorte di leggerlo per la prima volta in un tempo in cui non c’erano né Google né Wikipedia né l’ossessione delle biografie e di lui quindi sapevo solo che si era suicidato, perchè me l’aveva detto mia sorella maggiore e non ricordavo bene se poi a suicidarsi fosse stato lui o Luigi Tenco, perchè ero ancora poco più che una bambina. Per me c’erano sole le sue parole, quello che leggevo di nascosto appunto dallo sguardo vigile di mia sorella e sentivo che lui doveva aver sudato per scrivere così, in un mitico nuovo raccontare, né potevo riconoscere in quelle righe, che mi tenevano incatenata a lui, alcun cenno biografico. Con stupore, incontravo un uomo che mi parlava e cercavo di immaginare che volto avesse, se era bello o brutto, alto o basso, magro o grasso. E procedendo nella lettura mi dimenticavo poi di queste curiosità futili, perché trovavo un uomo che mi apriva la mente, che mi puliva da tante adolescenzialità, che mi faceva respirare a un ritmo diverso da come respiravo quando ancora non lo conoscevo e, insieme a tutto questo, debbo riconoscerlo, trovavo un uomo che mi faceva molta soggezione, perché decisamente era troppo intelligente e troppo colto. Nessuna caduta sentimentale, nessuna asprezza fuori luogo: quel raccontare fin nel dettaglio e pur sempre inesauriente, così che uno potesse metterci dentro il proprio personale lavoro, la propria personale creazione e poi quelle domande, sul tempo, la storia, il destino; duemila anni di convivenza tra la cultura greca e la cultura cristiana, il senza tempo dell’uomo, quell’eterno selvaggio che sacrifica al dio sconociuto una primizia, per garantire il buon raccolto, erano condensati in libretti che parlavano un linguaggio tutto suo, preso dai classici e dai campi. E poi quello sguardo che mi insegnava come guardare un fiume, un vigneto, un sentiero in collina, una catapecchia, una
finestra, una notte; che mi insegnava a riconoscere la pioggia e a sapere che nella mente degli altri è sempre in atto un dialogo interiore che li isola e al contempo li accomuna. Che mi faceva capire che il lavoro è un dovere che si paga caro. Che anche le parole hanno scritto “più in là”, come dice Montale. Ah, tutto questo mi è entrato nelle vene, ha liberato la mia mente, ha riempito di carità (che non è l’elemosina) quel mondo di gente che buttava via la vita, quando non se la toglieva, perchè il dio restava sconosciuto.
In Pavese inoltre trovavo un punto molto alto e nello stesso tempo molto profondo che me lo faceva amare e preferire a tanti altri scrittori che pure mi appassionavano e di cui divoravo – sempre di nascosto - i romanzi che mia sorella teneva chiusi a chiave in una vetrinetta.
E per cercare di trasmettervi questo punto molto alto e molto profondo per me, uso il metodo del confronto, che è un’astuzia che uso sempre quando cerco di esprimere qualcosa che mi risulta complicato esprimere.
Scrive Pavese nel suo diario del 26 di marzo del 1938: “Tutti i giorni, tutti i giorni, dal mattino alla sera, pensare così. Nessuno ci crede: è naturale. E forse è questa la mia vera qualità (non l’ingegno, non la bontà, non niente): essere invasato d’un sentimento che non lascia cellula del corpo sana.” Parla dell’amore per una donna come sapete, ma c’è un più in là, che noi tutti avvertiamo come assenza di quell’Assoluto che avrebbe potuto sanare
ogni cellula del suo corpo. E’ lui a dirlo in alcune pagine del suo diario del 1944, annata che lui stesso definisce “strana, ricca. Cominciata e finita con Dio” e poi aggiunge parlando a se stesso: “potrebbe essere la più importante che hai vissuto”. Cito sono un frammento brevissimo: “Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione...Si arriva ad augurarsi il dolore” (1 febbraio). E il 2 dicembre: “Di nuovo l’esperienza che si desidera il dolore per avvicinarsi a Dio”.
Non sono dunque suo nucleo di fondo e centrale i dolori psicologici né sono le mancanze affettive quelle che si nascondono dietro le lucide creazioni di questi due geni della sofferenza che furono Bloy e Pavese: è qualcosa che ha a che vedere con l’eterno, e con una vita più forte del vivere stesso, cioè con l’Assoluto. I due scrittori lo esprimono in forme molto diverse, entrambi comunque frutto di un paziente lavoro di identità tra ciò che vedono e ciò che sentono e di adeguazione della loro parola all’orecchio di chi li ascolterà con attenzione. E’ il loro un dolore che normalmente li sorprende, non lo vorrebbero, non cercano se non dopo una lunga formazione ad esso, contro cui spesso combattono, che li lascia soli con un desiderio molto puro di abbraccio della verità, evento che non può venire nè dall’abbraccio della donna nè dal successo.
E questo loro dolore, con cui io mi scontravo essendo molto giovane e abbastanza superficiale, sentivo però che mi commuoveva profondamente anche perchè era difficile ammetterlo ma riconoscevo che, se mi fosse stato dato di conoscere personalmente Pavese o Bloy, non avrei saputo in alcun modo camminare al loro livello. A me Pavese al massimo avrebbe potuto dire quello che scrisse a Pierina, quella ragazza di Bocca di Magra che
troviamo nelle sue lettere: “C’è una tale sproporzione di stati d’animo tra noi due, che le mie stesse parole mi ritornano in bocca e mi feriscono” (agosto del 50). Mentre invece, Jeanne Molbek, la giovane che si prese cura di Bloy, che lo amò e lo sposò, se non ebbe certo vita facile, era però anche lei di tempra eccezionale come il suo sposo e non c’era fra loro sproporzione.
Nello stesso tempo, quel dolore che trovavo identico nel religiosissimo Bloy e nel presuntamente ateo Pavese, aprivano a me un orizzonte nuovo sul divino, che poi era anche per me l’unica cosa che importasse veramente. Cominciavo a conoscere un’esperienza molto diversa dalla mia, che avevo in dio un amico sempre feldele e che mi dava sempre ragione (come direbbe Simone de Beauvoir): vedevo cioè che dio – così lo chiamiamo per tradizione; d’altra parte è un nome comune, non un nome proprio – abita dentro l’uomo, se entri in te lo trovi, ma non sempre, non per tutti è un dio che consola o che ti dà sempre ragione. E mi piaceva moltissimo che Pavese, come del resto Bloy, non avessero mai tentato, come fecero invece gli amici di Giobbe, di “giustificare” questo Dio che a volte non consola, che a volte sembra distantissimo e ingiusto, che sempre sembra anche voler riaffermare la sua alterità rispetto all’uomo, pur quando gli concede la vicinanza del dialogo. Né Bloy né Pavese hanno mai cercato – parafrasando il poeta messicano Julio Hubard – di “salvare colui che ci salva”. Ad alcuni, questo dio sembra infatti riservare un cammino del tutto speciale e particolarmente doloroso, inesplicabile con il racconto di pur drammatici eventi esterni. E Pavese si trovò ad accettare già in giovanissima età (e cito parole sue) di “fare lo scoglio non più l’onda”. Quello di Bloy era consumare la propria vita perchè altri avessero lo Spirito, che per lui era santo. Pur detto con parole differenti, identico era il compito di due scrittori tanto diversi e pur con tanti punti ideali di contatto.
Pavese era un uomo buono: la sua non violenza è tutta qui. Leggiamo nel diario del 27 maggio del 47: “Una persona che ti ripugni, va sopportata. Dopo un po’ viene fuori – infallibile – qualcosa di non comune, di vero”.
Anche per me questo è un modo vero, per tutti possibile, di fare qualcosa per cambiare il mondo.






Fine della fantasia

Questo corpo mai più ricomincia. A toccargli le
occhiaie uno sente che un mucchio di terra
è più vivo, ché la terra, anche all'alba, non fa
che tacere in se stessa.
Ma un cadavere è un resto di troppi risvegli.

Non abbiamo che questa virtù: cominciare
ogni giorno la vita  davanti alla terra,
sotto un cielo che tace  attendendo un risveglio.
Si stupisce qualcuno che l'alba sia tanta fatica;
di risveglio in risveglio un lavoro è compiuto.
Ma viviamo soltanto per dare in un brivido
al lavoro futuro e svegliare una volta la terra.
E talvolta ci accade. Poi torna a tacere con noi.

Se a sfiorare quel volto la mano non fosse malferma
viva mano che sente la vita se tocca se davvero
quel freddo non fosse che il freddo
della terra, nell'alba che gela la terra, forse
questo sarebbe un risveglio, e le cose che tacciono
sotto l'alba, direbbero ancora parole. Ma trema
la mia mano, e di tutte le cose somiglia alla mano
che non muove. Altre volte svegliarsi nell'alba
era un secco dolore, uno strappo di luce,
ma era pure una liberazione.
L'avara parola della terra era gaia, in un rapido
istante, e morire era ancora tornarci.
Ora, il corpo che attende
è un avanzo di troppi risvegli e alla terra non torna.
Non lo dicon nemmeno, le labbra indurite.



Cattive compagnie

Questo è un uomo che fuma la pipa.
Laggíù nello specchio,
c'è n'è un altro che fuma la pipa.
Si guardano in faccia.
Quello vero è tranquillo perché
vede l'altro sorridere.

Prima ha visto altre cose.
Su un fondo di fumo
una faccia di donna protesa
a sorridere e un idiota leccarla
con gli occhi parlando.

Poi l'idiota, parlando, afferrare
anche lui e strappargli un sogghigno.
Un sogghigno da idiota.
E la donna piegarsi e serrare le labbra
come avesse veduto qualcosa di nudo.

Ora, corpi di uomini nudi la donna
ne vede dal mattino alla sera,
ma spoglia anche sé e là sopra
lavora, ridendo. E sogghigni ne vede
e ne fa, sul lavoro: anzi, è mezzo lavoro
un sogghigno ben fatto. Ma quando
una è lì per scherzare a parole,
ferisce vedere anche l'altro,
che in silenzio ascoltava parlare
l'idiota, lampeggiare lo stesso
pensiero brutale.

Donna e idiota son già ritornati
a alitarsi sul volto si somigliano
un poco le donne e gli idioti
e la pipa vapora una faccia contratta.
Dentro il fumo è possibile fare una
smorfia e socchiudere gli occhi.
La donna ridendo schiva quello
che parla pendendole addosso.




L'istinto

L'uomo vecchio, deluso di tutte le cose,
dalla soglia di casa nel tiepido sol
guarda il cane e la cagna sfogare l'istinto.

Sulla bocca sdentata si rincorrono mosche.
La sua donna gli è morta da tempo.
Anche lei come tutte le cagne non voleva saperne,
ma ci aveva l'istinto.

L'uomo vecchio annusava;
non ancora sdentato; la notte veniva,
si mettevano a letto. Era bello l'istinto.
Quel che gli piace nel cane è la gran libertà.

Dal mattino alla sera gironzola in strada;
e un po' mangia, un po' dorme, un po' monta le cagne:
non aspetta nemmeno la notte. Ragiona,
come fiuta, e gli odori che sente son suoi.

L'uomo vecchio ricorda una volta di giorno
che l'ha fatta da cane in un campo di grano.
Non sa più con che cagna, ma ricorda il gran sole
e il sudore e la voglia di non smettere mai.

Era come in un letto. Se tornassero gli anni,
lo vorrebbe far sempre in un campo di grano.

Scende in strada una donna e si ferma a guardare;
passa il prete e si volta. Sulla pubblica piazza
si può fare di tutto.
Persino la donna, che ha ritegno a voltarsi
per l'uomo, si ferma.
Solamente un ragazzo non tollera il gioco
e fa piover sassi. L'uomo vecchio si sdegna.


Indifferenza

E' sbocciato quest'odio come un vivido amore
dolorando, e contempla se stesso anelante.
Chiede un volto e una carne, come fosse un amore.

Sono morte la carne del mondo e le voci
che suonavano, un tremito ha colto le cose;
tutta quanta la vita è sospesa a una voce.
Sotto un'estasi amara trascorrono i giorni
alla triste carezza della voce che torna
scolorendoci il viso. Non senza dolcezza
questa voce al ricordo risuona spietata
e tremante: ha tremato una volta per noi.

Ma la carne non trema. Soltanto un amore
la potrebbe incendiare, e quest'odio la cerca.
Tutte quante le cose e la carne del mondo
e le voci, non valgono l'accesa carezza
di quel corpo e quegli occhi. Nell'estasi amara
che distrugge se stessa, quest'odio ritrova
ogni giorno uno sguardo, una rotta parola,
e li afferra, insaziabile, come fosse un amore.

Ozio

Tutti i gran manifesti attaccati sui muri,
che presentano sopra uno sfondo di fabbriche
e l'operaio robusto che si erge nel cielo,
vanno in pezzi, nel sole e nell'acqua.
Masino bestemmia a veder la sua faccia piú fiera, sui muri
delle vie, e doverle girare cercando lavoro.
Uno si alza al mattino e si ferma a guardare i giornali
nelle edicole vive di facce di donna a colori.
fa confronti con quelle che passano e perde il suo tempo,
ché ogni donna ha le occhiaie più stanche che.
Compaiono a un tratto coi cartelli dei cinematografi
addosso alla testa e con passi sostanti,
i vecchiotti vestiti di rosso
e Masino, fissando le facce deformi
e i colori, si tocca le guance e le sente più vuote.

==>SEGUE




Ogni volta che mangia, Masino ritorna a girare,
perché è segno che ha già lavorato. Traversa le vie
e non guarda piú in faccia nessuno. La sera, ritorna
e si stende un momento nei prati con quella ragazza.
Quando è solo, gli piace restare nei prati
tra le case isolate e i rumori sommessi
e talvolta fa un sonno. Le donne non mancano,
come quando era ancora meccanico: adesso è Masino
a cercarne una sola e volerla fedele.
Una volta - da quando va in giro - ha atterrato un rivale
e i colleghi, che li hanno trovati in un fosso,
han dovuto bendargli una mano. Anche quelli non fanno più nulla
e tre o quattro, affamati, han formato una banda
di clarino e chitarre - volevano averci Masino
che cantasse - e girare le vie a raccogliere i soldi.
Lui Masino ha risposto che canta per niente
ogni volta che ha voglia, ma andare a svegliare le serve
per le strade, è un lavoro da Napoli. I giorni che mangia,
porta ancora con sé pochi amici a metà la collina:
là si chiudono in qualche osteria e ne cantano un pezzo
loro soli, da uomini. Andavano un tempo anche in barca,
ma dal fiume si vede la fabbrica, e fa brutto sangue.

Dopo un giorno a strisciare le suole davanti agli affissi,
alla sera Masino finisce al cinema
dove ha già lavorato, una volta. Fa bene quel buio
alla vista spossata dai troppi lampioni.
Tener dietro alla storia non è una fatica:
vi si vede una bella ragazza e talvolta c'è uomini
che si picchiano secco. Vi sono paesi
che varrebbe la pena di viverci, al posto
degli stupidi attori. Masino contempla,
su un paese di nude colline, di prati e di fabbriche,
la sua testa ingrandita in primissimi piani.
Quelli almeno non danno la rabbia che danno i cartelli
colorati, sugli angoli, e i musi di donna dipinti.

Lavorare stanca

I due, stesi sull'erba, vestiti, si guardano in faccia
tra gli steli sottili: la donna gli morde i capelli
e poi morde nell'erba. Sorride scomposta, tra l'erba.
L'uomo afferra la mano sottile e la morde
e s'addossa col corpo. La donna gli rotola via.
Mezza l'erba del prato è così scompigliata.
La ragazza, seduta, s'aggiusta i capelli
e non guarda il compagno, occhi aperti, disteso.

Tutti e due, a un tavolino, si guardano in faccia
nella sera, e i passanti non cessano mai.
Ogni tanto un colore più gaio li distrae.
Ogni tanto lui pensa all'inutile giorno
di riposo, trascorso a inseguire costei,
che è felice di stargli vicina e guardarlo negli occhi.
Se le tocca col piede la gamba, sa bene
che si danno a vicenda uno sguardo sorpreso
e un sorriso, e la donna è felice. Altre donne che passano
non lo guardano in faccia, ma almeno si spogliano
con un uomo stanotte. O che forse ogni donna
ama solo chi perde il suo tempo per nulla.

Tutto il giorno si sono inseguiti e la donna è ancor rossa
alle guance, dal sole. Nel cuore ha per lui gratitudine.
Lei ricorda un baciozzo rabbioso scambiato in un bosco,
interrotto a un rumore di passi, e che ancora la brucia.
Stringe a sè il mazzo verde raccolto sul sasso
di una grotta  di bel capevenere e volge al compagno
un'occhiata struggente. Lui fissa il groviglio
degli steli nericci tra il verde tremante
e ripensa alla voglia di un altro groviglio,
presentito nel grembo dell'abito chiaro,
che la donna gli ignora. Nemmeno la furia
non gli vale, perché la ragazza, che lo ama, riduce
ogni assalto in un bacio gli prende le mani.

Ma stanotte, lasciatela, sa dove andrà:
tornerà a casa rotto di schiena e intontito,
ma assaporerà almeno nel corpo saziato
la dolcezza del sonno sul letto deserto.
Solamente, e questa è la vendetta, s'immaginerà
che quel corpo di donna, che avrà come suo, sia,
senza pudori, in libidine, quello di lei.
Disciplina antica

Gli ubriachi non sanno parlare alle donne
e si sono sbandati; nessuno li vuole.
Vanno adagio per strada, la strada e i lampioni
non han fine. Qualcuno fa i giri più larghi:
ma non c'è da temere, domani ritornano a casa.

L'ubriaco che sbanda, si crede con donne
i lampioni son sempre gli stessi e le donne, di notte,
sono sempre le stesse, nessuna lo ascolta.
L'ubriaco ragiona e le donne non vogliono.
Queste donne che ridono sono il discorso che fa:
perché ridono tanto le donne o, se piangono, gridano?
L'ubriaco vorrebbe una donna ubriaca
che ascoltasse sommessa. Ma quelle lo assordano
«Per avere sto figlio, bisogna passare da noi».

L'ubriaco si stringe a un compagno ubriaco,
che stasera è suo figlio, non nato da quelle.
Come può una donnetta che piange e che sgrida
fargli un figlio compagno? Se quello è ubriaco,
non ricorda le donne nel passo malfermo,
e i due avanzano in pace. Il figliolo che conta
non è nato di donna - sarebbe una donna
anche lui. Lui cammina col padre e ragiona:
i lampioni gli durano tutta la notte.

Alter ego

Dal mattino alla sera vedevo il tatuaggio
sul suo petto setoso: una donna rossastra
fitta, come in un prato, nel pelo. Là sotto
rugge a volte un tumulto, che la donna sussulta.
La giornata passava in bestemmie e silenzi.
Se la donna non fosse un tatuaggio, ma viva
aggrappata sul petto peloso, quest'uomo
muggirebbe più forte, nella piccola cella.

Occhi aperti, disteso nel letto taceva.
Un respiro profondo di mare saliva
dal suo corpo di grandi ossa salde: era steso
come sopra una tolda. Pesava sul letto
come chi s'è svegliato e potrebbe balzare.
li suo corpo, salato di schiuma, grondava
un sudore solare. La piccola cella
non bastava all'ampiezza d'una sola sua occhiata.
A vedergli le mani si pensava alla donna.




Una nuvola in cielo

Compare una nube
soda e bianca, che indugia, nel quadrato del cielo.
Scorge case stupite e colline, ogni cosa
che traspare nell'aria, vede uccelli smarriti
scivolare nell'aria. Viandanti tranquilli
vanno lungo quel fiume e nessuno s'accorge
della piccola nube.

Donne appassionate

Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo l'acqua remota.

Le ragazze han paura delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant'è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai copi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che i greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all'aperto, nel lenzuolo raccolto.

Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
alle gambe, e contemplano il mare disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
Cl son occhi nel mare, che traspaiono a volte.

Quell'ignota straniera, che nuotava di notte
sola e nuda, nel buio quando muta la luna,
è scomparsa una notte e non torna mai più.
Era grande e doveva esser bianca abbagliante
perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.


Primavera

Sarà un volto chiaro.
S'apriranno le strade
sui colli di pini
e di pietra....
I fiori spruzzati
di colore alle fontane
occhieggeranno come

donne divertite: le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.








Lo steddazzu

L'uomo solo si leva che il mare e ancor buio
e le stelle vacillano. Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov'è il letto del mare,
e addolcisce il respiro. Quest'è l'ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta. Notturno è il sommesso sciacquio.
L'uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno. Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c'è cosa più amara che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c'è cosa più amara
che l'inutilità. Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall'alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov'è un letto di neve. La lentezza dell'ora
e spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci? Domani
tornerà l'alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L'uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l'ultima stella si spegne nel cielo,
l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende.




Estate

È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
e dal corpo raccolto, camminando per strada.
Ha guardato diritto tendendo la mano,
nell'immobile strada. Ogni cosa è riemersa.

Nell'ímmobile luce dei giorno lontano
s'è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
la sua semplice fronte, e lo sguardo d'allora
è riapparso. La mano si è tesa alla mano
e la stretta angosciosa era quella d'allora.
Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.

È tornata l'angoscia dei giorni lontani
quando tutta un'immobile estate improvvisa
di colori e tepori emergeva, agli sguardi
di quegli occhi sommessi. È tornata l'angoscia
che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
può lenire. Un immobile cielo s'accoglie
freddamente, in quegli occhi.
Fra calmo il ricordo
alla luce sommessa dei tempo, era un docile
moribondo cui già la finestra s'annebbia e scompare.
Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
della mano leggera ha riacceso i colori
e l'estate e i tepori sotto il viviclo cielo.
Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
non dan vita che a un duro inumano silenzio.

Dove sei tu luce, è il mattino

Tu eri la vita e le cose.
In te desti respiravamo
sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,
non quest'ombra greve del giorno
affollato e diverso. O luce,
chiarezza lontana, respiro
affannoso, rivolgi gli occhi
immobili e chiari su noi.
È buio il mattino che passa
senza la luce dei tuoi occhi.


Antenati
Stupefatto del mondo mi giunge un'età
che tiravo dei pugni nell'aria e piangevo da solo.
Ascoltare i discorsi di uomini e donne
non sapendo rispondere, è poca allegria.
Ma anche questa è passata: non sono più solo
e, se non so rispondere, so farne a meno.
Ho trovato compagni trovando me stesso.
Ho scoperto che, prima di nascere, sono vissuto
sempre in uomini saldi, signori di sé,
e nessuno sapeva rispondere e tutti eran calmi.
Due cognati hanno aperto un negozio la prima fortuna
della nostra famiglia e l'estraneo era serio,
calcolante, spietato, meschino: una donna.
L'altro, il nostro, in negozio leggeva romanzi
in paese era molto  e i clienti che entravano
si sentivan rispondere a brevi parole
che lo zucchero no, che il solfato neppure,
che era tutto esaurito. È accaduto più tardi
che quest'ultimo ha dato una mano al cognato fallito.
A pensar questa gente mi sento più forte
che a guardare lo specchio gonfiando le spalle
e atteggiando le labbra a un sorriso solenne.
È vissuto un mio nonno, remoto nei tempi,
che si fece truffare da un suo contadino
e allora zappò lui le vigne d'estate
per vedere un lavoro ben fatto. Così
sono sempre vissuto e ho sempre tenuto
una faccia sicura e pagato di mano.
E le donne non contano nella famiglia.
Voglio dire, le donne da noi stanno in casa
e ci mettono al mondo e non dicono nulla
e non contano nulla e non le ricordiamo.
Ogni donna c'infonde nel sangue qualcosa di nuovo,
ma s'annullano tutte nell'opera e noi,
rinnovati così, siamo i soli a durare.
Siamo pieni di vizi, di ticchi e di orrori
noi, gli uomini, i padri qualcuno si è ucciso,
ma una sola vergogna non ci ha mai toccato,
non saremo mai donne, mai ombre a nessuno.

==>SEGUE




Ho trovato una terra trovando i compagni,
una terra cattiva, dov'è un privilegio
non far nulla, pensando al futuro.
Perché il solo lavoro non basta a me e ai miei;
noi sappiamo schiantarci, ma il sogno più grande
dei miei padri fu sempre un far nulla da bravi.
Siamo nati per girovagare su quelle colline,
senza donne, e le mani tenercele dietro la schiena.

I mari del Sud

   (a Monti)
Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo
un grand'uomo tra idioti o un povero folle
per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera.
Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. "Tu che abiti a Torino…"
mi ha detto "…ma hai ragione.
La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono".
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent'anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.
Vent'anni è stato in giro per il mondo.
Se n'andò ch'io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
ma gli uomini, giù gravi, lo scordarono.

==>SEGUE



Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e augurî di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un'isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell'Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.
Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall'ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dai lampioni a migliaia sul gran scalpiccío.
Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: "Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono così".
Mio cugino ha una faccia recisa.
Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S'era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma uscí ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona

==>SEGUE


contattava i cavalli. Spiegò poi a me,
quando fallí il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
"Ma la bestia" diceva "più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza".
Camminiamo da più di mezz'ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d'un tratto e si volge: "Quest'anno
scrivo sul manifesto: Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo e che la dicano
quei di Canelli". Poi riprende l'erta.
Un profumo di terra e vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.
Dice asciutto che è stato in quel lungo e in quell'altro
e pensa ai suoi motori.
Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.
Ma quando gli dico
ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.

Il dio caprone

La campagna è un paese di verdi misteri
al ragazzo, che viene d'estate. La capra, che morde
certi fiori, le gonfia la pancia e bisogna che corra.
Quando l'uomo ha goduto con qualche ragazza
hanno peli là sotto il bambino le gonfia la pancia.
Pascolando le capre, si fanno bravate e sogghigni,
ma al crepuscolo ognuno comincia a guardarsi alle spalle.
I ragazzi conoscono quando è passata la biscia
dalla striscia sinuosa che resta per terra.
Ma nessuno conosce se passa la biscia
dentro l'erba. Ci sono le capre che vanno a fermarsi
sulla biscia, nell'erba, e che godono a farsi succhiare.
Le ragazze anche godono, a farsi toccare.

Al levar della luna le capre non stanno più chete,
ma bisogna raccoglierle e spingerle a casa,
altrimenti si drizza il caprone. Saltando nel prato
sventra tutte le capre e scompare. Ragazze in calore
dentro i boschi ci vengono sole, di notte,
e il caprone, se belano stese nell'erba, le corre a trovare.
Ma, che spunti la luna: si drizza e le sventra.
E le cagne, che abbaiano sotto la luna,
è perché hanno sentito il caprone che salta
sulle cime dei colli e annusato l'odore del sangue.
E le bestie si scuotano dentro le stalle.
Solamente i cagnacci più forti dàn morsi alla corda
e qualcuno si libera e corre a seguire il caprone,
che li spruzza e ubriaca di un sangue più rosso del fuoco,
e poi ballano tutti, tenendosi ritti e ululando alla luna.

Quando, a giorno, il cagnaccio ritorna spelato e ringhioso,
i villani gli dànno la cagna a pedate di dietro.
E alla figlia, che gira di sera, e ai figli, che tornano
quand'è buio, smarrita una capra, gli fiaccano il collo.
Riempion donne, i villani, e faticano senza rispetto.
Vanno in giro di giorno e di notte e non hanno paura
di zappare anche sotto la luna o di accendere un fuoco
di gramigne nel buio. Per questo, la terra
è cosi bella verde e, zappata, ha il colore,
sotto l'alba, dei volti bruciati. Si va alla vendemmia
e si mangia e si canta; si




La terra e la morte

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C'è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t'ingombrano e vanno nel vento
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell'estate

Agonia

Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo
accompagna il mattino.

Son lontani i mattini che avevo vent'anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le striscie di cielo.
Da domani la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo-una donna, padrona
di se stessa. La magra bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni
ora è come quel pianto non fosse mai stato
.

==>SEGUE
E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore-perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d'esser io: gettando un'occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.

Mattino

La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un'ombra fuggevole, come di nube.
L'ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l'acqua molle dell'alba
che s'imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l'impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare.

Notturno

La collina è notturna, nel cielo chiaro.
Vi s'inquadra il tuo capo, che muove appena
e accompagna quel cielo. Sei come una nube
intravista fra i rami. Ti ride negli occhi
la stranezza di un cielo che non è il tuo.
La collina di terra e di foglie chiude
con la massa nera il tuo vivo guardare,
la tua bocca ha la piega di un dolce incavo
tra le coste lontane. Sembri giocare
alla grande collina e al chiarore del cielo:
per piacermi ripeti lo sfondo antico
e lo rendi più puro.
Ma vivi altrove.
Il tuo tenero sangue si è fatto altrove.
Le parole che dici non hanno riscontro
con la scabra tristezza di questo cielo.
Tu non sei che una nube dolcissima, bianca
impigliata una notte fra i rami antichi.







Mito

Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell'uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà più dov'erano le spiagge d'un tempo.
Ci si sveglia un mattino che è morta l'estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all'orecchio i fragori del sole
fatto sangue. È mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca piú il cielo; le nubi
non s'ammassano piú come frutti; nell'acqua
non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.
Il gran sole è finito, e l'odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d'estate.
Se qualcuno spariva, c'era il giovane dio
che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un'ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.
Ora pesa
la stanchezza su tutte le membra dell'uomo,
senza pena, la calma stanchezza dell'alba
che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
non conoscono il giovane, che un tempo bastava
le guardasse. Né il mare dell'aria rivive
al respiro. Si piegano le labbra dell'uomo
rassegnate, a sorridere davanti alla terra.








Ritorno di Deola

Torneremo per strada a fissare i passanti
e saremo passanti anche noi. Studieremo
come alzarci al mattino deponendo il disgusto
della notte e uscir fuori col passo di un tempo.
Piegheremo la testa al lavoro di un tempo.
Torneremo laggiù, contro il vetro, a fumare
intontiti. Ma gli occhi saranno gli stessi
e anche i gesti e anche il viso. Quel vano segreto
che c'indugia nel corpo e ci sperde lo sguardo
morirà lentamente nel ritmo del sangue
dove tutto scompare.
Usciremo un mattino,
non avremo più casa, usciremo per via;
il disgusto notturno ci avrà abbandonati;
tremeremo a star soli. Ma vorremo star soli.
Fisseremo i passanti col morto sorriso
di chi è stato battuto, ma non odia e non grida
perché sa che da tempo remoto la sorte
- tutto quanto è già stato o sarà - è dentro il sangue,
nel sussurro del sangue. Piegheremo la fronte
soli, in mezzo alla strada, in ascolto di un'eco
dentro il sangue. E quest'eco non vibrerà più.
Leveremo lo sguardo, fissando la strada.





Abitudini

Sull'asfalto del viale la luna fa un lago
silenzioso e l'amico ricorda altri tempi.
Gli bastava in quei tempi un incontro improvviso
e non era piú solo. Guardando la luna,
respirava la notte. Ma più fresco l'odore
della donna incontrata, della breve avventura
per le scale malcerte. La stanza tranquilla
e la rapida voglia di viverci sempre,
gli riempivano il cuore. Poi, sotto la luna,
a gran passi intontiti tornava, contento.

A quei tempi era un grande compagno di sé.
Si svegliava al mattino e saltava dal letto,
ritrovando il suo corpo e i suoi vecchi pensieri.
Gli piaceva uscir fuori prendendo la pioggia
o anche il sole, godeva a guardare le strade,
a parlare con gente improvvisa. Credeva
di saper cominciare cambiando mestiere
fino all'ultimo giorno, ogni nuovo mattino.
Dopo grandi fatiche sedeva fumando.
Il piacere piú forte era starsene solo.

E' invecchiato l'amico e vorrebbe una casa
che gli fosse più cara, e uscir fuori la notte
e fermarsi sul viale a guardare la luna,
ma trovare al ritorno una donna sommessa,
una donna tranquilla, in attesa paziente.
E' invecchiato l'amico e non basta piú a sé.
I passanti son sempre gli stessi; la pioggia
e anche il sole, gli stessi; e il mattino, un deserto.
Faticare non vale la pena. E uscir fuori alla luna,
se nessuno l'aspetti, non vale la pena.







Due

Uomo e donna si guardano supini sul letto:
i due corpi si stendono grandi e spossati.
L'uomo è immobile, solo la donna respira più a lungo
e ne palpita il molle costato. Le gambe distese
sono scarne e nodose, nell'uomo. Il bisbiglio
della strada coperta di sole è alle imposte.

L'aria pesa impalpabile nella grave penombra
e raggela le gocciole di vivo sudore
sulle labbra. Gli sguardi delle teste accostate
sono uguali, ma più non ritrovano i corpi
come prima abbracciati. Si sfiorano appena.

Muove un poco le labbra la donna, che tace.
Il respiro che gonfia il costato si ferma
a uno sguardo più lungo dell'uomo. La donna
volge il viso accostandogli la bocca alla bocca.
Ma lo sguardo dell'uomo non rnuta nell'ombra.

Gravi e immobili pesano gli occhi negli occhi
al tepore dell'alito che ravviva il sudore,
desolati. La donna non muove il suo corpo
molle e vivo. La bocca dell'uomo s'accosta.
Ma l'immobile sguardo non inuta nell'ombra.






Gelosia

L'uomo vecchio ha la tetra di giorno, e di notte
ha una donna ch'è sua - ch'era sua fino a ieri.
Gli piaceva scoprirla, come aprire la terra,
e guardarsela a lungo, supina nell'ombra attendendo.
La donna sorrideva occhi chiusi.

L'uomo vecchio stanotte è seduto sul ciglio
del suo campo scoperto, ma non scruta la chiazza
della siepe lontana, non distende la mano
a divellere un'erba. Contempla tra i solchi
un pensiero rovente. La terra rivela
se qualcuno vi ha messo le mani e l'ha infranta:
lo rivela anche al buio. Ma non c'è donna viva
che conservi la traccia della stretta dell'uomo.

L'uomo vecchio si è accorto che la donna sorride
solamente occhi chiusi, attendendo supina,
e comprende improvviso che sul giovane corpo
passa in sogno la stretta di un altro ricordo.
L'uomo vecchio non vede più il campo nell'ombra.
Si è buttato in ginocchio, stringendo la terra
come fosse una donna e sapesse parlare.
Ma la donna distesa nell'ombra, non parla.

Dov'è stesa occhi chiusi la donna non parla
né sorride, stanotte, dalla bocca piegata
alla livida spalla. Rivela sul corpo
finalmente la stretta di un uomo: la sola
che potesse segnarla, e le ha spento il sorriso.
Tradimento

Stamattina non sono più solo. Una donna recente
sta distesa sul fondo e mi grava la prua
della barca, che avanza e fatica nell'acqua tranquilla
ancor gelida e torba del sonno notturno.
Sono uscito dal Po tumultuante e echeggiante nel sole
di onde rapide e di sabbiatori, e vincendo la svolta
dopo molti sussulti, mi sono cacciato
nel Sangone. «Che sogno», ha osservato colei
senza muovere il corpo supino, guardando nel cielo.
Non c'è un'anima in giro e le rive son alte
e a monte più anguste, serrate di pioppi.

Quant'è goffa la barca in quest'acqua tranquilla.
Dritto a poppa a levare e abbassare la punta,
vedo il legno che avanza impacciato: è la prua che sprofonda
per quel peso di un corpo di donna, ravvolto di bianco.
La compagna mi ha detto che è pigra e non s'è ancora mossa.
Sta distesa a fìssare da sola le vette degli alberi
ed è cotne in un letto e m'ingombra la barca.
Ora ha messo una mano nell'acqua e la lascia schiumare
e m'ingombra anche il fiume. Non posso guardarla
- sulla prua dove stende il suo corpo - che piega la testa
e mi fissa curiosa dal basso, muovendo la schiena.
Quando ho detto che venga più in centro, lasciando la prua,
mi ha risposto un sorriso vigliacco- «Mi vuole vicina?»

Altre volte, gocciante di un tuffo fra i tronchi e le pietre,
continuavo a puntare nel sole, finch'ero ubriaco,
e approdando a quest'angolo, mi gettavo riverso,
accecato dall'acqua e dai raggi, buttato via il palo,
a calmare il sudore e l'affanno al respiro
delle piante e alla stretta dell'erba. Ora l'ombra è estuosa
al sudore che pesa nel sangue e alle membra infiacchite,
e la volta degli alberi filtra la luce
di un'alcova. Seduto sull'erba, non so cosa dire
e m'abbraccio i ginocchi. La compagna è sparita
dentro il bosco dei pioppi, ridendo, e io debbo inseguirla.
La mia pelle è annerita di sole e scoperta.
La compagna che è bionda, poggiando le mani
alle mie per saltare sul greto, mi ha fatto sentire,
con la fragilità delle dita, il profumo
del suo corpo nascosto. Altre volte il profumo
era l'acqua seccata sul legno e il sudore nel sole.
La compagna mi chiama impaziente. Nell'abito bianco
sta girando fra i tronchi e io debbo inseguirla.
Risveglio

Lo ripete anche l'aria che quel giorno non torna.
La fìnestra deserta s'imbeve di freddo
e di cielo. Non serve riaprire la gola
all'antico respiro, come chi si ritrovi
sbigottito ma vivo. E' finita la notte
dei rimpianti e dei sogni. Ma quel giorno non torna.

Torna a vivere l'aria, con vigore inaudito,
l'aria immobile e fredda. La massa di piante
infuocata nell'oro dell'estate trascorsa
sbigottisce alla giovane forza del cielo.
Si dissolve al respiro dell'aria ogni forma
dell'estate e l'orrore notturno è svanito.
Nel ricordo notturno l'estate era un giorno
dolorante. Quel giorno è svanito, per noi.

Torna a vivere l'aria e la gola la beve
nella vaga ansietà di un sapore goduto
che non torna. E nemmeno non torna il rimpianto
ch'era nato stanotte. La breve finestra
beve il freddo sapore che ha dissolta l'estate.
Un vigore ci attende, sotto il cielo deserto.





Estate di san Marino

Le colline e le rive dei Po sono un giallo bruciato
e noi siamo saliti quassù a maturarci nel sole.
Mi racconta costei - come fosse un amico -
Da domani abbandono Torino- e non torno mai più.
Sono stanca di vivere tutta la vita in Prigione.
Si respira un sentore di terra e, di là dalle piante,
a Torino, a quest'ora, lavorano tutti in prigione.
Torno a casa dei miei dove almeno potrò stare sola
senza piangere e senza pensare alla gente che vive.
Là mi caccio un grembiate e mi sfogo in cattive risposte
ai parenti e per tutto l'inverno non esco mai più.
Nei paesi novembre è un bel mese dell'anno:
c'è le foglie colore di terra e le nebbie al mattino,
poi c'è il sole che rompe le nebbie. Lo dico tra me
e respiro l'odore di freddo che ha il sole al mattino.
Me ne vado percbé è troppo bella Torino a quest'ora:
a me piace girarci e vedere la gente
e mi tocca star chiusa fincb'è tutto buio
e la sera soffrire da sola. Mi vuole vicino
come fossi un amico: quest'oggi ha saltato l'ufficio
per trovare un amico. Ma posso star sola costì?
Giorno e notte - l'ufficio - le scale - la stanza da letto -
se alla sera esca a fare due passi non so dove andare
e ritorno cattiva e al mattino non voglio più alzarmi.
Tanto bella sarebbe Torino - poterla godere -
solamente poter respirare. Le piazze e le strade
han lo stesso profumo di tiepido sole
che c'è qui tra le piante. Ritorni al paese.
Ma Torino è il piú bello di tutti i paesi.
Se trovassi un amico quest'oggi, starei sempre qui.





Canzone di strada

Perché vergogna? Quando uno ha pagato il suo tempo,
se lo lasciano uscire, è perché è come tutti
e ce n'è della gente per strada, che è stata in prigione.

Dal mattino alla sera giriamo sui corsi
e che piova o che faccia un bel sole, va sempre per noi.
E' una gioia incontrare sui corsi la gente che parla
e parlare da soli, pigliando ragazze a spintoni.
E' una gioia fischiar nei portoni aspettando ragazze
e abbracciarle per strada e portarle al cinema
e fumar di nascosto, appoggiati alle belle ginocchia.
E' una gioia parlate con loro palpando e ridendo,
e di notte nel letto, sentendo buttarsi sul collo
le due braccia che attirano in basso, pensare al mattino
che si tornerà a uscir di prigione nel fresco del sole.

Dal mattino alla sera girare ubriachi
e guardare ridendo i passanti che vanno
e che godono tutti - anche i brutti - a sentirsi per strada.
Dal mattino alla sera cantare ubriachi
e incontrare ubriachi e attaccare discorsi
che ci durino a lungo e ci mettano sete.
Tutti questi individui che vanno parlando tra sé,
li vogliamo alla notte con noi, chiusi in fondo alla tampa,
e seguire con loro la nostra chitarra
che saltella ubriaca e non sta più nel chiuso
ma spalanca le porte a echeggiare nell'aria -
fuori piòvano l'acqua o le stelle. Non conta se i corsi
a quest'ora non hanno píù belle ragazze a passeggio:
troveremo ben noi l'ubriaco che ride da solo
perché è uscito anche lui di prigione stanotte,
e con lui, strepitando e cantando, faremo il mattino.



Proprietari

Il mio prete che è nato in campagna, è vissuto vegliando
giorno e notte in città i moribondi e ha riunito in tanti anni
qualche soldo di lasciti per l'ospedale.
Risparmiava soltanto le donne perdute e i bambini
e nel nuovo ospedale - lettucci di ferro imbiancato -
c'è un'intera sezione per donne e bambini perduti.
Ma i morenti che sono scampati, lo vengono ancora a trovare
e gli chiedon consigli di affari. Lo zelo l'ha reso ben magro
tra il sentore dei letti e i discorsi con gente che rantola
e seguire, ogni volta che ha tempo, i suoi morti alla fossa
e pregare per loro, spruzzandoli e benedicendoli.

Una sera di marzo già calda, il mio prete ha sepolto
una vecchia coperta di piaghe: era stata sua madre.
La donnetta era morta al paese, perché l'ospedale
le faceva paura e voleva morir nel suo letto.
Il mio prete quel giorno portava la stola
dei suoi altri defunti, ma sopra la bara
spruzzò a lungo acqua santa e pregò anche piú a lungo.
Nella sera già calda, la terra rimossa odorava
sulla bara dov'era un marciume: la vecchia era morta
per il sangue cattivo a vedersi sfumare le terre
che - rimasta lei sola - spettava a lei sola salvare.
Sotto terra, un rosario era avvolto alle mani piagate
che, da vive, con tre o quattro croci su pezzi di carta
s'eran messe in miseria. E il mio prete pregava
che potesse venir perdonata la temerità
della vedova che, mentre il figlio studiava coi preti,
s'era - senza cercare consiglio - presunta da tanto.
L'ospedale ha un giardino che odora di terra,
messo insieme a fatica, per dare ai malati aria buona.
Il mio prete conosce le piante e i cespugli
anche più dei suoi morti, ché quelli rinnovano,
ma le piante e i cespugli son sempre gli stessi.
Tra quel verde borbotta - a quel modo che fa sulle tombe -
negli istanti che ruba ai malati, e dimentica sempre
di fermarsi davanti alla grotta, che han fatto le suore,
della Natività, in fondo al viale. Si lagna talvolta
che le cure gli ban sempre impedito di dare un'occhiata
ai bisogni degli alberi secchi e che mai, da trent'anni,
ha potuto pensare alla requiem eterna.





Pensieri di Dina

Dentro l'acqua che scorre ormai limpida e fresca di sole,
è un piacere gettarsi: a quest'ora non viene nessuno.
Fanno rabbrividire, le scorze dei pioppi, a toccarle col corpo,
più che l'acqua scrosciante di un tuffo. Sott'acqua è ancor buio
e fa un gelo che accoppa, ma basta saltare nel sole
e si torna a guardare le cose con occhi lavati.

E' un piacere distendersi nuda sull'erba già calda
e cercare con gli occhi socchiusi le grandi colline
che sormontano i pioppi e mi vedono nuda
e nessuno di là se ne accorge. Quel vecchio in mutande
e cappello, che andava a pescare, mi ha vista tuffarmi,
ma ha creduto che fossi un ragazzo e nemmeno ha parlato.

Questa sera ritorno una donna nell'abito rosso
- non lo sanno che sono ora stesa qui nuda quegli uomini
che mi fanno i sorrisi per strada - ritorno vestita
a pigliare i sorrisi. Non sanno quegli uomini
che stasera avrò fianchi più forti, nell'abito rosso,
e sarò un'altra donna. Nessuno mi vede quaggiù:
e di là dalle piante ci son sabbiatori piú forti
di quegli altri che fanno i sorrisi: nessuno mi vede.
Sono sciocchi gli uomini - stasera ballando con tutti
io sarò come nuda, come ora, e nessuno saprà
che poteva trovarmi qui sola. Sarò come loro.
Solamente, gli sciocchi, vorranno abbracciarmi ben stretta,
bisbigliarmi proposte da furbi. Ma cosa m'ímporta
delle loro carezze? So farmi carezze da me.
Questa sera dovremmo poter stare nudi e vederci
senza fare sorrisi da furbi. lo sola sorrido
a distendermi qui dentro l'erba e nessuno lo sa.


Gelosia

Ci si siede di fronte e si vuotano i primi bicchieri lentamente,
fissando il rivale con l'occhio traverso.
Poi si aspetta che il vino gorgogli. Si guarda nel vuoto
canzonando. Se i muscoli tremano ancora
treman anche al rivale. Bisogna sforzarsi
per non bere di un fiato e sbronzarsi di colpo.

Oltre il bosco, si sente il ballabile e vedon lanterne
dondolanti - non sono restate che donne
sul palchetto. Lo schiaffo piantato alla bionda
ha portato via tutti a godersi lo scontro.
I rivali sentivano in bocca un sapore di rabbia
e di sangue; ora sentono il sapore del vino.
Per riempirsi di pugni bisogna esser soli
come a fare l'amore, ma c'è sempre la notte.

Sul palchetto i lampioni di carta e le donne
non stan fermi, nel fresco. La bionda, nervosa,
siede e cerca di ridere, ma s'immagina un prato
dove i due si dibattono e perdono sangue.
Li ha sentiti vociare di là dalle piante.
Malinconica, sopra il palchetto, una coppia di donne
gira in tondo; qualcuna fa cerchio alla bionda,
e s'informano se proprio le duole la faccia.

Per riempirsi di pugni bisogna esser soli.
Tra i colleghi c'è sempre qualcuno che blatera
e fa fare commedie. La gara del vino
non è mica uno sfogo: uno sente la rabbia
gorgogliare nel rutto e bruciare la gola.
Il rivale, piú calmo, dà mano al bicchiere

e lo vuota continuo. Ha finito il suo litro
e ne attacca un secondo. li calore del sangue
manda in secco i bicchieri, come dentro una stufa.
I colleghi d'intorno hanno facce sbiancate
e oscillanti, le voci si sentono appena.
Il bicchiere, si cerca e non c'è. Per stanotte
- anche a vincere - la bionda torna a casa da sola.






La pace che regna

Il piacere del vecchio è sorprendere le ultime stelle
sotto l'alba, poi bere una volta e girare per strada.
Uno ha sempre saputo che il mondo finisce così:
ci si trova fra visi di gente inaudita,
e non basta guardarli e pensarci con calma.

li mio vecchio comincia dall'alba a girare le strade
e nessuno s'accorge che guarda e ci pensa,
lui, che un tempo era giovane, com'è giovane il mondo.
Non c'è un cane che sappia com'è il corpo del vecchio,
nudo e debole, e come il mattino trascorra per lui,
mentre lui vede i corpi di giovani e donne
e di tutti conosce il vigore. Ma gli occhi dei giovani
che non badano al vecchio, trascorrono in strada
inquieti, e hanno tutti una vita che il vecchio non sa.

Certamente, le strade son sempre le stesse
e il mattino ha lo stesso splendore. Ma un giovane
che picchiasse e piombasse sui sassi il mio vecchio
non sarebbe che giusto. E il mio vecchio non sa,
benché pensi a ogni cosa, che questa è la sorte:
pensa ai giovani e ai vecchi che son tutta la vita.

Inquieto è anche il vecchio al pensiero che un giorno
saran vecchi anche questi, e nessuno saprà
con che sguardo gli ignoti urteranno le cose.
Ma un'occhiata sul mondo la stende chiunque
e al mattino ogni cosa si sveglia. Invecchiando,
sarà ancora un piacere sorprendere l'alba
e discendere in strada tra la folla vivente.





Altri tempi

Anche il povero scemo che ha un occhio fiaccato
sanguinante, strizzandomi l'altro, rinvanga il suo sogno.

Occhi acuti, vedevano persino di notte;
e le spose, era inutile che spegnessero il lume.
Come un gatto. Gli uccelli passavano a volo
anche sopra le nubi, ma lui li arrivava
come noci sull'albero. Nei sereni d'inverno
sulla luna vedeva le montagne di ghiaccio.

Grandi muscoli aveva: portava il quintale
prima ancora dei baffi. Prendeva la pioggia
tutto un giorno d'inverno, che la pelle fumava,
e nemmeno tossiva. Le ragazze con lui
eran più che contente: le lasciava per morte.
Nelle risse lasciava per morto il rivale:
le ragazze tornavano, ché godevano troppo
a morire in quel modo, ma un rivale abbattuto
non tornava. Per vivere ci vuole coraggio.
E per ogni rivale buttato sui sassi
c'è un bastardo di più sotto il sole.

Ogni volta
le figliole le pensa più belle e i íìglioli più grandi;
tutti ban occhi da gatto. Se li sogna di notte.
Quello vero, che gira con lui, fa spavento:
non si passa l'estate a grattarsi i pidocchi
senza empirsi di croste. Si direbbe che mangiano
l'uno le ossa dell'altro. Anche il piccolo è guercio
ma capisce. Raccoglie le cicche e le fuma da sé.
Anche il povero scemo fumava, ai suoi ternpi
quando aveva la vista e le donne. Mangiava
tutti i giorni, servito da una bella ragazza,
che gli dava anche il vino. Fin che un giorno
s'accorse di esser scemo e d'allora il ragazzo lo guida
sulla pubblica strada, di mattino in mattino.







Paesaggio

Molte volte al inattino, sul gelo dell'acqua
una barca risale, di chiare sottane.
P, ancor nuda la magra collina distesa
nella nebbia del sole e s'avvolge di verde
pubertà, come un velo. La barca inesperta
ha talvolta sussulti che schiumano bianco.

Le ragazze incrocicchiano le braccia allo sforzo
e si parlano a scatti. «Vedrai come il sole
annerisce». Hanno nude le schiene nell'aria.
La collina di ruggine sorride nel cielo.
Le ragazze la fissano a scatti. La terra
ha il colore che avranno al gran cielo d'agosto
spalle e fianchi nascosti nelle chiare sottane.

Nuvolette fiorite punteggiano i colli
sullo specchio dell'acqua. Le ragazze piegate
dànno un rapido sguardo ai capelli scomposti,
dentro l'acqua. Qualcuna sorride da sola
al suo volto. Qualcuna si terge di scatto
il sudore pungente che sa di rugiada.

A un sussulto più forte, abbandonano i remi
e la barca gorgoglia. «Vedrai come il sole
annerisce». Ricadono le chiare sottane
dalle gambe. Qualcuna non distoglie più gli occhi
dalla bella collina dove il sole vapora
la rugiada e tra poco empirà tutto il cielo.






Ho visto la pietra scolpita

Hai viso di pietra scolpita,
sangue di terra dura,
sei venuta dal mare.
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei buia.
Per te l'alba è silenzio.

E sei come le voci
della terra - l'urto
della secchia nel pozzo,
la canzone del fuoco,
il tonfo di una mela;
le parole rassegnate
e cupe sulle soglie,
il grido del bimbo - le cose
che non passano mai.
Tu non muti. Sei buia.

Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov'è entrato una volta
ch'era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come al cortile antico
dove s'apriva l'alba.



Le piante del lago

Le piante del lago
ti hanno vista un mattino.
I sassi le capre il
sudore sono fuori dei giorni,
come l'acqua del lago.
Il dolore e il tumulto dei giorni
non scalfiscono il lago.
Passeranno i mattini,
passeranno le angosce,
altri sassi e sudore
ti morderanno il sangue
- non sarà così sempre.
Ritroverai qualcosa.
Ritornerà un mattino
che, di là dal tumulto,
sarai sola sul lago.

Anche tu sei l'amore

Anche tu sei l'amore.
Sei di sangue e di terra
come gli altri. Cammini
come chi non si stacca
dalla porta di casa.
Guardi come chi attende
e non vede. Sei terra
che dolora e che tace.
Hai sussulti e stanchezze,
hai parole - cammini
in attesa. L'amore
è il tuo sangue - non altro

Il giorno tetro

in cui dovrò soliatrio
morire (e verrà, senza scampo)
quel giorno piangerò
pensando che potevo
morire così nell'ebbrezza
di una passione ardente.
Ma per pietà d'amore
non l'ho voluto mai.
Per pietà del tuo povero amore
ho scelto, anima mia,
la via del più lungo dolore.

Vorrei poter soffocare

Vorrei poter soffocare
nella stretta delle tue braccia
nell'amore ardente del tuo corpo
sul tuo volto, sulle tue membra struggenti
nel deliquio dei tuoi occhi profondi
perduti nel mio amore,
quest'acredine arida
che mi tormenta.
Ardere confuso in te disperatamente
quest'insaziabilità della mia anima
già stanca di tutte le coose
prima ancor di conoscerle
ed ora tanto esasperata
dal mutismo del mondo
implacabile a tutti i miei sogni
e dalla sua atrocità tranquilla
che mi grava terribile
e noncurante
e nemmeno più mi concede
la pacatezza del tedio
ma mi strazia tormentosamente
e mi pùngola atroce,
senza lasciarmi urlare,
sconvolgendomi il sangue
soffocandomi atroce
in un silenzio che è uno spasimo
in un silenzio fremente.
Nell'ebrezza disperata
dell'amore di tutto il tuo corpo
e della tua anima perduta
vorrei sconvolgere e bruciarmi l'anima
spardere quest'orrore
che mi strappa gli urli
e me li soffoca in gola
bruciarlo annichilirlo in un attimo
e stringermi stringermi a te
senza ritegno più
ciecamente, febbrile,
schiantandoti, d'amore.
Poi morire, morire,
con te.
HO TENTATO DI BACIARTI E TU MI HAI MORSO

Ho tentato di baciarti e tu mi hai morso,
tutto tutto è perduto.
Possedevo un divino paradiso
in quei giorni lontani.
Vivevo in un altro sogno
che i timori malcerti
di una fine e i rimorsi
mi facevano solo più bello.
Ora ho perduto tutto.
Per volere sapere,
per il mio male implacabile
che non crede al futuro
mi sono gettato nel buio…


Un pensiero dominante

Per questo ogni guerra è una guerra civile:
ogni caduto somiglia a chi resta,
e gliene chiede ragione.


La notte

Ma la notte ventosa, la limpida notte
che il ricordo sfiorava soltanto, è remota,
è un ricordo. Perduta una calma stupita
fatta anch’essa di foglie e di nulla. Non resta,
5 di quel tempo di là dai ricordi, che un vago ricordare.

Talvolta ritorna nel giorno
nell’immobile luce del giorno d’estate,
quel remoto stupore.
Per la vuota finestra
10 il bambino guardava la notte sui colli
freschi e neri, e stupiva di trovarli ammassati:
vaga e limpida immobilità. Fra le foglie
che stormivano al buio, apparivano i colli
dove tutte le cose del giorno, le coste
15 e le piante e le vigne, eran nitide e morte10
e la vita era un’altra, di vento, di cielo,
e di foglie e di nulla.

Talvolta ritorna
nell’immobile calma del giorno il ricordo
di quel vivere assorto, nella luce stupita.