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Giacomo Zanella - POESIE VARIE
Prima parte












































































L'opera poetica e i temi della poesia di Zanella






un trentennio, dal 1860 al 1887. Con queste date si può fissare il periodo della sua maturità poetica, senza però dimenticare i componimenti anteriori a questo periodo che, anche se sono stati per lo più rifusi o rinnovati del tutto posteriormente al 1860, conservano, nella loro prima stesura, elementi e temi non privi di originalità e anticipatori di motivi che saranno poi sviluppati nelle poesie più tarde.

Il tema di Psiche

« O dell'anima umana, a cui fatale
È sovente del ver la conoscenza,
Immagine gentil, Psiche immortale. »
Del 1847 sono le terzine che hanno per titolo Psiche traduzione libera di un'elegia latina di Carlo Bologna, professore nel seminario vicentino e scrittore di prose e poesie latine. Il tema di Psiche è certamente uno di quei temi di lunga tradizione. Lo predilesse l'arte greca e lo trattò per la prima volta Apuleio. Ne fu attratto l'elegiaco Ippolito Pindemonte, vi si ispirò Canova per una delle sue più belle sculture, a Psiche Prati intitolò una Raccolta di sonetti e al mito di Psiche tornerà anche Pascoli.
Zanella, nel discorso Della filologia classica, dirà: "Presso i Greci è rimasto quel vaghisimo traslato di psiche, farfalla, dato all'anima, che infinita nelle sue brame si gitta avidamente sovra tutti i beni e li sfiora, senza mai trovare quaggiù quell'Uno che possa arrestarla nel leggero ed inquieto suo volo".

Il tema della patria nelle poesie del 1848

Del novembre 1848 abbiamo i versi Ad un amico abile suonatore di pianoforte (l'amico è Fedele Lampertico) che è quanto ci resta di quella poesia patriottica e civile composta prima del 1851, anno in cui, il poeta fu costretto, a causa della perquisizione austriaca, a distruggere tutte quelle poesie che potevano in qualche modo destare i sospetti della polizia. La voce dell'ispirazione patriottica è, senza dubbio, nel poeta, una voce minore. Manca, in questa, quella impetuosità, quella forza che possiamo trovare ad esempio in Carducci di Giambi ed Epodi, ma comunque si possono trovare, senza quindi considerarla del tutto e senza scampo poesia negativa, elementi e temi di notevole interesse. La radice prima dell'amor di Patria di Zanella è da ricercare in quella prima educazione classicistica ricevuta nel Seminario Vicentino; precisamente in quel particolare clima in cui venivano favorevolmente accolte le opere di Giordani, di Gioberti, di Mamiani. I versi Ad un amico, maturano proprio in quell'anno 1848, in cui, dopo l'elezione di Pio IX, il Primato del Gioberti andava a ruba, e uomini, come Paolo Mistrorigo, accendevano la gioventù di Vicenza alla guerra contro l'Austria, e Zanella stesso non mancava di tenere, nella Chiesa di S. Caterina, alcune prediche che fremevano di amor di patria. Manca, in questa poesia, furore ed impeto esaltante, e non vi è, in essa, nulla di romantico; tutta una formazione classicistica fa qui la sua prima impegnativa prova a contatto con una realtà nuova e moderna. Nasce la poesia come reazione ad una realtà che sembrava annullare i frutti di tante lotte e di tanti sacrifici e spegnere tante illusioni. Alla realtà il poeta oppone il sogno tentando nei suoi versi un compromesso tra antico e nuovo, pur prevalendo il gusto classico e di nuovo, di romantico veramente, vi è soltanto la materia. Una poetica, dunque, saldamente ancorata ad un gusto e a principi tradizionali, che si apre cautamente ad esperienze nuove.

Il tema della campagna e degli umili nelle prime poesie
Questo compromesso tra antico e nuovo, si delinea negli endecasillabi a Possagno, che sono del 1849, ispirati dalla visita alla patria del Canova. In essi si trova un romanticismo che cerca una misura ideale di equilibrio per costruire il nuovo senza distruggere il vecchio. Il tema della campagna e il tema degli umili, così schiettamente zanelliano, compare per la prima volta in certi versi del 1849 contenuti in una lettera inviata a Fedele Lampertico.
« Grossa, sonante qualche goccia cala;
la colombella si pulisce l'ala
Sui fumaioli e l'anitrella gaia
Impazza starnazzando in mezzo all'aia
Giocondo, il montanaro in sulla porta
Fassi del suo tugurio e si conforta
Rimirando la pioggia che a torrenti
Allegra i boschi e fa fuggir gli armenti. »
Si tratta di un quadretto di estrema semplicità, ma nello stesso tempo di un impressionismo veramente notevole. La colombella e l'anitrella, con quel diminutivo che rende l'immagine più scivolata, si muovono in quell'atmosfera gioiosa creata dal cadere della pioggia in una calda giornata di agosto, con un'immediata evidenza. Il tema della campagna e dell'umile gente sarà ripresa in una poesia del 1851 Per un mio amico parroco nella quale si avverte un ritmo pacato che contribuisce al formarsi di un concreto ambiente poetico, in cui vivono i parchi coloni e i semplici pastori distribuiti lungo quelle strade di campagna che profumano di fiori, in un giorno di festa fra i dolci richiami delle campagne. Lo Zanella dell'Astichello è già tutto qui, in questa capacità di cantare un mondo costituzionalmente religioso, un mondo di povera gente, ma ricco di fede e di speranza.

Il tema della patria nelle poesie dal 1867 al 1870
Gli anni dell'"????" poetica del vicentino coincidono con l'unificazione d'Italia e con i difficili inizi della vita del nuovo Stato ed è esaminando le sue poesie patriottiche che veniamo a conoscenza di uno Zanella ben vivo nel suo tempo, partecipe delle passioni delle generazioni risorgimentali.
Nell'ode A Camillo Cavour (1867) il tema della Patria ritorna con particolare desiderio d'impegno, ma, anche questa poesia, così come per le prime di carattere patriottico, manca di calore, ed è priva, ad una attenta analisi, di qualunque nota degna di rilievo. Così in una poesia del 1868 intitolata Madre un'altra volta, si sente qualcosa di forzato e di voluto più che di sentito e sofferto. Forse è vero che Zanella fa troppo spesso, in questi versi, dell'oratoria, ma certo è che anche l'eloquenza, se è sostanziata da amore e pensiero, ha una sua validità. Zanella credeva nella missione divina di Roma e sperava che l'Italia ritrovasse l'unità e la potenza antica. Più originale La guerra nel settembre 1870, in cui non si trovano più i temi della letteratura risorgimentale, ma un cristiano, anche se languido, senso della tragicità della guerra. Tale nuovo sentire è permeato da una vaga humanitas virgiliana e a rendere belli questi versi, forse non poeticamente perfetti, è un alto sentimento umano, un accoramento sincero, una partecipazione commossa al destino delle genti che soffrono. In un'altra poesia, La battaglia di Monte Berico, il poeta rievoca tutti i Vicentini, dai giovani alle canute fronti, che avevano combattuto valorosamente e che avevano preferito andare in esilio piuttosto che sottostare un'altra volta allo straniero e qui, la voce che canta la Patria, è espressione di sincero sentire. Pertanto, se non si trova in questa poesia patriottica, l'impeto di un Carducci, troviamo altri elementi validi e grandi. Quel vedere una virtù di rinnovamento nelle stirpi umane, quella fede nella rinascita dell'Italia, è quello stesso sentire che gli fa cogliere una potenza vitale in tutto il cosmo, quel sentimento altissimo da cui nasce tutta la poesia.

Il tema degli umili nelle poesie più tarde
Zanella celebra ed esalta, nei suoi versi, una umanità oscura, umile e laboriosa che con la fatica, con la lotta, col lavoro sano ed onesto si procura il pane per vivere. Si potrebbe pensare, per questa socialità che aleggia nelle sue poesie, a certe derivazioni pariniane, ma il realismo sociale di Zanella è differente da quello di Parini, e questo perché in Zanella il realismo trova un limite nel suo gusto classicamente educato, che non lo lascia andare al di là del sentimento e gli impedisce di fare di esso, come per il Parini, un problema di stile e di linguaggio. Come già in Possagno, così nella lirica Il lavoro (1865), il poeta canta la potenza e la capacità creativa della fatica umana. Vi è in questi versi, fiducia immensa nel lavoro, fede in Dio che guida la mano dell'uomo, esaltazione gioiosa del lavoro umano contro l'ozio. Nella poesia L'Industria, l'approvazione del poeta va alla diffusione delle macchine, che si sostituiscono all'uomo nelle fatiche più aspre, e che ne affermano indirettamente la dignità. Egli prese a cuore il problema del latifondo che affliggeva l'economia nazionale e lo espresse nella lirica Risposta d'un contadino che emigra. Nel Piccolo calabrese Zanella propose il triste problema dell'inumano commercio che avveniva nelle Calabrie, dei fanciulli condotti all'estero e costretti a mestieri infami.

Il tema della famiglia
Ed è sempre tra gli umili che egli vede realizzato il suo ideale di famiglia, perché ritiene che proprio tra la povera gente si faccia più solido il mondo degli affetti.Nella poesia Due vite egli riesce a cogliere e a fermare, con estrema semplicità, un ambiente dall'atmosfera intima, un momento di vita, creando un delizioso quadretto familiare. In questa lirica il poeta contrappone alla vita d'un uomo che, per gioie meno pure ha sempre rifiutato quelle del matrimonio, la vita di un vecchio contadino che ha lavorato con serena fatica e immensa fede, e che ora si trova, nell'ultima età, contornato da una lieta e numerosa famiglia. Al tema della quiete domestica si ispira un'altra poesia: Il mezzogiorno in campagna (1870), poesia già vicina, e come stile e come contenuto, ai sonetti dell'Astichello. Troviamo infatti quegli elementi e temi fondamentali: l'amore per le creature, la religiosità in tutte le cose, che saranno sviluppati e ripresi in quei versi di esaltazione delle creature e del loro creatore.

Zanella e il positivismo
Come nel campo della letteratura Zanella, partito da una formazione fondamentalmente classica, era giunto poco a poco ad aderire alle tendenze romantiche, così anche sul piano della formazione filosofica, dopo aver subito l'influsso del sensismo, si era rivolto allo spiritualismo, dedicandosi allo studio delle opere di Galuppi, di Rosmini e di Gioberti e aveva chiesto che si desse, contro il positivismo e il determinismo, allora in voga, maggior posto ai valori spirituali.Nella dedica a Fedele Lampertico della prima edizione dei suoi versi, scrisse: "I soggetti che più volentieri ho trattato sono quelli di argomento scientifico, ma non è già l'oggetto della scienza che mi paresse capace di poesia, bensì i sentimenti che dalle scoperte della scienza nascono in noi; per questo non ho mai posto mano ad uno di questi soggetti, che prima non avessi trovato il modo di farvi campeggiare l'uomo e le sue passioni, senza cui la poesia, per ricca che sia d'immagini, è senza vita".Era senza dubbio nei suoi propositi di fare una poesia scientifica, ma Zanella si accorse presto che il sapere scientifico si poneva al livello di un sapere assoluto, e quindi in aperto contrasto con la Fede. Zanella era profondamente cattolico e quando si trattò di portare sul piano pratico quelle idee, così chiaramente espresse in prosa, l'iniziale trasporto venne ad essere frenato e scosso da altre preoccupazioni inevitabili alla sua anima religiosa.Egli si trovava dinanzi al perpetuo problema della sintesi e quindi dei rapporti tra l'umano e il divino, problema che al tempo di Zanella si espresse storicamente con la polemica anticlericale dei positivisti liberali e razionalisti. Nel poemetto Milton e Galileo, del 1868, questo problema viene esposto in termini molto elevati.
Il tema della scienza e della fede
Nella poesia zanelliana il tema della scienza è pertanto necessariamente collegato con il tema della fede. Nei versi Ad un'antica immagine della Madonna, del 1863, il poeta contrappone la fede semplice degli umili alle teorie superbe dei filosofi, che pretendono di abolire la religione sostituendo ad essa le nuove leggi scientifiche. Un'altra protesta contro le nuove teorie del secolo, e, in questo caso, contro il darwinismo, è espressa nella poesia La veglia, ma mentre nella precedente poesia, lo sdegno che si esprime in versi dopo il dolcissimo canto alla fede, non ha note stonate, questo avviene nei versi de La Veglia. Così in Microscopio e Telescopio si trovano lo stesso dolore per la mancanza di fede, per la superbia dell'uomo che crede di sostituire Dio e di svelarne i misteri. Il tema del mondo odierno che, superbo delle sue scoperte, ha dimenticato la fede degli avi, ritorna in altre odi come nella poesia Pel taglio di un bosco o negli endecasillabi Alla Madonna di Monte Berico. Nella poesia L'Imitazione di Cristo, il problema del rapporto umano-divino viene risolto riducendo al minimo il termine umano. Il sentimento religioso è qui cantato con perfetta coerenza. Eppure Zanella pur esprimendo in molte poesie il suo disprezzo per certe dottrine che sembrano distruggere i fondamenti dell'antico sapere, come il materialismo (in una poesia intitolata Sopra certi sistemi di filologia, composta nel 1877), ammirava certe opere del progresso, come ad esempio nella poesia Il taglio dell'Istmo di Suez. Zanella fu dunque certamente suggestionato dalle conquiste della scienza, ma egli non cercò di sciogliere i problemi allora dibattuti cercando di trovare qualche nuova e valida sintesi di natura filosofica e teologica. Zanella aveva in sé troppo saldi i motivi dell'ortodossia cattolica perché si lasciasse suggestionare, in senso eterodosso, dagli splendori delle scienze e delle filosofie. Dobbiamo rilevare inoltre, che vi fu in Zanella un forte contrasto tra il momento ideologico e il momento poetico. Questo perché in prosa poteva esprimere chiaramente le sue idee che nascevano dal sentimento e dalla fede, ma in poesia il sentimento e la fantasia non riuscivano ad essere contenute, e veniva così a mancare il necessario equilibrio per poter scrivere vere poesie di scienza.

Il tema del cosmo
Ma uno degli aspetti più interessanti e più nuovi della poesia zanelliana, non sta certamente nella poesia che s'ispira alla storia, o alla natura o alla scienza, ma in quella particolare poesia astrale che ha per tema il cosmo. Già tra le prime poesie di Zanella si avverte, in alcuni versi inediti è[7] del 1858, questo tema, assai nuovo per quei tempi. Ed è senza dubbio singolare l'apparizione in questi versi del motivo che prelude ad esperienze di poeti moderni, in un periodo in cui il poeta sembrava ancora strettamente legato al passato. Eppure è indubbio che in questi versi appare per la prima volta un cielo, che non è quello della tradizione classica, ma un cielo già scientifico:
« Nonna che dici? Io mi credea che i milli
Che mi additi lassù, punti lucenti,
Non fossero pianeti e soli ardenti,
Rotanti nimbi ed iridi tranquille.
Io fori li credea, donde faville
Sprizzan quaggiù dai fulgidi torrenti,
Che di dentro fan belli i firmamenti;
Perché levansi a Dio nostre pupille. »


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
A FEDELE LAMPERTICO

Ti dedico questi versi, che meglio di ogni
altro conosci come mi venissero fatti. Le
fatiche dell' insegnamento, a cui ho già con-
sacrata la mia vita; e l'avere per tempo
conosciute le difficoltà dell' arte, mi avreb-
bero agevolmente distolto da quello studio,
se le tue amorevoli esortazioni e di altri
amici tratto tratto non mi vi avessero ri-
cliiamato. Reputo mia somma ventura di es-
sermi legato giovanissimo in amicizia con
Paolo Mistrorigo, già professore di filologia
e di storia nel liceo di Vicenza: bellissimo
ingegno, di cui l'Italia ha vedute e lodate
varie versioni da Orazio e da Ovidio. Era-
vamo nativi dello stesso luogo. All'autunno,
nelle nostre passeggiate, una strofa o un
distico di que' poeti ci teneva compagnia
per qualche miglio ; ed avveniva non di rado
che la sera ne separasse, prima che ci ve-
nisse trovata la frase da rendere con evi-
denza il pensiero latino. Utilissimo mi è tor-
nato questo esercizio, al quale io non era
nuovo, educato come fui nel seminario di
Vicenza, e sotto abilissimi professori, fra cui
ricorderò con eterna gratitudine Andrea San-
dri e Giambatista Dalla Valle. Ne ho colto
un bene non tanto allora avvertito, come
adesso; cioè F abitudine di non contentarmi
della prima forma. Nelle cave di pietra che
sono in Chiampo, mio luogo natale, ho ve-
duto che i primi strati non hanno valore,

come quelli che facilmente si sfogliano e si
sgretolano; solamente dopo il secondo o il
terzo esce la lastra magnifica, che resiste
alla forza dissolvente del sole e del ghiaccio.
Dirò nondimeno che questa cura della
forma mi ha fatto nel primo tempo trascu-
rare alquanto l' idea. Ho trovate fiorenti nel
seminario le così dette Accademie. Erano
esercitazioni poetiche, a cui prendeano parte
gli alunni migliori. Il maestro di Belle Let-
tere dava un tema generale, com' è a dire
Colombo, il Tasso, le Arti, e che so io; che
veniva da lui stesso diviso in tanti temi
speciali, quanti erano i giovani. Il tema era
spesso antipoetico, se non altro, per essere
comandato : ciascuno scriveva nel modo che
gli sembrasse più acconcio a buscarsi gli ap-
plausi del pubblico. Era naturale che essendo
poesia non dettata dal cuore, riuscisse ad un
sonoro e futile accozzamento di frasi. Io ebbi
a durare non poca fatica per ridurmi a me-
ditare direttamente sopra un soggetto e
porlo in versi secondo l' impressione che
mi avesse destata nel cuore. Con tutto ciò
io non mi dolgo di quella forma di tiroci-
nio poetico. Il cuore rimane; se veramente
possiede il fuoco sacro, non mancheranno
occasioni a destarlo : ma l' arte dello scri-
vere, cioè quel corredo di elocuzioni e di
modi eh' è necessario ad esprimere conve-
nevolmente il pensiero, se non si acquista
negli anni giovanili, io credo non si ottenga
mai più. Ho poste in questo volume molte

versioni poetiche, nelle quali io mi sono
esercitato per tempo; e ve le ho poste più
per un esempio a' giovani, che per alcuna
speranza eh' io m' abbia di trarne onore
veruno.
I soggetti, che più volentieri ho trattati,
sono quelli di argomento scientifico. Ma
non è già l'oggetto della scienza che mi
paresse capace di poesia ; bensì i sentimenti,
che dalle scoperte della scienza nascono in
noi. Per questo io non ho mai posto mano
ad uno di questi soggetti, che prima non
avessi trovato modo di farvi campeggiar
r uomo e le sue passioni, senza cui la poesia,
per ricca che sia d'immagini, è senza vita.
Ciò si vedrà ne' versi, che hanno per titolo
Milton e Galileo. È noto come il grande
uomo dopo la sua famosa ritrattazione fosse
relegato ad Arcetri, presso Firenze. Vivea
cogl' intimi amici e colle due figlie, mona-
che nel vicino convento di San Matteo. Della
maggiore, Suor Maria Celeste, furono ulti-
mamente stampate alquante lettere dirette
al padre, da cui si vede quanta conformità
di opinioni e di affetti fosse fra loro. Milton
giovane, viaggiando in Italia, ebbe agio di
vedere Galileo. Lo ricorda egli stesso nella
sua Areopagitica; e da due passi del poe-
ma, in cui tocca della luna veduta col te-
lescopio del Toscano geometra, si può
argomentare che l'Italiano facesse godere

all'Inglese quello spettacolo allora nuovo.
Quella visita mi parve soggetto opportuno
ad esporre alcune idee sulla religione e sulla
scienza, che altrimenti non mi sarei avven-
turato a mettere in versi.
Io non ti ho detto cosa, o carissimo Amico,
di cui pili volte non abbiamo insieme parlato.
Le cortesi istanze dell' egregio Barbèra mi
determinarono a raccogliere questi versi in
un volume; né io so quanto ciò possa riu-
scire a bene né dell' uno né dell' altro. Ho
gettati al fuoco altri miei versi; anche so-
pra alcuni contenuti in questo volume avrei
molto a ridire^ ma li ho lasciati correre sol-
tanto per non parere di rinnegare del tutto
la mia giovinezza.
Giacomo Zanella.

Padova, primo Arrosto 1868.

MILTON E GALILEO.

Quando la notte è nelle valli, e pende
Scolorata la luna, alle montagne
Mezzo velate, che gli fan corona,
L'insonne mandrian leva lo sguardo,
Come a concilio di giganti, e giura,
Se dell' aure il romor taccia ne' boschi
E nel burron non strepiti il torrente.
Sotto le nubi dall' opposte cime
Udirle conversar. Da questa Italia
Di tempestosi nuvoli involuta,
Di fieri dubbi ottenebrata e d'odi,
A te levo il pensier, Milton divino,
Ed a te, Galileo, quando seduti
Sui toschi poggi a libero sermone
L' eccelse anime apriste. E non v' intese
Altri che 1'ombre della queta sera,
Le mute siepi e le sorgenti stelle
Che parean su' romiti orti d' Arcetri
Piovere ossequiose il primo raggio.
Or voi spirate entro il mio petto, e gli ardui
Ragionamenti mi ridite, o Sommi,
Onde l'umane e le divine cose
Tutte abbracciaste. Alla mia patria afflitta,
Irata all'oggi e del domani incerta,
Suoni di miglior fato augure il verso;
E gli spirti, che torba onda travolve
Di nemiche correnti, al ver richiami.
Scendea nelle acque del Tirreno il sole,
Né quegli occhi il vedean che di spiarlo
Primi fur osi. Il carezzevol fiato
Occidentale a respirar, sul colle

Sedea d' Arcetri l'Esule divino,
E le spente pupille al moribondo
Lume girava, un dì suo studio e vanto.
Presso gli stava di virginee bende,
Come a Suora s'addice, il crin velata.
Guardiana fedel. Maria, la dolce
Primogenita sua. Tra ramo e ramo
Gli ultimi raggi dardeggiava il sole.
Imporporando del vegliardo il capo
Meditante. Ei tenea sovra una sfera
La manca mano, e con la destra in aria
Scrivea taciti cerchi. A quali stelle
Eri volato allor? Quale seguivi
Rivolgimento di lontan pianeta.
Quando improvviso e per nascosti calli
Alla solinga collinetta asceso
Stette l'anglico Bardo al tuo cospetto ?
Maria si mosse e di legger rossore
Le guance aspersa, "Giovane, dicea,
Chi t' ha scorto quassù? Che cerchi incauto?
Conosci il loco?" E tacita guatava.
Non d'italo garzon era il sembiante,
Quali abbruniti dalla lunga estate
Del Po i figli veggiam, d' Arno e di Tebro ;
Non timido l'incesso, e sospettoso
Dello sguardo il piegar, qual d'uom già domo
All' ignominia del servir. Nel cenno
Della fronte superbo e nella franca
Sicurtà dell' andar riconosciuto
Immantinente d'Albione avresti
Libero alunno. Le distese chiome
Fluttuavano in onda di giacinti
Sull'omero viril : candido il volto

Nobilmente severo, e come il cielo
Azzurreggiante la pupilla e mista
Di profondi splendori. "Al pellegrino,
Prorompea lo straniero. Iddio le porte
Del suo tempio non serra : abita Iddio
In queste mura. Che baciar la falda
Del sacro manto al suo Veggente io possa,
E la parola udir che rivelata
Ha la gloria de' cieli. "In pie rizzossi.
Come atterrito, Galileo; la mano
Incontro al suon distese e, "Se non vieni
Della vista a gioir di mie sventure;
Se non vieni, dicea, d' atroce riso
L' onta a versar sul mio capo cadente,
Già percosso dal folgore, chi sei
Che volger osi lusinghier saluto
Al mortal che gli oracoli di Roma
Hanno diviso da' viventi? Il guardo
Esplorator de' tuoi passi paventa,
L'erma sede paventa e la mia notte
Ch'è sì splendida altrui. Lunga è la mano
Che m'ha prostrato : valica le nubi ;
E fin tra gli astri il peccatore abbranca."
"Di Roma il minaccioso occhio paventi,
L' altro riprese, l' infelice volgo
Che superstizion schiavo trascina
Per questa lieta di montagne e d'acque
Vasta prigione italica, non io.
Me di liberi spirti austera madre
Inghilterra nudrì: Milton mi chiama
La patria mia. Furor d'illustre alloro
Dall'età prima mi divora. In sogno
A me spesso veni'an l'ombre de' vati

E mi dicean: del glorioso monte,
Figlio, dispera guadagnar le cime.
Se la terra gentil, che di Marone
E di Torquato il divo ingegno accese,
Pria non saluti. L'Oceàn varcai,
Vidi Liguria e dell'Olona il piano:
Vidi Erìdano e Tebro: i colli ascesi
Di Partenopei piansi in sulle tombe
Della glorìa caduta e non risorta,
Se tu non fossi, o Galileo, che torni
L'inconscia Italia a' suoi regali onori,
E coll'omero atlantico la porta
Del profondo universo apri a' mortali."
Lagrimando al garzon stese la mano
L'inclito vecchio. Su marmoreo seggio,
Cui fean spalliera gelsomini e lauri,
Taciturni si assisero. Di flutti
Tal riverso non fia; non tal di spume
Tempestoso boller, quando i due mari,
Che la sabbia d'Egitto ancor divide,
L'onde discordi mesceranno insieme,
E sul desco de' popoli il tributo
Porran d'avversi climi Orto ed Occaso ;
Come i due Grandi de' sublimi sensi
E de'pensier la rattenuta piena
Insieme allor confusero. Si trasse
In disparte Maria: dissimulando
E d'aiuola in aiuola il pie movendo.
Come di fiori a far ghirlande intesa.
Inavvertita dileguò. "T' accosta,
L' Italo disse, a me più presso, e nudo
Aprimi il ver. Son io creduto ancora?
Fra i magnanimi pochi a cui rifulse

De' novi dommi il raggio, i miei volumi
Ancor son vivi? Ovver dal dì che affranto
Dall'etade e da' morbi, io derelitto
Vecchio tremante, delle corti ignaro,
Avvolto di nemici e combattuto
Da mortali terrori, alle minacce
Del Vatican m'arresi e la parola
Rinnegatrice di mie glorie emisi.
Tutto forse perì? Perì la luce
Ch'io primo accesi? Nell'antica notte
Ricadranno le genti, a cui sì bella
Di secolo miglior 1' alba sorgea?"
Levò la fronte l' ospite e rispose :
"Ben può Giove del Caucaso alle rupi
Prometeo catenar; ben può le membra
Al gran Titano fiedere co' nembi
Eternali ; ma pie da' conturbati
Talami le fanciulle Oceanine
Vengon notturne ad ascoltar sue pene,
Che sull'aurora ridiranno a' fiumi
Che solcano la terra. Oscuro giaci.
Carcerato il pensier più che la salma
E da te discordante, o Galileo;
Ma la favilla, che rubasti al sole,
Prigoniera non è: di gente in gente
Ratto serpeggia ed in aperta fiamma
Già minaccia avvampar, benché dell'ara,
Donde dovea, sian raffreddati i marmi.
Ne' deserti del mar, quando le spume
Fragorose sormontano, le antenne
Caggiono avvolte e pe' suoi usciti fianchi
L' onda nemica nella stiva irrompe ;
Al chiaror de' baleni il navigante

Ultimi detti a picciol foglio affida
Che in una fiata all'impeto abbandona
Delle cieche correnti. Il mare inghiotte
Colla nave il nocchier; ma viatrice
Instancabile nuota alla tempesta
Non men che alla bonaccia, e non riposa
Né per notte giammai né per meriggio
Quella pia cristallina urna, che un giorno
Al pescator che la levò dall' alghe.
Narrerà novi climi, isole nove
E fiammante di nove lodi la notte.
Inavvedutamente a scura rupe
Tu pur rompesti, o Galileo: sorrise
De' tuoi naufragi il Vaticano, e chiuso
Nel silenzio sperò di questi colli
L'odiato vero. Ma la tua parola
Indefessa viaggia, e non del Reno
Alle rive soltanto e del Tamigi,
Ove già franco de' vetusti ceppi
Liberissime vie batte il pensiero;
Ma del nemico Tevere sull'onde
Venerata risuona; e qualche pio,
Cui la porpora ancor dell'intelletto
Il lume non offese, a' novi veri
Segreto applaude, e sulle tue sventure,
Che immortale di Roma onta saranno,
Versa, arrossendo, generoso pianto."
"Roma! Roma!" interruppe e, scosso il capo,
Seguì pensoso Galileo ; "fatale
col brando de' Cesari percota
i troni tuttiquanti ; o colla Fede
Tragga al suo carro incatenato il mondo,
Fatale è la sua possa, e tenta indarno

A lei sottrarsi umano spirto. In cielo
V'ha di stelle una via, che via di Roma
Disser le genti. Da' selvosi laghi
Lo Scandinavo pescator la vede,
E la vede da' monti ond'esce il Nilo,
L'Abissino pastor. Della capanna
Il fìnestrel chiudendo e per più soli
All'avverse stagioni abbandonando
L'avito poderetto, a Roma ascende.
Come all'ostello d'un'antica madre
Che lasciò da fanciullo, il pellegrino.
Sente passando di calcar la polve
Di domestici eroi: dalle ruine
De' morti imperi uscir ode una voce
Conosciuta che a' secoli maestra
Fu del viver civile; e nel sepolcro,
Che le spoglie Apostoliche rinserra,
Trova i ricordi dell'infanzia, i canti
E la mensa comune, a cui redenta
Ne' primi giorni umanità si assise,
Come a nozze col ciel. Nemici altrove
E parati a svenarsi, in grembo a Roma
Tornan fratelli i piccioli mortali.
Pugnai gran tempo. Le vigilie e gli anni
Soli non fur che di profonde rughe
Questa fronte solcassero. Le lotte
Sanguinose del cor che un vero apprende
Terribile a ridir: l'ansia d'un nome
Maledetto o deriso, innanzi tempo
Fer sul mio capo biancheggiar le nevi.
Il prisco giogo infrangere, la fronte
Alle folgori oppor del Vaticano
E la tenzone rinnovar di Bruno,

Spesso un pensier mi suadea. Da' flutti
Di più torbido mar securo asilo
Mi dischiudea fra le sue dighe Olanda;
E quell'invitto, ad Austria e Roma orrendo,
De' Sveci inclito sir, che giovanetto
L'arti campali alla mia scola apprese,
La sua reggia m'apria. Quanto ti scaldi
Della caliginosa Isola tua
E de' tuoi mari amor, garzone, ignoro;
Ma noi figli d'Italia arde una fiamma
Che intolleranda sede ogni contrada
Ne fa parer che l'Apennin non parta.
miei cercati cieli ! Are di Pisa,
A cui pregando un dì tanto baleno
Mi percosse di ver ! Tomba materna!
E tu, di gigli e di colombe albergo,
Solitudine pia, che tanta parte
Di questo cor ne' tuoi recinti ascondi,
Aura usciva da voi, che ventilando
Il santo foco, ch'io credeva estinto,
Alla gelata mia ragion di pugno
L'arme scotea. Non ridere, straniero!
Quando l'incendio la magion divora,
Anche il bronzo si fonde, e vacillando
Il simulacro dell'eroe dilegua
In rivoli pel suol. L'età venture
A me d'invitto non daran la palma;
Ma de' miei padri mi sarà giocondo
Addormentarmi nella Fé: ne andranno
Le mie figlie felici; e di riposo
A questa faticata anima Iddio
Largo sarà, di cui l'augusto accento
A riverir nel Roman Padre appresi."

"Nel Roman Padre? E chi di Dio l'accento,
Il Britanno sclamò, dal labbro attende
Dello scettrato Antistite? Due lune
Vòlte non sono ch'io lasciai le mura
Della città che all' anima presume
Le sue catene impor. Quale ti vidi,
già dai laghi di Giudea venuta,
Pescatrice de' cor, Chiesa di Dio,
Fondata in povertà! Vidi delubri
Sulle cui cime il sol che s' era ascoso
In occidente, ancor splendeva: in giro
Sovra rupi di porfido curvarsi
Vidi le volte olimpiche: e di bronzo
Ondanti padiglioni e simulacri
Meravigliosi di grandezza e d'arte
Cinger la tomba di colui che visse
D'una rete contento. Ah, non di Cristo
L'umile banditor, ma d'Oriente
Gioiellata barbarica possanza
Contemplar mi parea, quando soffolto
Da mitrate falangi e circonfuso
D'una notte d' incensi in aureo trono,
Cui fean le piume del pavon ventaglio,
Sulla testa de' popoli passava.
Come corrusca nuvola che sfiora
Rispianato oceano. delle chiavi.
Che disserrano i cieli, arbitro santo!
tolto all'amo ed all' officio assunto
Di sovrano pastor, perchè la terra
D'agi e di pompe noncuranza apprenda,
E povertade, in te guardando, onori;
Così l'obbligo adempì? Oh, valicati
Mai non avesse Carlo Magno i monti;

Né di Gesù l'intemerata sposa
Scesa fosse a tenzon d'ostro terreno !
Piansero i cieli, e gemiti mandaro
L'urne de' Santi il dì che, il pastorale
Giunto alla spada, in Vatican si assise
Supremo regnator l'uom che de' servi
Servo si chiama. Allor dal tempio in bando
Le virtù se n'andar che fean la stola
Venerabile al mondo. Allor d'imperi
E di porpore e d'oro una superba
Febbre i cori riarse: empio mercato
Di mendaci dispense e di perdoni
Entro il tempio s'aprì: la terra accorse
Credula, e l'oro al poverel negato
Cesse all'aitar, perchè più sontuosi
Ondeggiassero i manti al sacerdote,
E di fuggenti colonnati e d'aule.
Come il deserto, paurose, avvolti
Fossero al molle Archimandrita i sonni.
Te grande, augusto ed all'afflitta Italia
D'aurei tempi dator chiaman, Leone,
I leggeri nepoti. Stupefatto
Lo stranier leva gli occhi all'ardue moli
Che co' tributi dell'illuso mondo
Il tuo genio ponea ; nè da que' marmi
Vede il sangue gocciar, che Reno ed Elba
Fé per lunga stagion correr vermigli.
Dalla tua man condotte al nido antico
L'Arti tornar; ma dall'antico Olimpo
Tornò con esse Voluttà. La greca
Testa di mirti redivivi ombrata
Mostrar Venere e Bacco; e la cocolla
Indossando per gioco, al romorio

Si mescolar de' tuoi prandi notturni,
folleggiando carolar per l'ombre
De' tuoi boschetti suburbani. vigna
Di Sion desolata! del Signore
Contaminata greggia! Un'altra volta
Umanità corruppe le sue vie,
E ne' diletti della carne assorto
Di Dio si rise e del suo ciel lo spirto.
Tal Roma io vidi. E tu, Divino, a questo
Di bugiardi splendori idol caduco
La fronte inchini trepidando? Tu
Sovra la curva de' rotanti soli
Uso a colloqui coll'Eterno, udirne
Credi la voce d'un Urban sul labbro?"
Gli ardenti detti placido ascoltava
Ne di negar né d'assentir fea segno
L'alto Toscano. Poi dicea: "Se brama
Del poetico allòr, figlio, ti punge,
Ben le tue chiome un dì n'andranno altere ;
Così fervida hai l'alma, e così piena
Rompe facondia dal tuo sen. Tonava
Non altrimenti, e contro Roma il fulmine
Vibrava dell'indomita parola
Lutero. Intorno a lui d'audaci prenci
E di popoli armati era un tumulto
Procelloso. Cantavano di Roma
Dissipato l'aitar: del Quirinale
Sulle macerie la ripresa rete
Nudo asciugava il Pescatore antico.
Che fu, garzon, che fu? Di tanti moti
Qual fin si vide? Dal profondo emerse
Roma immortale, che il discisso velo
Ricompone longanime, e la preda

Con lenta pugna al predator ritoglie.
De' Pontefici il fasto, o figlio, assali,
E l'immago di Dio scemer ricusi
Nel coronato Aronne. Il guardo hai breve.
Se dall'ombra scevrar non sai la luce
E come il vulgo del parer ti pasci.
Visibil sir di non visibil regno,
Di Dio la possa e d'uom le colpe ei veste ;
Tu nell'uman t'affisi. Ostro e corona
Venner co' tempi e dileguar potranno
Anco co' tempi : per cangiar di foglie
Virtù la trionfale arbor non perde,
Perchè profonde ha le radici in Dio.
Né di soverchie pompe io ti diniego
Ingombrato talora il nostro rito;
Ma se del tempio le dorate volte,
Le simboliche lampe e la diffusa
Pegli anditi sacrati onda del canto.
Vano tu credi popolar trastullo,
Figlio, dell'uomo tu nel cor non leggi,
E poeta non sei. L' Onnipotente
Ben io nel volto delle stelle adoro:
Pur quando all'alba l'umile chiesuola,
Che vedi là, m'accoglie, e l'inno ascolto
Delle devote vergini, lo Sposo
Propizianti a' nostri error, più cara
Né men solenne dentro mi risuona
La voce dell' Eterno. Il cor s'indura
Di scabro ver nella ricerca: usato
Colla materia a trattenersi, il lezzo
Tosto ne bee, lezzo di fauno e tigre.
Se l'onorande lagrime felici,
Appiè dell'ara prorompenti, il gelo

Non accorrano a sciorne e la fragranza
Evaporata a rinnovarne. Immondo
Di loto e sangue i lidi della vita
L' infante afferra ; ma la Fé nel grembo
Virginal lo raccoglie, e de' suoi riti
Per la cerchia magnifica, dall'onda
Rigenerante a' balsami lo guida
Che al moribondo atleta ungon la fronte.
Così per questo di chiarori e d'ombre
Barlume antelucan passa il credente.
Sul fango il pie, ma coll'aurora a fronte,
Che di misteriose aure la chioma
Sudata gli carezza. E chi si vanta
Gli intelletti snebbiar? Chi dritta ostenta
Carità pegli umani, a cui gli eccelsi
Simboli invola che un celeste Padre
Svelano al cor, l'origine celeste.
Celeste il fine? A fratellanza educa
L'altare, o figlio; ed il tapin che vede
A se dallato genuflesso il grande
Che nell'aurea quadriga ha maledetto.
Sente che al nappo d'un comun dolore
Tutti beviam; che tutti bisognosi
D'un'alta aita trascorriam quest'ora
D'assegnato cimento. Appien gli arcani
Dell'uom Roma comprende : a tutti madre,
Tutte le umane dissonanze accorda,
Le altezze appiana: e di più saldo schermo.
Che ferree leggi e carceri non fanno,
Il comun dritto carità circonda."
Di lieta meraviglia or si pingea,
Come chi ascolti non atteso vero;
Ora a sogghigno incredulo le labbra

Atteggiava il poeta e soggiungea:
"Parlante al core, alla ragion conforme
Degna di Dio, benefica a' mortali,
E la Fé che dipingi. Ma di Roma
Questa è la Fé? Le vie son queste e l'arti,
Onde all' omaggio de' suoi dommi alletta
I popoli volenti? Affettuosa,
Provvida madre in ver, eh' ove sue poppe
Altri non sugga, le bipenni affila,
E alla catasta, in cui de' figli arabuste
Crepitan l'ossa, allegra benedice.
Lei mansueta e di fraterne dadi
Immacolata attestano Tolosa
E le valli del Rodano cruente
Di gusmanico eccidio. Agape santa
Era la notte che le bianche chiome
Trascinar vide Colignì nel fango;
E di misere fughe e d'ululati
Fur piene le tue vie, Francia tradita.
Madre costei? Che non la chiami astuta
De' comuni tesori usurpatrice.
Che lo Spirto di Dio, retaggio e lume
D'ogni vivente, fa suo proprio ; e chiusi
Gli evangelici paschi e le fontane
Dissuggellate dall'Agnello, impugna
L'armi terrene a rincacciarne i volghi
Assetati di Fé? Tempio vivente
Dell'Eterno noi siam: verace parla
Di Dio la voce in noi. Qual altro accento
Infallibil può dirsi, a cui s'opponga
L'oracolo del cor? Dal lungo intanto
Ossequio delle menti insuperbita
Roma nel regno delle pie credenze

Più non contien l'orgoglio, e violenta
I cheti imperi alla ragione invade.
Arbitra non veggente il voi prescrive
All'umano pensier : spegne la lampa
Vestigatrice in man del sapiente,
E nel nome di Dio rabbuia il mondo.
Tu lo sai, Galileo ! Ma delle posse
Tenebrose di Roma e de' tormenti
Nel tempio orditi al libero pensiero,
Già passata è stagion. Dall'officine,
Che pria vide Magonza, emulo al giorno
Esce un fulgor che d'ignoranza i mostri
Dalla terra disperde. Agl'intelletti
Sgomentata tirannide prepara
L'ultime pugne. d'Anglia e di Lamagna
Nobili figli, a cui men dura è morte
Che mental servitù; se vi par lenta
La vittoria del ver; se questa inferma
E decrepita Europa con orrendo
Spettacolo di guai l'alma v'attrista,
Volate all' Oceano. Immensa terra
Ch'oltre il confin d'Atlante a' dolorosi
Di tutto il mondo il Genovese aperse,
Di sue vergini selve e de' suoi fiumi
L'alte latebre vi dischiude. d'oro
Troppo feconda America, che un tempo
Allettasti il furor d'ispane belve,
Tal che squarciato ancor ne porti il fianco;
Le pietose tribù, che all' empio giogo
Si sottrasser d' Egitto, e salmeggiando
Entrano i tuoi deserti, ove una tenda
Libera alzar, non sospettosa accogli.
A te non fune né staffil che il tergo

Laceri a' figli tuoi: non de' molossi
L'orrido ceffo a laniar le reni
Della schiava fuggiasca: a te de' padri
Portan l'austera Fé ; puro costume
E ne' mali temprate anime invitte.
Ove giacquer paludi, ombrar foreste,
Sorgon ville e città: d'arti, di leggi.
Di sodalizi e di commerci in pace
Io già veggo fiorir le gloriose
Cittadinanze; e libertà che varca
Gli Erculei segni, e la divina pianta,
Svelta d'Europa, a nuove Rome apporta."
Alla fervida voce, all' ispirato
Presagir del magnanimo Cantore
Di gioia un lampo le severe gote
A Galileo trascorse. I continenti
E gl'immensi arcipelaghi, agli stormi
Cogniti or sol de' volteggianti cigni.
Popolarsi di vele ei rimirava;
E civiltà su' conquistati scogli
Erger festosa il redentor vessillo.
Nel superbo pensier tutto raccolto,
"Perché, dicea, perchè l'eroica gente
Che pe'lati Oceani alle venture
Schiatte prepara gli opulenti seggi
D'inclite industrie, se comuni i fasti
Ed il sangue ha comun, perchè l'altare
Non ha comune, ed unica non suona
De' fratelli la prece? A suo talento
Perchè ciascuno Iddio si foggia, e muta,
Come muta stagion, riti e costumi?
Ah, se custode de' celesti veri
Autorità non siede e sola il pane

Di sapienza a' parvoli non frange,
D'umane fantasie ludibrio, o figlio,
Vedrai farsi l'Eterno ; e stanca l'alma
Del vano fluttuar, come fanciullo
Indispettito che le case atterra
Fabbricate per gioco in su la sabbia,
or idoli suoi respingere, e la creta
Delirando abbracciar, ultimo nume.
Allor virtù fian le ricchezze, e l'ebbra
De' sensi voluttà bene supremo.
Allor dalla venale Africa onusti
D'umana carne scioglieranno i pini
Gloriosi di libera bandiera;
E nettaree bevande e molli vesti
All'ignavo colono appresteranno
Nel pien meriggio trambasciando i Neri ;
Allor più dura d'ogni duro giogo
Libertà fia che vieti al cittadino
Trar di sua notte l'abbrutito schiavo.
Ma né Pisa nè Genova, che fide
Al cattolico rito i patri fòri
Cinser devote di marmorei templi,
Fur men libere e grandi; e le tue vele,
Prode Vinegia, al musulman furore
Men tremende non fur, perchè le spoglie
Delle vittorie al Dio grata appendevi.
Equa fortuna infaticabilmente
Volve sua rota: ad altre genti il sommo
Or è dato tener. Del santo raggio,
Che le strade di Dio segna a' mortali,
Guardiana severa, in ogni soffio
Roma paventa insidioso assalto,
E la ragion, se non concessi voli

Tentar le sembri, minacciando affrena.
Ma de' roghi il racconto e delle scuri
Per cattolica rabbia insanguinate
Lascia, garzone, al retore ventoso
Che lo stral drizza a Roma e non s'avvede
Che l'uom percote. E dove e quando ardente
Religiosa furia i petti invase
Che il sangue non piovesse? Umani capi
Quelli non fur, che del Tamigi a' ponti
La man confisse dell'ottavo Enrico?
Men cocenti e voraci eran le fiamme
Che Calvino accendea? Sulle vergogne
Di questa cieca umanità gettiamo
Il manto, o figlio ; e finchè spunti il giorno
Che rimondata del terrestre limo
Novellamente a' bianchi padiglioni
Roma gli erranti accolga ed un l'ovile
Torni ed uno il pastor; l'ire, le pugne
E le colpe comuni e le sventure,
Che fanatica erinni in terra addusse,
De' placati nepoti abbiano il pianto."
Qui tacque il Grande. Già scomparso il giorno,
Cadean l'ombre più folte e la campana
Di San Matteo coll'argentino squillo
Salutava la sera. A lento passo.
Dal lato opposto del giardin, Maria
Verso il padre traea, di poche rose
Legando un serto. Nel crescente buio
Già le siepi sparian, sparian le piante:
Ed ella ritta in pie presso i seduti,
"Padre, dicea, se non t'incresce, è l'ora
Della preghiera. "Il venerando capo

Si scoperse il vegliardo, e non pensando
Altrettanto fé l'Anglo. Allor la Donna
Le man giungendo e le serene luci
Devotamente al ciel levando, orava:
Oh de' cieli regina, o di perdono
E di misericordia immenso fonte.
Madre d'amore, aura vital, dolcezza
Unica nostra ed unica speranza,
Salve! A te solleviamo il nostro sguardo
Noi d'Eva esuli figli: a te gementi
E lagrimanti sospiriam da questa
Bassa valle del pianto. Or tu pietosa
Soccorritrice a noi cotanto afflitti
Que' tuoi miti amorosi occhi converti
E non tardar. Fa' che di questo esiglio
Uscir possiamo avventurosi, e mostra
A noi, tuoi fidi, il benedetto frutto
Del ventre tuo. Gesù! Salve, clemente,
Umile e pia, che di dolcezza avanzi
Quante vergini fur, salve. Maria."
Grande, rossastra, come vela in fiamme,
Di dietro all' Apennin salia la luna,
E di limpido albor le sottoposte
Pensili selve e le dormenti valli
Inondava dell' Arno. Assorto il vate
Neil' alte cose udite e nell' incanto
Di queir itala notte, occhio e parola
Più non movea. Per entro al vaporoso
Candido mar spiccavano le torri
Della bella Firenze, e come vetro,
Che il sol percota, qua e là dall'ombra
Il fiume uscia riscintillando. Al bosco
Le fronde non stormian: le vie deserte,

E senza voce i casolari. Il volto.
Su cui pieno battea l'argenteo raggio,
Maria da' cieli non toglieva ancora.
Quando il padre chiamolla, e pochi detti
Sommesso mormorò. L'orme rivolse
Vèr l'attigua magion quell'amorosa ;
Ed il cieco divin la man premendo
Del poeta, dicea: "Mio sol, mio giorno
Era un tempo la notte. Allor che l'alba
Tingea di perla all'orizzonte il lembo,
Su me scendean le tenebre: caduto
Dalle stellate altezze io lagrimava.
Or, come vedi, cecità mi fascia;
E la mia vita nebulosa un verno
Sconsolato sarebbe, ove sostegno
A' dolenti miei dì Maria non fosse,
Quell'angiol mio che tu scorgesti. Edippo
Io di gran sfinge decifrai l'enimma;
E questa dolce Antigone al mio fianco
Posero i cieli. Dal vicin convento
A me vien desiata, e non le grava
L'estasi sante della cheta cella
Per me lasciar, mondano ancor." Di pianto
Gli occhi velarsi all' ospite : la guancia
Declinò sulla palma e taciturno
Stette alcun tempo. Poi dal cor turbato
Sospirando parlava : "E che rimane.
Tolta la luce, di giocondo in terra,
Se non l'amor? Che se contesa un giorno
A me pur fosse, ne le dolci tinte
Dell'aurora e del vespro, estiva rosa;
Pascenti greggi, o la divina faccia
Dell'uom più non vedessi ; astro nascoso

Sulle tenebre mie splenda l'amore
D'ingenua figlia che a Maria somigli.
Ma questa tua caligine è meriggio
D'infinito fulgor. Nella tua mente
Oceanica, o padre, il ciel discese
Radiante: de' soli e de' pianeti
Tu l'armoniche danze ancor misuri,
E dall'ombroso tuo sedil le fughe
Ignee d'Arturo e d'Orion governi.
Ciechi Siam noi. Che se cortese hai l'alma,
Come eccelso il pensier, padre, di tante
Meraviglie, che primo in ciel leggesti.
Fa' che alcuna contempli, e dall' Crebbe,
L' orma veduta del Signore, io torni."
"Figlio, rispose Galileo, precorsi
Al tuo desir; né tarderà Maria
A soddisfarlo. Ma tu, nato a' sogni
Della mente leggiadri, e d'Elicona
Alle velate finzioni avvezzo,
Pago sarai che il ver ti disasconda
L'austera faccia ed al tuo sguardo involi
Il lieto error che t'abbellia natura?
Se t'accada, garzon, che sordo Amore
I tuoi voti ricusi, or più non fia
Che i notturni tuoi lai la Luna accolga
E compagna fedel venga nel bosco
A pianger teco. Io l'imperlata biga
E l'arco le rapii : cinerea larva
Le umane valli indarno ella contempla.
E questa Terra che un vetusto orgoglio
Dell' universo salutò reina,
Stabil reina, a cui ministri intorno
Il sole si aggirassero e le stelle

Disseminate per l'immenso vano,
Io, giusto librator, balzai di trono
E fra l'ancelle rilegai. Le toghe
Furibondi squarciar, d'alti clamori
Assordarono i chiostri e le tribune
I novi Scribi, a cui l'adulterato
Aristotile e l'irto sillogismo
Fruttavan agi, riverenza e fama.
Me temerario novator, di Eoma
Me schernitor gridarono i maligni.
Me blasfemo e sacrilego: le genti
Teser l'orecchio abbrividendo; un motto
Poi lanciar sul caduto, e dileguaro.
Io di Roma nemico? Se di Dio
A lei cale diffondere l'onore.
Opra feci diversa io, che nel tempio
Delle divine glorie non fumante
Cera o vile licor, ma sterminati
Gruppi di soli, pria non visti, accesi?
Io rapitor di sua corona all'uomo?
Io che tratta di dosso al vanitoso
Una porpora irrisa, ale gli diedi
Da spaziar nell'Infinito, e gli astri,
Ultime scolte a' limiti del mondo
Di sua ragion sommettere al comando?
Rota la Terra: obbedienti al Sole
Si volgono con lei Marte sanguigno
E Venere falcata: enorme Giove
Quattro lune discopre, a cui securo
Più che all'Orse il nocchier fida le vele.
Prossimo al Sol Mercurio avvampa; e move
Pe' novissimi spazi in gelo avvolto,
A vedersi tergemino Saturno.

E tu, vase di fiamma, astro gigante,
Che regalmente la movenza affreni
De' seguaci pianeti, augusto Sole,
Dell'immoto tuo soglio e de' torrenti
Lucidi, che pel nero etra diffondi.
Non superbir! Col vindice baleno
Le mie pupille saettasti intente
Nel tuo volto sovran; ma non sapesti
Già le tue macchie ascondermi, o nebbioso
Genitor della luce. Ampi di fumo
Oceani io distinsi e rubiconde
Isole fluttuar entro il tuo seno
Ch'incessante bufera agita e squarcia.
Ben sei giovane ancor; né le tue tende.
Se la rimota vista non m'inganna,
Sono ancor fisse, o Sol! Splendi dal centro
Agli opachi vassalli, e portentosa
Aura intanto ti volve a' sconosciuti
Porti, che il costellato Ercole alluma,
Nell'azzurro profondo. Entro la zona,
Che Lattea nominaro e primo io scorsi
Di stelle innumerabili corrusca,
Tu, negletto monarca, umil veleggi;
E tra le sfere turbinanti illeso
D'invisibil nocchier la man ti scorge.
Gloria a Lui, gloria a Lui! Scender di soli
Fitta una pioggia per l'Immenso io vidi.
Quali di rosa colorati e d' oro,
Quali d'indaco aspersi; astri con astri
Avvicendarsi e mobili universi
D'altri universi discovrir la via,
Io vidi esterrefatto; e quando giunta
Al limitar del vuoto e della notte

La veduta moria, l'agil pensiero
Correva ancor gli spazi immensurati
E novi soli dal fecondo abisso.
Come sabbia dal mar, nascer vedea.
sventurato, cui de' cieli aperto
Il volume non fu! Più sventurato
Chi nell'ardente poesia de' cieli,
Stupido testimon, non sente Amore!"
Taceva Galileo. Collo strumento
Conquistator della distanza al padre
Tornata era la donna e l'occhio immane
N'avea vòlto al tuo disco, aerea Luna,
Che a mezzo il tuo cammino alta splendevi.
Lo sguardo l'appressò, nè lungamente
Stette l'Anglo a mirar, che si ritrasse
Impaurito dell'arcana possa
Che al ciel pareva avvicinarlo. Immota
Maria sorrise; ed ei riscosso alquanto
Dall' immenso stupor, "Montagne e valli,
Esclamava, toccai! Tra mondo e mondo
Qual ponte hai steso, o Galileo! Ma dimmi:
Quegli aspetti son veri? vana immago
Svia con bugiarda somiglianza il senso?"
Il Tosco rispondea: "Non hai veduto
Come l'ombra lassù si allunghi e scemi,
Non altrimenti che far soglia in terra?
Non hai veduto alle montagne in vetta
Furtiva rosseggiar prima la luce.
Poi scender dilatata entro le valli,
Come avviene quaggiù?" L'Anglo riprese:
"E vi son mari e fiumi? Il suol s'ammanta
D'erbe e di mèssi? Le felici lande
Sguardo rallegra d'anime viventi?"

E l'austero Geometra: "Tu chiedi
Più che non possa mia scienza apporti;
Né mai giorno verrà che a tanto attinga
Intelletto mortal. Ma quando io scerno
Che abitabili piagge han Marte e Giove,
E di spirabil aere vestita
Iride e nembi Venere conosce,
Credibile non parmi che Colui,
Che l'ostel fabbricò, voto il lasciasse
D' abitatori. Esìl grano d'arena
Nell'oceàn degli esseri è la terra.
Se noi cotanto in fondo, i firmamenti
Pur abbracciam coll'alma, e contemplando
Di giro in giro ci leviamo a Dio,
Chi torrammi la fé, che popolate
Sian di più pure amanti Intelligenze
Le più nobili sfere, e ripercosso
Da tutti quanti i cieli, unico, immenso
Inno di lode al Creator risuoni?
Tal mi detta una fé; sull'alto arcano
Tace scienza. Dall'audaci inchieste
Che di qua dall'avel non han risposta.
Tempo é ben che si tolga, e di glossari
Più non faccia tesoro a cui suggello
Legittimo non pose esperienza.
Paragone del vero. Allor ch'io venni
Ne' suoi giardini, a me disse Sofia:
Figlio, del mondo le riposte origini
Non ricercar, né a qual lontano termine
L'universo si volva : impervie tenebre
All'umana ragion, quando la fiaccola
La Fé non alzi e l'atro calle illumini.
Modesta più, ma men fallace indagine


A te fia di natura il libro svolgere
Che chiuso giace, di segrete sillabe
Tutto vergato e d'incompresi numeri.
Così la dea parlommi, ed una chiave,
Che già tennero Euclide ed Archimede,
Dal sen si trasse ed a me porse. I moti
Perenni e le mutabili sembianze
Del creato mirai. Come di notte
Fanciul smarrito alla foresta intende
Strani romor, per cui giganti e mostri
Vede atterrito grandeggiar nel buio;
Tal, di natura i penetrali entrando.
Io d'incognite posse il guizzo intesi
Meravigliose, onnipossenti. I germi
Sciolti fervean. Nel fior che i rabescati
Petali attorce in calice, ne' fiocchi
Della neve cadente e de' cristalli
Nelle rigide facce egual misura,
Numero egual m'apparve. Assidua vece
Di forma in forma l'atomo sospinge
Primordial; ma non flessibil Parca
Regge con ferrea man nozze e dissidi.
Tal di vita e di morte alterno fato
L'universo ritempra! Ove s'accampa
Bella di molti tremolanti fochi
Presso l'Orsa minor Cassiopea,
Sorger fu visto subitane un sole
Che più tempo rifulse: a poco a poco
Poi scolorossi e sparve. E tale ardevi
Forse nell'alba del creato, o Terra,
E lenta ti spegnevi! Invitte posse
Che ancor tremoti pascono e vulcani.
Ti sconvolsero un tempo. Alghe e conchiglie,

Cangiate in sasso, d'Apennin sul dorso
Il mandrian raccoglie, e d'elefanti
Cavi teschi in Valdarno urta l'aratro.
Laghi di fiamma e di metalli ondeggiano
Nelle viscere tue: venti e baleni,
Geli ed ardori, grandini e rugiade
Vivide forze accusano, che avara
All'occhio esplorator natura asconde.
Io scovrirle tentai. Neil'ardua prova
La vecchiaia m'incolse; e dell'ignota
Contrada a cui tendea, novo Colombo,
Visti non ho che ramoscelli e fiori
Rari, per l'acqua galleggianti. I tempi
Son nondimen maturi: al cor presago
Novi cieli fan cenno e nove terre.
Già delle scole a tirannia devote
Taccion gl'inani oracoli che d'ombre
Fascinatrici e di pompose ambagi
L'egre menti nudrian: per sé le porte
Si spalancan del tempio, e sgomentati
Dalla luce del ver gli dei sen vanno.
Cui cento età curvarono la fronte.
Animosi intelletti alla natura.
Provando e riprovando, i chiusi arcani
Ad uno ad uno involano: di seste
Ardimentose e di scandagli armato
L'uom trascorre la terra, ed al suo cocchio
Docili aggioga le selvagge forze
Che gli evi tenebrosi empiean di larve.
L'ali incatena al fulmine: il listato
Cinto fura alla luce; e gli elementi
A suo senno stemprando, a novi corpi
Origin dona: civiltà procede,

E di saper, di costumanze e d'agi
Più nobil fassi e più gentil la vita.
Cotanta di trofei mèsse corranno
Lungo il sentier, che ritentando io schiusi,
Le non remote età! Di sue conquiste
un mortal tuttavia non inorgoglì;
Né sé creda alle cose unico sire,
Unica legge e fine. I monti adegui:
Misuri i mari: annoveri le stelle:
Ma dì non sia, che baldanzoso usurpi
Trono non suo. Segreto affanno il core
Talor mi stringe, o figlio. Arme tagliente
Misi in pugno ai mortal. Contro il suo petto
Ch'ei forsennato non la volga, ed ebbro
Di miseranda insania: — E mio lo scettro.
Sclami, del mondo: alfin mei rendi. Iddio."
La fronte si percosse, e somigliante
Ad uom, che immago luminosa afferri
Neil'ansia mente d'improvviso apparsa,
Il poeta levossi. Indi ristette
Sospeso alquanto, e posto al labbro il dito,
Lo Sguardo a terra, in gran pensier s'immerse.
Poi di subita fiamma il volto acceso,
Acceso le pupille, "E che paventi.
Sclamava, o Galileo? L'orma di Dio
Chiara così nell'universo appare,
Che a Lui naturalmente il cor s'innalza
Non gravato di fango. Ove pur fosse
Che rigida scienza, a' corpi intesa,
L'alme obbliasse : riprendesse i regni
Atei la carne: le robuste fedi,
I magnanimi istinti e le speranze
Immortali dell'uomo orrenda piena

Di torbidi marosi travolgesse:
Conservatrice del superno foco
Che l'avvenir rallumi, arca di Dio,
Sul tetro abisso Poesia galleggi ;
E alle giovani stirpi, che redente
Scendon dal monte a ripigliar gli alberghi,
L'antico ver, che gli avi tralignati
Ebbero a scherno, un'altra volta impari.
Odimi, padre. D'amoroso ospizio
Nella regal Partenope cortese
L'aureo Manso mi fu. Dagli anni oppresso
E da fortuna, vacillante, infermo
Visto avean quelle soglie il gran Torquato
Cercarvi asilo. In riva al mar torreggia
L'ampio palagio. Il nobile signore
La stanza m'additava, e ne' viali
Ombreggiati d'aranci e di cipressi
Il memore sedil, dove posava
Muto guardando la natal marina
Il grande melanconico e piangea.
Piene dell'alta deità le selve
Mi parean : per l'immoto aere melodi
Correre udiva e arcane consonanze
D'arpe celesti. Perocché la Musa
Che d'Aminta le pene e di Goffredo
L'armi cantato avea, di Dio lo Spiro
Che feconda l'abisso e l'universo
Ordinando distingue in Sette Giorni,
Fra quelle piante celebrò. Gran tela
Di battaglie e d'amori io nel pensiero
Ordita avea giovenilmente. Un lampo
Sperse que' sogni e mi spirò subbietto,
Che virtù nova dalla tua parola

Attinge, Galileo. Veglio divino!
Poi che sinistro antiveder t'accora,
E paventi che tumida d'orgoglio
Scienza contro Dio l'armi non prenda;
Io rammentando al secolo superbo
L'antico fallo, ond'abbia esempio e freno,
Dell'uom la prima inobbedienza e 'l frutto
Canterò del vietato arbore, amaro
Frutto letal, che sulla terra addusse
Onda infinita di sciagure, e morte.
Oltre l'Eden perduto; infin che scende
Da' cieli a ristorarne Alma più grande
E ne racquista le beate sedi."
Alzossi Galileo. Congratulando,
Come l'uom fa che alti proposti intende,
Il giovane abbracciò. L'aura notturna
Già le membra pungeva: all'orizzonte
Chinata era la luna. Al fedel braccio
Di Maria s'appoggiò l'augusto vecchio,
E verso la magion prese il sentiero.
Per un istante il capo ella rivolse,
E sparsa di rossor, le poche rose
Ch'avea raccolte e timido saluto
Diede al garzon, che ravvolgendo in core
Sublimi visioni, conscio de' fati
Che in patria l'attendean, scese dal colle.

AD UN AMICO

ABILE SUONATORE DI PIANOFORTE
nel Novembre 1848.

T'accosta all'eburneo
Canoro strumento;
Degl'inni d'Italia
Ridesta il concerto;
Degl'inni che al Teutono
Imbiancan la gota,
Ridesta la nota.

Rapito nel vortice
Dell'onda sonora
Indomito e libero
Vo' credermi ancora.
Sia sogno: a quest'anima
Lo splendido sogno
È fiero bisogno.

Fuggente l'Austriaco
D' un ultimo sguardo
Saluta dal Brennero
Il cielo lombardo:
Sul doppio suo pelago
Si asside regina
La Donna latina.

Festose, col sonito
Di sciolti torrenti,
Sul Tebro si accalcano
L'italiche genti;
Devote sospendono

Agli auspici altari
I liberi acciari.

Membrando con lagrime
Le corse fortune.
Le preste vittorie
D'un'ira comune,
A lieti si accolgono
Fraterni conviti
Guerrieri e leviti.

Chi son quelle pallide
Scettrate figure.
Che torve bisbigliano
Arcane congiure?
I fati d'Italia
Maligno dall'ara
Un fato separa.

Del pianto ricercami,
Amico, la corda
Che d'Adige e Mincio
Le tombe ricorda,
E lesa d'un martire
L'augusta corona
In riva di Olona.

D' un sangue magnanimo
Indarno cruenta,
Le fughe i patiboli
Italia lamenta;
De' figli sul cenere
Lamenta l'insulto
De' barbari inulto.


Che speri, o carnefice?
Dall'urna de' forti
Repente fiammeggiano
I brandi risorti:
Antica de' popoli.
Diletta al Signore,
Italia non muore.

Amico, ricercami
La corda che freme,
Che susciti il palpito
Dell' itala speme ;
Che r ebbre vigilie
Conturbi d' affanno
Al giovin tiranno.

In seno all'adriaca
Non doma laguna
Ardire superstite
Le folgori aduna:
Al nembo barbarico
Ruggendo si oppone
De' dogi il leone.

Sui mari rimormora
Il rombo guerriero:
In capo l'Allobrogo
Rimette il cimiero,
E vindice impavido
Sull'insubre vallo
Sospinge il cavallo.

PSICHE.
dell'anima umana, a cui fatale
E sovente del ver la conoscenza,
Immagine gentil, Psiche immortale;

divina farfalla, a cui l'essenza
Delle cose è nascosta, o sol si svela
Quanto basti al gioir dell' innocenza;

Lascia, Psiche, l'improvvida querela,
Né desiar conoscere lo sposo
Che la temuta oscurità ti cela.

Men dolce, o semplicetta, è bacio ascoso?
Dolci meno gli amplessi e le parole,
Onde bea Quel non visto il tuo riposo?

D'aurati sogni e di leggiadre fole
Popolata è la notte; ombre giocose,
Che col primo splendor dissipa il sole.

Cogli, fanciulla, le furtive rose,
E non cercar se sia mortale o nume
Colui che ne' divini atri ti pose.

Ella non ode. Della manca al lume
Schermo facendo, il talamo vietato
Entra perplessa e pende in sulle piume.

Pende e rimira. Sul purpureo strato
Chi mai rimira? Giovincel che giace
In nettareo sopore addormentato.

Ale ha di giglio agli omeri: una face
Fuma a pie delle coltri. Oh, quanto il detto
Dell' invide sorelle era mendace!

Drago non già, ma più che umano aspetto.
Rosa che innanzi l'alba orlan le brine,
È la guancia gentil del giovinetto.

Aleggia sulle labbra porporine
Molle il respiro, ed in vezzose anella
Scende pel collo fluttuando il crine.

Come stupisce! come in sulla bella
Faccia immobile fìgge la pupilla
In dolce estasi assorta la donzella!

Mentre riguarda, e dentro il cor le stilla
Ignota voluttà, dall'agitata
Lampada si dispicca una scintilla,

E stridula si apprende alla rosata
Spalla d'Amore, che con alto grido
Balza dal letto esterrefatto e guata

Psiche smarrita ed il rasoio infido
E l'odiata lucerna: alle nemiche
Ombre s'invola con terror Cupido.

Or chi sa dirmi, poverella Psiche,
Le minacce di Venere e gli sdegni,
I tuoi miseri errori e le fatiche?

Varchi tremante a' sotterranei regni,
E reduce dell'acque d'Acheronte
L'anfora colma a Venere consegni.

Or di piselli e di lenticchie un monte,
Di semi di papavero e di miglio.
In un confusi, ti rimiri a fronte;



operosità poetica di Zanella  occupa  circa
L'
E Citerea, che con superbo piglio
T'ingiunge di scevrar grano da grano.
Prima che il sol le si nasconda al ciglio.

E tu, come insensata, all'opra invano
Movevi, poverella; e già la sera
L'ombre allungava sul deserto piano,

Quando mossa a' tuoi guai venne la schiera
Delle preste formiche a darti aita;
Ed il sol tutto ascoso ancor non era.

Che scegliendo, traendo e la spedita
Spalla indefessa quelle pie gravando,
Per te l'ardua fatica ebber fornita.

Ed or novellamente ir devi in bando ;
Ancor di Pluto alle dolenti case
Di Venere t'invia l'aspro comando.

Della beltà, che guasta le rimase.
Or t'è mestier dall'infere magioni
Alla Dea riportar l'occulto vase.

Riporta, Psiche, a Venere i suoi doni;
Né di vezzi femmineo desio
L'orciuol fatale a scoperchiar ti sproni.

Aperto è il vaso. Soporoso e rio
Esce quindi un velen che all'infelice
Preme le membra di mortale obblio.

Assonnando declina la cervice
Sovra l'omero: in volto si scolora,
Né più voce sospir dal petto elice.


Amor placato accorre e la rincora,
La ravviva e sostien. Già meno altera,
Vener si piega ad abbracciar la nuora.

Oh! la tua Psiche, Amor, che lusinghiera
Sul sen ti si abbandona, al ciel trasporta;
Diva raccolta in tua beata sfera

Faccianla alfine i propri mali accorta.

PER UN AMICO PARROCO.

E tu pur, vòlto disdegnando il tergo
All'auree larve dell'età primiera,
Candido amico, in solitario albergo
Vai di tua vita a seppellir la sera?

Ingenuo ti conobbi: a' vili avverso :
Di cor gentile e di modesta brama,
Benché l' invidiata onda del verso
Pegno ti desse di superba fama.

quanti mai, se il tuo possente ingegno
Avessero dal ciel sortito in dono,
Chiaro di sé nell' apollineo regno
Avrian levato ambizioso suono!

Ma tu più saggio, di ben far voglioso,
Non di parer, al santo officio intento.
Viver togliesti in erma villa ascoso,
Di conversar cogli umili contento.

Suona la squilla. Sulla via frequente
Sparsa di fronde e di silvestri fiori
In adorno vestir esce la gente,
Parchi coloni e semplici pastori,


Che lungo il prato in bipartita schiera
Addensando si van, come talvolta
Il fondo all'orizzonte, che s'annera,
Nuvola sovra nuvola si affolta.

Ecco tu spunti fra l'ombrose piante
E di subito cessa ogni bisbiglio;
Con intento desio nel tuo sembiante
Ecco si affisa immobile ogni ciglio.

quanti voti il popolo raccolto
Non forma in cor! quanti pensier felici.
Mentre tu passi e con benigno volto
A' tuoi cari sorridi e benedici!

E te messo di Dio la madre addita
Venerabonda a' pargoletti figli,
Cui ne' duri cimenti della vita
Luce sarai d' esempi e di consigli.

Ma la pudica giovinetta in petto
Accoglie altri pensier, mentre ti vede;
Previen co' voti il dì che benedetto
Per te fia l'amor suo dell'ara al piede.

Tutto è speranza a te d'intorno e festa:
Spera l'agricoltor che la tua mano
Terrà lungi il furor della tempesta,
Quando biondo ne' solchi ondeggia il grano;

Confida l'orfanel, se inopia il prema,
Di non battere indarno alle tue porte;
Se tu lo veglierai nell' ora estrema,
Spera men dura il vecchierel la morte.


fortunato, che in sì dolci cure
Chiuderai de' tuoi giorni il cheto giro,
Finché ti resti sulle altrui sventure
Una lagrima sola, un sol sospiro!

POSSAGNO.

Prole negletta, faticosi alunni
Delle negre officine, a cui la pialla
E l'incude sonante è brando e trono;
Nato d' umili padri e ne' conflitti
D' aspra fortuna, come voi, cresciuto
Era il Divino che a quest' ermo colle
Diede fama perenne. Or se di stemmi
E gentilizie porpore fastose
Circondate non fur le vostre cune,
Viltà di core non vi gravi il ciglio;
Che vostra nobiltà pura rifulge,
Scabri eroi del lavoro, a cui le mani
Mai non grondaro di fraterno sangue.
Vostro è Canova; né d' illustre ceppo
Che le radici favolose inciela.
Vide il secolo uscir gloria maggiore.
Sacra è la terra che calchiamo; è sacra
Quest'aria, amici, e le petrose balze
Che Possagno coronano. Fanciullo
Al cupo rezzo de' castagni antichi
Qui s' assidea Canova, alla natura
Le man tendendo desioso; e bella,
Come altra volta all' angelo d' Urbino,
Si svelava natura al giovinetto.
Qui canuto rediva in compagnia
Dell' arti adulte, e l' inclito delubro.
Candido delle azzurre alpi sul fondo.

Alla Triade poneva. Augusta mole,
Italo Partenon, che valli e monti
Altero signoreggi e di tutela
Onnipotente le montagne affidi.
Salve! Stridendo la folgore acuta
Torce altrove il suo volo e s' inabissa
Delle valli a destar l' eco profonda.
Sdegna i prischi subbietti e per sentier:
Inusitati a men riposte fonti
Guida dell' arti obbedienti il coro
L' innovatrice età. Docil s' inchina
Degli argivi scalpelli al magistero;
Pur di natura all' inesausto grembo
Vergini fantasie chiede l' ingegno,
Che de' suoi tempi agli ultimi nepoti
Schietta l' immago tramandar desia.
Tanta del vero generosa sete
Il secol nostro infiamma! Alla vetusta
Chioma di Polignoto e di Lisippo
Noi non pertanto sfronderem gli allori;
Né all'arti insulterem che i trionfali
Ozi allegrar della divina Roma.
Bella mitica Dea, che dal Cefiso
E da' lauri vocali di Elicona
Costretta a fuggir fosti, ospite asilo
A' vaganti tuoi numi ed alle muse
Su questo colle aperse italo Fidia.
Quali gli uscian dall' infiammata idea.
Nella creta qui stanno ancor spiranti
I simulacri, ond' ei le tombe, i fòri,
I delubri e le reggie ornò di Europa.
Quanto popol d' eroi! quanto di ninfe.
Dell' Ilisso i lavacri abbandonando,

Queste pendici ad abitar non venne!
Vedi la giovinetta Ebe, leggiadra
Del nettare ministra, che d' Olimpo
Scende veloce: carezzevol aura
La veste addietro le respinge e svela
Delle membra divine ogni contorno.
Vedi la Ninfa che sorpresa al bagno
I bei veli raccoglie e si ritira
Paurosa guatando. Ecco le Grazie
Che, le braccia conserte in dolce amplesso,
Disegnano sui fior lente carole.
Su' nivei lini Citerea riposa
Velando gli occhi: Amor tocca la cetra
Soavemente e le lusinga i sonni.
In altra parte disarmato il braccio
Cinge al collo di Psiche, e la farfalla
Nata del cielo a trasvolar pe' fiori
Sulla palma le posa. In alto scote
La Danzatrice i crotali sonanti,
E chiama a pace ed a letizia il mondo.
E tu l' ardor delle battaglie ancora
Spiri dal guardo e dall' egioca fronte,
Vincitor di Marengo. Al tuo delitto
Tarda ammenda in Magenta e Solferino
Fece il Nepote; ma fremendo Italia
Ancor di te si risovviene e plora,
Campoformio pensando; ed a' tuoi mani
Ridomanda i guerrier che di lor sangue
L' artiche nevi a colorar traesti,
E alla madre potean scior le catene.
Più generoso Ettòr che dall'amplesso
D' Andromaca s' invola, e stringe il brando
Per la patria cadente incontro al truce

Telamonio; e di lauro anco più bello
Va cinto il Fabio american che calca
D' un pie la spada e sull'eterno foglio
Segna libere leggi al Novo Mondo.
Ma della terra gl' infiniti guai,
Chini i ginocchi e le man giunte al cielo
Il Pontefice narra. Nel diffuso
Aureo paludamento e nella faccia
Di pietade atteggiata e di speranza
Maestosa di Dio l' aura sfavilla.
Quando del bello immaginar la fiamma
Avvivar vi talenti; o doloroso
Più vi sembri il tenor di vostra sorte,
Voi del lavor mal conosciuti figli,
Questo colle salite. Esce dal tempio.
Esce dal suolo eccitatore un grido.
Che ardimento v' apprende e contro il fato
Insultator magnanima costanza.
Il mendico orfanel che fu veduto
Su questi monti esercitar nel sasso
Il volgare scalpello, un giorno sparve,
Né per lunga stagion parlar di lui
L' umil borgo s' intese. A terra sparse
Son le magioni e le prosapie estinte
De' patrizi che al povero d' aita
Fur liberali e di consigli. Ambito
Le roggie intanto ei visita e nel marmo
Di temuti mortali il volto eterna.
Poi riede; e di sublimi monumenti
Rende chiaro per sempre il suol natale.
VOCI SEGRETE.

Aeree voci, che di concenti
Misteriosi l'orecchio empite;
Fiochi susurri, sommessi accenti,
Donde venite?

Chi di me parla? D'obbliqui detti
Segno mi fanno lingue scortesi?
Fan di me strazio maligni petti
Ch' io non offesi ?

Chi mi ricorda? Tenue bisbiglio,
Pari a tintinno d'arpa remota,
Forse una cara mormori al figlio
Materna nota?

degli amici, meco vissuti
Sotto le dolci patrie montagne,
A questo core porti i saluti
Che ancor li piagne?

Sia che da' monti, sia che dall' onde
Amor vi mandi, sia che da' cieli.
Di caro spirto che si nasconde,
Nunzie fedeli,

Voci gentili, per voi maggiore
Sorgo degli anni, sorgo del fato;
Fammisi immenso tempio d' amore
Tutto il creato.
LE ORE DELLA NOTTE.
Con bruni sandali
E taciturne
Scendono, passano
L' ore notturne,

E nel lor transito
All'universo
Mobile imprimono
Volto diverso.

Tornano i vomeri;
Fumano i tetti;
L' Ave ripetono
I pargoletti;

Appena è vespero,
E già tranquilla
Sovra le coltrici
Posa la villa.

L' ombre si addensano :
In auree stanze
Specchi rifulgono,
Erran fragranze;

Scalpita e smania
La giovinetta
Che il velo roseo
Pel ballo aspetta.

Triste sollecita
L' opera altrove
E l'egra lacrima
Sovra vi piove


Orfana vergine
Che nell'accesa
Gota funereo
Morbo palesa.

Tace di popolo
Sgombro il viale;
Tra l'erme acacie
Langue il fanale;

Pari la reggia
Al casolare
Nell'ampie tenebre
Scende e scompare.

Remoto vicolo
Empion di canti
Fra nappi e cembali
Scinte baccanti;

Tende l'orecchio
Da semiaperta
Finestra e palpita
Sposa deserta.

Lo stame attenua
Della lucerna,
Computa, novera,
Fogli squaderna,

Mida famelico
Che dell' erede
Dietro sé l'ilare
Ghigno non vede;


Mentre da' fulgidi
Covi del gioco,
Lo sguardo vitreo,
L'anima in foco,

Esce il patrizio
Che della zolla
Ultima Cerbero
Plebeo satolla.

Profondo e lucido
L' aèr traspare;
ìadi e Pleiadi
Fansi più chiare;

Sbadiglia, abbrivida,
Scote di brine
Vigile astronomo
Rorido il crine.

Con ala nivea
Per l'aure brune
I sogni or piovono
Sovra le cune;

Ridon l'inconscie
Alme leggiadre;
Ridono agli angioli,
Chiaman la madre.

Sommessa mormora
Un caro nome,
Scorrer d' un bacio
Sulle sue chiome


Sente l'anelito
Vergin, che desta
Con alto tremito
Volge la testa:

Vede distendersi
Sulla cortina
Il raggio argenteo
Della mattina.

Trilla sugli embrici
La rondinella;
Sull'aia crocita
La gallinella;

Scoppia dall'ardua
Torre la squilla;
Ridesta all' opere
Torna la villa.

PER LA MORTE DI DANIEL E MANIN

AVVENUTA IN PARIGI IL 22 SETTEMBRE 1857
E PASSATA IN SILENZIO Da' GIORNALI AUSTRIACI.

Sovra le aeree
Guglie e sui Piombi
Lo bisbigliarono
Prima i colombi:
Entro la gondola
Nessun discese
E pur l'intese
Il battellier:


Trema, o stranier.

Di Calendario
Sovra la scala
Udissi il transito
Come d' un' ala ;
La testa alzarono
E ne' sembianti
I due Giganti
Cupi si fer:

Trema, o stranier.

Entro a' sarcofagi
All'ombra in seno
Desti favellano
Foscari e Zeno;
Libero ad ospite
Ancor nascosto
Lasciano un posto
Dell' origlier :

Trema, o stranier.

Freme Vinegia
E si risente
Al noto anelito
Dell'Oriente;
Vivido anelito
Vien di Crimea,
Alla galea
Noto sentier:

Trema, o stranier.


Della basilica
Ritti sugli archi
L' aurora attendono
I Patriarchi;
Al ciel le pàtere
Colme di pianti
Levano i Santi
Dal lor pilier:

Trema, o stranier.

Sotterra al Martire
Poser vicino
Bordone e sandalo
Di pellegrino.
L' aura d' Italia
Passa sulle ossa;
Della riscossa
Arde il pensier:

Trema, o stranier.

A DANTE ALIGHIERI.

Misurator di mondi,
Che disdegnoso di più breve lito
I pelaghi profondi
Solcar dell'infinito
Fosti con vele ancor caduche ardito;

Se questa età, che d' oro
Volge in sorgente lo scoperto vero,
Torna al tuo santo alloro.
Non anco del pensiero
Tutto la creta conquistò l'impero.


Padre, dal dì che in cielo
Eri con Bice novamente accolto.
Quanto del fosco velo
Al guardo uman fu tolto.
Onde giaceva l'universo avvolto!

Ne' chiostri ancor romita
Il dito non togliea dal suo volume
Filosofia, che ardita
Or drizza al sol le piume
E le rideste menti empie di lume.

Neil'acque di Ponente,
Ove locasti il sospiroso regno
Della compunta gente,
Spezzato ogni ritegno,
Auspice entrò d' un genovese il legno.

Son mille terre; e denso
Di tesori, di popoli, di navi
S'agita un mondo immenso,
Ove ne' flutti ignavi
Occultarsi a' mortali il sol pensavi.

Lascia le anguste sedi
Esule Europa e del Meriggio ai mari,
Che le son contro a' piedi,
Porta operosi lari,
Liberi cambi e non macchiati altari.

Padre, il tuo sol disparve
Co' cieli di cristallo. Un tuo Toscano
Delle pugnate larve
Atterrò l' idol vano
E del creato rivelò l'arcano.


A' rai del ver caduta
È la vetusta idea. Ma la tua stella
Il mondo ancor saluta,
Che dalla tua favella
Sentì l'aure spirar d' alba novella.

dell'inciso verso
Inflessibil signor che in poche carte
Hai chiuso l'universo,
Del folgore dell'arte
L' indomabile armando ira di parte;

Le torri e le badie
Che ti accolsero errante, or son mina;
Sovra men scabre vie
Umanità cammina,
Col làbaro immortal: Fede e dottrina.

E tu nel lungo corso
Sempre innanzi le stai, come montagna
Che via per l'ampio dorso
Dell' onda, in cui si bagna.
Le vele che dileguano, accompagna.

Vive di te l'eterno,
Se l'umano perì. Dal ciel discende,
Risale dall' inferno
L' austero suon, che apprende
Dell' alte cose amor che i degni accende:

Amor, che dalle pugne
Di questa valle per eccelso giro
A Lui ne ricongiugne,
Che dell' ardente spiro
Nutre la rosa del beato empirò.


Padre, cui risorto
Risorse alfin l'italica fortuna.
Se mai fallisse al porto,
Ove ogni ben s'aduna.
Questa terra fatal che ti fu cuna;

Al tempio tuo che immoto
Leva la fronte su divine alture.
Porga fidente il voto;
E rinnovate e pure
Dal monte scenderan l'età venture.

DUE VITE.
Chi di te più solingo e miserando,
Celibe antico che, a' tuoi dì migliori
Il santo nodo maritai sdegnando,

Bevesti al nappo di venali amori?
Chi di te più dolente? Il capo imbianca;
Ma non doman le nevi i vecchi ardori.

Furor vano di prede agita e stanca
Il morente lione. Ecco affannoso
T' è '1 respiro; la vista ecco ti manca.

Da ree memorie combattuto e roso
Sui profumati serici guanciali
Hai querula la veglia, ansio il riposo.

Divorasti la vita. Ora i tuoi mali
Narri a' sedili del deserto tetto
E l'alto cruccio in empi motti esali,

Sol ne' spasimi tuoi, senza l'affetto
D' una fida che accorra al tuo richiamo,
Ombra spirante; e t' è già tomba il letto.


Tale nel verno sovra nudo ramo
Per morire si posa, al dubbio lume
Crepuscolare, augel vetusto e gramo;

Trema alla brezza che raggela il fiume,
E meschiata di neve ad una ad una
Le logore si porta ispide piume.

Allegra intanto alla capanna bruna,
Laggiù nella vallèa, del pio villano
La bella famiglinola si rauna.

Dal dì che alla sua Lena ei die la mano,
Cinquanta volte nel sudato campo
Crescer mirò, né sol pe' figli, il grano.

Splende il camino: al crepitante vampo
Del ginepro festeggiano la santa
Notte in cui dal ciel venne il nostro scampo.

Di lauro intorno un' odorata pianta
Di rosee poma onusta e di ghirlande
Lo sciame de' fanciulli esulta e canta.

Innocenza le povere vivande
Di mèi cosparge; e fra i nepoti in festa
L' avolo intenerito il suo cor spande.

Poiché tanta ne' suoi vita gli resta,
(Sia l'ultimo anno, o più fiate il crine
Vegga ancor rinnovarsi alla foresta)

Di sé contento, appiè delle colline
Su cui già biondo conducea la gregge,
Placido attende de' suoi giorni il fine.


natura, natura! Alla tua legge
Ben saggio é chi si arrende; e d' uno schermo
Amoroso i caduchi anni protegge!

A pio figlio appoggiando il fianco infermo
Or visita le mèssi alla campagna;
Or la chiesuola villereccia e l'ermo

Recinto, dove la morta compagna
Di sotto l'erba con sommessa voce
A sé lo chiama e del tardar si lagna.

Cede al pondo degli anni; e non gli nuoce
Se sculta in oro lapide fastosa
Non ricopre il suo fral: sotto una croce.

Che la Fede infiorò, meglio riposa.

A FEDELE LAMPERTICO.

Di pochi lustri io ti precorro, amico,
Nelle vie dell'età; ma quante usanze
Gli' erano in fiore ne' miei primi tempi
Io non vidi cader! quanti costumi
Che tu non conoscesti, o solo appresi
Hai dal labbro de' vecchi! Or son fecondi.
Come secoli, gli anni. In opulenta
Culla e fra gli agi di città gentile
Tu le care del giorno aure bevesti;
Io dentro picciol borgo, in erma valle
Cui fan le digradanti alpi corona,
Vissi oscuri i mìei dì, finché novenne
Alla città mi trasse il mio buon padre
A dibucciar la prima scorza. Il giorno
Era de' Morti. I flebili rintocchi

Della campana all' attristato core
Crescean tristezza. Mal celando il pianto,
Nell'usato cortil co' vecchi amici
Sull'imbrunir venuti a salutarmi
Giocai l'ultima volta. Un cardellino,
Mio compagno d'esigilo, innanzi all'alba
Cantarellando mi destò: del mondo
Al paro conoscenti entrammo in via.
Alle venture età, quando i nepoti
L' avo a sera raccolga, e novellando
La cadente del sonno ala sospenda,
Di giganti epopea meravigliosa
Questo secol parrà, di cui la soglia
Tengono immani Bonaparte e Volta.
Come rósa dagli anni eccelsa ròcca,
Quell'antico di servi e di signori
Edifìcio cade. Sovra le piazze,
Di strana arbore all' ombra e fra le danze
Della folla beffarda, arser gli stemmi
Che d' infiniti spazi il titolato
Sir dalla gente divideano. Il dritto
Si disconobbe delle prime fasce;
E partito egualmente a' molti figli
Scese il censo paterno. I latifondi
Che orante cenobita abbandonava
Alla randagia pecora, innaffiati
Dal libero sudor d' industri volghi
Lussureggiar di varia mèsse; all'opra
Eran stimolo i figli e lo sgomento
Del pubblico esattor. Regali vie
Alle città lontane agevolaro
I fraterni commerci; e vie minori
All'urbane eleganze il varco aprirò

Degli alpestri villaggi, ove a gran stento
Con pettini e con nastri all' annua fiera
Si arrampicava il mulattier. Trascorse
Grido di guerra le solinghe valli
E gloria lusingò gli agresti cuori,
Quando scampato dalle lunghe pugne
E altero di sue piaghe il contadino
Narrava a' padri le vedute cose,
Saragozza, Stralsunda e miseranda
Voragine d' eroi la Beresina.
Insolito splendor d' arti rifulse,
E ferree spole e leve onnipotenti
Al braccio umano alleviar fatica,
Addoppiando il lavor. Su poderose
Ale di foco continenti e mari
Corse cupida industria: alla parola
Diessi il volo del lampo; e convenuti
A banchetto comun da tutti i venti
Vari di volto e d'abito i mortali
La prima volta si gridar fratelli.
Barbogio vate che s'adagia al rezzo
Dell'arcadiche selve e di Fileno
Per la bella Amarilli i lai ricanta,
Contro il secolo insorga; e dal tugurio
D' ingentilito contadin, che legge
All'accolta famiglia util volume,
Gridi fuggiasca l' innocenza antica.
Dolce ricordo a lui sian le pareti
Fuligginose e borea che fischia
Dal balcon non difeso. A mezzanotte
Dentate strigi e lemuri danzanti
Sulle brago sopite; e gemebonde
Per le scale cadenti e sotto gli usci

L' alme de' morti ispirino la musa
Che deplora scomparsa un' altra volta
Di Saturno l'età. Che se la fame,
Quando l'angusto campicel negava
L' annua raccolta e di straniere mèssi
Per l'inospiti vie speme non era,
I coloni nel verno a centinaia
Implacata mietea; se fiero morbo
Non circoscritto da salubri leggi
Nella vorace fossa tuttoquanto
Addensava il contado, avventurosi
Pur ei chiami que' dì, perchè di tele
Americane non .fasciava il fianco
La leggiadra villana, e mattutina
Bevanda ad essa la fumante tazza
Dell' arabo legume ancor non era.
Pianga gli agi cresciuti: de' misfatti,
Onde il secolo è reo, ricchezza incolpi;
E madre di virtù, sola maestra
D' aureo costume povertà saluti.
Mio candido amico, o delle fonti
Onde sgorga ricchezza e si comparte,
Sagace scrutator, più volte intesa
La rettorica nenia avrai di gufi
Avversi al sole. Veneranda, augusta
E povertà, se al focolar si assida
D' operoso mortal che lotta indarno
Contro i colpi d'indomita fortuna.
Ma se d' ignavia e d' ignoranza , è figlia ;
Se la man che il Signor fece al lavoro,
Altri supplice tenda al passaggero ;
finché gli anni arridono e le forze,
Pago del vitto giornalier, non curi

L' egra vecchiaia provveder di schermi;
Sommo de' guai che attristano la vita,
E povertà che con ferro e con foco.
Come sozzo mortifero serpente,
Fugar conviene. Allor che l'abituro
Dell' artigiano io visito e le stanze
Nitide veggo; ripulite sedie
E vasellami; d' odorata persa
di semplice timo i davanzali
Veggo fioriti, di virtù mi sembra
Dolce un profumo errar per la ridente
Magion che la fatica orna e consacra.
Ma qual d' aifetti gentilezza? o quale
Dignità di pensier dentro l' immonde
Umide cave del disagio? Il lezzo.
Che le membra contamina, s' apprende
Allo spirto invilito; e non de' figli
Che onorati si allevino e gentili,
Punge i sordidi padri alcuna cura.
Lode all'età che migliorando il vitto
E la veste e l'albergo all' umil volgo,
L' alme ancor ne migliora; e fra le gioie
Di cheto casalingo paradiso
GÌ' insegna abbominar bische e taverne.
I ritegni sparir. Rotta la nebbia
D' antichi errori, e di dottrine e d' arti
Fatto adulto e possente al suo meriggio
L' uman pensiero glorioso ascende.
Or tanta luce di scoperte e tanta
Fiamma di brame indefinite immense
All' uom largite non avrebbe Iddio,
Se del pan che matura il patrio solco,
E del vestir che la vellosa groppa

Di domestica agnella gli consente.
Dirsi pago dovea. Sir del creato.
Come sotto ogni ciel, dall' Orse algenti
All' adusto Equator trova sua stanza,
Né salute gli scema o vigoria;
Così da quante terre e quanti mari
L' occhio esplora del sol, tributi accoglie.
Nel suo tetto regal, cui fanno lieto
Turcheschi drappi ed anglici cristalli,
Bello veder di giapponese argilla
Sugli orli rosseggiar fiore cresciuto
Della Piata sul margo; e tremolante
Sovra il crin delle nuore e delle figlie
Candida piuma che agitò le sabbie
D' africano deserto. A me sgomento
Opulenza non dà che guiderdone
È d' industria e saper: l' invida io temo
Losca ignoranza che squallore ed ozio
Copre col manto di virtù celeste;
Tetro, deforme, sciaurato mostro,
Contro cui colla penna e più coll' opra
Tu, generoso delle plebi amico.
Sì frequenti e gagliardi i colpi assesti.
A MIA MADRE.
Al limitar di morte
Correvi, o madre. Colla cerea mano
Già picchiavi alle porte
Caliginose; e qual dall' oceano
Sale sull'alba un zefiro, i tuoi veli
L' aura agitava de' propinqui cieli.

De' figli, benedetta,
Il pianto udisti. Affranta, ma serena
Per la tua cameretta
L' orma ritenti con perplessa lena,
E ti par tutto novo, il cielo, i fiori
Che con desio da' chiusi vetri esplori.

Rimani, o pia. La vita
Quali dolcezze a te più serbi ignoro;
Ma di tua santa aita
Ancor uopo ha quest' alma ; ancor t' imploro
A' virili anni miei fido riparo,
Come già fosti al fanciulletto ignaro.

Madre! Il tuo caro viso,
I santi detti tuoi che a me bambino,
Su' tuoi ginocchi assiso,
Furon maestri, ancor contento inchino.
Semplici detti; ma l'ingegno umano
Forse con frutto scandagliò l'arcano?

Forse il pensier si acqueta.
Quando in eterno d'atomi tumulto
Che non ha legge o meta,
Pone de' mondi il nascimento occulto?
Se mi grido fratel del sozzo urango
Si appaga il core? o sente men di fango?


Madre! di dotte inchieste
Tornan ben lagrimevoli gli allori.
Se più crucciose e meste
Fansi le vite e più gelati i cori.
Se dal ver riedo meno eccelso e puro,
Amo al tuo fianco riposarmi oscuro.

La Fé che questo adorno
Rotante padiglion dell'universo
In preveduto giorno
Sia dall'abisso al divin cenno emerso;
Che Tuoni primier pel mal gustato frutto
Sé travolgesse e tutti i suoi nel lutto:

La Fé che mi ragiona
D'un Vindice immortai che al giusto afflitto
Ricigne la corona
Che per poco usurpossi ebbro il delitto;
La Fé ch'oltre la tomba in diva luce,
Ombra amorosa, a' miei mi riconduce ;

Questa pia Fé che agli avi
Repubblicani benedì le vele;
Di Vergini soavi
A Raffaello popolò le tele;
Questa pia Fé già reo non fammi o stolto,
Tal che ne celi per vergogna il volto.

Finché per lei mi sento
Cittadino non vil; finché per lei
Il foco non é spento
Dell'arte che governa i pensier miei.
Madre, non fia, non fia che l'abbandoni
Per seguir più superbi inani suoni.


Varcan quaggiù sorelle
Sapienza e Scienza. Audace, esperta
Al correre, e le belle
Membra di screziati ostri coperta,
Più cupida Scienza e giovinetta
Tutto il creato a misurar si getta.

Scende nel mar: de' venti
Cerca le patrie: di gemmate grotte
Ne' lunghi avvolgimenti
Di titaniche età turba la notte:
Vola fra gli astri, e l'universo intero
Disvelato vagheggia al suo pensiero.

Ma più modesta il manto
E più soave al portamento, all'atto
Vien Sapienza accanto
Della balda sorella; e tratto tratto
De' rischi l' ammaestra e de' divini
All'ingegno mortal posti confini.

Felice se all' accento
Della suora maggior l'orme misura
E tempra l'ardimento
L' altra del suo veder troppo sicura;
Nettare allor, di nullo amaro infetto
È del ver la ricerca all' intelletto.
IL LAVORO.

Col sole che al monte le cime colora,
Si leva l'artiere che all'opra ritorna.

Il mantice stride; l'incude sonora
A' torpidi intuona: Sorgete, che aggiorna.

Nell'umida zolla discende feconda
Del sole la luce che il germe matura;

S' imporpora il grappo: la mèsse s' imbionda:
Il desco a' mortali prepara natura.

Rivale del sole, dell'uomo la mano
Nel pigro elemento trasfonde la vita;

D' ascosa ragione strumento sovrano,
L'inerte materia coll'util marita.

Levate, fratelli, levate la fronte
Neil' opra compagni dell' astro gigante,

Che indura la quercia sul dorso del monte,
Che spento carbone ralluma in diamante.

Da' colpi domata del vostro scalpello
Il fregio riceve la pietra ritrosa;

L' indocile acciaio si arrende al martello;
Tagliata nel legno si schiude la rosa.

All'opra d' un solo ben ricca mercede
Di mille vien l'opra: di scambio fraterno

Per lunga catena ciascuno possiede
Il pane pe' figli, la veste pel verno.


All'uopo comune per l'acque lontane,
Anello de' mondi, la nave cammina,

Che al vostro telaio riporta le lane
A' fiumi deterse dell' ultima Cina.

Volate, fratelli, volate al lavoro
Che in fervide gare lo spirito affranca;

Il tempo è ricchezza; le braccia tesoro
Che abbonda a' volenti, che usato non manca.

De' ferri al rimbombo più larga nel core
Ribolle la vita, con l'onda battuta:

Se taccia dell' arti l'allegro romore.
In freddo deserto la terra si muta.

Fuggiasco da' piani che riga il Missuri,
A stirpi più degne serbato retaggio,

Sonar ne' suoi boschi d' Europa le scuri
Intende dappresso l'ignaro Selvaggio.

Con fauci fumanti, con ala di drago,
Che il fianco ha precinto di folgori e tuoni,

Ascender rimira pel trepido lago
Il nero naviglio de' lesti coloni.

Superbo dell' arco, l'aratro e la spola
Meschino respinse che industria gli porse;

Presago di morte, da' campi s' invola
Che in vana contesa cacciando trascorse.

A' mari mugghianti d' eterne tempeste,
A' gialli paduli cruccioso discende:


Sull'erme scogliere che l'alga riveste,
Di fame a morirvi, raccoglie le tende.

All' aure frattanto che corrono Irlanda,
La provvida vela discioglie il piloto

Che un popol di forti che pane domanda,
All'isole guida dell'Austro remoto.

Si tolser piangendo dal vecchio abituro.
Dal rustico altare di nevi coperto;

La fede nel core, negli occhi il futuro,
Traversan dell' acque l' immenso deserto.

Pregato conforto ne' pavidi esigli
L' antico pastore co' mesti si asside,

E dice: dovunque Dio pasce i suoi figli;
Dovunque a' gagliardi fortuna sorride.

A' greppi divelta dell' alpe natale
In rive migliori la pianta si attrista;

Ma sotto ogni cielo l'errante mortale
Con vomero e pialla la patria conquista.

Pel suolo maligno che il pianto dell'uomo
Feconda per l'uomo torpente nel fasto ;

Per l'aer nebbioso, pel sordido pomo,
Ne' squallidi inverni miserrimo pasto ;

Un mare n'attende che splendido ondeggia
Fra mille isolette di palme vestite;

N' attende un terreno che accoglie la greggia,
Al gelso benigno, benigno alla vite.


Intatte miniere perenni alimenti
Ministrano al foco: dall'alte pendici

Rimbomban cadendo non visti torrenti
Che attendon la rota de' nostri opifici.

Le spesse foreste da' vergini flutti
Eleva il corallo che al mondo, l'invecchia,

Neil' ospite letto di pelaghi asciutti
D' imperi venturi le sedi apparecchia.

Da' pingui novali col volger de' lustri
Io miro i nepoti discendere al lido,

Che fieri di cento repubbliche industri,
Pur memori ancora del nordico nido,

Ritornano al porto con aurei vascelli,
Al porto cui nudi ier demmo il saluto;

Ne' fòri vetusti co' grami fratelli
Dividon concordi d'un mondo il tributo.

LA VIGILIA DELLE NOZZE.

PEL MATRIMONIO
PORTO-PRINA
DI VENEZIA.

Eri gioiosa i dì passati. Amore
Ti spirava ardimento; e la speranza
Di vaghi sogni ti nudriva il core.

E ti parea che la materna stanza,
Ove crescevi colombetta ascosa,
Abbandonata avresti in esultanza,


Per venirtene all'ara e con la rosa
Nuzial sulle chiome al tuo diletto
Giubilando la man porger di sposa.

Oggi non più. Da discordante affetto
Tocca e sparsa di lagrime che ascondi,
L' ingenua faccia declinando al petto,

Maria, tu siedi muta e ti confondi
Al pensier del domani, e de' tuoi cari
Sol con singhiozzi al salutar rispondi.

Piangi, fanciulla! Ad uom che i noti lari
Cangia con mobil pino e si periglia
Entro la scura immensità de' mari,

L' anima il primo dì non si scompiglia.
Come a modesta vergine che tolta
Venga a' dolci ozi della sua famiglia.

Guarda al cheto stanzino, ove raccolta
Sera e mattin s' inginocchiava, orando
Fervida a Lei che gì' innocenti ascolta :

All'augellino, a' fior che a quando a quando
Di sua mano innaffiava; all' umil scranna
Su cui, d'ago la penna esercitando,

Sedeva; e chiusa doglia il cor le affanna.
Or che deve lasciarli, e pensa e plora
Turbata e l'amor suo quasi condanna.

Addio, materni vezzi! Addio, dimora
Di pace e riso! Del perduto bene
Chi l'accorata vergine ristora?


Agar novella, per l'ardenti arene
Move di pauroso eremo e porta
In vasel suggellato, unica speme,

Dello sposo l'amor. Che se un dì morta
Le sia nel core questa fé, se senta
D' esser sola quaggiù, chi la conforta?

Così vien che più spesso il cor si penta
Che più facile amò! Non tu, Maria,
Che il patrio tetto puoi lasciar contenta.

Quella casa t' è nota, a cui per via
L' occhio levavi incerto e verecondo:
Amor colà t' attende e cortesia.

Lo stesso mar, lo stesso ciel giocondo
Ti fia dato goder; con lui che adori
Per te fia volto in un elisio il mondo.

Felice ti sapea, di miti amori
Paga, a' soavi tuoi fratelli appresso,
Quel giorno eh' ei t' ha chiesta a' genitori.

Se sua ti fé, se dal beato amplesso
Ti divise de' tuoi, non men ridente,
Credi, la vita ti sarà con esso;

Che magnanimo petto amor non mente.

AD UN RUSCELLO.

Fresco ruscel, che dal muscoso sasso
Precipiti tra i fiori e la verzura,
E mormorando tristamente al basso
Ratto dilegui per la valle oscura,

Rammenti ancor, quando assetato e lasso
Del vagar lungo e dell' estiva arsura
Io giovinetto ratteneva il passo
Tacito a contemplar l'onda tua pura?

Era quello l'aprir de' miei verdi anni,
Degli anni miei sereni che fuggirò
Su' veloci del tempo invidi vanni.

Al modo stesso, che le dolci e chiare
Tue linfe, amabil rio, di giro in giro
Dal patrio colle van fuggendo al mare.

EGOISMO E CARITÀ.

Odio l'allor, che quando alla foresta
le nuovissime fronde invola il verno,
ravviluppato nell'intatta vesta
                       verdeggia eterno,

pompa de' colli; ma la sua verzura
gioia non reca all'augellin digiuno;
che' la splendida bacca invan matura
                       non coglie alcuno.

Te, poverella vite, amo, che quando
fiedon le nevi i prossimi arboscelli,
tenera l'altrui duol commiserando
                       sciogli i capelli.


Tu piangi, derelitta, a capo chino
sulla ventosa balza. In chiuso loco
gaio frattanto il vecchierel vicino
                       si asside al foco.

Tien colmo un nappo: il tuo licor gli cade
nel'ondeggiar del cubito sul mento;
poscia floridi paschi ed auree biade
                       sogna contento.


Lapide sul muro della casa dove abitò il poeta