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ANGELO POLIZIANO


RIME

parte seconda
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Angelo Poliziano
La Poetica
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ANGELO POLIZIANO  - RIME - parte seconda

FINE

- Una teoria originale dell'arte
Vivissima è la sensibilità del Poliziano verso i problemi dell'arte. Pur condividendo con gli altri umanisti la concezione di una funzione civilizzatrice della poesia, egli formula una teoria originale dell'ispirazione artistica, legata ai concetti dell'individualità e della creatività. I principali documenti della poetica polizianea sono due testi in latino: l'Oratio super Fabio Quintiliano et Statii “Sylvis” (Orazione su Quintiliano e sulle “Selve” di Stazio) e la Lettera a Paolo Cortese
.
- L'Orazione su Quintiliano e Stazio
L'Orazione costituisce la prolusione al corso sull' Istituzione oratoria di Quintiliano (42-96 d. C.) e sulle Selve di Stazio (45-96 d. C.), che il Poliziano tenne allo Studio di Firenze nel 1480-81. Rivolgendosi ai giovani discepoli, l'oratore spiega le ragioni che lo hanno indotto a scegliere, come autori da commentare nel suo corso di lezioni, due scrittori vissuti in un'epoca di declino letterario, e quindi considerati “minori” rispetto a un Virgilio e a un Cicerone, massimi esponenti della latinità classica. È opportuno (argomenta lo scrittore) che i giovani non siano messi bruscamente dinanzi a scrittori di primo piano, perché nessuno può arrivare di colpo all'eccellenza artistica. D'altronde, quelle opere che, come le Selve di Stazio, sono state concepite nel calore di una improvvisa ispirazione, e quindi eseguite con rapidità di stesura, non sono necessariamente inferiori a quelle che sono costate più lunga fatica e più lunghe cure; può anzi accadere che un troppo lungo lavoro di lima logori un'opera e induca il suo autore a ripudiarla, come è accaduto per l' Eneide, che Virgilio, insoddisfatto, avrebbe voluto gettare nel fuoco. Le Istituzioni di Quintiliano sono per certi aspetti più ricche delle opere retoriche di Cicerone; e le Selve di Stazio costituiscono un'opera unica nel suo genere; è illecito pertanto considerare queste opere dell'età “argentea” come inferiori ai modelli dell' età “aurea” (Virgilio e Cicerone), giudicando come una deviazione da una norma assoluta di bellezza un semplice mutamento di sensibilità: “non è lecito chiamar senz'altro peggiore quello che è diverso”, dichiara il Poliziano (stabilendo un principio che conserva tutto il suo valore anche al di là dell'ambito letterario).
La “docta varietas”. L'autore conclude polemizzando con chi sostiene la necessità di un solo modello da imitare; occorre invece trarre da ogni parte la materia dell'ispirazione. Estremamente significativa è a questo punto la citazione di un passo di Lucrezio (De rerum natura, III, 11-12): “Come le api nei prati fioriti vanno libando dovunque, cosí noi ci nutriamo dovunque di detti aurei”. È così formulata la tipica teoria polizianea della docta varietas (“dotta varietà”), che caratterizza gran parte della produzione latina e volgare del Poliziano.

- La Lettera a Paolo Cortese
La questione dell'imitazione, semplicemente enunciata nell' Orazione, è invece compiutamente sviluppata nella Lettera a Paolo Cortese, un giovane umanista romano (vivente in quella Roma che era allora la roccaforte del ciceronianismo). Il Poliziano non rifiuta il principio dell'imitazione in se stessa, ma pensa che essa debba fondarsi su diversi presupposti, in modo che non mortifichi la libertà e la creatività dell'artista. La risposta di Paolo Cortese è dignitosa: anch'egli rifiuta un'imitazione pedissequa, priva di originalità, e sostiene che la somiglianza al modello deve essere quella non della scimmia con l'uomo ma del figlio con il padre; ribadisce però che occorre scegliere il modello migliore e a quello attenersi, senza ricorrere a una molteplicità di modelli (come quelli di Quintiliano, di Seneca, di Orazio, citati dal Poliziano nella sua lettera).
La polemica, pur essendo molto garbata, contrappone due punti di vista inconciliabili: da una parte (Cortese) l'imitazione, sia pure non servile, di un solo modello; dall'altra parte (Poliziano) il recupero di tutta la latinità (e anche del mondo greco, di cui i latini si sono nutriti). La linea del Poliziano è quella stessa di Lorenzo Valla, che aveva anche lui polemizzato contro il ciceronianismo e contro l'idea di modelli intoccabili. Sarà la tesi dell'“ottimo modello” a trionfare nel secolo successivo con Pietro Bembo; ma più feconda è la tesi polizianea di una poesia della memoria letteraria, che attinga al passato (a tutto il passato) per rendere più originale e più nuovo il presente. Quella del Poliziano non è una tesi eclettica, ma il frutto personale di una lunga e appassionata lettura dei classici, non giustapposti confusamente ma assimilati pienamente e ri-creati, come carne e sangue di una nuova e originale creazione.

- Il latino del Poliziano
La polemica del Poliziano con Paolo Cortese aiuta a comprendere le caratteristiche del latino dello scrittore, che non è il linguaggio notarile e delle cancellerie (destinato a un pubblico vasto, e quindi gremito di artifici retorici per catturare l'attenzione e strappare l'applauso), ma un linguaggio di alta scuola, ricco di sterminata erudizione e di vocaboli rari: un latino per i dotti e non per il volgo. Paolo Cortese apparteneva non a caso a quell'ambiente curiale e cancelleresco romano che era un feudo del ciceronianismo, mentre il Poliziano è (con Pico della Mirandola) l'esponente della grande cultura universitaria dell'ultimo Quattrocento: quella cultura che sarà perdente nel secolo successivo, quando, con l'autorevole avallo di Pietro Bembo, trionferà la lingua delle corti e delle cancellerie, il ciceronianismo appunto.

- Il Poliziano scrittore greco
Un altro primato spetta di diritto al Poliziano, uno dei pochi poeti umanisti che si cimentarono con il greco e il primo a entrare in gara con gli antichi poeti greci, componendo una raffinatissima raccolta di epigrammi. Non è un caso che il poeta-mito del Poliziano, fin dalla appassionata adolescenza, sia stato Omero, della cui Iliade tradusse i libri II-V e che, nei suoi corsi universitari, considererà come il poeta-vate per eccellenza.
Anche se la traduzione dell'Iliade non è tra le cose migliori dello scrittore, trattandosi di una lettura in chiave “virgiliana” del capolavoro omerico (e quindi di un esercizio di stile), è significativo, come osserva Emilio Bigi, che negli ultimi due libri (il IV e il V) si manifesti un gusto più personale, quasi un'applicazione, prima della formulazione teorica, della poetica della “dotta varietà”. Lo stesso gusto prezioso nel recupero dei vocaboli greci si riscontra anche nella traduzione dell'Amor fuggitivo di Mosco (un poeta che sarà caro anche a Leopardi).
Fin dall'adolescenza, il Poliziano compose epigrammi in greco, esercitandosi nella traduzione di numerosi pezzi dell'Antologia Palatina (una raccolta di 3700 epigrammi greci, composti da circa trecento poeti dal secolo IV a. C. alla tarda età bizantina, chiamata “Palatina” perché fu scoperta nel 1607 nella Biblioteca Palatina di Heidelberg). Come è noto, l'epigramma (in greco, “iscrizione”) è caratterizzato soprattutto dalla brevità e dallo stile conciso, carattere obbligato delle frasi scolpite sui monumenti o sulle statue. Di una brevità e concisione estreme sono i polizianei Epigrammata graeca (Epigrammi greci), superiori per la varietà dei temi e dei metri e per l'intensità dell'effusione sentimentale agli epigrammi latini dello scrittore. Si veda la purezza degna di Saffo e, insieme, la modernità straordinaria di questo frammento (un esametro dattilico):




(Traduzione: “Monostico alla luna. Mandaci, luna, i tuoi notturni raggi”)

- Gli epigrammi latini
La lirica latina del Poliziano è raccolta nel postumo Liber epigrammaton (Libro degli epigrammi), che comprende, oltre ai veri e propri epigrammi, anche odi, inni ed elegie. Particolarmente violenti sono alcuni epigrammi contro gli avversari del poeta, come quello contro un certo Mabilio, deriso per il suo naso “corto, dimezzato ed ossuto”, ove “vi può fare nido una vespa”. Alcuni epigrammi rivelano nell'arguzia e nel compiacimento per il gioco di parole (ma anche nell'eleganza dello stile) l'attento lettore di Catullo, di Marziale, dell' Antologia Palatina.
Alla poesia elegiaca latina, intessuta di reminiscenze della tradizione stilnovistica e petrarchesca, il Poliziano si ispira per le sue elegie di argomento amoroso, composte negli anni 1473-78. Si è parlato per questi componimenti di una rivoluzione del genere lirico, che mescola spunti della letteratura latina e della coeva letteratura volgare (In violas), che riscopre l'ode oraziana (In Lalagen) e l'epicedio classico (In Albieram Albitiam), che si apre a deliziosi giochi sperimentali (In puellam suam).
Giustamente famosa è l'elegia In violas (Alle viole), del 1473, felice esempio dell'intreccio tra un motivo consueto al petrarchismo del Quattrocento (l'elogio dei fiori più umili, colti dalla mano della donna amata) e immagini classiche di bellezza e di grazia, in un clima floreale che rinvia alle analoghe rappresentazioni della pittura del tempo, dalla Primavera di Botticelli alla Dama col mazzolino del Verrocchio. Come le viole, un altro simbolo di bellezza femminile polizianea è Lalage (nome di una donna celebrata in versi da Orazio), che, nell'elegia In Lalagen (A Lalage), risorge dalla malattia ancora più bella (“la mia Lalage splende di più con sul volto il color della porpora. Guarda come sorride dolcemente con gli occhi lucenti come le stelle...”), anticipando un motivo che ritornerà nella lirica neoclassica di Ugo Foscolo.
Un ampio carme elegiaco è In Albieram Albitiam (Ad Albiera degli Albizi), tecnicamente un “epicedio” (componimento in onore di un defunto):bellissima fanciulla, Albiera si spense a soli quindici anni, alla vigilia delle sue nozze, e le sue esequie furono accompagnate dal pianto di tutto il popolo. Il poeta evoca inizialmente, con una fitta serie di riferimenti mitologici, la bellezza della fanciulla nel suo pieno fulgore. Ma la dea Febbre (una figurazione orrida, che ricorda gli ovidiani mostri infernali, ma rinvia anche a Lucrezio, descrittore della peste) si insedia nel corpo della fanciulla. L'atroce personaggio sosta accanto al letto dell'ignara Albiera, invitandola a prepararsi alla morte. La fanciulla si spegne lentamente, con un tenerissimo congedo dalla vita. Il poeta la contempla ancora bella malgrado la morte, come la Laura petrarchesca: “E tuttavia il pallore non aveva mutato le sue membra di neve, né il cupo squallore ne aveva deturpato il gelido volto. Ma la morte bella in lei rassomigliava ad un sonno leggero; un tale languore era sul suo bel viso!”. Con i suoi atteggiamenti trasognati e assorti e con il mescolarsi in lei di colori reali e di riferimenti mitologici, Albiera anticipa ormai da vicino la Simonetta delle Stanze.
Una squisita poesia d'amore è l'ode In puellam suam (Alla sua fanciulla), dove un'ispirazione teneramente sensuale si manifesta in una serie di affettuosi diminutivi, che ricordano la poesia catulliana:

Puella delicatior
lepusculo et cuniculo,
coaque tela mollior
anserculique plumula;
puella qua lascivior
nec vernus est passerculus,
nec virginis blande sinu
sciurus usque lusitans;
puella longe dulcior
quam mel sit Hyblae aut saccarum,
ceu lac coactum candida
vel lilium vel prima nix...

(Traduzione: “O fanciulla più graziosa di un leprottino e di un coniglietto, più morbida di un tessuto di Coo e delle piume di un anatroccolo; fanciulla di cui più divertente non è nemmeno un passerotto di primavera, né uno scoiattolo abituato a giocare affettuosamente nel grembo di una ragazza; fanciulla molto più dolce di quanto possa esserlo il miele di Ibla o lo zucchero, candida come il latte cagliato o il giglio o la nevepiù pura... ”)
Commenta Francesco Tateo: “La lode della fanciulla ne divinizza paganamente la bellezza e ne fa ancora una di quelle inafferrabili figure femminili così care alla poesia del Poliziano”.
- Poliziano poeta in volgare
Le opere in volgare del Poliziano presentano alcune caratteristiche, che possono ricondursi agli elementi del “non finito” e dell'“improvviso”: l'incompiutezza (è il caso del capolavoro, le Stanze e la Fabula di Orfeo), la frammentarietà (le Rime). Di queste caratteristiche in certo modo limitative si è data in passato un'interpretazione che oggi non appare più sostenibile: la preferenza che il poeta avrebbe accordato alla sua produzione filologica in latino rispetto a quella in volgare (ma noi sappiamo oggi che filologia e poesia sono nel Poliziano inscindibili). Si è inoltre tentato di sminuire la produzione in volgare sostenendo che essa apparterrebbe agli anni giovanili, mentre dopo il 1480 (data d'inizio dell'insegnamento universitario del Poliziano) si sarebbe verificato da parte dello scrittore un ripudio del volgare; ma anche questa tesi è stata smentita dalla critica più recente, che ha accertato una sostanziale continuità sia della produzione filologica sia di quella poetica prima e dopo il 1480. In realtà, il “non finito” e l'“improvviso” rientrano nella poetica stessa del Poliziano (vedi 10.3.3), che si richiama all'autorità di poeti come Virgilio e come Stazio per rivendicare la piena legittimità di tali procedimenti nell'invenzione artistica. Non esiste insomma contraddizione tra l'impegno umanistico del Poliziano e la rivalutazione del linguaggio toscano, caratterizzata anch'essa, fin dalla Raccolta aragonese (vedi 9.3), da una chiara intenzione filologica: recuperare la tradizione poetica toscana nel quadro della “rinascita” della classicità. Il tentativo epico delle Stanze è il momento culminante della fusione, vagheggiata dal Poliziano e, con lui, dal Magnifico, tra il fiorentino (aulico e popolare) e il più illustre genere letterario della letteratura antica: il poema epico.

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CANZONI A BALLO



CII
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.
Erano intorno vïolette e gigli,
fra l’erba verde, e vaghi fior novelli,
azzurri, gialli, candidi e vermigli:
ond’io porsi la mano a côr di quelli
per adornare e mie biondi capelli,
e cinger di grillanda el vago crino.

Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo,
vidi le rose, e non pur d’un colore;
io colsi allor per empier tutto el grembo,
perch’era sì soave el loro odore
che tutto mi senti’ destare el core
di dolce voglia e d’un piacer divino.

I’ posi mente quelle rose allora:
mai non vi potrei dir quanto eron belle!
Quale scoppiava dalla boccia ancora
quale erano un po’ passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: – Va’ co’ di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino. –

Quando la rosa ogni suo foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a mettere in ghirlande,
prima che suo bellezza sia fuggita.
Sì che, fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.






CIII
I’ mi trovai un dì, tutto soletto,
in un bel prato per pigliar diletto.
Non credo che nel mondo sia un prato
dove sien l’erbe di sì vaghi odori:
ma quand’io fu’ nel verde un pezzo entrato,
mi ritrovai tra mille vaghi fiori,
bianchi e vermigli, e di cento colori,
fra’ qual senti’ cantare uno augelletto.

Era ’l suo canto sì soave e bello
che tutto ’l mondo innamorar facea.
I’ m’acostai pian pian per veder quello:
vidi che ’l capo e l’ali d’oro avea,
ogni altra penna di rubin parea,
ma ’l becco di cristallo, e ’l collo e ’l petto.

I’ lo volli pigliar, tanto mi piacque,
ma tosto si levò per l’aria a volo
e ritornossi al nido ove si nacque.
I’ mi son misso a seguirlo sol solo:
ben crederei pigliarlo ad un lacciuolo,
s’i’ lo potessi trar fuori dal boschetto.

I’ gli potrei ben tender qualche rete,
ma da po’ che ’l cantar gli piace tanto,
sanz’altra ragna, sanza altra parete
mi vo’ provar di pigliarlo col canto.
E quest’è la cagion perch’i’ pur canto:
che questo vago augel cantando alletto.







CIV
Questo mostrarsi adirata di fore,
donna, non mi dispiace
purch’io stie ’n pace poi col vostro core.

Ma perch’i’ son del vostro amore incerto,
cogli occhi mi consiglio:
quivi veggio ’l mio bene e ’l mio mal certo.
Ché, se movete un ciglio,
subito piglio speranza d’amore.

Se poi vi veggio in atto disdegnosa,
par che ’l cor si disfaccia;
e credo allor di non poter far cosa,
donna, che mai vi piaccia,
così s’adiaccia e arde a tutte l’ore.

Ma se talor qualche pietà mostrassi
negli occhi, o viva stella,
voi faresti d’amore ardere e sassi:
pietà fa donna bella,
pietà è quella onde amor nasce e more.

CV
Io ti ringrazio, Amore,
d’ogni pena e tormento,
e son contento omai d’ogni dolore.

Contento son di quanto ho mai soferto,
signor, nel tuo bel regno,
poi che per tua merzé, sanza mio merto,
m’hai dato sì gran pegno,
poi che m’hai fatto degno
d’un sì beato riso,
che in paradiso n’ha portato il core.

In paradiso el cor n’hanno portato
que’ begli occhi ridenti,
ov’io ti vidi, Amore, star celato
colle tue fiamme ardenti.
O vaghi occhi lucenti
che ’l cor tolto m’avete,
onde traete sì dolce valore?

==>SEGUE




I’ ero già della mia vita in forse:
madonna in bianca vesta
con un riso amoroso mi socorse,
lieta, bella e onesta;
dipinta avea la testa
di rosa e di vïole,
gli occhi che ’l sole avanzon di splendore.

CVI
Chi non sa come è fatto el paradiso,
guardi Ipolita mia negli occhi fiso.

Dagli occhi della Ipolita discende,
cinto di fiamme, uno angiolel d’amore
che’ freddi petti come un’esca accende
e con tanta dolcezza strugge ’l core,
ch’e’ va dicendo in mentre che si more:
– Felice a me ch’i’ sono in paradiso! –

Dagli occhi dell’Ipolita si muove
virtù che scorre con tanta fierezza,
ch’i’ la somiglio al folgorar di Giove,
e rompe il ferro e ’l diamante spezza:
ma la ferita ha in sé tanta dolcezza,
che chi la sente è proprio in paradiso.

Dagli occhi della bella Leoncina
piove letizia tanto onesta e grave,
ch’ogni mente superba a lei s’inchina,
e par la vista sua tanto soave
che d’ogni chiuso cor volge la chiave,
onde l’anima fugge in paradiso.

Negli occhi di costei Biltà si siede
che seco stessa dolce parla e ride;
negli occhi suoi tanta grazia si vede
quanta nel mondo mai per uom si vide:
ma qualunche costei cogli occhi uccide,
lo risucita poi guardandol fiso.







CVIII
Deh, udite un poco, amanti,
s’i’ son bene sventurato:
una donna m’ha legato,
or non vuole udir mie pianti.

Una donna el cor m’ha tolto,
or nol vuole, e non mel rende;
hammi un laccio al collo avolto,
ella m’arde, ella m’incende.
Quand’io grido, non m’intende,
quand’io piango, ella si ride;
non mi sana e non mi uccide,
tienmi pure in dolor tanti.

E più bella assai che ’l sole,
più crudele è ch’un serpente:
suo be’ modi e suo parole,
di dolcezza empion la mente.
Quando ride, immantenente
tutto ’l ciel si rasserena:
questa bella mie sirena
fa morirmi co’ suo canti.

Ecco l’ossa, ecco le carne,
ecco ’l core, ecco la vita:
o crudel, che vuo’ tu farne?
Ecco l’anima smarrita:
perché innuovi mie ferita,
e del sangue mio se’ ingorda?
Questa bella aspida sorda,
chi verrà che me la incanti?




CVII
Or toi s’Amor me l’ha ben acoccato,
ch’i’ sie condotto a ’nnamorarmi a Prato!

Innamorato son d’una fanciulla,
ch’a’ giubilei si vede alcuna volta,
sì che arte o preghi con lei non val nulla;
invidia e gelosia me l’hanno tolta,
però sanza speranza di ricolta
mi veggio avere il campo seminato.

Se talor cerco di vederla un poco
o di pigliar del canto suo diletto
per amorzar alquanto il crudel foco,
ogni cosa mi par pien di sospetto.
O canto di sirena maledetto
che fra sì duri scogli m’hai tirato!

Sie maladetto el giorno e l’ora e ’l punto,
ch’i’ mi condussi della morte al rischio!
O sciagurato a me, che ben fu’ giunto
al dolce canto, come ’l tordo al fischio!
Misero a me, che ’n sì tenace vischio,
sanza rimedio alcun, sono impaniato!

S’almen non fussi costretto al partirmi,
cangerei di me vita il duro stilo;
poi ch’i’ non spero più, farò sentirmi,
ché troppo mi trafigge questo assilo;
se ’l mondo si tenessi per un filo,
convien che sie per le mie man troncato.

I’ metterò la mia fama a sbaraglio,
non temerò pericol né sciagura;
far mi convien per forza qualche staglio:
chi nulla spera, di nulla ha paura.
I’ mosterrò quanto sua vita cura
l’amante offeso a torto e disperato.







CIX
Benedetto sie il giorno, l’ora e ’l punto
che dal tuo dolce amor, dama, fu’ punto.

I’ non ho invidia a uom ch’al mondo sia,
i’ non ho invidia in cielo alli alti dei,
poi ch’i’ ti sono in grazia, anima mia,
poi che tutta donata mi ti sei.
Anzi, contento nel foco morrei,
vedendo el tuo bel viso in su quel punto.

E’ non ha ’l mondo uom più di me felice,
e’ non ha ’l mondo uom più di me contento:
son come fra gli augelli la fenice,
son come nave pinta da buon vento.
Di dolcezza disfar tutto mi sento,
quando penso a colei che ’l cor m’ha punto.

Quand’io penso a quegli occhi, a quel bel viso,
del qual m’ha fatto degno el mio signore,
l’anima vola insino in paradiso,
e fuor del petto vuol fuggire el core:
ond’io ringrazio mille volte Amore,
che sì ben ristorato m’ha in un punto.

Amor, tu m’hai ristorato a un tratto
di sì lungo servir, d’ogni fatica;
tu m’hai d’un uom ben vile uno dio fatto,
onde sempre convien ch’i’ benedica
el tuo bel nome, e con voci alt’i’ dica:
– Sie benedetto Amor, che ’l cor m’ha punto! –








CX
Donne, di nuovo el mie cor s’è smarrito,
e non posso pensar dove sie ito.

Era tanto gentil questo mio core,
ch’ad un cenno solea tornar volando,
perch’i’ ’l pascevo d’un disio d’amore:
ma una donna l’allettò cantando,
pur poi lo venne tanto tribolando,
che s’è sdegnato e da lei s’è fuggito.

Questo mio core ave’ sommo diletto
di star sempre tra voi, donne leggiadre:
però, fanciulle, io ho di voi sospetto,
ch’i’ non dubito già di vostre madre.
Ma voi solete de’ cori esser ladre,
per quanto i’ n’ho, fanciulle mie, sentito.

Se pur voi lo sapessi governare,
i’ direi, donne, – Fra voi si rimanga –;
ma voi lo fate di fame stentare
sì che e’ s’impicca e dibatte alla stanga,
onde convien poi che tutto s’infranga
e, s’egli stride, mai non è udito.

Poi di parole e sguardi lo pascete,
ch’a dire ’l vero, è un cattivo pasto;
di fatti a beccatelle lo tenete,
tanto che mezzo me l’avete guasto.
Datel qua, ladre; e se ci fia contasto,
alla corte d’Amor tutte vi cito.




CXI
Egli è ver ch’i’ porto amore
alla vostra gran bellezza,
ma pur ho maggior vaghezza
di guardare el vostro onore.

Egli è ver, donna, ch’i’ ardo,
ma per tema del dir male,
non pur altro, i’ non vi guardo:
e’ ci son certe cicale
che l’acconcion sanza sale
e vi tengon sempre a loggia;
tutti son popon da Chioggia,
d’una buccia e d’un sapore.

Costor son certi be’ ceri,
c’han più vento ch’una palla;
pien d’inchini e di sergeri,
stanno in bruco e in farfalla
col benduccio in sulla spalla,
tuttavia in zazzera e ’n petto,
sempre a braccia e dirimpetto
e talor fiutando el fiore.

Giovanastri, anzi pieroni,
nessun sa quel ch’e’ si pesca:
van cogli occhi a procissioni,
vagheggiando alla pazzesca.
Ti so dir che la sta fresca
chi con lor non è salvatica;
e’ non sanno uscir di pratica,
poi salmeggion di lei fore.

I’ per me so’ innamorato,
e ’l color mio ne fa fede:
ma chi m’abbi a sé legato,
quella ’l sa che ’l mie cor vede.
Ècci ben chi d’altra crede,
perch’or questa or quella adocchio,
ma sottecchi ho sempre l’occhio
a colei che m’arde ’l core.

==>SEGUE






Ben vi prego, o donna cara,
che coll’occhio onesto e cheto
non vogliate essermi avara
d’uno sguardo mansueto,
o d’un risolin discreto,
che per or mi tien contento:
e io sempre sarò intento
a salvare el vostro onore.



CXII
Già non siàn, perch’e’ ti paia,
dama mia, così balocchi;
conosciàn che c’infinocchi
e da tutti vuoi la baia.
Già credetti essere il cucco,
so che ’n gongolo i’ ti tenni,
ma tu m’hai presto ristucco
con tuo ghigni, attucci e cenni.
Pur del mal tosto rinvenni
e son san com’una lasca:
anch’i’ so impaniar la frasca,
benché forse a te non paia.

Tu solleciti el zimbello,
e col fischio ognuno alletti;
tireresti ad un fringuello,
ma indarno omai ci aspetti.
Quanto più, per Dio, civetti,
tanto più d’ognun se’ gufo:
deh, va’ ficcati in un tufo,
cheta, e fa’ che non si paia.

Tutti questi nuovi pesci
hanno un po’ del dileggino,
e pur pregan ch’i’ rovesci
del sacchetto il pellicino:
ma s’i’ scuoto un pochettino,
tanta roba n’uscirebbe,
ch’ognun poi se n’avedrebbe,
e megli’ è che non si paia.

==>SEGUE


   

Tant’è, dama, a parlar chiaro,
tu vagheggi troppo ognuno,
sanza fare alcun divaro
s’egli è bianco o verde o bruno;
me’ faresti a tortene uno
(e sarei proprio buon io),
a quest’altri dire addio
e saresti fuor di baia.


CXIII
I’ conosco el gran disio
che ti strugge, amante, il core;
forse che di tanto amore
ne sarai un dì giulìo.

Ben conosco la tuo voglia,
so ch’i’ son da te amata:
tanta pena e tanta doglia
sarà ben remunerata.
Tu non servi a donna ingrata;
provat’ho d’amor la forza,
i’ non nacqui d’una scorza,
son di carne e d’ossa anch’io.

Tu non perdi invano el tempo,
toccherai bene un dì porto;
ci sarà ben luogo e tempo
da poterti dar conforto.
Non ti sarà fatto torto,
ché conviene amar chi ama,
e rispondere a chi chiama:
– Sta pur saldo e spera in Dio! –

A chi può me’ ch’all’amante
questo amore esser donato?
Ché, se gli è fermo e costante,
col suo prezzo l’ha comprato.
Statti pur così celato,
e ritocca el tuo zimbello:
calerà ben qualche uccello
alle rete, amante mio.

==>SEGUE

Non t’incresca l’aspettare,
ch’i’ non sono, amante, il corbo:
quando è tempo, i’ so tornare,
né formica i’ son di sorbo.
Non è ver ch’Amor sie orbo,
anzi vede insino a’ cuori:
non vorrà che questi fiori
sempre mai stieno a bacìo.


CXIV
Una vecchia mi vagheggia,
vizza e secca insino all’osso;
non ha tanta carne adosso
che sfamassi una marmeggia.

Ell’ha logra la gingiva,
tanto biascia fichi secchi,
perch’e’ fan della sciliva
da ’mmollar bene e pennecchi:
sempre in bocca n’ha parecchi,
ché ’l palato se gli ’nvisca;
sempre al labro ha qualche lisca
del filar ch’ella morseggia.

Ella sa propio di cuoio,
quand’è in concia, o di can morto,
o di nidio d’avoltoio:
sol col puzzo ingrassa l’orto
(or pensate che conforto!),
e fuggita è della fossa;
sempre ha l’asima e la tossa
e con essa mi vezzeggia.

Tuttavia el naso le gocciola,
sa di bozzima e di sugna,
più scrignuta è ch’una chiocciola:
po’, s’a un tratto el fiasco impugna,
tutto ’l suga come spugna,
e vuole anche ch’i’ la baci.
Io la sgrido: – Oltre va’ giaci! –;
ella intorno pur matteggia.

==>SEGUE

    

Non tien l’anima co’ denti,
ch’un non ha per medicina;
e luccianti ha quasi spenti,
tutti orlati di tonnina.
Sempre la virtù divina
fin nel petto giù gli cola;
vizza e secca è la suo gola,
tal ch’un becco par d’acceggia.

Tante grinze ha nelle gote,
quante stelle sono in cielo;
le suo poppe vizze e vote,
paion propio ragnatelo.
Nelle brache non ha pelo,
della peccia fa grembiule;
e più biascia che le mule,
quando intorno mi volteggia.


CXV
I’ vi vo’ pur raccontare
(deh udite, donne mie)
certe vostre gran pazzie,
ma pur vaglia a perdonare.

Se voi fussi più discrete
circa ’l fatto dello amore,
ne saresti assai più liete,
pur salvando el vostro onore.
Non si vuole un amadore
sempre mai tenere in gogna,
ch’al meschin alfin bisogna
le suo pene apalesare.

Quando e’ vede che tu impeci
pur gli orecchi, e’ grida forte,
ché non può coprire e ceci
chi fa ’l dì ben mille morte.
Vo’ dovresti essere acorte
a stalciare e sciorre el nodo,
a mostrare el tempo e ’l modo
che vi possa un po’ parlare.

==>SEGUE

    


Quando poi siete alle strette,
ordinate el come e ’l quando,
sanza far tante civette,
sanza avere a metter bando.
Non bisogna ir poi toccando
fra le genti o piedi o mano:
la campana a mano a mano
in un gitto si può fare.

Sonci mezzi ancor da mettere,
se voi fussi sospettose:
chi sa legger, colle lettere
potre’ far dimolte cose,
ma ci son certe leziose
c’han paur della fantasima,
ch’a vederle mi vien l’asima,
nate propio per filare.

Una donna ch’è gentile
sa ricever ben lo ’nvito;
quando ell’è dapoca e vile
non sa mai pigliar partito,
poi si morde invano el dito,
quand’ell’ha vizze la pelle:
sì che mentre siate belle
attendete a trionfare.


CXVI
Io ho rotto el fuscellino,
pure un tratto, e sciolto el gruppo,
i’ son fuor d’un gran viluppo
e sto or com’un susino.

Una certa saltanseccia,
fatta come la castagna,
c’ha ben bella la corteccia,
ma l’ha drento la magagna,
fe’ insaccarmi nella ragna
con suo ghigni e frascherie;
poi di me fe’ notomie,
quando m’ebbe a suo dimino.

==>SEGUE




Ella m’ha tenuto un pezzo
già colla ciriegia a bocca:
ma pur poi mi son divezzo,
tal che mai più me l’accocca.
Mille volte in cocca in cocca
ha condotto già la pratica;
poi, fantastica e lunatica,
piglia qualche grillolino.

Sempre mai questa sazievole
è in su lezi e smancerie,
una cosa rincrescevole
in suo borie, in suo pazzie;
paga altrui di villanie,
quando tu gli fa’ piacere.
Or su, il resto vo’ tacere
e serbar nel pellicino.


CXVII
I’ son, dama, el porcellino
che dimena pur la coda
tutto ’l giorno e mai l’annoda:
ma tu sarai l’asinino.

Ché la coda par conosca
l’asinin, quando e’ non l’ha;
se lo morde qualche mosca,
gran lamento allor ne fa.
Questo uccello impanierà,
ch’or dileggia la civetta;
spesse volte el fico in vetta
giù si tira con l’uncino.

Tu se’ alta, e non scorgi
un mio par quaggiù fra’ ciottoli,
e la mano a me non porgi
ch’i’ non caggia più cimbottoli.
Orsù, diànla pe’ vïottoli
a cercar d’un’altra dama,
perché un oste è che mi chiama,
ch’ancor lui mesce buon vino.

==>SEGUE


Del tuo vino i’ non vo’ bere,
va’ ripon la metadella,
perché all’orlo del bicchiere
sempre freghi la biondella.
Non intingo in tuo scodella,
che v’è drento l’aloè:
ma qualcun, per la mia fé,
farà più d’un pentolino.

Tu mi dicevi: – Apri bocchi –,
poi m’hai fatta la cilecca;
or mi gufi e fa’mi bocchi:
ma ci è una che m’imbecca
d’un sapor, che chi ne becca
se ne succia poi le dita.
Con costei fo buona vita
e sto com’un passerino.

A te par toccare il cielo
quando un po’ mi gufi e gabbi:
ma nessuna ha del mie pelo,
ch’i’ del suo anche non abbi.
E’ ci fia poi pien di babbi,
dove credi sia el pastaccio;
tuttavia la lepre traccio,
mentre lei fa il sonnellino.



CXVIII
Io vi vo’, donne, insegnare
come voi dobbiate fare.

Quando agli uomin vi mostrate,
fate d’esser sempre aconce
(benché certe son più grate,
quando altrui le vede sconce).
Non si vuol colle bigonce
porsi el liscio, ma pian piano;
quando scorre un po’ la mano,
una cosa schifa pare.

==>SEGUE


Fate pur che ’ntorno a’ letti
non sien, donne, mai trovati
vostre ampolle e bossoletti,
ma tenetegli serrati.
E capei ben pettinati,
se son biondi, me’ ne giova
– che non paia fatto in pruova –
di vedelli un po’ sconciare.

State pur sempre pulite,
i’ non dico già strebbiate;
sempre el brutto ricoprite,
ricci e gale sempre usate.
Vuolsi ben che conosciate
quel ch’al viso si conviene:
ché tal cosa a te sta bene
che quell’altra ne dispare.

Ingegnatevi star liete,
con be’ modi e avenenti;
volentier sempre ridete,
pur ch’abbiate netti e denti:
ma nel rider certi acenti
gentileschi usate sempre,
certi tocchi, certe tempre,
da fare altrui sgretolare.

Imparate e giuochi tutti,
carte e dadi e scacchi e tavole,
perché e’ fanno di gran frutti,
canzonette, versi e favole.
Ho vedute certe diavole
che pel canto paion belle;
ho vedute anche di quelle
che ognun l’ama pel ballare.

El sonar qualche stormento
par che acresca anche bellezza:
vuolsi al primo darvi drento
perch’ella è più gentilezza.
Molto veggo che s’aprezza
una dama che ha el piacevole;
io per me queste sazievole
non le posso comportare.

==>SEGUE
   

Le saccente e le leziose
a vederle par ch’i’ muoia;
le fantastiche e ombrose,
non le posso aver più a noia.
A ognun date la soia,
a ognun fate piacere:
el sapere entrattenere
sempre stette per giovare.

Non mi piace chi sta cheta,
né chi sempre lei cinguetta;
né chi tien gli occhi a dieta,
né chi qua e là civetta.
Sopra tutte mi saetta
quella che usa qualche motto,
che vi sia misterio sotto
ch’io lo sappia interpetrare.

Se tu vai o stai o siedi,
fa’ d’aver sempre maniera:
muover dita e ciglia e piedi
vuolsi sempre alla smanziera;
fa’ a tutti buona cera,
fa’ che mai disdica posta,
ma di quel che non ti costa
fanne ognun contento andare.

Fatti sempre partigiani
dove se’, fino alle gatte,
fino a’ topi, fino a’ cani;
non far mai volentier natte:
lascia farle a certe matte!
Abbi sempre una fidata
che ti sappie una imbasciata,
una lettera portare.

Fuggi tutti questi pazzi,
fuggi, fuggi gli smanzieri;
fa’ la casa te ne spazzi,
non ber mai con lor bicchieri.
Oggi quivi e colà ieri,
n’hanno a ogni stringa un paio:
I’asinin del pentolaio
fanno, e santi anche rubare.

==>SEGUE

   

Pigliat’uomin ch’abbin senno,
e che sien discreti e pratichi,
e che ’ntendino a un cenno,
e non sien punto salvatichi,
come i’ veggo ta’ lunatichi
muffaticci, goffi e rozzi,
certi gnaffi, certi ghiozzi,
buoni apunto a sbavigliare.

Vuolsi ancor la ’ndustria mettere
nello scriver ben e presto,
e ’n saper contraffar lettere,
che la cosa vadi a sesto.
Sarà forse anche buon questo,
ch’io v’insegni un certo inchiostro
che fie proprio el caso vostro
se ’l vorrete adoperare.

Nello scriver sie pur destra,
sì che ’l giuoco netto vada:
chi è pratica e maestra
tiene un po’ el brigante a bada,
che non paia che alla strada
la si getti al primo tratto;
poi conchiude pure afatto
sanza troppo dondolare.

Sopra tutto tieni a mente
d’andar sempre a ogni festa,
bene in punto fra la gente
perché quivi amor si desta.
Se qualcnno el pie’ ti pesta,
non da briga, sta pur soda:
chi ti serve, onora e loda
si vuol sempre carezzare.

È ben buono a dar la salda
qualche po’ di gelosia:
una fredda e una calda
fa ch’amor non si disvia.
Non dir più, canzona mia,
che le son cattive troppo;
or su, el mio cavallo è zoppo
e non può più caminare.



CXIX
E’ m’interviene, e parmi molto grave,
come alla moglie di Pappa-le-fave,
ch’a fare un bottoncin sei dì penò:
venne un galletto e sì gliel beccò.

E come quella chioccioletta fo
che voleva salire a una trave:
tre anni o più penò la poveretta,
perché la cosa rïuscissi netta,

quando fu presso, cadde pella fretta.
E’ m’intervien come spesso alle nave,
che vanno vanno sempre con buon vento,

poi rompono all’entrar nel porto drento.
Di queste cittadine me ne pento,
e da qui inanzi attender voglio a schiave.

CXX
Canti ognun, ch’i’ canterò,
dondol, dondol, dondolò.

Di promesse io son già stucco,
fa’ ch’omai la botte spilli:
tu mi tieni a badalucco
colle man piene di grilli.
Dopo tanti billi, billi,
quest’anguilla pur poi sdrucciola;
per dir pur «lucciola, lucciola,
vieni a me»: a me che pro’?

Pur sollecito, pur buchero,
per aver del vino un saggio:
quando tutto mi solluchero,
egli è santo Anton di maggio.
Tu mi meni pel villaggio
pello naso come un bufolo,
tu mi meni pure a zufolo
e tamburo: or non più, no.

Tanto abbiam fatto a cuccù,
che qualcun già ci dileggia,
e se ’l giuoco dura più,
vedrai bella coccoveggia.
Tu sai pur che non campeggia
la viltà ben con l’amore:
che l’è drento e che l’è fore;
fa’ da te ch’i’ non ci fo.


CXXI
Donne mie, voi non sapete
ch’i’ ho el mal ch’avea quel prete.

Fu un prete, questa è vera,
ch’avea morto el porcellino:
ben sapete ch’una sera
gliel rubò un contadino,
ch’era quivi suo vicino,
altri dice suo compare;
poi s’andò a confessare
e contò del porco al prete.

El messer se ne voleva
pure andare alla ragione:
ma pensò che non poteva,
ché l’aveva in confessione.
Dice’ poi tra le persone:
– Ohimè, ch’i’ ho un male,
ch’io nol posso dire avale! –
E anch’io ho el mal del prete.


CXXII
Ben venga Maggio
e ’l gonfalon selvaggio!

Ben venga primavera,
che vuol ch’uom s’inamori;
e voi, donzelle, a schiera
colli vostri amadori,
che di rose e di fiori
vi fate belle il maggio,

venite alla frescura
delli verdi arbuscelli.
Ogni bella è sicura
fra tanti damigelli:
ché le fiere e gli uccelli
ardon d’amore il maggio.

Chi è giovane e bella,
deh non sie punto acerba,
ché non si rinnovella
l’età come fa l’erba;
nessuna stia superba
all’amadore il maggio.

Ciascuna balli e canti
di questa schiera nostra:
ecco che i dolci amanti
van per voi, belle, in giostra.
Qual dura a lor si mostra,
farà sfiorire il maggio.

Per prender le donzelle
si son gli amanti armati:
arendetevi, belle,
a’ vostri innamorati!
Rendete e cuor furati,
non fate guerra il maggio.

Chi l’altrui core invola
ad altrui doni el core.
Ma chi è quel che vola?
É l’angiolel d’Amore
che viene a fare onore
con voi, donzelle, al maggio.

==>SEGUE



Amor ne vien ridendo,
con rose e gigli in testa,
e vien di voi caendo:
fategli, o belle, festa.
Qual sarà la più presta
a darli e fior del maggio?

– Ben venga il peregrino!
Amor, che ne comandi? –
– Ch’al suo amante il crino
ogni bella ingrillandi,
ché li zitelli e grandi
s’innamoran di maggio. –

CXXIII
Dolorosa e meschinella
sento via fuggir mia vita,
ché da voi, lucente stella,
mi convien pur far partita;
L’alma afflitta e sbigottita
piange forte inanzi Amore;
sospirando par che ’l core
per gran doglia si consumi.

Occhi miei, che pur piangete,
deh sguardate quel bel volto,
de’ begli occhi vi pascete:
omè, tosto ci fia tolto!
Or fuss’io di vita sciolto,
o morissi or qui piangendo,
prima ch’io da voi partendo
per gran doglia mi consumi.

Ogni spirto in fuoco ardente
s’andrà sempre lamentando;
o mio cor, tristo dolente,
rivedrénla? e come? e quando?
Converrà che ’nvano amando
lagrimoso ti distempre?
Converrà ch’ardendo sempre
per gran doglia ti consumi?






RIME VARIE

CXXV (a)

Lorenzo de’ Medici

Se ’ntra agli altri sospir ch’escon di fore
del petto, come vuol mia dura sorte,
Amor qualcun ne meschia, par che porte
dolcezza agli altri e riconforti el core.

Quel viso che col dolce suo splendore
ha già li spirti e le mie forz’estorte
più volte delle avare man di Morte,
ancora aiuta l’alma, che non more.

Fortuna invida vede quei sospiri
che manda Amor dal core e gli comporta,
credendo che si arroghi a’ mei martiri:

così la inganno e fòlla manco accorta
se avvien ch’Amore a lacrimar mi tiri:
né sa quanta dolcezza el pianto porta.

CXXV (b)
Non pure avvien che tanto dolce Amore
quanto amaro Fortuna al cor ti apporte,
ma quanto egli è di lei più altiero e forte,
tanto più el dolce sia che il rio sapore.

E come linfe di freddo valore
che di vena perpetua sieno essorte,
calda acqua infusa avvien che le conforte,
onde vie più s’aghiaccia el lor vapore,

così el dolce d’Amor par che in si tiri
per esca quanto le’ d’amar ti porta,
e sì nutrisca e pasca e tuoi desiri.

Onde non sol per lui l’amar s’ammorta,
ma tanto avvien ch’Amor più dolce spiri
dal petto tuo, quanto più amar soporta.





CXXVI
I’ son costretto, po’ che vuol Amore
che vince e sforza tutto l’universo
narrar con umil verso
la gran letizia che m’abonda al core;

perché s’i’ non mostrasse ad altri fore
in qualche parte el mio felice stato,
forse tenuto ingrato
sare’ da chi scorgesse la mie pace.

Poco sente il piacer chi ’l piacer tace,
e poco gode chi si gode in seno:
chi può tenere el freno
alla timida sua lingua, non ama.

Dunque salvando e acrescendo fama
a quella pura, onesta, saggia e bella,
che mattutina stella
par tra le stelle, anzi par vivo sole,

trarrò dal core ardente le parole:
ma fugga Invidia e fugga Gelosia,
e la Discordia ria
con quella stiera ch’è d’Amor nimica.

Era tornata la stagione amica
a’ giovanetti amanti vergognosi
che ’n varie fogge ascosi
gli suol mostrar sotto mentite forme,

quando, spiando di mie preda l’orme
in abito straniero e pellegrino,
fu’ dal mie buon destino
condotto in parte ov’era ogni disio.

La bella ninfa, vita del cor mio,
in atto vidi acorto, puro, umile,
saggïo, vago, gentile,
amoroso, cortese, onesto e santo,

benigna, dolce e grazïosa tanto,
e lieta sì che nel celeste viso
tutt’era el paradiso
tutto ’l ben che per noi mortal si spera.

==>SEGUE





A lei dintorno una leggiadra stiera
di belle donne in atto sì adorno,
ch’i’ mi credetti el giorno
fussi ogni dea di ciel discesa in terra:

ma quella ch’al mie cor dà pace e guerra,
Minerva in atto e Vener parea in volto;
in lei sola racolto
era quanto è d’onesto e bello al mondo.

A pensar, non che a dire, i’ mi confondoì
di questa mai più vista maraviglia,
ché qual più lei somiglia,
tra l’altre donne più s’onora e stima.

Un’altra sia tra le belle la prima:
costei non prima chiamisi, ma sola;
ch’il giglio e la vïola
cedono e gli altri fior tutti alla rosa.

Pendevon dalla testa luminosa,
scherzando per la fronte, e suo crin d’oro,
mentre ella nel bel coro
movea ristretti al suono e dolci passi:

e benché poco gli occhi alto levassi,
pur qualche raggio venìe di nascoso,
ma ’l crino invidioso
subito il ruppe e di sé mi fe’ velo.

Di ciò la ninfa nata e fatta in cielo
tosto s’acorse e con sembiente umano
mosse la bianca mano
e gli erranti capegli indrieto volse.

Po’ da’ be’ lumi tanti spirti sciolse
spirti dolci d’amor cinti di foco,
ch’i’ non so come in poco
tempo non arsi o cener non divenni.

Questi son gli amorosi primi cenni
che al cor m’han fatto di diamante un nodo,
questo è il cortese modo,
che sempre agli occhi miei starà davante,

==>SEGUE







questo è il cibo suave ch’al suo amante
porger gli piacque per farlo immortale:
non è l’ambrosia tale
o nettar di che in ciel si pasce Giove.

Ma per darmi più segni e maggior prove,
per darmi del suo amor più ’ntera fede,
mentre con arte el piede
leggieri acorda all’amorose tempre,

mentr’io stupisco e prego Iddio che sempre
duri felice l’angelica danza
subito (o trista usanza!)
indi fu rivocata al bel convito.

Ella col volto alquanto impalidito,
po’ tinta d’un color di ver corallo,
– Più grato m’era el ballo –
mansueta rispose e soridendo.

Ma degli occhi celesti indi partendo
grazia mi fece, e vidi in essi chiuso
Amor quasi confuso
in mezzo degli ardenti occulti sguardi,

ch’accendea del bel raggio i lievi dardi
per trionfar di Pallade e Diana.
Le’ fuor di guisa umana
mosse con maestà l’andar celeste,

e con man suspendea l’ornata veste
regale in atto e portamento altero:
i’ non so di me el vero,
se quivi morto mi rimasi o vivo.

Morto cred’io, po’ ch’ero di te privo,
o dolze luce mia, ma vivo forse,
per la virtù che scorse
da’ tuo begli occhi e ’n vita mi ritenne.

Ma se al fedele amante allor sovenne
il valoroso tuo beato aspetto
perché tanto diletto
sì rade volte o sì tardo ritorna?

==>SEGUE


Duo volte ha già raccese le suo corna
co’ raggi del fratel l’errante luna
né per ancor fortuna
a sì dolce piacer la via ritruova.

Vien primavera e ’l mondo si rinnuova:
fioriscon l’erbe verdi e li arbucelli,
gl’innamorati uccelli
svernando empion di versi ogni campagna,

l’una fera coll’altra s’acompagna,
el toro giostra e ’l lanoso montone.
Tu donzella, io garzone
dalle legge d’amor sarem ribelli?

Lascerem noi fuggir questi anni belli?
non userai la dolce giovinezza?
Di tanta tua bellezza
quel che più t’ama nol farai contento?

Son i’ forse un pastor che guardi armento,
o di vil sangue o per molti anni antico,
o deforme, o mendico
o vil di spirto, onde tu m’abbi a sdegno?

No: ma di stirpe illustre il cui bel segno
a l’alma patria nostra rende onore,
in sul mie primo fiore,
e qualcuna per me forse sospira.

De’ ben che la Fortuna attorno gira
posso animosamente esserne largo,
ché quanto più ne spargo,
lei col pien grembo indrieto più ne rende.

Robusto quanto per pruova s’intende,
cerchiato di favor, cinto d’amici:
ma ben che tra’ i felici
da tutto el mondo numerato sia,

pur senza te, dolze speranza mia,
parmi la vita dolorosa e amara.
Non esser dunque avara
di quel vero piacer che solo è ’l tutto,

e fa’ che dopo il fior, io coglia el frutto.







Amor, qui la vedemo
sotto le fresche fronde
del vecchio faggio umilmente posarsi:
del rimembrar ne triemo.
Ahi, come dolce l’onde
facean i be’ crin d’oro al vento sparsi!
Come agghiaccia’, com’arsi
quando di fiori un nembo
vedea ridergli intorno
(o benedetto giorno!)
e pien di rose l’amoroso grembo!
Suo divin portamento
ritral’ tu, Amor, ch’i’ per me n’ho pavento.

I’ tenea gli occhi intesi,
ammirando, qual suole
cervietto in fonte vagheggiar sua imago,
gli occhi d’amore accesi,
gli atti, volto e parole
e il canto che facea di sé il ciel vago,
quel riso ond’io mi appago,
ch’arder farebbe i sassi,
che fa per questa selva
mansueta ogni belva
e star l’acque correnti. Oh, s’io trovassi
dell’orme ove i pie’ muove,
i’ non arei del cielo invidia a Giove!

Fresco ruscel tremante,
ove ’l bel piede scalzo
bagnar gli piacque, oh quanto sei felice!
E voi ramose piante,
che ’n questo alpestro balzo
d’umor pascete l’antiche radice,
fra qua’ la mia biatrice
sola talor sen viene!
Ahi, quanta invidia t’aggio,
alto e muschioso faggio
che se’ stato degnato a tanto bene!
Ben de’ lieta godersi
l’aura ch’accolse i suo celesti versi!

==>SEGUE




CXXVII
Monti, valli, antri e colli,
pien di fior, frondi e d’erba;
verdi campagne, ombrosi e folti boschi,
poggi, ch’ognor più molli
fa la mia pena acerba
struggendo gli occhi nebulosi e foschi;
fiume, che par conoschi
mie spiatato dolore,
sì dolce meco piagni;
augel che n’accompagni
ove con noi si duol cantando Amore;
fier, ninfe, aër e venti,
udite il suon de’ tristi mie lamenti.

Già sette e sette volte
mostra la bella aurora
cinta di gemme oriental sua fronte,
le corna ha già raccolte
Delia, mentre dimora
con Teti il fratel suo dentro al gran fonte,
da che il superbo monte
non segnò il bianco piede
di quella donna altera
che ’n dolce primavera
converte ciò che tocca, aombra o vede.
Qui e fior, qui l’erba nasce
da’ suo begli occhi, e poi da’ mie si pasce.

Pascesi del mio pianto
ogni foglietta lieta,
e vanne il fiume più superbo in vista.
Ahimè, deh perché tanto
quel volto a noi si vieta
che queta il ciel qualor più si contrista?
Deh, se nissun l’ha vista
giù per l’ombrose valli
sceglier tra verdi erbette
per tesser ghirlandette,
gli bianchi e rossi fior, gli azzurri e’ gialli,
priego che me la ’nsegni,
s’egli è che ’n questi boschi pietà regni.


==>SEGUE






CXXIV
Non potrà mai dire Amore
ch’io non sia stato fedele:
se tu, donna, se’ crudele,
non ci ha colpa il tuo amadore.

Non c’è gnun maggior peccato,
né che più dispiaccia a Dio,
quanto è questo esser ingrato,
come tu al parer mio.
Ognun sa quanto temp’io
t’ho portato e porto fede:
se non hai di me merzede,
questo è troppo grande errore.

Io non vo’, gentil fanciulla,
da te cosa altro ch’onesta,
che chi vuol per forza nulla
senza nulla poi si resta.
Da me non sara’ richiesta
d’altro mai che gentilezza,
ch’io non guardo tuo bellezza,
basta sol la fede e ’l core.

Sempre ’l fren della mie vita
terra’ sol tu, donna bella,
ch’i’ son fatto calamita,
tu se’ fatta la mie stella.
Per Cupido e suo quadrella,
pel suo arco affermo e giuro,
ch’io t’ho dato il mio amor puro
e se’ sempre il mie signore.

- Le Rime

Secondo l'edizione critica a cura di Daniela Delcorno Branca (Firenze 1986), le Rime polizianee costituiscono un corpus molto più ridotto rispetto all'edizione di G. Carducci (Firenze 1863): alla paternità del Poliziano sono riconosciuti 116 rispetti (o strambotti) e 23 ballate, oltre ad alcune Rime varie e Rime dubbie. Quanto alla questione molto discussa della datazione, alcune delle rime migliori, come il rispetto di Eco e la ballata delle rose, sono certamente da ascrivere agli anni compresi tra il 1478 e il 1487. Altri componimenti sono invece contemporanei o anteriori alle Stanze. Si tratta dunque di una produzione che si colloca lungo l'arco di tutta la vita del Poliziano. Cambiano, con l'andare del tempo, i destinatari e i lettori-ascoltatori: inizialmente essi sono i familiari di casa Medici, i compagni di studio e gli amici più cari; poi subentrano gli allievi dello Studio, ad uno dei quali, Alessandro Sarti, si deve l'iniziativa della pubblicazione delle Cose vulgare, avvenuta nel 1494 con il beneplacito dell'autore. La lirica volgare polizianea è costituita quasi per intero da rispetti e da ballate, con l'esclusione dei metri illustri della tradizione, la canzone e il sonetto. Si tratta di una scelta deliberatamente antiaulica: il poeta vuole collocare le sue Rime sotto il segno di una dissimulata eleganza e predilige, allo scopo di una più libera sperimentazione, costruzioni metriche meno architettonicamente complesse rispetto a quelle auliche del sonetto e della canzone. Sia il rispetto sia la ballata sono schemi più sciolti, che non richiedono un alto livello di interiorizzazione lirica e lasciano largo spazio all'occasione gioiosa e al piacere della comunicazione immediata. Non si tratta però di una scelta in senso “popolaresco”: anche se i rispetti e le ballate del Poliziano arieggiano le forme più lievi e cantabili della lirica d'amore popolare, l'autore vi infonde quella sobrietà espressiva, quella chiarezza classica di disegno e quel tono decoroso che conferiscono ai componimenti una nitidezza luminosa degna dei classici. Fermo è nel Poliziano il rifiuto sia del sonetto caudato e del linguaggio plebeo della tradizione burchiellesca sia del canto carnascialesco e del componimento rusticale, cari a Lorenzo e a Luigi Pulci. Lo stile delle Rime oscilla tra il gusto espressionistico del deforme e del grottesco, presente anche in componimenti latini come la Sylva in scabiem, e un registro più convenzionale e più elegante. Il linguaggio è scorrevole e limpido, come si addice a componimenti ispirati alla musica e alla danza. Nell'insieme le Rime costituiscono un affascinante documento di sperimentalismo, libero dalla soggezione al modello petrarchesco: in luogo dei colori spenti e dello struggimento interiore del Canzoniere di Petrarca, prevalgono infatti i colori vivi, in un tono di festosa socievolezza.
Lettera di Angelo Poliziano a Lorenzo dei Medici
Le opere dei poeti sono piene delle dottrine dei filosofi e delle scoperte dei filologi.

Particolare di un affresco
del Ghirlandaio


L’aura i be’ versi accolse,
e ’n grembo a Dio gli puose
per far goderne tutto il paradiso.
Qui e fior, qui l’erba colse,
di questo spin le rose,
quest’aer rasserenò col dolce riso.
Ve’ l’acqua che ’l bel viso
bagnolli. Oh, dove sono?
Qual dolcezza mi sface?
Com’ venni in tanta pace?
Chi scorta fu? Con chi parlo o ragiono?
Onde sì dolce calma?
Che soverchio piacer vie caccia l’alma?

Selvaggia mia canzona inamorata,
va’ secur ove vuoi,
po’ che ’n gio’ son conversi e dolor tuoi.



CXXVIII
Vergine santa, immaculata e degna,
amor del vero Amore,
che partoristi il Re che nel ciel regna,
creando il Creatore
nel tuo talamo mondo,
Vergine rilucente,
per te sola si sente
quanto bene è nel mondo;
tu sei degli affannati buon conforto,
e al nostro navil se’ vento e porto.

O di schietta umiltà ferma colonna,
di carità coperta,
accètta di pietà, gentil madonna,
per cui la strada aperta
insino al ciel si vede,
soccorri a’ poverelli,
che son fra’ lupi agnelli,
e divorar ci crede
l’inquïeto nimico che ci svia,
se tu non ci soccorri, alma Maria.