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Giacomo Zanella - POESIE VARIE
Seconda parte


































































L'opera poetica e i temi della poesia di Zanella






un trentennio, dal 1860 al 1887. Con queste date si può fissare il periodo della sua maturità poetica, senza però dimenticare i componimenti anteriori a questo periodo che, anche se sono stati per lo più rifusi o rinnovati del tutto posteriormente al 1860, conservano, nella loro prima stesura, elementi e temi non privi di originalità e anticipatori di motivi che saranno poi sviluppati nelle poesie più tarde.

Il tema di Psiche

« O dell'anima umana, a cui fatale
È sovente del ver la conoscenza,
Immagine gentil, Psiche immortale. »
Del 1847 sono le terzine che hanno per titolo Psiche traduzione libera di un'elegia latina di Carlo Bologna, professore nel seminario vicentino e scrittore di prose e poesie latine. Il tema di Psiche è certamente uno di quei temi di lunga tradizione. Lo predilesse l'arte greca e lo trattò per la prima volta Apuleio. Ne fu attratto l'elegiaco Ippolito Pindemonte, vi si ispirò Canova per una delle sue più belle sculture, a Psiche Prati intitolò una Raccolta di sonetti e al mito di Psiche tornerà anche Pascoli.
Zanella, nel discorso Della filologia classica, dirà: "Presso i Greci è rimasto quel vaghisimo traslato di psiche, farfalla, dato all'anima, che infinita nelle sue brame si gitta avidamente sovra tutti i beni e li sfiora, senza mai trovare quaggiù quell'Uno che possa arrestarla nel leggero ed inquieto suo volo".

Il tema della patria nelle poesie del 1848

Del novembre 1848 abbiamo i versi Ad un amico abile suonatore di pianoforte (l'amico è Fedele Lampertico) che è quanto ci resta di quella poesia patriottica e civile composta prima del 1851, anno in cui, il poeta fu costretto, a causa della perquisizione austriaca, a distruggere tutte quelle poesie che potevano in qualche modo destare i sospetti della polizia. La voce dell'ispirazione patriottica è, senza dubbio, nel poeta, una voce minore. Manca, in questa, quella impetuosità, quella forza che possiamo trovare ad esempio in Carducci di Giambi ed Epodi, ma comunque si possono trovare, senza quindi considerarla del tutto e senza scampo poesia negativa, elementi e temi di notevole interesse. La radice prima dell'amor di Patria di Zanella è da ricercare in quella prima educazione classicistica ricevuta nel Seminario Vicentino; precisamente in quel particolare clima in cui venivano favorevolmente accolte le opere di Giordani, di Gioberti, di Mamiani. I versi Ad un amico, maturano proprio in quell'anno 1848, in cui, dopo l'elezione di Pio IX, il Primato del Gioberti andava a ruba, e uomini, come Paolo Mistrorigo, accendevano la gioventù di Vicenza alla guerra contro l'Austria, e Zanella stesso non mancava di tenere, nella Chiesa di S. Caterina, alcune prediche che fremevano di amor di patria. Manca, in questa poesia, furore ed impeto esaltante, e non vi è, in essa, nulla di romantico; tutta una formazione classicistica fa qui la sua prima impegnativa prova a contatto con una realtà nuova e moderna. Nasce la poesia come reazione ad una realtà che sembrava annullare i frutti di tante lotte e di tanti sacrifici e spegnere tante illusioni. Alla realtà il poeta oppone il sogno tentando nei suoi versi un compromesso tra antico e nuovo, pur prevalendo il gusto classico e di nuovo, di romantico veramente, vi è soltanto la materia. Una poetica, dunque, saldamente ancorata ad un gusto e a principi tradizionali, che si apre cautamente ad esperienze nuove.

Il tema della campagna e degli umili nelle prime poesie
Questo compromesso tra antico e nuovo, si delinea negli endecasillabi a Possagno, che sono del 1849, ispirati dalla visita alla patria del Canova. In essi si trova un romanticismo che cerca una misura ideale di equilibrio per costruire il nuovo senza distruggere il vecchio. Il tema della campagna e il tema degli umili, così schiettamente zanelliano, compare per la prima volta in certi versi del 1849 contenuti in una lettera inviata a Fedele Lampertico.
« Grossa, sonante qualche goccia cala;
la colombella si pulisce l'ala
Sui fumaioli e l'anitrella gaia
Impazza starnazzando in mezzo all'aia
Giocondo, il montanaro in sulla porta
Fassi del suo tugurio e si conforta
Rimirando la pioggia che a torrenti
Allegra i boschi e fa fuggir gli armenti. »
Si tratta di un quadretto di estrema semplicità, ma nello stesso tempo di un impressionismo veramente notevole. La colombella e l'anitrella, con quel diminutivo che rende l'immagine più scivolata, si muovono in quell'atmosfera gioiosa creata dal cadere della pioggia in una calda giornata di agosto, con un'immediata evidenza. Il tema della campagna e dell'umile gente sarà ripresa in una poesia del 1851 Per un mio amico parroco nella quale si avverte un ritmo pacato che contribuisce al formarsi di un concreto ambiente poetico, in cui vivono i parchi coloni e i semplici pastori distribuiti lungo quelle strade di campagna che profumano di fiori, in un giorno di festa fra i dolci richiami delle campagne. Lo Zanella dell'Astichello è già tutto qui, in questa capacità di cantare un mondo costituzionalmente religioso, un mondo di povera gente, ma ricco di fede e di speranza.

Il tema della patria nelle poesie dal 1867 al 1870
Gli anni dell'"????" poetica del vicentino coincidono con l'unificazione d'Italia e con i difficili inizi della vita del nuovo Stato ed è esaminando le sue poesie patriottiche che veniamo a conoscenza di uno Zanella ben vivo nel suo tempo, partecipe delle passioni delle generazioni risorgimentali.
Nell'ode A Camillo Cavour (1867) il tema della Patria ritorna con particolare desiderio d'impegno, ma, anche questa poesia, così come per le prime di carattere patriottico, manca di calore, ed è priva, ad una attenta analisi, di qualunque nota degna di rilievo. Così in una poesia del 1868 intitolata Madre un'altra volta, si sente qualcosa di forzato e di voluto più che di sentito e sofferto. Forse è vero che Zanella fa troppo spesso, in questi versi, dell'oratoria, ma certo è che anche l'eloquenza, se è sostanziata da amore e pensiero, ha una sua validità. Zanella credeva nella missione divina di Roma e sperava che l'Italia ritrovasse l'unità e la potenza antica. Più originale La guerra nel settembre 1870, in cui non si trovano più i temi della letteratura risorgimentale, ma un cristiano, anche se languido, senso della tragicità della guerra. Tale nuovo sentire è permeato da una vaga humanitas virgiliana e a rendere belli questi versi, forse non poeticamente perfetti, è un alto sentimento umano, un accoramento sincero, una partecipazione commossa al destino delle genti che soffrono. In un'altra poesia, La battaglia di Monte Berico, il poeta rievoca tutti i Vicentini, dai giovani alle canute fronti, che avevano combattuto valorosamente e che avevano preferito andare in esilio piuttosto che sottostare un'altra volta allo straniero e qui, la voce che canta la Patria, è espressione di sincero sentire. Pertanto, se non si trova in questa poesia patriottica, l'impeto di un Carducci, troviamo altri elementi validi e grandi. Quel vedere una virtù di rinnovamento nelle stirpi umane, quella fede nella rinascita dell'Italia, è quello stesso sentire che gli fa cogliere una potenza vitale in tutto il cosmo, quel sentimento altissimo da cui nasce tutta la poesia.

Il tema degli umili nelle poesie più tarde
Zanella celebra ed esalta, nei suoi versi, una umanità oscura, umile e laboriosa che con la fatica, con la lotta, col lavoro sano ed onesto si procura il pane per vivere. Si potrebbe pensare, per questa socialità che aleggia nelle sue poesie, a certe derivazioni pariniane, ma il realismo sociale di Zanella è differente da quello di Parini, e questo perché in Zanella il realismo trova un limite nel suo gusto classicamente educato, che non lo lascia andare al di là del sentimento e gli impedisce di fare di esso, come per il Parini, un problema di stile e di linguaggio. Come già in Possagno, così nella lirica Il lavoro (1865), il poeta canta la potenza e la capacità creativa della fatica umana. Vi è in questi versi, fiducia immensa nel lavoro, fede in Dio che guida la mano dell'uomo, esaltazione gioiosa del lavoro umano contro l'ozio. Nella poesia L'Industria, l'approvazione del poeta va alla diffusione delle macchine, che si sostituiscono all'uomo nelle fatiche più aspre, e che ne affermano indirettamente la dignità. Egli prese a cuore il problema del latifondo che affliggeva l'economia nazionale e lo espresse nella lirica Risposta d'un contadino che emigra. Nel Piccolo calabrese Zanella propose il triste problema dell'inumano commercio che avveniva nelle Calabrie, dei fanciulli condotti all'estero e costretti a mestieri infami.

Il tema della famiglia
Ed è sempre tra gli umili che egli vede realizzato il suo ideale di famiglia, perché ritiene che proprio tra la povera gente si faccia più solido il mondo degli affetti.Nella poesia Due vite egli riesce a cogliere e a fermare, con estrema semplicità, un ambiente dall'atmosfera intima, un momento di vita, creando un delizioso quadretto familiare. In questa lirica il poeta contrappone alla vita d'un uomo che, per gioie meno pure ha sempre rifiutato quelle del matrimonio, la vita di un vecchio contadino che ha lavorato con serena fatica e immensa fede, e che ora si trova, nell'ultima età, contornato da una lieta e numerosa famiglia. Al tema della quiete domestica si ispira un'altra poesia: Il mezzogiorno in campagna (1870), poesia già vicina, e come stile e come contenuto, ai sonetti dell'Astichello. Troviamo infatti quegli elementi e temi fondamentali: l'amore per le creature, la religiosità in tutte le cose, che saranno sviluppati e ripresi in quei versi di esaltazione delle creature e del loro creatore.

Zanella e il positivismo
Come nel campo della letteratura Zanella, partito da una formazione fondamentalmente classica, era giunto poco a poco ad aderire alle tendenze romantiche, così anche sul piano della formazione filosofica, dopo aver subito l'influsso del sensismo, si era rivolto allo spiritualismo, dedicandosi allo studio delle opere di Galuppi, di Rosmini e di Gioberti e aveva chiesto che si desse, contro il positivismo e il determinismo, allora in voga, maggior posto ai valori spirituali.Nella dedica a Fedele Lampertico della prima edizione dei suoi versi, scrisse: "I soggetti che più volentieri ho trattato sono quelli di argomento scientifico, ma non è già l'oggetto della scienza che mi paresse capace di poesia, bensì i sentimenti che dalle scoperte della scienza nascono in noi; per questo non ho mai posto mano ad uno di questi soggetti, che prima non avessi trovato il modo di farvi campeggiare l'uomo e le sue passioni, senza cui la poesia, per ricca che sia d'immagini, è senza vita".Era senza dubbio nei suoi propositi di fare una poesia scientifica, ma Zanella si accorse presto che il sapere scientifico si poneva al livello di un sapere assoluto, e quindi in aperto contrasto con la Fede. Zanella era profondamente cattolico e quando si trattò di portare sul piano pratico quelle idee, così chiaramente espresse in prosa, l'iniziale trasporto venne ad essere frenato e scosso da altre preoccupazioni inevitabili alla sua anima religiosa.Egli si trovava dinanzi al perpetuo problema della sintesi e quindi dei rapporti tra l'umano e il divino, problema che al tempo di Zanella si espresse storicamente con la polemica anticlericale dei positivisti liberali e razionalisti. Nel poemetto Milton e Galileo, del 1868, questo problema viene esposto in termini molto elevati.
Il tema della scienza e della fede
Nella poesia zanelliana il tema della scienza è pertanto necessariamente collegato con il tema della fede. Nei versi Ad un'antica immagine della Madonna, del 1863, il poeta contrappone la fede semplice degli umili alle teorie superbe dei filosofi, che pretendono di abolire la religione sostituendo ad essa le nuove leggi scientifiche. Un'altra protesta contro le nuove teorie del secolo, e, in questo caso, contro il darwinismo, è espressa nella poesia La veglia, ma mentre nella precedente poesia, lo sdegno che si esprime in versi dopo il dolcissimo canto alla fede, non ha note stonate, questo avviene nei versi de La Veglia. Così in Microscopio e Telescopio si trovano lo stesso dolore per la mancanza di fede, per la superbia dell'uomo che crede di sostituire Dio e di svelarne i misteri. Il tema del mondo odierno che, superbo delle sue scoperte, ha dimenticato la fede degli avi, ritorna in altre odi come nella poesia Pel taglio di un bosco o negli endecasillabi Alla Madonna di Monte Berico. Nella poesia L'Imitazione di Cristo, il problema del rapporto umano-divino viene risolto riducendo al minimo il termine umano. Il sentimento religioso è qui cantato con perfetta coerenza. Eppure Zanella pur esprimendo in molte poesie il suo disprezzo per certe dottrine che sembrano distruggere i fondamenti dell'antico sapere, come il materialismo (in una poesia intitolata Sopra certi sistemi di filologia, composta nel 1877), ammirava certe opere del progresso, come ad esempio nella poesia Il taglio dell'Istmo di Suez. Zanella fu dunque certamente suggestionato dalle conquiste della scienza, ma egli non cercò di sciogliere i problemi allora dibattuti cercando di trovare qualche nuova e valida sintesi di natura filosofica e teologica. Zanella aveva in sé troppo saldi i motivi dell'ortodossia cattolica perché si lasciasse suggestionare, in senso eterodosso, dagli splendori delle scienze e delle filosofie. Dobbiamo rilevare inoltre, che vi fu in Zanella un forte contrasto tra il momento ideologico e il momento poetico. Questo perché in prosa poteva esprimere chiaramente le sue idee che nascevano dal sentimento e dalla fede, ma in poesia il sentimento e la fantasia non riuscivano ad essere contenute, e veniva così a mancare il necessario equilibrio per poter scrivere vere poesie di scienza.

Il tema del cosmo
Ma uno degli aspetti più interessanti e più nuovi della poesia zanelliana, non sta certamente nella poesia che s'ispira alla storia, o alla natura o alla scienza, ma in quella particolare poesia astrale che ha per tema il cosmo. Già tra le prime poesie di Zanella si avverte, in alcuni versi inediti è[7] del 1858, questo tema, assai nuovo per quei tempi. Ed è senza dubbio singolare l'apparizione in questi versi del motivo che prelude ad esperienze di poeti moderni, in un periodo in cui il poeta sembrava ancora strettamente legato al passato. Eppure è indubbio che in questi versi appare per la prima volta un cielo, che non è quello della tradizione classica, ma un cielo già scientifico:
« Nonna che dici? Io mi credea che i milli
Che mi additi lassù, punti lucenti,
Non fossero pianeti e soli ardenti,
Rotanti nimbi ed iridi tranquille.
Io fori li credea, donde faville
Sprizzan quaggiù dai fulgidi torrenti,
Che di dentro fan belli i firmamenti;
Perché levansi a Dio nostre pupille. »


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
L' AMORE MATERNO.

ALLA CONTESSA OLIMPIA COLLEONI-LAMPERTICO DI VICENZA.

Volgon due soli ch' io sciogliea fidente
A te l'augurio di miglior fortuna.
Ecco nel dolce nido, ove piangente
Sedesti appiè d' una deserta cuna,

Ecco due biondi pargoli vezzosi,
Che ambo i padri han nell'atto e nella faccia,
Che vispi ti sorridono, e festosi
Al materno tuo sen stendon le braccia.

Avventurati pargoli! Né sanno,
Ancor non sanno di che immenso affetto
Tu palpiti per essi, e quanto affanno
A un lor vagito ti conturbi il petto!

Nell'aurea luce di notturne stanze
Veglian le tue compagne in lieti crocchi;
di protratte musiche e di danze
Fanno agli orecchi allettamento e agli occhi.

Tu di una muta lampada al barlume
Presso i pargoli tuoi siedi le notti:
E t' è dolce per lor lasciar le piume,
Dolci i lievi per lor sonni interrotti.

Nel tuo talamo appar della Divina
Madre un' immago benedetta e pia;
E lì con ansio cor sera e mattina
Sollevi i verecondi occhi a Maria,


Pregando Lei che del virgineo velo
Covrir si piaccia i piccioli tuoi figli;
E sulla cuna che li accoglie, il Cielo
Mandi gli angeli suoi, piova i suoi gigli.

Crescete, o fanciulletti! Il mar v' attende,
Dubbio mar della vita. In pace è l'onda;
Limpido sull'aurora il ciel risplende,
E le vele vi gonfia aura seconda.

Da lungi alzasi un canto e lo ripete
Di lido in lido Paura innamorata:
« voi, che l'onda a navigar prendete
Che senza pianto non fu mai varcata,

Seguitate il mio suon che vi conduce
Di mezzo a scogli e insidiose arene,
Ove un ciel ride di purpurea luce,
Ove si stringe, non si sogna, il bene.»

cara voce del materno amore,
A lievi giovanili anni conforto!
Che ognor t' intenda, ognor ti segua il core.
Fin che le vele sian raccolte in porto.

AD UN'ANTICA IMMAGINE DELLA MADONNA.
Oh, se quel dolce labbro, che d' amore
Pur sorridendo parla, si schiudesse;
Se ciò, che ascose in core
Per tanto tempo, quella Pia dicesse;

Quante tacite pene e quanti voti
Non d' altri al mondo, che da Lei, compresi,
Quanti conflitti ignoti

E segreti martir sarian palesi!

L'umile paesel non ha dolori
Che non ricorra alla chiesuola antica,
E da te grazia implori,
non mai tarda degli afflitti amica.

Lì sgomentata, l'abito negletto,
Vien giovin madre che per pochi istanti
All'egro pargoletto
Il conforto rapì de' suoi sembianti.

Pel suo fedel sepolto e pe' garzoni
Lontan lontano militanti accende
Povera cera, e doni
Di pochi fior la vedovella appende,

Che conta i giorni e piagne. Oh, se non vista
La sua lagrima cade, e profumato
Lin non la bee, men trista
Anco sgorga dal cor racconsolato.

Miti ha gli affanni il povero che crede
Né per andar di tempi e di fortuna
Si pente della fede,
Che da' canti materni apprese in cuna.

Dal fior della scienza amaro tosco
Sugge l'audace secolo: più tenta
I chiusi abissi e fosco
Più lo raggira il dubbio e lo tormenta.

Stretti nel pugno i conquistati veri
Sale superbo incontro al cielo: immensa
Luce è ne' suoi pensieri.
Ma la notte del cor si fa più densa.


Per tutto investigar di tutto incerto
Ciò che si creda e che si speri ignora.
co' tuoi sogni esperto
La febbre ad irritar che ti divora,

Povero ingegno uman, di tanti voli,
Onde il mondo abbracciasti e pellegrino
Oltre i lontani soli
Ferver sentisti l'alito divino,

Degno frutto ti par questa sparuta
Di vil lucro maestra e di sozzura
Filosofia che muta
L' anima in fango e l'avvenir ti fura?

Ahi, dal dì che lo scettro in sua man tolto,
"Più non v' ha Dio," L'uom disse e re si assise
Dell' universo, il volto
Scolorato abbassò né più sorrise.

Spento il sereno fior della speranza
Che rimena la stanca anima a Dio,
Quello che al mondo avanza
È notte sconsolata e freddo obblio.

SOPRA UNA CONCHIGLIA FOSSILE NEL MIO STUDIO.
Sul chiuso quaderno
di vati famosi,
dal musco materno
lontana riposi,
riposi marmorea
dell’onde già figlia,
ritorta conchiglia.


Occulta nel fondo
d'un antro marino,
del giovane mondo
vedesti il mattino;
vagavi co’ nautili,
co’ murici a schiera,
e l’uomo non era.

Per quanta vicenda
di lente stagioni,
arcana leggenda
d’immani tenzoni
impresse volubile
nel niveo tuo dorso
de’ secoli il corso!

Noi siamo di ieri:
de l’Indo pur ora
su i taciti imperi
splendeva l’aurora;
pur ora del Tevere
a’ lidi tendea
la vela di Enea.

E’ fresca la polve
Che il fasto caduto
de' Cesari involve.
Si crede canuto,
appena a l’Artefice
uscito di mano,
il genere umano!

Tu, prima che desta
a l’aure feconde,
Italia la testa

levasse da l’onde,
tu, suora de’ polipi,
de’ rosei coralli
pascevi le valli.

Riflesso nel seno
de' ceruli piani,
ardeva il baleno
di cento vulcani:
le dighe squarciavano
di pelaghi ignoti
rubesti tremoti.

Ne l’imo de’ laghi
le palme sepolte,
nel sasso de’ draghi
le spire rinvolte,
e l’orme ne parlano
de’ profughi cigni
su gli ardui macigni.

Pur baldo di speme
l'uom, ultimo giunto,
le ceneri preme
d’un mondo defunto:
incalza di secoli
non anco maturi
i fulgidi augùri.

Poi, quando disceso
Su i mari redenti,
lo Spirito atteso
ripurghi le genti,
e splenda de’ liberi
un solo vessillo

sul mondo tranquillo:

compiute le sorti,
allora de’ cieli
ne’ lucidi porti
la terra si celi:
attenda su l’àncora
il cenno divino
per nuovo cammino.

ALLA CONTESSA GIUSEPPINA LAMPERTICO-VALMARANA DI VICENZA
NEL SUO GIORNO ONOMASTICO
19 Marzo 1860.

Quando ti miro della tua famiglia
Seder nel paradiso e de' tuoi cari

Fissando in volto l'amorose ciglia
Divinarne i pensier dolci od amari;

Quando ti miro a' bei lavori intenta,
D' una lampa al chiaror, con un sorriso

Costante sulle labbra e la contenta
Anima tutta sfavillarti in viso;

Donna, il tuo cor ben leggo. A te soave
L'inno non fora, che chiedesse al cielo

Per te le perle che britanna nave
Porta a fregiar delle regine il velo:

ti desse a regnar l'avventurose
Isole, dove un dì fate e sirene


Visser tra grotte di smeraldo ascose
E fiumi che volgean d' oro l'arene.

Altri sono i tuoi voti. Innamorata
De' lari tuoi, qual tortora che asconde

Sotto le piume i pargoletti e guata
Tremante, se stormir oda una fronde,

Tu vivi per altrui: lieta, se miri
Giulivo il tuo drappello al desco accolto:

Di cordoglio atteggiata e di sospiri,
Se sieda il duol di que' diletti in volto.

Vita arcana d' amor, profondo foco
Che ti divampa nell'ingenuo core.

Di sante gioie consolando il loco.
Ove hai regno, o gentil, regno d' amore.

Cotal arde bruciando e si consuma
L' incenso; ma d'eterea fragranza

Un nembo, che le quete aure profuma,
Di vortici beati empie la stanza.

Vivi pe' tuoi! Come fulgor di sole
Da molti specchi ripercosso intorno,

L' amor tuo dallo sposo e dalla prole.
Doppiando i raggi, a te farà ritorno;

Tal che di blanda luce circonfusa,
Vittrice dell' età, che discolora

Crespo sembiante di beltà delusa.
Tu vaga splenderai d' eterna aurora.
ALLA STESSA
NEL SUO GIORNO ONOMASTICO
19 Marzo 1861.
Ella (*) non viene. Il biondo capo adorno
D' eterni fiori nell' eterna reggia,
Agli angioli confusa ella festeggia
Il tuo bel giorno;

Ma que' suoi dolci pargoli ti manda
Co' novi augùri in sul mattin. Per l'ore
Vissute insieme al tuo materno amore
Li raccomanda,

E dice: mia diletta, a' tuoi confondi
I figli miei. De' tuoi baci e sorrisi,
Ignari che da me vivon divisi,
Vivan giocondi.

Se buoni cresceranno, io del mio corto
Fugace giorno non dorrommi. Oh quanto
Da qua' gentili al mio Fedel nel pianto
Verrà conforto!

La madre tua, che fu pur mia, tu mite
Figlia sostenta. A sua giornata Iddio
Gli anni aggiunga che tolse al viver mio,
Viva due vite.

a me più che sorella e a' figli miei
Madre seconda! Agl' innocenti il riso
Chi rende? Chi al lor padre asciuga il viso.
Se tu non sei?

(*)La cognata Olimpia Colleoni-Lampertico, morta nel febbraio dello stesso anno, lasciando tre bambini all'inconsolabile sposo Fedele Lampertico.
LA VEGLIA.
Rugge notturno il vento
Fra l'ardue spire del camino e cala
Del tizzo semispento
L' ultima fiamma ad agitar coll' ala.

La tremebonda vampa
In fantastica danza i fluttuanti
Sedili aggira e stampa
Sull'opposta parete ombre giganti.

Tacito io siedo; e quale
Nel buio fondo di muscosa roccia
Lenta, sonante, eguale
Batte sul cavo porfido una goccia;

Tal con assiduo suono
Dall' oscillante pendolo il minuto
Scendere ascolto, e prono
Nell'abisso del tempo andar perduto.

Più liete voci in questa
Stanza fanciullo udia, quando nel verno
Erami immensa festa
Cinger cogli altri il focolar paterno.

Morte per sempre ha chiusi
Gli amati labbri. Ma tu già non taci,
Bronzo fedel, che accusi
Col tuo squillo immortal l'ore fugaci,

E notte e dì rammenti,
Che se al sonno mal vigili la testa
Inchinano i viventi,
L' universo non dorme e non si arresta.


Che son? che fui? Pel clivo
Della vita discendo, e parmi un' ora
Che garzoncel furtivo
Correa sui monti a prevenir l'aurora.

Giovani ancor del bosco,
Nato con me, verdeggiano le chiome;
Ma più non riconosco
Di me, cangiata larva, altro che il nome.

Precipitoso io varco
Di lustro in lustro: della vecchia creta
Da sé scotendo il carco
Lo spirto avido anela alla sua mèta.

Non io, non io, se l'alma
Da' suoi nodi si sferra e si sublima,
Lamenterò la salma
Che sente degl' infesti anni la lima.

Indocile sospira
A più perfetta vita, e senza posa
Sale per lunga spira
Al suo merigge ogni creata cosa.

In fior si volge il germe,
In frutto il fiore: dalla cava pianta
Esce ronzando il verme
Che april di vellutate iridi ammanta.

Non quale la rischiari
Da' tuoi remoti padiglioni, o sole,
Era di terre e mari
Opaca un dì questa rotante mole;


Ma di disciolte lave
E di zolfi rovente e di metalli,
Come infocata nave,
L' erta ascendeva de' celesti calli.

Furo i graniti, e furo
I regni delle felci: a mano a mano
II seggio più sicuro
Fero gli spenti mostri al seme umano.

Strugge le sue fatiche
Non mai paga natura, e dal profondo
Di sue ruine antiche
Volve indefessa a dì più belli il mondo.

Cadrò: ma con le chiavi
D'un avvenir meraviglioso. Il nulla
A più veggenti savi:
Io nella tomba troverò la culla.

Co' pesci in mar ricetto
Già non ebbero i miei progenitori;
Né preser d' uomo aspetto
Per le foche passando e pe' castori.

Per dotte vie non corsi
Le belve ad abbracciar come sorelle;
Ma co' fanciulli io scorsi
Una patria superba oltre le stelle.

Or dall' ambite cene
De' congeneri uranghi il pie torcendo,
Io verso le serene
Plaghe dell'alba la montagna ascendo.


Odo presaghi suoni
Trascorrere pel ciel: dall' oriente
Divine visioni
Fannosi incontro all' infiammata mente,

Più dolci della brezza
Fragrante, che dall' ultimo orizzonte
Di virginal carezza
A Colombo blandia la scarna fronte.

di futuri elisi
Intimi lampi e desideri immensi,
Dal secolo derisi
Che a moribondo nume arde gl'incensi,

Chiudetevi nel canto
Del solingo poeta, e men doglioso
Fate a' congiunti il pianto
Che il sasso scalderà del suo riposo.

IL TAGLIO DELL' ISTMO DI SUEZ.
Nella terra del sol, donde fanciulla
Uscia l'umana schiatta a' lunghi esigli,
Tornan giganti a riveder la culla
Gli sparsi figli:

Tornano di arti e di scienze adulti
A' favolosi regni, ove pe' fiumi,
D' azzurro fior nella corolla occulti
Scendono i numi.

Batte alle porte de' sopiti imperi
Mattutina l'Europa: il desto Egitto
Per l'alte sabbie agevole a' nocchieri
Apre tragitto.


Un' altra volta Iddio sull' Eritreo
Guida i popoli suoi; non come quando,
Sceso ne' flutti, il fuggitivo Ebreo
Scampò dal brando;

Ma sulle prue pacifiche seduto
Che ghirlandate d' innocenti allori
Portano all' opulento Indo tributo
D' arti migliori.

sepolto in tue caste e del tuo rito
Popol tenace, che ad antiqui mostri
Giganteggianti in eterno granito
Muto ti prostri,

Teco noi fummo una famiglia. Erranti
Appiè dell' Imalaia l'idioma
Teco parlammo, che passò ne' canti
D' Atene e Roma.

Poi col sol divisando il nostro calle
Noi partimmo le tende. Al mezzogiorno
Tu scendesti, e d' òr lieta immensa valle
Fu tuo soggiorno.

Fiero scendesti; e di lioni alati
E d' elefanti, eroico pellegrino,
I porfidi lasciasti effigiati
Nel tuo cammino.

Ma di molli riposi il clima amico,
Le olenti selve e la spontanea mèsse
Franser tua possa: all' ardimento antico
Ozio successe.


Noi futuri del mondo agitatori
All'occaso movemmo. Il cielo avverso,
E sterile il terren, se di sudori
Pria non asperso,

Destar l'insita fiamma. Alla natura
Noi contendemmo il pauroso regno ;
E bello di costanza e di sventura
Fulse l'ingegno.

Austera dea, necessità le menti
Di vero in ver per ardua via sospinse:
Co' facili commerci in un le genti
Il mare avvinse.

Sursero imperi e disparir: coverse
Barbara notte i rai d' ogni dottrina ;
Ma civiltà rifolgorando emerse
Dalla ruina.

Or lieta della Fé, che in un amplesso
I suoi possenti popoli comprende.
Verso il cheto splendor di un dì promesso
Europa ascende.

Vieni a vederla! Assisa in sulle soglie
Dell'oriente e di superbe sorti
Italia consapevole t'accoglie
Entro a' suoi porti.

Fugge dell'Adria il sollevato flutto
Al passar della prora ardimentosa;
E Panel, che celò fido nel lutto,
Rende alla sposa.


Vieni! Dell'aureo Gange i doni apporta
Al severo Occidente, e gli estri antichi
In noi colla gagliarda aura conforta
Del tuo Valmichi.

Noi di compasso armati e di quadrante
A' tuoi lidi verremo; e fia l'oltraggio
Ulto del vero e le catene infrante
Del tuo servaggio,

Quando sotto le palme e fra gli amomi
Noi moveremo insieme ed alla folta
Ombra odorata insegneremo i nomi
D' Humboldt e Volta.

LA RELIGIONE MATERNA.

Dall' oriente ascoso
Entro notturne bende
Per calle avventuroso
Un pellegrino ascende,
A cui fedel lucerna
Die nel partir la carità materna.

È l'orizzonte oscuro,
Incognito il cammino:
Pur a que' rai securo
Ascende il pellegrino
Verso la patria ignota,
Che scorge in fondo all'avvenir remota.

Ma candido barlume
Già rompe in ciel: vacilla
E si scolora il lume
Dubbioso alla pupilla

Del viator, che a stento
Anco il ricopre colla man dal vento.

Più del cammino acquista,
E più nel sol che nasce
L'avvalorata vista
Maravigliando ei pasce;
Già l'umil lampa obblia,
Al cui santo splendor prese la via.

Sul mezzodì procede,
E nel chiarore immenso
Spenta la lampa ei crede.
Perchè velata al senso.
Folle credenza! Eterno
Vive il ricordo dell'amor materno.

Al termin del sentiero
Sale a ponente un monte.
Il sol declina: in nero
Si tinge l'orizzonte.
A tremolar distinta
Torna la fiamma ch' ei credeva estinta.

Torna il bel raggio, e torna
Lontana ricordanza
D'una chiesuola adorna,
D' una solinga stanza.
Ove materna fede
La lampa accese che al partir gli diede.

Sereno avanza il passo
Per l'aria tenebrosa,
Finché su breve sasso
Stanco la lampa ei posa;

Posa attendendo il messo,
Che lo rinnovi nel materno amplesso.

TIMOSSENA.

IDILLIO.

I.

Fra l'ombre degli eroi teco a severi
Colloqui assise e le recenti grazie
Di carissima donna aurei, Plutarco,
Correvano i tuoi dì. Nelle gioconde
Piagge di Cheronea teco cresciuta
La bella Timossena dalie e rose
Avvolgeva al tuo crin grave di lauri
Apollinei. Ridendo il capo alzavi
Dalle pagine tue, quando furtiva,
Il pie sospeso e l'indice sul labbro.
Quella gentil nelle tue stanze entrava,
Pari a luna nel bosco. E la tua tazza.
Traboccante di mèl, di assenzio infusa
Mai non avrebbe Amor, se di litigi
In dolorosi labirinti avvolto
Di Timossena non t' avesse il padre,
Segreti odi spargendo e di contese
Sollevando gran fiamma. In due divisa,
Figlia ancor vereconda e sposa amante,
Gemea la donna e paurosa il guardo
A quelle fronti ergea rannuvolate,
Qual se guizzante vi scorgesse il fulmine
Di ruine foriero. A tarda notte
Mai prima non udì rieder lo sposo,
Che nuda il piede com' era e disciolta

Le bellissime trecce ad incontrarlo
Non accorresse e di domande e baci
L' assalisse. Tremava or del ritorno.
Come d'ospite ignoto il passo udisse
Ascendere le scale. Invan dal core
Provossi cancellar le ricordanze
De' suoi giorni infantili e di altro sangue
Credersi nata e d' altra casa uscita;
Che corrugata la paterna immago
Risorgeva ne' sogni a rinfacciarle
Un codardo pensier. Sola sedea;
E di nascoso pianto gli origlieri
Inondava del talamo. Una notte
Piangendo si addormì. Le parve in sogno
Un gran monte veder; a' fianchi attorta
Serpeggiava una via di lauri ombrata
E di candidi marmi. A lei del monte
Prender pareva la salita ansando
E trafelando al cominciar; ma lieve.
Come se un' aura la levasse a volo,
Sentia farsi il cammin, quanto dell' erta
Più guadagnava; e dileguar l'affanno
E serenarsi il cor, tosto che un' ara
Agli occhi le s'offria fra i mirti ascosa,
E coll'arco alle spalle il simulacro
Dell' immortale Amor. Destossi all' alba,
E fra mesta e fidente appresentossi
Allo sposo : «Se mai stilla di dolce
Da me, Plutarco, avesti e non del core
Tutta uscita ti son, questa preghiera
Mi adempì, gli dicea, che un Dio m'ispira.
Provvido, immenso, onnipossente Iddio,
Cui Siam cari ambedue. Sull' Elicona

Non è sol delle Muse il santo albergo
E la reggia d' Apollo: anco all' Amore
Vi sorge un'ara, a cui venir son use
Le tebane fanciulle e di colombe
Vittime offrir, se nel garzon diletto
Veggon per caso intiepidir la fiamma
Che altra volta lo ardea. Fedele amica
Sovente mi narrò, che coll'aita
Graziosa del nume il cor riebbe
Dell' amante; e di spose e di mariti
Dopo lunga tenzon pacificati
Corron storie mirabili. Domani
Moviam colà: si adunino i parenti
E gli amici con noi. Voglio di Amore
Porger sull' ara anch' io mie libagioni
Per salute del cor, che sanguinante
Porto in sen da più lune, e ben tu '1 vedi.»
Della donna sull' omero la destra
Posò Plutarco intenerito, e gli occhi
Pregni di pianto in lei fissando, il giuro
Le rinnovò del non cangiato affetto
Per cangiarsi di tempi. «E se ti amai.
Soggiungeva, dal dì che sul mio seno
Reclinasti il bel capo, e di tua vita
Mi affidasti il governo; e se potesse
Crescere l'amor mio, ben più diletta
Or saresti al mio cor, pur come gemma
Tratta dal fondo di turbati mari.
Che più cara risplende. I dubbi acqueta,
mia soave desolata: intero
Il tuo regno rimane. E nondimeno.
Se ti piace così, se tanto speri
Nella possa d' Amor, domani all' alba

Andiam sull' Elicona; e gli aurei nodi,
Ch' ira di parti rallentar non vale,
Novamente pregato Amor confermi.»

II

Di mattutina nebbia ancor velate
Le falde eran del monte, e non veduto
Già le sue cime illuminava il sole.
Con lungo mormorio di giogo in giogo,
Di vallone in vallon sciogliea le chiome
La divina foresta a ber la pioggia
Del vitale splendor. Lenta saliva
La bella compagnia per torto calle.
Ora al sol discoverta ed or nascosa
Dietro i fianchi del monte. Il lungo velo
Di Timossena fluttuando addietro
Si portavano l'aure. In volto impresso
Ella del core lo scompiglio avea.
Pur quella festa del creato: i fiori
Di rugiada stillanti: l'usignuolo
Ch' impaurito abbandonava il nido
Al suo passar: di Copa il lago a manca,
Il Parnaso a diritta: e trasvolante.
Con teso collo, altissima ne' cieli
La gru smarrita che le sue compagne
Sull'Emo iva a trovar: cotanto riso
Della terra e del ciel di muta gioia
Colpian la pellegrina. A lei Plutarco
Di Ascra il fonte additava e sculto in bronzo
Il poeta de' Giorni, a cui le pecchie
Ancor sul labbro deponeano il mèle.
Poi di Lino il sembiante e di Tamiri,
All'arpa infranta e alle pupille spente

Raffigurava; e proseguia narrando
Vetustissime età, come di Tracia
Scesi i primi cantori all' Elicona
Venner raminghi, ed al virgineo coro
Il laureto sacraro e le fontane
Ignote ancora. «Di qua mosse il canto
Che simile, dicea, d' eolia lira
A lontano concento, o come quando
A poco a poco il mar s' increspa e bolle
Con crescente romor, pe' continenti
D' Eliade immenso si diffuse, e l'inno
Omerico destò sull' altro lato
Dell' Ellesponto.» Tal parlava; ed ecco
Al piegar della via l'antro di Apollo,
E coll'oliera al crin Bacco e Sileno
Barcollante nel marmo. All'antro appesi
Eran timpani e trombe; e sulla soglia
Quinci Pindaro e quindi il coronato
Di asiatiche rose Anacreonte,
A cui sull' arpa con calati vanni
Dormiva una colomba. Immoto il guardo
L'ansia donzella vi tenea; ma l'alma
Le vagava pel bosco. E già de' lauri
Vedea fra l'ombre biancheggiar nell'alto
Il tempio delle Dee: già d' Aganippe
L' onda diffusa udia romoreggiante
Scendere a valle. Alla gentile un gelo
Or le vene stringea, come al cospetto
Di paventata deità. Si avanza
Ove un boschetto di mortelle adombra,
E vede la sognata ara ed Amore
Stante coll'arco e la farètra. Il volto
Si cangiò della donna: al pie le scese

In dilatata maestà la veste,
E parve maggior farsi e più che umano
Della sua voce il suon. Pose l' incenso
Appiè del nume: si scostar gli astanti
In tacita corona. Or mentre l'aura
Rapia stridendo le odorate nubi
Che ricadean bianchissime sul bosco,
Ella, infocata i rai, sparsa le chiome,
E le labbra tremanti, «di natura
Primo sire, sclamava, o delle cose
Possente innovator, cui l'ansie madri
Del casto bacio della figlia orbate
Adorano piangendo, odimi, Amore,
Poiché sacra ti son. Non io t' invoco
Quale sull'are di Corinto infami
Discinta la venal sacerdotessa
Forsennata t' implora. Eterea possa
Che l' universo trasformando avvivi,
Te chiamo, inclito Dio, che l'ali d' oro
Sovra l'orme del tempo affaticando
Le mine fecondi, e nelle sciolte
Ceneri allumi l' immortal tua lampa.
Perocché, quanto vive, inesorata
Discolora vecchiezza e morte atterra
Con lenta pugna. E non pur erbe e piante,
Ma lo stesso del sol splendido cerchio
A poco a poco con assidua lima
Logora il tempo. E già voto deserto
Forano i campi, senza frondi il bosco
E senza canto, se le vecchie stirpi
Non ricreassi, Amor, co' destinati
Connubi; e dopo il verno alle campagne
Non rimenassi co' fecondi nembi

L' alba di primavera. Al moribondo
Calice delle rose il germe involi,
Che i vedovati cespiti rinfiora;
E colla piuma, che cadea dal fianco
Dell' annosa cicogna, il chiuso nido
Al tremebondo cicognin riscaldi.
Voli fra gli astri; e de' pianeti estinti
Ventilando la polve a' giovanetti
Soli prepari le purpuree cune.
Come rotante turbine procedi
Novi lacci stringendo e lacci antichi
Rallentando; è la sera alle tue spalle;
E l'astro del mattin le chiome accende
Nella tua lampa. Ecco io ti seguo, Amore,
Alleggerita de' vetusti nodi;
E le sante tue leggi, a cui s' inchina
Tutto il creato, lietamente adoro.»
Tacque la donna. All' ispirato accento
Stupir gli astanti: ma d'un vecchio lauro.
Che sull'altare protendea le fronde.
Poggiato al tronco in dolcissimo pianto
Segretamente si sciogliea Plutarco.

NELLE NOZZE DI UN AMICO DOTTORE.
Due sole rose, tu dicevi, in questa
Misera valle io colsi: una il mio core
Beava il giorno che quiete onesta
Successe al lungo giovanil sudore.

L'altra il giorno che salse alla mia testa
Il ramoscel di dotte fronti onore;
Queste due rose io colsi; e non mi resta
Da sperar sulla terra un altro fiore.


Sorrise il cielo che i pensieri umani
Volar non lascia, e con opposto effetto
Par che goda mostrar come sian vani;

E questa leggiadrissima donzella
Ti trasse a fianco, che contro il tuo detto
D' eterne rose la tua vita abbella.

LE NUOVE GENERAZIONI.
ALLA SIGNORA ANGELA LAMPERTICO.

Grigia d'un dì nevoso
Per le vetrate tralucea l'aurora;
E de' servi il drappel silenzioso
Salia le scale della tua dimora.

In altra stanza i panni
Gaie le perle nascondean le ancelle:
Tu solitaria di compressi affanni
Volgevi in cor terribili procelle.

Al suol, sovra tappeto
Vario di belve e d'intrecciate fronde,
A' piedi tuoi ruzzolavano in lieto
Clamor tre bimbi dalle teste bionde;

Né sapean che portata
A freddo avean ricovero lontano
La dolce madre; e che di là chiamata
L'avrian col grido e coi singulti invano.

Donna, per te la ruota
Degli anni addietro si rivolge: accanto
Di tre cune ti porta e sulla gota
Piover ti fa di tre bambini il pianto.


Non lungi ornai la mèta
Vedevi biancheggiar di tua carriera;
A sommo l'arco riposavi; e queta
D'ombre e di lume ti avvolgea la sera.

Di un operoso giorno
Le memorie eran teco; e sul tuo figlio
Già di civico lauro i crini adorno
Muto volgevi e gloriante il ciglio.

Donna, discendi al fondo
Altra fiata: gli orfanelli prendi
Sovra il tuo seno, e col gravoso pondo
L'erto dirupo un'altra volta ascendi.

Crescan per te gentili,
Crescan pensosi e forti: alle future
Schiatte di noi più sane e più virili
Chiede Italia la fin di sue sventure.

Noi d'obliose paci
Logoro avanzo e di stranier flagello;
Ebbri di fiel; di Giuda avvezzi i baci
A temer nell'amico e nel fratello:

Noi d'improvviso al regno
Surti di tombe a ringoiarne aperte,
Folla larval, tumultuosa, il segno
Seguiam di libertà con orme incerte.

Altri, in sé chiuso, il grido
Della patria non ode ed in tempesta
Veder l'onde desia, purché sul lido
A' naufraghi arraffar possa la vesta;


Altri de' pochi irride
A' magnanimi intenti, e la ferita,
Fatta quasi mortai, che fuma e stride
Sul sen materno, sogghignando addita:

Scorati tutti e servi
Della vana di un giorno aura che i forti
Nella mota travolve e de' protervi
Fida alla man d'un popolo le sorti.

giovinetti, o speme
Di più sincere età, se di leggiadri
Studi e di fatti nobiltà vi preme,
Unico esempio non chiedete a' padri.

Fra 'l bando e la catena
Messi, di notte, con erculeo stento
Noi l'opra alzammo; ma con rotta lena
Or n'accasciamo appiè del monumento.

Voi di alma e forze interi;
Voi non dal dubbio e da' litigi affranti,
A cui l'orrenda servitù di ieri
Spettro già pare che sognaste infanti,

Le pristine ghirlande
Della patria sul crin ricomponete:
A voi la consegniamo armata e grande:
Abbia leggi da voi, gloria e quiete.

Gli avi remoti, oscuro
Popolo di fuggiaschi e di pastori,
Fero assai più, quando, cangiando il duro
Vomer nel brando e ne' cruenti allori.


Tolsero all'umil cuna
Italia pargoletta, e sovra soglio
Olimpico, maggior della fortuna
La locaro col Fato in Campidoglio.

Né tutti figli accolti
Sotto un vessillo, come voi, vedea
Questa gran madre, ma squarciata i molti
Tiranni e le fraterne ire piangea.

Quando Vinegia a' regni
Veleggiava del sole; e le ruine
Di Argo e di Atene sui pisani legni
Veniano a ravvivar l'arti latine.

Italo garzoncello
Sul suo destriere valicava i monti;
E cingean l'elsa del valore al bello
Italo cavalier donzelle e conti.

Inerme, oppressa, il raggio
Di civil costumanza e di dottrina
Italia al mondo accese, e nel servaggio
All'irto vincitor parve regina:

Se libera e robusta
Ella è minor del racquistato impero,
Non gettiamo oltre l'alpi accusa ingiusta,
Ma sia nostro col danno il vitupero.

L'ALCIONE.
Al nocchier dell'Argolide che il fine
D'ingrati ozi saluta e si dispone
Correre i porti dell'egee marine,

Dolce la melanconica canzone
Sciogli, vago augellin, che lungo i lidi,
Già serenati, alla miglior stagione

Sui muschi e le natanti alighe i nidi
Pensili intessi e li accomandi ai mari
Che tante volte hai pur trovati infidi.

Anche appiè del Vesuvio i casolari
Atterrati ricerca e pon le mura
Forse sulle ossa di sepolti cari.

Il villanel che più gagliarda cura
Avvince al suol che nascere lo vide
E più sacro gli ha fatto or la sventura.

Piano, come cristallo, il mar sorride;
E tu sovresso il nido e della spuma
Poco curando che il tuo dorso intride,

Con occhio immoto e con immota piuma
Osservi il pesciolin che l'esil testa
Riscalda al sol che 'il pelaghetto alluma.

Mite Alcione! Te solinga e mesta
Di scogli abitatrice i naviganti
Dissero un giorno: e te della tempesta

Chiamar foriera di Parnaso i canti
Che del nembo ti dier mente divina,
Vedo vil gonna e di un mortale i pianti.



Perocché della florida Trachìna
Presso il maliaco seno e la pendice
Oetea ti cantavano regina

Di porpore e d'immenso oro felice;
Ma che nullo tesor ti fu più caro
Che gli occhi vagheggiar del tuo Ceice.

Ben le ginocchia un dì ti vacillaro,
E tramortita reclinasti il collo,
Quando il tuo sposo navigando a Claro

Per consultar gli oracoli di Apollo,
Al tuo cor si togliea che anco non era
De' primi baci d'imeneo satollo.

Sciro aveva trascorso; e già si annera
Il ciel tutto e fracassa arbori e prora
Di traverso ruggendo la bufera.

Ceice colla gente il mar divora,
Ceice che con labbra moribonde
Alcione, Alcion chiamava ancora.

Son deserte le sale un dì gioconde
D'inni e di danze. De' suoi fati ignara,
Pur accorata Alcione le bionde

Chiome discioglie e di Giunone all'ara
D'inesaudita lagrima cospersi
Doni tributa; e di sua man prepara

Bello di seta e di color diversi
Per le membra dilette un manto adorno,
Per le membra che a' mostri esca già férsi.


Già due fiate rinnovato il corno
Avea la luna, e la dolente a Giuno
Chiedea con raddoppiata ansia il ritorno

Di Ceice che intanto lungo il bruno
Di Lete fiumicel colà movea
Onde si nega che ritorni alcuno.

Allor dello stellato etra la Dea
Commiserando i lai della donzella
Che pianti e preghi inutili spargea

A sé l'alidorata Iride appella
E, Vanne, dice, alla magione ombrosa
Vanne del Sonno, o mia fidata ancella;

E dilli che l'immagine dogliosa
Appresenti del naufrago consorte
A quella abbandonata e non più sposa.

Iride entrò le tenebrose porte.
Al repente fulgor eh' empie la grotta,
De' lievi Sogni fluttua la coorte,

Che riversati, svolazzando in frotta
Senz'altra voce che il fruscio dell'ali,
Fuggon tremando ove ancor l'antro annotta.

Co' papaveri al crin, sovra guanciali
Oscuri più dell'ebano sbadiglia
Il domator de' numi e de' mortali.

Che sollevando le gravose ciglia
E sovra il sen ricadendo col mento,
Tende l'orecchio alla taumanzia figlia.


Tu dormivi, Alcion; ma tratto a stento
Il tuo respir geméa; dall'egro aspetto
Traluceva dell'anima il tormento.

Ed ecco appiè del doloroso letto,
Squallido, ignudo, ma col suo sembiante
Starsi, orribile immago, il tuo diletto.

Di verde acqua la barba avea stillante.
Stillante il crine: il labbro illividito;
Tumida l'epa e tumide le piante.

Or che dirò come correndo al lite
E sovra l'onde galleggiar la spoglia
Mirando dell'esanime marito,

Ella, cieca d'amor, cieca di doglia.
Si perigliava in mar? Come la Diva
Cui di fiori solea cinger la soglia,

L'agil omero di ali le vestiva
E le donava l'amorosa nota
Che fa de' mari risentir la riva?

È pur dolce al Pargolico pilota
Che fra l'isole egee drizza le vele,
Quando sull'alba è la marina immota,

Salutar le costiere, a cui fedele
L'aura dell'Ellesponto ancor ripete
L'ardente inno di Saffo e le querele.

Dolce è pur tòrsi ad un'età che sete
Sol ha di lucro e fredda intende al vero;
E seguir l'ombre dilettose e liete



Che a' spenti lumi sorridean di Omero.

NATURA E SCIENZA.

Come ritrosa vergine t'involi,
Discortese Natura, al guardo umano.

Che pel lento mutar di mille soli
Di cielo in terra t'ha cercata invano.

Con giocondo terror vide talvolta
Balenar dall'abisso il tuo sembiante;

Ma tosto di più nere ombre ravvolta
Scese la notte sul deluso amante.

Ne' meandri di tacite spelonche
Chiusa intanto, al gocciar cheto dell'acque,

Di opaline piramidi e di conche
Gracili vezzi fabbricar ti piacque.

Nitido specchio e virginal collana
Di agate ti polivi e di cristalli,

Che poi vaga e fantastica sultana
Franti gettavi alle sopposte valli.

Troppo scherzasti, improvvida gelosa!
Lo sprezzato cristal l'uomo raccolse,

L'occhio armandone; e te non sospettosa
Dietro la tenda ad osservar si volse.

Or ti appiatta, se sai! Splendido, immoto,
Pari a luna, che subita si scopra


Tra nube e nube al vigile piloto.
Quel grande, infaticato occhio t'è sopra.

che ti posi d'assetata foglia
Entro le celle e con materne dita

Alle provvide stille apra la soglia,
Che l'alba manda a rinverdir la vita;

che nel chiuso calice de' fiori
Segua il cader della feconda polve;

che nutra, o che plasmi, o che colori.
Fiso quell'occhio dietro te si volve.

Innanzi ad esso, come tronco pino,
Giganteggia il capello; e come mare

Limpidissimo al fondo e cristallino,
Co' mille abitator la goccia appare.

Quante in que' flutti immagini di morte!
Quante fughe e vittorie in fiera danza

Dell'universo affacciasi alle porte
Rude la vita e dolorando avanza.

Tutto muore e rinasce. Invan, Natura,
Ne' mutabili aspetti a noi ti celi;

Ti tradisce la larva, e non ti fura
Al nostro sguardo immensità di cieli.

Sali tra mondi e mondi, e non t'avvedi,
Che di una lente armato agli Orioni

Questo atomo pon freno ed in sue sedi
Traduce, ospiti immani, ladi e Trioni.


Dal novissimo ciel la nebulosa
Scopre di soli tremola famiglia,

Quale fiammante del color di rosa,
Qual tinto nel pallor della giunchiglia.

Mille sfere nel rapido viaggio
Lasciossi addietro, e son mille anni e mille

Che piove pel silente etere il raggio
Pur or giunto dell'uomo alle pupille.

Di lassù che ne porti, o messaggero,
Per tanta via? Se di metalli infusi

In bollente oceàn parli al pensiero,
E dell'astro natio la tempra accusi ;

Se per l'alto universo intatta via
A voi dischiudi dell'umano ingegno,

Fuggon forse le tenebre di pria,
E palese di Dio splende il disegno?

Tante luci che fan? Che fanno i mondi
Che, come faro d'ignorati porti,

Ora scemano fiochi e moribondi,
Or con vividi incendi ardon risorti?

Donde e quando si mosse? A quali prode
Veleggia l'universo? Alme viventi

Albergano lassù? Liete di lode
All'eterno Valor sciolgon concerti?

Muore la lampa, e scuro un vel si abbassa
Sullo sguardo dell'uom, che sbigottito


Scorge per entro l'ombra Iddio che passa
Novi soli a librar nell'Infinito.

VENEZIA A DANIELE MANIN NEL 1866.

Non dirmi infida, se allegra in dito
Porto l'anello d'altro marito:
Con altro giuro ti son fedele,

Daniele.

Vedova piansi, piansi i miei figli,
Piansi i flagelli, piansi gli esigli;
Vuoti i miei porti, frante le vele,

Daniele.

Voller da' sassi rader la storia;
Pegni immortali della mia gloria,
Voller rapirmi volumi e tele,

Daniele.

Sovra le tombe d'Emo e Pisani
A risvegliarli battei le mani;
E non udirò le mie querele,

Daniele.

Dall'occidente venne un Guerriero;
Era la Croce sul suo cimiero;
Era il suo nome l'Emmanuele,

Damele.


De' nostri figli pietà lo prese;
L'elmo levossi, sposa mi chiese,
Cangiommi in festa l'ore di fiele,

Daniele.

Del Canal grande libero è 'l varco;
Il mio leone veglia in San Marco;
Plaudono i morti da San Michele,

Daniele.

Ancor de' dogi siedo sul trono.
Come il mio mare libera io sono;
Sposa a Vittorio ti son fedele,

Daniele.

A CAMMILLO CAVOUR NEL 1867.

Nell'ora del nembo e del periglio
Sempre invocato, che più grande appari
Quanto più gonfi il trepido naviglio
Battono i mari;

Chiuse son l'Alpi allo stranier: clemente
Rise una volta a' popoli fortuna:
Tutte al suo desco le città redente
Italia aduna.

Più non cercar. Delle battaglie il nome
Oh non chiedere a' tuoi: sovra qual onda,
Sovra qual campo; e se le nostre chiome
Lauro circonda.

A' vincenti terribile il vessillo
Parve d'Italia: i giovani guerrieri

Volar sull'erta, ma con noi, Cammillo,
Tu più non eri.

Invan crebber le file: invan da' porti
Più possente navil sciolse il nocchiero;
Non valser tante prue, tante coorti
Il tuo pensiero.

In picciol nido l'aure interrogando,
Con poco stame a lunga tela assiso,
E l'ovra della mente ardua velando
Di facil riso,

Gli occhi alzasti; e di fanti e di cavalli
Alla muta parola obbedienti
Dal Cenisio sull'itale convalli
Sceser torrenti.

E pria sul lido del remoto Eusino
Fra le pugne agitata e fra le nevi
La morta face del valor latino
Raccesa avevi.

A' cupi geni del Tirren custodi
Serti offrivi non visto, e taciturna
La partenza pregavi e fida ai prodi
L'aura notturna,

Quando dell'Etna alla fremente riva
I Mille veleggiavano; portavi,
Celando sotto il mar la man furtiva.
Le balde navi.

Sparver gli avversi troni; e del tuo spiro
Che percorrea de' novi abissi il seno,
La possa irresistibile sentirò

Adria e Tirreno.

Itali fummo. Ed esultavi allato
Del Re più degno in Campidoglio atteso,
Quando cadevi, e dell'Italia il fato
Parve sospeso.

Ansio cadevi dell'Olimpo al piede.
Indomato Titano. Orfana ancora
Sull'orma tua, cui pari altra non vede,
Italia plora.

Ode di pugne inauspicate il fòro
Risonar tempestoso; ed ella intanto
A' suoi mali non trova altro ristoro
Che sdegno e pianto.

Dell'indugio si sdegna e de' consigli
Con gioco assiduo sul fiorir recisi;
D'altre barriere, che di monti, i figli
Piange divisi.

nata a non perir, stirpe fatale!
risorgente dalle tue ruine
Popolo, che ricigni or l'immortale
Infula al crine;

De' secoli più grande e de' tuoi guai,
Se come in altro dì non ti è concesso
Reggere il mondo, mostra almen che sai
Regger te stesso.


operosità poetica di Zanella  occupa  circa
L'
LA DIVINA PROVVIDENZA.
Matteo, Capo VI.

Contadinello, che ne' giorni brevi
Lavor non trovi ed ansio del domani
Miri dall'uscio le cadenti nevi,
Che tutti intorno han già nascosti i piani,
Se sgomento ti assale, odi parola
Del Signor che t'è presso e ti consola.

Figlio, soverchia cura
Non prendere dell'ora
Che l'avvenir matura
Fosco a' tuoi sguardi ancora.

Se sulla nuda mensa
Ti vien mancando il pane.
Non ti atterrir; ma pensa
Che un Padre ti rimane.

Se mentre gela il vento
E stridon le tempeste,
Il tuo carbone è spento,
Sdruscita la tua veste,

Non dire: «Il poverello
Chi coprirà di un saio?
Al gramo villanello
Chi colmerà lo staio? »

Di Dio non sei tu l'opra?
E non aver paventi
Un cencio che ti copra,
Un pan che ti alimenti?


Mira gli augelli! A loro
Il genitor celeste
Altro non die tesoro
Che il canto e le foreste.

Non serbano di biade
Colmi granai; ma quando
Lo inverno l'aria invade,
Il giorno ottenebrando.

Con flebil pigolio,
Sparsi di neve il dorso.
Levano gli occhi a Dio
In cerca di soccorso.

Ed Ei n'ascolta il grido:
E l'ali all'aquilone
Temprando, presso al nido
Il granellin depone.

E tu da men ti credi
De' passeri? Le cose
A' tuoi regali piedi
Tutte il Signor non pose?

Né del vestir ti accori
Troppo il pensier: Colui,
Che dà la veste a' fiori,
Coprirà i membri tui.

Guarda del campo al giglio:
Non fila, non intesse;
Pur fu monarca, o figlio.
Che simil veste avesse?


Splendeva, come stella,
Di ammanti e di corone;
Pur clamide sì bella
Non cinse Salomone.

Che se bontà divina
Veste così vil erba
Che, volta una mattina,
Al forno si riserba:

Se amor, che mai non dorme,
Alla stagion nemica
Le miserelle torme
De' passeri nutrica;

povero di fede.
Sarà che ti abbandoni
Chi lo spirar ti diede
A ornarti de' suoi doni?

De' fiori tu men vali
E degli augelli? temi
Che, aprendosi a' mortali,
L'arca al Signor si scemi?

IN MORTE
DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRE.
ELEGIA
DI GIROLAMO FRACASTORO
AL FRATELLO DELLO STESSO.

Benché percosso dall'acerbo fato
D' un tanto amico io pur domandi a' numi
Qualche conforto al mio misero stato,

Perchè di duol perpetuo due fiumi
Non mi solchino il volto, e tuttoquanto
Il cocente dolor non mi consumi;

Tuttavia come lo permise il pianto.
Che dell'ingegno intorbida la vena,
Questo per te tentai flebile canto,

Mosso da speme che la mia Camena
Ti consolasse, se canori accenti
Tonno d'un' alma alleggerir la pena;

E perchè tutto in lagrime e lamenti
Non ti sciogliessi, come si discioglie
La brina a' pluviali austri tepenti.

Grido è diffuso che in crudeli doglie
Tu te ne viva pel fratel giocondo
Tratto anzi tempo alle funeree soglie;

Né più t'allevii degli affanni il pondo
Molle sopor; ma triste a' mattutini .
Nascenti albori e quando tace il mondo,


Irato a' sordi immobili destini,
Lui che il cielo ti fea tanto lontano
Cercar dolente per tutti i confini;

Quale Lampezie lungo l'Eridàno
Ansiosa cercava il suo Fetonte,
Se antichissimo canto non è vano.

Sette dì non gustò cibo né fonte;
E sette notti d'ogni tregua schiva
A dolce sonno non piegò la fronte.

E quante volte ansante e semiviva,
Che la lena al desio più non risponde.
Smorta cadea sulla deserta riva.

Rendetemi il fratel, gridava all'onde,
Rendetemi Fetonte, o quante il flutto
Ninfe pietose a' miei lamenti asconde.

Te pur, te pur, se mai fu giusto il lutto
Nella morte d'alcun, te pure incolse
Dolor da non portarne il ciglio asciutto;

Dacché morendo il tuo fratel ti tolse
Ogni contento, e te senza riparo
E tutti quanti i tuoi nel duol travolse.

Nel duol ahi! ti travolse il fato amaro
Dell'estinto fratel, di cui non era
Altri al tuo cor più disiato e caro.

Ei di tua fresca gioventù primiera
Fido sostegno, e invidiato onore
Di tua magion che per lui sorse altera;


Con cui sedendo in candidi d'amore
Ragionamenti senz'ambage usavi
Tutti gli arcani disvelar del core;

Cui proponevi a tutti; e più de' favi
Dolce e più dell'ambrosia da' suoi
Labbri facondia distillar giuravi.

tristi troppo! o sventurati noi!
Schiatta più miseranda in sulla terra
Pria non si vide, né vedrassi poi.

Contro noi furibonda arse una guerra,
A cui null'altra in crudeltà fu pari,
Né forse in grembo all'avvenir si serra.

Vedemmo scintillar barbari acciari;
Barbaro giogo tollerammo; e parte
I dolci abbandonammo aviti lari.

Quel che rimase dal furor di Marte
Tabida lue consunse: il reo flagello
Dalle vedove terre anco non parte.

Né bastava; e di Cotta ecco l'avello
Invita a novi pianti. Ove t'involi,
Preda a cieco malor, Cotta fratello?

Cotta diletto, addolorati e soli
Perchè lasciarne e dir l'ultimo addio
Pria che fossero ancor pieni i tuoi soli?

Né peranco lenito avea l'obblio
Cotanto lutto, e per lo smorto viso
Caldo di pianto ci scorreva un rio,


Che tu pur dai vita! ceppo reciso,
Marco, al tuo fido stuol cresci tristezza.
Ah, ben fallace è della speme il riso!

Che pel fresco vigor di giovanezza,
Per l'alte opere tue, pel tuo valore
L'alma non era al rio pensiero avvezza.

Che te caduto dell'età nel fiore
Coperto avremmo sotto stranio suolo,
Te già muto e de' tuoi sordo al dolore.

Ma speravamo che t'ergesse a volo
La tua virtude, allor che dell'accento
Aureo beassi l'accalcato stuolo:

Pari a ruscel che a cento labbra e cento.
Dall'aerea disceso alpe natale,
Offre lungo il cammin limpido argento.

I tuoi gran fatti rammentar che vale
E gli alti premi? Come la salute
Riconfortò per te l'egro mortale,

E come spesso l'anime venute
A man di morte rivocasti al giorno
Col possente favor dell'arti mute?

Tu, Ticino, lo narra, e tu che il corno
Per l'antiche aggirando euganee valli,
Brenta, il suol fai di verdi paschi adorno:

Voi che, obbliando delle ninfe i balli,
Cheti l'udiste allor che di natura
I divini svelava occulti calli;


Ed ora il suo sparir sotto la scura
Onda piangete che, fra sterpi e dumi
Stagnando, al mar discendere non cura.

Ma non voi soli o più d'ogni altro, o fiumi,
Al suo pensando non previsto fine
Di pianto aveste rugiadosi i lumi.

Lui piansero le greche e le latine
Ninfe; e Calliope il suo dolor palese
Fé su querule corde fiorentine.

Ogni foresta lamentar s'intese,
Ogni rupe; e di lacrime tributo.
Ultimo Scita, il tuo ciglio gli rese.

Ma più ne lagrimarono il canuto
Benaco e 'l Sarca umil, che del sepolto
Baciano oltrepassando il cener muto;

E più l'Adige stesso, per cui tolto
Il venerando frale a suol romito
Fia dalla patria in nobil urna accolto,

Acciò che lunge dal sepolcro avito
E dall'ossa de' Turri, ingloriose
Quelle spoglie non copra estranio lito.

Allor voi tutte, o Naiadi vezzose,
D'Adige figlie, a piene man sovr'esse
Nembi versate d'olezzanti rose.

Tempo verrà, che di stupore oppresse,
Fermando il passo, le più tarde genti.
Quanto a costui, diranno, il ciel concesse!


E gli scritti leggendo e i monumenti
Dell'estinto, talun serti votivi
A' muti appenderà Mani dormenti.

Intanto, o Ninfe, voi che i cento rivi
Dal Benaco traete, e tu che l'onde
Devolvi, Sarca, dagli alpini clivi;

Voi dirupi di Naco, e voi profonde
Di Briano vallee, selve cui bruna
Ombra ravvolge di perpetue fronde.

Recate voi, su via, recate alcuna
Gioia al mio Batto, e raddolcite a prova
L'orrenda piaga che gli fé fortuna.

Più di Sofia l'accento a lui non giova;
E l'arte delle lire animatrice
Del suo core la via più non ritrova.

Batto! E nondimeno l'infelice
Vate di Tracia, dopoché smarrita
E lungamente pianta ebbe Euridice,

Nulla trovò che la dolente vita
Più gli allegrasse d'imenei già schiva,
Che delle Muse e di Sofia l'aita.

Con lui qualor di Rodope saliva
Fra l'alte selve, o rade orme imprimea
Per la strimonia taciturna riva,

Venia compagna la pieria Dea;
E perita a sonar l'imposto verso
Eburnea lira a tergo gli pendea.


Misurava col guardo l'universo
Tutto e, suo fregio, il padiglion celeste
Di mille lumi fiammeggiante e terso.

I mari contemplava e le foreste
Ampie, i mobili fiumi, il variopinto
Bel manto onde le terre april riveste;

Onde mirando come il mondo avvinto
Rotasse a certe leggi, il suo dolore
Sentiva a poco a poco in indistinto

Diletto tramutarsi e l'alto amore
D'Euridice tacer. Tanto del mondo
Puote la vista giocondare un core!

Leva lo sguardo al candido e ritondo
Disco lunare; agli astri erranti in giro
Tutti intorno al lor sol per proprio pondo.

Eterno è quanto cape entro l'empireo;
Ivi siedono i giusti ed han mercedi
L'alme che pie di questa vita uscirò.

Sotto dell'uomo l'infelici sedi
Giacciono, della morte atre contrade,
Ove alcuna di bene orma non vedi;

Che questi luoghi la gragnuola invade,
La neve, il vento, e quanto dall'oscura
Region delle nubi in terra cade.

Aggiungi a tanto danno il gel, l'arsura
E lo sciame de' morbi, onde soccorso
Pur sempre implora la mortal natura.


Noi poi sciogliendo a' desideri il morso
Ci crescemmo i dolor; stirpe demente,
Che sempre in mal precipita il suo corso.

Quindi gli odi e le bieche ire cruente,
E mille vie per frode o tracotanza
Schiuse all'eccidio dell'umana gente.

Pur fra cotanti mali una speranza
Vien che consoli chi dirizza l'ale
De' suoi desiri a più sicura stanza.

Perocché quando solvesi dal frale
Bella di merti un'anima, al superno
Regno tosto giubilando sale

E si tranquilla nel soggiorno eterno
De' numi e semidei; là dove aprile
D'estate ardor non teme o gel di verno;

Ove tace ogni brama, ove il suo stile
Lascia fortuna, ove il dolore ha fine.
Né più volge le sorti un vulgo vile;

Ma poeti vi regnano che il crine
Di casto lauro avvolsero, e guerrieri
Che di stragi fur mondi e di rapine;

E miti ingegni che da' bei sentieri
Mai non uscir del giusto e di Sofia
Meditar ne' giardini incliti veri.

In mezzo a' quali assunta or or la pia
Alma fraterna per la curva sfera
E per l'aule celesti il guardo invia,


Vagheggiando il mattin che non ha sera
E gli ordini de' giusti, e gode un scanno
Anch'essa aver tra la beata schiera.

Mentre d'intorno a lei l'ombre ristanno
Generose de' padri, e l'occhio intento
Dal volto del nepote alzar non sanno.

Cui riconoscon tosto al portamento:
Ei pur contempla il glorioso seme
«Di sua semenza e di suo nascimento;»

I suoi ravvisa, e ne distingue insieme
I nomi e l'opre, e sa dir dopo quanti
Lustri il fratello veder seco ha speme.

Fortunato, che partendo avanti
Che di vecchiaia assaporassi il fiele,
Presso Dio raccogliesti i passi erranti!

Quanti scogli! o quanto mar crudele,
Marco, a tergo lasciasti! a quanti inganni
D'instabil vento ascose hai le tue vele!

Fortunato due volte! a te gli affanni
Noti non furo di una lunga etade
E le noie compagne agli ultimi anni;

Ma fra le dolci muse e le beate
Arti d'Apollo, placido vedesti
Chiudersi il giro delle tue giornate.

Vanne, o gloria d'Italia, e de' celesti
Al santo coro ti frammischia: assai
Di te felice il secolo già festi.



Di lassù, finche gli astri avranno rai
E scenderanno alla marina i fiumi,
Da questa valle sollevarsi udrai

Alle sfere il tuo nome e i bei costumi.

L'ARANCIO DI PEGLI

Libero al sol, fra pensili
orti e marmoree scale,
quando nevoso borea
altrove i boschi assale,
io florido e securo
le poma auree maturo
A fronte interminabile
stammi l'onda tirrena;
e pini veggo e larici
che sull'aerea schiena
meco crescean del monte,
vanire all'orizzonte.
Laggiuso a' vasti pelaghi
del corallo fecondi
portan l'illustre Ligure:
io di mie brune frondi
al Gange e sotto il polo
i suoi sogni consolo.
Van carezzando i zefiri
marini il mio riposo
mentre di fresca ambrosia
nel meriggio focoso
a' reduci del flutto
insaporo il mio frutto

QUADRETTO ESTIVO
Il suo stridor sospeso ha la cicala;
la rondinella con l'obliquo volo
terra terra sen va; sul fumaiolo
bianca colomba si pulisce l'ala.
Grossa, sonante, qualche goccia cala,
che di pinte anitrelle allegro stuolo
evita con clamor; lieve dal suolo
di spenta polve una fragranza esala.
Scroscia la pioggia e contro il sol riluce,
come fili d'argento; il ruscel suona
che la villa circonda e par torrente,
sulle cui ripe a salti si conduce
lo scalzo fanciulletto ed abbandona
le sue flotte di carta alla corrente.

IL VAPORE
Passi omostro fumante, e coll'acuto
tuo sibilo schernir sembri il colono,
che sulla marra trafelato e prono,
chiede alla gleba l'annual tributo.

A me, che sotto il vecchio olmo seduto
il freno a multiformi estri abbandono,
rompi l'alta quiete e come in suono
di protratta ironia mandi un saluto.

Passa alato Tifeo; convalli e monti
supera: annoda opposte genti e d'oro
apri al cupido volgo intatte fonti;

ma gli rammenta che vapor fugace
son del paro i suoi dì; nè v'ha tesoro
che d'un campestre asil valga la pace.

MARTINO.
DAL SICILIANO DI GIOVANNI MELI.

L' uomo che vaneggiando esce di via,
Scosso dal collo l'amoroso freno
Della saggia natura,
Perde il polo di vista e va smarrito;
E quanto più da quella si dilunga,
Tanto perduto più si trova e sente,
Quando i folli pensieri
Gli dan tregua per poco e il van desio.
Richiamarsi colà donde partio.
Per qualche tempo illusion gioconde
A lui saran gli splendidi palagi
Della città, le pompe, il lusso e gli agi;
Ma poi cresciuti in core
Sente gli affetti nequitosi, e questi
Crescer sente col crescere degli anni,
Della sua mente già fatti tiranni.
D'acute punte allor trafitto invoca
La natura, ma indarno;
Gli abiti rei l'han stretto di catene
Che invan s'affanna a sciogliere; e frattanto
Per illuder sé stesso
Di libero e giulivo si dà vanto.
Pure di tempo in tempo; o quando ride
La bella primavera pe' fioriti
Lussureggianti prati; o quando autunno
Leva in sui campi il capo incoronato
Di poma e d'uva che contrasta all'oro
Il biondo colorito,
L'uomo della città con sua gran pena
Si move e si trascina

Seco recando a' campi la catena.
Son io, son io (così dicea Martino
Negl'istanti d'un lucido intervallo)
Lo snaturato figlio,
Che un istinto segreto, ultimo avanzo
Della materna eredità, sospinge
Alla tenera madre, al pie traendo
La servile catena
Del vanitoso fasto
E dell'ambizìon non mai satolla
Che di spine m'ingombrano il cammino.
Madre, quanto a' tuoi sguardi io son meschino!

«Trovo fra questi aratri,
Fra questi di verzura
Immensi anfiteatri
La madre mia natura,

Che con aperte braccia
A se mi alletta e chiama,
E pinta sulla faccia
Mi mostra la sua brama:

Che con benigno piglio
A me si accosta e dice:
Tutto ti diedi, o figlio,
Per renderti felice;

Un cor pe' godimenti;
Ove virtù verace
Agli onorati stenti
Sposa diletto e pace.


Legge ci trovi impressa
Che d'ogni legge è fiore,
Scolpita da me stessa:
Ama e raccogli amore.

Legge che il core accresce.
Allarga il tuo pensiero.
Che ti confonde e mesce
All'universo intero.

Senza essa sulla terra
Stranier tu vivi e solo,
Sempre cogli altri in guerra,
abbandonato o in duolo.

La mente e l'intelletto
T'ho dato, onde comprenda
Quello esser giusto e retto
Che al ben comun intenda.

I sensi fu mia cura
Largirti che gradita,
Che vegeta e sicura
Ti rendano la vita.

L'occhio, perchè ti sveli
Meravigliosa scena,
L'ordin che terre e cieli
Costantemente affrena.

L'orecchio novo incanto
Ti schiude all'alma ancora;
Dell'usignuolo il pianto
Di voluttà la irrora.


Fra quegli alpestri orrori
Il passer solitario
Intenerisce i cori
Col dolce accento e vario.

I flauti armoniosi
De' vispi pastorelli
Fan eco a' graziosi
Gorgheggi degli augelli,

Le nari pur consola
Tributo peregrino
D'odor che l'aura invola
Ai fiori del giardino.

Di frutti in abbondanza
La mensa ti copersi,
Di tinte, di fragranza
E di sapor diversi.

Vieni, diletto, vieni.
Ascolta i miei richiami;
Vien tra' boschetti ameni.
Siedi fra' verdi rami.

Meco in questo ermo lido
Regna la pace, e regna
Amor che farsi il nido
Alle colombe insegna.

La fedeltà d'attorno
Qui trovomi ne' cani
Vigili notte e giorno.
Amici e guardiani.


Son mia superba reggia
Questi sublimi monti:
La maestà passeggia
Sulle petrose fronti.

Quale beltà s'aduna,
Quanta grandezza in essi!
Umana possa alcuna
Non è che vi si appressi.

Osserva come sorgono
Di sopra le foreste,
E tra le nubi sporgono
Le trarupate creste!

Quante in que'gran burrati
In que' cespugli e grotte
Di rettili e d'alati
Erran viventi frotte!

L'aquile in ciel sospese
Tesson con ala immota
Intorno alle scoscese
Rocce l'aerea rota.

Felci e vitalbe intorno,
Ellere a gran festoni
Sono i tappeti, onde orno
Le altere mie magioni.

Mira da quella cima
Come un perenne fiume
Maestoso si adima
L' onde mutando in schiume!


Giù per occulte scale,
Di questi monti al fondo,
Trovi le vaste sale
Ove i tesori ascondo.

Quanto l'umano ingegno
Mette ne' primi onori,
Fra creta e sabbia io tegno,
Lucenti gemme ed ori.

I rosei graniti,
Le agate, gli ametisti
A scabre selci uniti,
Al fango son commisti.

Delle mie grotte sono
Reconditi pilastri,
Son basi del mio trono.
Porfidi ed alabastri.

Vedi come io dispregio
Tesor sì vano! E vui
Lo avrete in tanto pregio
Da occidervi per lui?

Ma lascia le caverne,
Esci all'aperto, e godi
Le mie bellezze esterne
Diffuse in vari modi.

quante specie, o quante
Varietà d'aspetto
Presentano le piante
Al mio veder perfetto!


Quante famiglie intere
Vivon d'insetti in loro.
Che in maggio a schiere a schiere
Volan sull'ali d'oro!

La vite che si piega
Debole in basso sito,
Vedi come si lega
Al pioppo per marito!

Del tronco non fecondo
Questi, in compenso, i figli
Ne adotta e porta il pondo
De' grappoli vermigli.

L'olivo che vetusto
Pugnò co' venti e stette,
Dal fracassato fusto
Germe novel rimette.

Piramidi fastose
Son larici e cipressi;
L'età del mondo ascose
Leggo scolpite in essi.

Il grato mormorio
Dell' acqua che là scorre
Dice all'erbette: addio,
Io parto; che vi occorre?

Volete nutrimento?
Verso di me stendete
Le barbe e in un momento
Il nutrimento avrete.


In ricompensa, al rivo
L'albero i rami stende,
E dall'ardore estivo
Coll'ombra lo difende.

Oh i corrisposti affetti!
Oh i ben locati offici!
Inanimati oggetti
Fra lor son come amici.

Né credere che l'onde
Sien sole; alla fontana
Galleggia e mi risponde
Col gracidar la rana.

Tinti d'argento il tergo
Guizzano in fondo all'acque
I pesci, a cui l'albergo
Laggiù segnar mi piacque.

Le pecchie industriose
Rimira tra que' fiori
Che alle cellette ascose
Tornan co' dolci umori.

Se il mansueto regno
Intender ne sapessi,
Vergogna avresti e sdegno
De' tuoi superbi eccessi.

Ma le mie schiere alate
Del sol seguendo il raggio
Cangian le sedi amate
Com'è l'ottobre o il maggio.


Presentan le stagioni
Le specie lor distinte
A torme ed a squadroni
Di penne variopinte.

Sue nunzio e messaggere
La primavera manda
Le rondin che leggiere
Scorrono d'ogni banda.

Poi giunge accompagnata
Da quaglie e da stornelli
E d'una smisurata
Folla di vari augelli.

Io tutti li confido
Agli arboscelli, ai prati,
A fabbricarsi il nido,
Nutrirsi i dolci nati.

Molti co' novi eredi
Quando più ferve l'anno
Di più benigne sedi
In cerca se ne vanno.

D'autunno a' lieti giorni,
Di lodolette abbondo;
Garrule merle e storni
Entro i vigneti ascondo.

E quando l'anno inchina,
Ho l'oca e la beccaccia.
Che prèsso alla marina
Scendon di cibo in traccia.


Nè compagnia mi manca
Di armenti e greggi; e questa
No, non mi opprime e stanca,
Ma pure gioie appresta.

Mi opprime e stanca oh quanto
Il cittadin tumulto,
Del poverello il pianto,
Del ricco altier l'insulto.

Frodi, avarizie, raggiri,
Disordini e scompigli....
stolidi deliri
Miei tralignati figli!»

Così favella di Martino al core
L'ingenua natura. E la ragione
Che della verità la voce ascolta
Santa ed util la trova.
Gran diletto ne prova e già la segue.
Ma le perverse ambiziose usanze
Che dagli anni primieri
Soggiogata l'avean, a' bei pensieri
Oppongon vane idee, vane sembianze,
Che ricopron di tenebre la mente.
Così «Martino, che veduto avea
Un lampo di saggezza, si ritorna
Macchina come pria,
A cui l'abito solo imprime il moto.
E come nave in tempestoso mare
Senza vele e piloto, ai folli affetti
Che lungi lo trabalzano dal porto,
Riman ludibrio l'infelice; e segue
A far, non punto accorto


Delle interne battaglie e degli affanni.
Quanto fatto egli avea da' suoi primi anni.
Scritto autografo della poesia
"L'arancio di Pegli"