CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Giosuè Carducci - ODI BARBARE































Odi barbare



Dal punto di vista artistico, è giunto per lui il momento di tentare una nuova strada, di lasciare quella rima strenuamente difesa poco prima per incamminarsi sulla "strada barbara". Infatti la nuova raccolta poetica Odi barbare (il titolo si avvicina sensibilmente ai raffinati e paganeggianti Poèmes barbares di Leconte de Lisle) la cui edizione definitiva uscì nel 1893 e consisteva in due libri di venticinque componimenti ciascuno, presenta una novità che è essenzialmente ritmica ed essa è data dal voler riprodurre nella lingua italiana, la metrica classica. Egli aveva in realtà avuto dei predecessori in queste sperimentazioni. Già infatti a partire dal Certame Coronario del 1441 e per tutto il cinquecento si tentò questa traslazione dei ritmi classici in lingua italiana con alterne fortune fino ad arrivare ai tentativi di Tolomei, Chiabrera e Fantoni e a quelli dei tedeschi Klopstock e Ramler. Questi ultimi si avvicinarono di più alla soluzione del problema, ma il Carducci volle seguire la strada battuta dai connazionali, riproducendo i versi latini con le sillabe, gli accenti, le pause avvertiti dall'orecchio italiano e lasciando da parte le quantità. Così si spiega anche quell'aggettivo "barbare" che indica la reazione che avrebbero avuto i greci e i latini (e non solo) leggendole e considerandole straniere: Queste odi […] le intitolai barbare perché tali sonerebbero agli orecchi e al giudizio dei greci e dei romani sebbene volute comporre nelle forme metriche della loro lirica, e perché tali soneranno pur troppo a moltissimi italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di accenti italiani". Il loro universo tematico, fatto di affetti civili e patriottici, di aneliti storici, di toni intimistici (amore e morte), non è certo molto diverso dalle coeve Rime nuove. Ormai certi atteggiamenti spirituali che già si mostravano in queste ultime, si consolidano col tempo e diventano un bagaglio sentimentale che riaffiora zampillando vigorosamente e nutrendo l'ispirazione del maremmano. Il primo albore dell'Urbe, nell'Annuale della fondazione di Roma in cui è prevalente l'afflato civile, appare correlato al risveglio, sottolineato da quel "salve" anaforico, della Roma odierna, che si era redenta dalla servitù e dal cattolicesimo, capitale del Regno, ma anche capitale ideologica del mondo :"[…] tutto che al mondo è civile,/ Grande, augusto, egli è romano ancora". Quindi si affaccia il concetto cardine dell'ode, la inscindibile unità dell'Italia e di Roma. Questo connubio che sarà foriero di trionfi e glorie liberandosi da "l'età nera", da "l'età barbara" e da "i mostri" è sancito persino dal segno favorevole del fulmine a ciel sereno. Anche in Dinanzi alle terme di Caracalla, mossa da sdegno patriottico, in un atmosfera piranesiana, egli si scaglia contro gli speculatori edilizi, i precursori dei "palazzinari", che egli chiama "ciociari", che affastellano costruzioni minacciando di vituperare le grandi e degne vestigia di un passato più lontano moralmente che storicamente. La visita al un Museo civico di Brescia, tra il 7 e l'8 ottobre 1876, dove era conservata una statua bronzea del I sec. d.C., raffigurante la Vittoria, rinvenuta nella stessa città nel 1826, presso le rovine del Capitolium di Vespasiano, offre l'occasione che viene subito colta, dalla "sacerdotessa" Lidia, di libare alla Vittoria, che ritorna dopo secoli e in una città che ne è ben degna. E quell'aurea aetas, sempre riecheggiante, ritorna in Alle fonti del Clitumno vestita dei panni del nobile fiume umbro che gli illustri scrittori latini Virgilio, Properzio, Plinio hanno cantato. Alle sue acque scendevano giovenchi, e le pecore guidate dai fanciulli, lui prezioso e selvaggio. Ormai egli con l'Umbria verde saluta il dio Clitumno a cui si addicono non gli umili e molli salici piangenti, ma gli antichi e possenti alberi italici, frassini, lecci, cipressi, che serbano il ricordo del succedersi delle signorie degli Umbri, degli Etruschi e dei Romani, la riscossa e la vittoria italica contro Annibale a Spoleto. Ma quel tempo è volato via lasciando solo il silenzio, sono fuggite le ninfe, che cantavano le nozze di Giano e Camesena, da cui ebbe origine la stirpe italica, né ha più culto il nume Clitumno, ora che il cristianesimo soverchia l'antica civiltà fervida di vita e rende vile l'animo umano. Rinnovando all'Italia il saluto virgiliano, il poeta la invita a risorgere nella chiarezza, nella libertà e nel progresso dei tempi nuovi. Paesaggio e mito, natura e storia, passato e presente, poesia ed eloquenza coesistono. La nemesi storica è viva in Per la morte di Napoleone Eugenio e in Miramar. Nella prima, fatali frangenti legati alle malefatte avite, portano alla morte di Francesco Napoleone che si spegne alla corte austriaca e di Eugenio Napoleone che muore in Africa trafitto da una "zagaglia barbara" il tutto si chiude con una visione di antica tragedia: Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone, "domestica ombra" che "abita la vuota casa" tende le braccia verso il mare invocando che qualcuno della sua tragica prole le venga restituito. L'altra contiene lo sventurato destino dei consorti Massimiliano d'Asburgo e Carlotta del Belgio. Lui inviato nel regno del Messico voluto dal nonno, cade preda di indigeni rivoltosi a questa triste notizia lei impazzisce di dolore. L'esito appare similare a quello che vede protagonisti due personaggi del mito, quali Protesilao e Laodamia che conferiscono un'aura di nobiltà alla fine sciagurata dei consorti. Le dolci corde dell'amore, un'amore però contrastato, animano Sirmione. Essa gemma delle penisole sembra caduta dal cielo nella coppa del Benaco. Qui Catullo cercò quiete mentre a Roma l'infedele Lesbia "spossava i fianchi dei discendenti di Romolo" e la ninfa del lago cantava invitandolo e promettendogli pace nell'abisso. Il poeta lo ricorda a Lalage, e maledice Amore, nemico delle Muse. Ma come resistere agli occhi di Lalage? Colga ella tre rami di lauro e di mirto e li agiti al sole, conciliando le Muse e l'Amore e in omaggio ai grandi poeti che il luogo ricorda. Intessuta di suggestioni hölderiniane, Nevicat, con il ritmo lento della neve che fiocca nel cielo plumbeo e che sembra cancellare con tutti i rumori anche ogni segno di vita, con gli uccelli sperduti che picchiano alle finestre appannate e le ombre e i cari defunti che il poeta, chetando il suo indomito cuore, riabbraccerà, contiene il presentimento di una vita che declina e si dissolve nella morte. Pensieri questi, che al di là delle frequentazioni dell'Hölderin, sono suggerite anche dalla viva esperienza autobiografica che vedeva in questo periodo (1881) la lenta agonia di Lina.




Pagina tratta da: giosuecarducci.iitalia.com/

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
LIBRO II

Musa latina, vieni meco a canzone novella:
Può nuova progenie il canto novello fare.
T. CAMPANELLA

XXVI
CÈRILO
Non sotto ferrea punta che strida solcando maligna
dietro un pensier di noia l'aride carte bianche;

sotto l'adulto sole, nel palpito mosso da' venti
pe' larghi campi aprici, lungo un bel correr d'acque,

nasce il sospir de' cuori che perdesi ne l'infinito,
nasce il dolce e pensoso fior de la melodia.

Qui brilla il maggio effuso ne l'aere odorato di rose,
brillano gli occhi vani, dormon ne' petti i cuori:

dormono i cuor si drizzan le orecchie facili quando
la variopinta strilla nota de la Gioconda.

Oh de le Muse l'ara dal verde vertice bianco
su 'l mare! Alcmane guida i virginei cori:

«Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza,
come il cèrilo vola tratto da le alcioni:

vola con le alcioni tra l'onde schiumanti in tempesta,
cèrilo purpureo nunzio di primavera».

[ Verona, 8-9 giugno 1883; Bologna, 11-20 aprile 1889 ].


XXVII
FANTASIA

Tu parli; e, de la voce a la molle aura
lenta cedendo, si abbandona l'anima
del tuo parlar su l'onde carezzevoli,
e a strane plaghe naviga.

Naviga in un tepor di sole occiduo
ridente a le cerulee solitudini:
tra cielo e mar candidi augelli volano,
isole verdi passano,

e i templi su le cime ardui lampeggiano
di candor pario ne l'occaso roseo,
ed i cipressi de la riva fremono,
e i mirti densi odorano.

Erra lungi l'odor su le salse aure
e si mesce al cantar lento de' nauti,
mentre una nave in vista al porto ammàina
le rosse vele placide.

Veggo fanciulle scender da l'acropoli
in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
serti hanno al capo, in man rami di lauro,
tendon le braccia e cantano.

Piantata l'asta in su l'arena patria,
a terra salta un uom ne l'armi splendido:
è forse Alceo da le battaglie reduce
a le vergini lesbie?

14-16 aprile 1875.


XXVIII
RUIT HORA

O desiata verde solitudine
lungi al rumor de gli uomini!
qui due con noi divini amici vengono,
vino ed amore, o Lidia.

Deh come ride nel cristallo nitido
Lieo, l'eterno giovine!
come ne gli occhi tuoi, fulgida Lidia,
trionfa amore e sbendasi!

Il sol traguarda basso ne la pergola,
e si rifrange roseo
nel mio bicchiere: aureo scintilla e tremola
fra le tue chiome, o Lidia.

Fra le tue nere chiome, o bianca Lidia,
langue una rosa pallida;
e una dolce a me in cuor tristezza sùbita
tempra d'amor gl'incendii.

Dimmi: perché sotto il fiammante vespero
misteriosi gemiti
manda il mare là giù? quai canti, o Lidia,
tra lor quei pini cantano?

Vedi con che desio quei colli tendono
le braccia al sole occiduo:
cresce l'ombra e li fascia: ei par che chiedano
il bacio ultimo, o Lidia.

Io chiedo i baci tuoi, se l'ombra avvolgemi,
Lieo, dator di gioia:
io chiedo gli occhi tuoi, fulgida Lidia,
se Iperion precipita.


E precipita l'ora. O bocca rosea,
schiuditi: o fior de l'anima,
o fior del desiderio, apri i tuoi calici:
o care braccia, apritevi.
16 agosto 1875.

XXIX
ALLA STAZIONE IN UNA
MATTINA D'AUTUNNO

Oh quei fanali come s'inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su 'l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d'autunno
come un grande fantasma n'è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a' carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl'istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com'ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l'anima
un'eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.


E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l'ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su' vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe 'l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l'empio mostro; con traino orribile
sbattendo l'ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e 'l bel velo
salutando scompar ne la tènebra.

O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra' floridi ricci inclinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid'aere,
fremea l'estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un'aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com'ebro, e mi tocco,
non anch'io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l'anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.



Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere,
meglio quest'ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

[ 25 giugno 1875 - 31 dicembre 1876 ].

XXX
MORS
NELL'EPIDEMIA DIFTERICA

Quando a le nostre case la diva severa discende,
da lungi il rombo de la volante s'ode,

e l'ombra de l'ala che gelida gelida avanza
diffonde intorno lugubre silenzio.

Sotto la veniente ripiegano gli uomini il capo,
ma i sen feminei rompono in aneliti.

Tale de gli alti boschi, se luglio il turbine addensa,
non corre un fremito per le virenti cime:

immobili quasi per brivido gli alberi stanno,
e solo il rivo roco s'ode gemere.

Entra ella, e passa, e tocca; e senza pur volgersi atterra
gli arbusti lieti di lor rame giovani;

miete le bionde spiche, strappa anche i grappoli verdi,
coglie le spose pie, le verginette vaghe

ed i fanciulli: rosei tra l'ala nera ei le braccia
al sole a i giuochi tendono e sorridono.

Ahi tristi case dove tu innanzi a' vólti de' padri,
pallida muta diva, spegni le vite nuove!

Ivi non più le stanze sonanti di risi e di festa
o di bisbigli, come nidi d'augelli a maggio:

ivi non più il rumore de gli anni lieti crescenti,
non de gli amor le cure, non d'imeneo le danze:

invecchian ivi ne l'ombra i superstiti, al rombo
del tuo ritorno teso l'orecchio, o dea.

[ 27 giugno 1875 - 19 giugno 1877 ].

XXXI
UNA SERA DI SAN PIETRO

Ricordo. Fulvo il sole tra i rossi vapori e le nubi
calde al mare scendeva, come un grande clipeo di rame
che in barbariche pugne corrusca ondeggiando poi cade.
Castiglioncello in alto fra mucchi di querce ridea
da le vetrate un folle vermiglio sogghigno di fata.

Ma io languido e triste (da poco avea scosso la febbre
maremmana, ed i nervi pesavanmi come di piombo)
guardava a la finestra. Le rondini rapide i voli
sgembi tessevan e ritessevano intorno le gronde,
e le passare brune strepiano al vespro maligno.

Brevi d'entro la macchia svariavano il piano ed i colli,
rasi a metà da la falce, in parte ancor mobili e biondi.
Via per i solchi grigi le stoppie fumavano accese:
or sì or no veniva su per le aure umide il canto
de' mietitori, lungo, lontano, piangevole, stanco:

grave l'afa stringeva l'aer, la marina, le piante.
Io levai gli occhi al sole —O lume superbo del mondo,
tu su la vita guardi com'ebro ciclope da l'alto!—
Gracchiarono i pavoni schernendomi tra i melograni,
e un vipistrello sperso passommi radendo su 'l capo.

1 luglio 1880.

XXXII
PE 'L CHIARONE DA CIVITAVECCHIA
LEGGENDO IL MARLOWE

Calvi, aggrondati, ricurvi, sì come becchini a la fossa
stan radi alberi in cerchio de la sucida riva.

Stendonsi livide l'acque in linea lunga che trema
sotto squallido cielo per la lugubre macchia.

Bevon le nubi dal mare con pendule trombe, ed il sole
piove sprazzi di riso torbido sovra i poggi.

I poggi sembrano capi di tignosi ne l'ospitale,
l'un fastidisce l'altro da' finitimi letti.

Scattan su da un cespuglio co 'l guizzo di frecce mancate
due neri uccelli: cala con pigre ruote un falco.

Corrono, mentr'io leggo Marlowe, le smunte cavalle
de la vettura: il sole scema, la pioggia freme.

Ed ecco a poco a poco la selva infóscasi orrenda,
la selva, o Dante, d'alberi e di spiriti,

dove tra piante strane tu strane ascoltasti querele,
dove troncasti il pruno ch'era Pier de la Vigna.

Io leggo ancora Marlowe. Del reo verso bieco, simìle
a sogno d'uomo cui molta birra gravi,

d'odii et incèsti e morti balzando tra forme angosciose
esala un vapor acre d'orrida tristizia,

che sale e fuma, e misto a l'aer maligno feconda
di mostri intorno le pendenti nuvole,

crocida in fondo a' fossi, ferrugigno ghigna ne' bronchi,
filtra con la pioggia per l'ossa stanche. Io tremo.

Ah quei pini che il vento che il mare curvaron tanti anni
paiono traer guai contro di me: «Che importa

—dicon—tendere a l'alto? che vale combatter? Che giova
amare? Il fato passa ed abbassa». Ma tu,

tu sughero triste che a terra schiacciato rialzi
il capo, reo gobbo, bestemmiando Iddio,

perché mi tendi minaccioso le braccia tue torte?
che colpa ho io ne 'l fato che ti danna?

E voi, lunghe nel mezzo del tetro recinto alberelle,
co' rami spioventi, quasi canute chiome,

siete alberelle voi? siete le tre fiere sorelle
che aspettâr Macbeth su la fatale via?

Odo pauroso carme che voi bisbigliate co' venti,
di rospi, di serpi, di sanguinanti cuori.

Guglielmo, re de' poeti da l'ardua fronte serena,
perché mi mandi lugubri messaggi?

Io non uccisi il sonno, ben gli altri a me spensero il cuore:
non cerco un regno, io solo chieggio al mondo l'oblio.

Oblio? no, vendetta. Cadaveri antichi, pensieri
che tutti una ferita mostrate aperta e tutti

a tradimento, su! su da 'l cimitero del petto,
su date a' venti i vostri veli funebri.

Qui raduniam consiglio, qui ne l'orribile spiazzo,
a l'ombre ignave, su le mortifere acque.

Qui gonfia di serpi tra 'l fior bianco e giallo la terra,
pregna di veleni qui primavera ride.

Rida ubriaco il verso di gioia maligna; com'angue,
strisci, si attorca, snodisi tra i sibili.

Volate, volate, canzoni vampire, cercando
i cuor che amammo: sangue per sangue sia.

Ma che? Disvelasi lunge superbo a veder l'Argentaro
lento scendendo nel Tirreno cerulo.

Il sole illustra le cime. Là in fondo sono i miei colli,
con la serena vista, con le memorie pie.

Ivi m'arrise fanciullo la diva sembianza d'Omero.
Via, tu, Marlowe, a l'acque! tu, selva infame, addio.

[ Maggio-agosto 1879 ].

Ivi non più le stanze sonanti di risi e di festa
o di bisbigli, come nidi d'augelli a maggio:

ivi non più il rumore de gli anni lieti crescenti,
non de gli amor le cure, non d'imeneo le danze:

invecchian ivi ne l'ombra i superstiti, al rombo
del tuo ritorno teso l'orecchio, o dea.
[ 27 giugno 1875 - 19 giugno 1877 ].
XXXI
UNA SERA DI SAN PIETRO

Ricordo. Fulvo il sole tra i rossi vapori e le nubi
calde al mare scendeva, come un grande clipeo di rame
che in barbariche pugne corrusca ondeggiando poi cade.
Castiglioncello in alto fra mucchi di querce ridea
da le vetrate un folle vermiglio sogghigno di fata.

Ma io languido e triste (da poco avea scosso la febbre
maremmana, ed i nervi pesavanmi come di piombo)
guardava a la finestra. Le rondini rapide i voli
sgembi tessevan e ritessevano intorno le gronde,
e le passare brune strepiano al vespro maligno.

Brevi d'entro la macchia svariavano il piano ed i colli,
rasi a metà da la falce, in parte ancor mobili e biondi.
Via per i solchi grigi le stoppie fumavano accese:
or sì or no veniva su per le aure umide il canto
de' mietitori, lungo, lontano, piangevole, stanco:

grave l'afa stringeva l'aer, la marina, le piante.
Io levai gli occhi al sole —O lume superbo del mondo,
tu su la vita guardi com'ebro ciclope da l'alto!—
Gracchiarono i pavoni schernendomi tra i melograni,
e un vipistrello sperso passommi radendo su 'l capo.
1 luglio 1880.


XXXII
PE 'L CHIARONE DA CIVITAVECCHIA
LEGGENDO IL MARLOWE

Calvi, aggrondati, ricurvi, sì come becchini a la fossa
stan radi alberi in cerchio de la sucida riva.

Stendonsi livide l'acque in linea lunga che trema
sotto squallido cielo per la lugubre macchia.

Bevon le nubi dal mare con pendule trombe, ed il sole
piove sprazzi di riso torbido sovra i poggi.

I poggi sembrano capi di tignosi ne l'ospitale,
l'un fastidisce l'altro da' finitimi letti.

Scattan su da un cespuglio co 'l guizzo di frecce mancate
due neri uccelli: cala con pigre ruote un falco.

Corrono, mentr'io leggo Marlowe, le smunte cavalle
de la vettura: il sole scema, la pioggia freme.

Ed ecco a poco a poco la selva infóscasi orrenda,
la selva, o Dante, d'alberi e di spiriti,

dove tra piante strane tu strane ascoltasti querele,
dove troncasti il pruno ch'era Pier de la Vigna.

Io leggo ancora Marlowe. Del reo verso bieco, simìle
a sogno d'uomo cui molta birra gravi,

d'odii et incèsti e morti balzando tra forme angosciose
esala un vapor acre d'orrida tristizia,

che sale e fuma, e misto a l'aer maligno feconda
di mostri intorno le pendenti nuvole,


crocida in fondo a' fossi, ferrugigno ghigna ne' bronchi,
filtra con la pioggia per l'ossa stanche. Io tremo.

Ah quei pini che il vento che il mare curvaron tanti anni
paiono traer guai contro di me: «Che importa

—dicon—tendere a l'alto? che vale combatter? Che giova
amare? Il fato passa ed abbassa». Ma tu,

tu sughero triste che a terra schiacciato rialzi
il capo, reo gobbo, bestemmiando Iddio,

perché mi tendi minaccioso le braccia tue torte?
che colpa ho io ne 'l fato che ti danna?

E voi, lunghe nel mezzo del tetro recinto alberelle,
co' rami spioventi, quasi canute chiome,

siete alberelle voi? siete le tre fiere sorelle
che aspettâr Macbeth su la fatale via?

Odo pauroso carme che voi bisbigliate co' venti,
di rospi, di serpi, di sanguinanti cuori.

Guglielmo, re de' poeti da l'ardua fronte serena,
perché mi mandi lugubri messaggi?

Io non uccisi il sonno, ben gli altri a me spensero il cuore:
non cerco un regno, io solo chieggio al mondo l'oblio.

Oblio? no, vendetta. Cadaveri antichi, pensieri
che tutti una ferita mostrate aperta e tutti

a tradimento, su! su da 'l cimitero del petto,
su date a' venti i vostri veli funebri.


Qui raduniam consiglio, qui ne l'orribile spiazzo,
a l'ombre ignave, su le mortifere acque.

Qui gonfia di serpi tra 'l fior bianco e giallo la terra,
pregna di veleni qui primavera ride.

Rida ubriaco il verso di gioia maligna; com'angue,
strisci, si attorca, snodisi tra i sibili.

Volate, volate, canzoni vampire, cercando
i cuor che amammo: sangue per sangue sia.

Ma che? Disvelasi lunge superbo a veder l'Argentaro
lento scendendo nel Tirreno cerulo.

Il sole illustra le cime. Là in fondo sono i miei colli,
con la serena vista, con le memorie pie.

Ivi m'arrise fanciullo la diva sembianza d'Omero.
Via, tu, Marlowe, a l'acque! tu, selva infame, addio.

[ Maggio-agosto 1879 ].

XXXIII
ALLA MENSA DELL'AMICO

Non mai dal ciel ch'io spirai parvolo
ridesti, o Sole, bel nume, splendido
a me, sì come oggi ch'effuso
t'amo per l'ampie vie di Livorno.

Non mai fervesti, Bromio, ne i calici
consolatore saggio e benevolo,
com'oggi ch'io libo a l'amico
pensando i varchi de l'Apennino.

O Sole, o Bromio, date che integri,
non senza amore, non senza cetera,
scendiamo a le placide ombre
—là dov'è Orazio— l'amico ed io.


Ma sorridete gli auguri a i parvoli
che, dolci fiori, la mensa adornano,
la pace a le madri, gli amori
a i baldi giovani e le glorie.

Livorno, 3 dicembre 1880.

XXXIV
RAGIONI METRICHE

Rompeste voi 'l Tevere a nuoto, Clelia, come
l'antica vostra, o a noi nuova Rea Silvia uscite?

Scarso, o nipote di Rea, l'endecasillabo ha il passo
a misurare i clivi de le bellezze vostre:

solo co 'l piè trionfale l'eroico esametro puote
scander la via sacra de le lunate spalle.

Da l'arce capitolina del collo fidiaco molle
il pentametro pender, ghirlanda albana, deve.

Batta ne 'l raggio de gli occhi, che fiero corusca sì come
tra i colli prenestrini dietro l'aurora il sole,

batta l'alcaica strofe trepidando l'ali, e si scaldi
a i forti amori: indietro, tu settenario vile.

Oh, su la chioma ondosa che simile a notte discende
pe 'l crepuscolo pario de le doriche forme

(lasciate a le serve, nipote di Rea, gli ottonari)
corona aurea di stelle fulga l'asclepiadea.

Agosto 1879.


XXXV
FIGURINE VECCHIE
Qual da la madre battuto pargolo
od in proterva rissa mal domito
stanco s'addorme con le pugna
serrate e i cigli rannuvolati,

tal nel mio petto l'amore, o candida
Lalage, dorme: non sogna o invidia,
s'al roseo maggio erran giocando
gli altri felici pargoli al sole.

Oh no 'l destare! l'udresti, o Lalage,
di torbid'ire fiedere l'aere
rompendo i giuochi a' lieti eguali,
dio di battaglia per me l'amore.

San Leonardo presso Verona, 21 aprile 1881.

XXXVI
SOLE D'INVERNO

Nel solitario verno de l'anima
spunta la dolce imagine,
e tocche frangonsi tosto le nuvole
de la tristezza e sfumano.

Già di cerulea gioia rinnovasi
ogni pensiero: fremere
sentomi d'intima vita gli spiriti:
il gelo inerte fendesi.

Già de' fantasimi dal mobil vertice
spiccian gli affetti memori,
scendon con rivoli freschi di lacrime
giù per l'ombra del tedio.


Scendon con murmuri che a gli antri chiamano
echi d'amor superstiti
e con letizia d'acque che a' margini
sonni di fiori svegliano.

Scendono, e in limpido fiume dilagano,
ove le rive e gli alberi
e i colli e il tremulo riso de l'aere
specchiasi vasto e placido.

Tu su la nubila cima de l'essere,
tu sali, o dolce imagine;
e sotto il candido raggio devolvere
miri il fiume de l'anima.

[ 18 luglio 1882 ].

XXXVII
EGLE

Stanno nel grigio verno pur d'edra e di lauro vestite
ne l'Appia trista le ruinose tombe.

Passan pe 'l ciel turchino che stilla ancor da la pioggia
avanti al sole lucide nubi bianche.

Egle, levato il capo vèr quella serena promessa
di primavera, guarda le nubi e il sole.

Guarda; e innanzi a la bella sua fronte più ancora che al sole
ridon le nubi sopra le tombe antiche.

[ 25 febbraio - 24 settembre 1889 ].


XXXVIII
PRIMO VERE

Ecco: di braccio al pigro verno sciogliesi
ed ancor trema nuda al rigid'aere
la primavera: il sol tra le sue lacrime
limpido brilla, o Lalage.

Da lor culle di neve i fior si svegliano
e curiosi al ciel gli occhietti levano:
in quelli sguardi vagola una tremula
ombra di sogno, o Lalage.

Nel sonno de l'inverno sotto il candido
lenzuolo de la neve i fior sognarono;
sognaron l'albe roride ed i tepidi
soli e il tuo viso, o Lalage.

Ne l'addormito spirito che sognano
i miei pensieri? A tua bellezza candida
perché mesta sorride tra le lacrime
la primavera, o Lalage?

[ 12 aprile - 24 settembre 1889 ].

XXXIX
VERE NOVO

Rompendo il sole tra i nuvoli bianchi a l'azzurro
sorride e chiama —O primavera, vieni!—

Tra i verzicanti poggi con mormorii placidi il fiume
ricanta a l'aura —O primavera, vieni!—

—O primavera, vieni!— ridice il poeta al suo cuore
e guarda gli occhi, Lalage pura, tuoi.

2 marzo 1884.


XL
CANTO DI MARZO

Quale una incinta, su cui scende languida
languida l'ombra del sopore e l'occupa,
disciolta giace e palpita su 'l talamo,
sospiri al labbro e rotti accenti vengono
e sùbiti rossor la faccia corrono;

tale è la terra: l'ombra de le nuvole
passa a sprazzi su 'l verde tra il sol pallido:
umido vento scuote i pèschi e i mandorli
bianco e rosso fioriti, ed i fior cadono:
spira da i pori de le glebe un cantico.

— O salienti da' marini pascoli
vacche del cielo, grige e bianche nuvole,
versate il latte da le mamme tumide
al piano e al colle che sorride e verzica,
a la selva che mette i primi palpiti. —

Così cantano i fior che si risvegliano:
così cantano i germi che si movono
e le radici che bramose stendonsi:
così da l'ossa de i sepolti cantano
i germi de la vita e de gli spiriti.

Ecco l'acqua che scroscia e il tuon che brontola:
porge il capo il vitel da la stalla umida,
la gallina scotendo l'ali strepita,
profondo nel verzier sospira il cùculo
ed i bambini sopra l'aia saltano.

Chinatevi al lavoro, o validi omeri;
schiudetevi a gli amori, o cuori giovani;
impennatevi a i sogni, ali de l'anime;
irrompete a la guerra, o desii torbidi:
ciò che fu torna e tornerà ne i secoli.
[ 30 marzo 1884 - 30 marzo 1885 ].



XLI
SALUTO D'AUTUNNO

Pe' verdi colli, da' cieli splendidi,
e ne' fiorenti campi de l'anima,
Delia, a voi tutto è una festa
di primavera lungi le tombe!

Voi dolce madre chiaman due parvole,
voi dolce suora le rose chiamano,
e il sol vi corona di lume,
divino amico, la bruna chioma.

Lungi le tombe! Lontana favola
per voi la morte! Salite il tramite
de gli anni, e con citara d'oro
Ebe serena v'accenna a l'alto.

Giù ne la valle, freddi dal turbine,
noi vi miriamo ridente ascendere;
e un raggio del vostro sorriso
frange le nebbie pigre a l'autunno.

San Leonardo, 3 giugno 1881.

XLII
SU MONTE MARIO

Solenni in vetta a Monte Mario stanno
nel luminoso cheto aere i cipressi,
e scorrer muto per i grigi campi
mirano il Tebro,

mirano al basso nel silenzio Roma
stendersi, e, in atto di pastor gigante
su grande armento vigile, davanti
sorger San Pietro.


Mescete in vetta al luminoso colle,
mescete, amici, il biondo vino, e il sole
vi si rinfranga: sorridete, o belle:
diman morremo.

Lalage, intatto a l'odorato bosco
lascia l'alloro che si gloria eterno,
o a te passando per la bruna chioma
splenda minore.

A me tra 'l verso che pensoso vola
venga l'allegra coppa ed il soave
fior de la rosa che fugace il verno
consola e muore.

Diman morremo, come ier moriro
quelli che amammo: via da le memorie,
via da gli affetti, tenui ombre lievi
dilegueremo.

Morremo; e sempre faticosa intorno
de l'almo sole volgerà la terra,
mille sprizzando ad ogni istante vite
come scintille;

vite in cui nuovi fremeranno amori,
vite che a pugna nuove fremeranno,
e a nuovi numi canteranno gl'inni
de l'avvenire.

E voi non nati, a le cui man la face
verrà che scórse da le nostre, e voi
disparirete, radiose schiere,
ne l'infinito.

Addio, tu madre del pensier mio breve,
terra, e de l'alma fuggitiva! quanta
d'intorno al sole aggirerai perenne
gloria e dolore!


fin che ristretta sotto l'equatore
dietro i richiami del calor fuggente
l'estenuata prole abbia una sola
femina, un uomo,

che ritti in mezzo a' ruderi de' monti,
tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
vitrei te veggan su l'immane ghiaccia,
sole, calare.
[ 29 gennaio - 4 febbraio 1882 ].
XLIII
LA MADRE
(GRUPPO DI ADRIANO CECIONI)

Lei certo l'alba che affretta rosea
al campo ancora grigio gli agricoli
mirava scalza co 'l piè ratto
passar tra i roridi odor' del fieno.

Curva su i biondi solchi i larghi omeri
udivan gli olmi bianchi di polvere
lei stornellante su 'l meriggio
sfidar le rauche cicale a i poggi.

E quando alzava da l'opra il turgido
petto e la bruna faccia ed i riccioli
fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
coloraro ignei le balde forme.

Or forte madre palleggia il pargolo
forte; da i nudi seni già sazio
palleggialo alto, e ciancia dolce
con lui che a' lucidi occhi materni

intende gli occhi fissi ed il piccolo
corpo tremante d'inquietudine
e le cercanti dita: ride
la madre e slanciasi tutta amore.


A lei d'intorno ride il domestico
lavor, le biade tremule accennano
dal colle verde, il bue mugghia,
su l'aia il florido gallo canta.

Natura a i forti che per lei spregiano
le care a i vulghi, larve di gloria
così di sante visioni
conforta l'anime, o Adriano:

onde tu al marmo, severo artefice,
consegni un'alta speme de i secoli.
Quando il lavoro sarà lieto?
quando securo sarà l'amore?

quando una forte plebe di liberi
dirà guardando nel sole: — Illumina
non ozi e guerre a i tiranni,
ma la giustizia pia del lavoro?

[ 13-19 aprile 1880 ].

XLIV
PER UN INSTITUTO DI CIECHI

Quando mirava Omero le fulgide a' dardani campi
pugne, con gli occhi spenti ed immoti al cielo;

quando, levata in fredda caligin la fronte, vedeva
Milton passare su' mondi vinti Dio;

l'alma del tutto in essi rompeva la inerte de' sensi
bruma, e ne' grandi spiriti il sole ardea.

Quando Tobia meschino del can riconobbe il latrato
e brancolando porse le bianche mani,

messa dal ciel sovvenne la santa pietà: Rafaele
biondo a' lassi occhi rese il bel figlio e il lume.



Stanno ne l'ampia terra gli eroi del pensiero in disparte:
a Rafaele tende le braccia il mondo.

[ 22 marzo 1889 - 15 dicembre 1891 ].

XLV
SOGNO D'ESTATE

Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra 'l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su 'l Tirreno.
Sognai, placide cose de' miei novelli anni sognai.
Non più libri: la stanza dal sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su 'l ciottolato
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.
Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo
pur divenendo rio: su 'l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d'oro.
Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
superbo de l'amore materno, percosso nel core
da quella festa immensa che l'alma natura intonava.
Però che le campane sonavano su dal castello
annunziando Cristo tornante dimane a' suoi cieli;
e su le cime e al piano, per l'aure, pe' rami, per l'acque,
correa la melodia spiritale di primavera;
ed i pèschi ed i méli tutti eran fior bianchi e vermigli,
e fiori gialli e turchini ridea tutta l'erba al di sotto,
ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de' prati,
e molli d'auree ginestre si paravano i colli,
e un'aura dolce movendo quei fiori e gli odori
veniva giù dal mare; nel mar quattro candide vele
andavano andavano cullandosi lente nel sole,
che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
La giovine madre guardava beata nel sole.

Io guardavo la madre, guardava pensoso il fratello,
questo che or giace lungi su 'l poggio d'Arno fiorito
quella che dorme presso ne l'erma solenne Certosa;
pensoso e dubitoso s'ancora ei spirassero l'aure
o ritornasser pii del dolor mio da una plaga
ove tra note forme rivivono gli anni felici.
Passâr le care imagini, disparvero lievi co 'l sonno.
Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
Bice china al telaio seguia cheta l'opra de l'ago.

[ 3-10 luglio 1880 ].

XLVI
COLLI TOSCANI

Colli toscani e voi pacifiche selve d'olivi
a le cui ombre chete stetti in pensier d'amore,
tósca vendemmia e tu da' grappi vermigli spumanti
in faccia al sole tra giocondi strepiti,

sole de' giovini anni; ridete a la dolce fanciulla
che amor mi strappa e rende sposa al toscano cielo;
voi le ridete, e quella che sempre negaronmi i fati
pace d'affetti datele ne l'anima.

Colli, tacete, e voi non susurratele, olivi,
non dirle, o sol, per anche, tu onniveggente, pio,
ch'oltre quel monte giaccion lei forse aspettando, que' miei
che visser tristi, che in dolor morirono.

Ella ammirando guarda la cima, tremarsi nel cuore
sente la vita e un lieve spirto sfiorar le chiome,
mentre l'aura montana, calando già il sole, d'intorno
al giovin capo le agita il vel candido.

26 settembre 1880.


XLVII
PER LE NOZZE DI MIA FIGLIA

O nata quando su la mia povera
casa passava come uccel profugo
la speranza, e io disdegnoso
battea le porte de l'avvenire;

or che il piè saldo fermai su 'l termine
cui combattendo valsi raggiungere
e rauchi squittiscon da torno
i pappagalli lusingatori;

tu mia colomba t'involi, trepida
il nuovo nido voli a contessere
oltre Apennino, nel nativo
aere dolce de' colli tóschi.

Va' con l'amore, va' con la gioia,
va' con la fede candida. L'umide
pupille fise a vel fuggente,
la mia Camena tace e ripensa.

Ripensa i giorni quando tu parvola
coglievi fiori sotto le acacie,
ed ella reggendoti a mano
fantasmi e forme spiava in cielo.

Ripensa i giorni quando a la morbida
tua chioma intorno rogge strisciavano
le strofe contro a gli oligarchi
librate e al vulgo vile d'Italia.

E tu crescevi pensosa vergine,
quand'ella prese d'assalto intrepida
i clivi de l'arte e piantovvi
la sua bandiera garibaldina.


Riguarda, e pensa. De gli anni il tramite
teco fia dolce forse ritessere,
e risognare i cari sogni
nel blando riso de' figli tuoi?

O forse meglio giova combattere
fino a che l'ora sacra richiamine?
Allora, o mia figlia, —nessuna
me Beatrice ne' cieli attende—

allora al passo che Omero ellenico
e il cristiano Dante passarono
mi scorga il tuo sguardo soave,
la nota voce tua m'accompagni.

[ 1 maggio - 9 giugno 1881 ].

XLVIII
PRESSO L'URNA DI
PERCY BYSSHE SHELLEY

Lalage, io so qual sogno ti sorge dal cuore profondo,
so quai perduti beni l'occhio tuo vago segue.

L'ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge;
sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero.

Pone l'ardente Clio su 'l monte de' secoli il piede
agile, e canta, ed apre l'ali superbe al cielo.

Sotto di lei volante si scuopre ed illumina l'ampio
cimitero del mondo, ridele in faccia il sole

de l'età nova. O strofe, pensier de' miei giovini anni,
volate omai secure verso gli antichi amori;

volate pe' cieli, pe' cieli sereni, a la bella
isola risplendente di fantasia ne' mari.


Ivi poggiati a l'aste Sigfrido ed Achille alti e biondi
erran cantando lungo il risonante mare:

dà fiori a quello Ofelia sfuggita al pallido amante,
dal sacrificio a questo Ifianassa viene.

Sotto una verde quercia Rolando con Ettore parla,
sfolgora Durendala d'oro e di gemme al sole:

mentre al florido petto richiamasi Andromache il figlio,
Alda la bella, immota, guarda il feroce sire.

Conta re Lear chiomato a Edippo errante sue pene,
con gli occhi incerti Edippo cerca la sfinge ancora:

la pia Cordelia chiama —Deh, candida Antigone, vieni!
vieni, o greca sorella! Cantiam la pace a i padri.—

Elena e Isotta vanno pensose per l'ombra de i mirti,
il vermiglio tramonto ride a le chiome d'oro:

Elena guarda l'onde: re Marco ad Isotta le braccia
apre, ed il biondo capo su la gran barba cade.

Con la regina scota su 'l lido nel lume di luna
sta Clitennestra: tuffan le bianche braccia in mare,

e il mar rifugge gonfio di sangue fervido: il pianto
de le misere echeggia per lo scoglioso lido.

Oh lontana a le vie de i duri mortali travagli
isola de le belle, isola de gli eroi,

isola de' poeti! Biancheggia l'oceano d'intorno,
volano uccelli strani per il purpureo cielo.

Passa crollando i lauri l'immensa sonante epopea
come turbin di maggio sopra ondeggianti piani;

o come quando Wagner possente mille anime intona
a i cantanti metalli; trema a gli umani il core.


Ah, ma non ivi alcuno de' novi poeti mai surse,
se non tu forse, Shelley, spirito di titano

entro virginee forme: dal diro complesso di Teti
Sofocle a volo tolse te fra gli eroici cori.

O cuor de' cuori, sopra quest'urna che freddo ti chiude
adora e tepe e brilla la primavera in fiore.

O cuor de' cuori, il sole divino padre ti avvolge
de' suoi raggianti amori, povero muto cuore.

Fremono freschi i pini per l'aura grande di Roma:
tu dove sei, poeta del liberato mondo?

Tu dove sei? m'ascolti? Lo sguardo mio umido fugge
oltre l'aureliana cerchia su 'l mesto piano.

[ 13-18 dicembre 1884 ].

XLIX
AVE
IN MORTE DI GUIDO PIVA

Or che le nevi premono,
lenzuol funereo, le terre e gli animi,
e de la vita il fremito
fioco per l'aura vernal disperdersi,

tu passi, o dolce spirito:
forse la nuvola ti accoglie pallida
là per le solitudini
del vespro e tenue teco dileguasi.

Noi, quando a' soli tepidi
un desio languido ricerca l'anime
e co' fiori che sbocciano
torna Persèfone da gli occhi ceruli,


noi penseremo, o tenero,
a te non reduce. Sotto la candida
luna d'april trascorrere
vedrem la imagine cara accennandone.

[ 9-10 aprile 1880 ].

L
NEVICATA
Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinereo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città,

non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d'amor la canzone ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l'aere le ore
gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve —tu càlmati, indomito cuore—
giù al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò.

[ 29 gennaio - 24 marzo 1881 ].


CONGEDO

A' lor cantori diano i re fulgente
collana d'oro lungo il petto, i volghi
a' lor giullari dian con roche strida
suono di mani.

Premio del verso che animoso vola
da le memorie a l'avvenire, io chiedo
colma una coppa a l'amicizia e il riso
de la bellezza.


Come ricordo d'un mattin d'aprile
puro è il sorriso de le belle, quando
l'età fugace chiudere s'affretta
il nono lustro;

e tra i bicchier che l'amistade infiora
vola serena imagine la morte,
come a te sotto i platani d'Ilisso,
divo Platone.

[ 29 gennaio 1882 - 8 ottobre 1889 ].


VERSIONI

I
TOMBE PRECOCI
Da FR. G. KLOPSTOCK

Ben vieni, o bell'astro d'argento,
compagno tacente a la notte.
Tu fuggi? oh rimanti, splendore pensoso!
Vedete? ei rimane: la nuvola va.

Più bel d'una notte d'estate
è solo il mattino di maggio:
a lui la rugiada gocciando da i ricci
riluce, e vermiglio pe 'l colle va su.

O cari, già il musco severo
a voi sopra i tumuli crebbe:
deh come felice vedeva io con voi
le notti d'argento, vermigli i bei dì!

29 luglio 1881.


II
NOTTE D'ESTATE
Da Fr. G. KLOPSTOCK

Quando il tremulo splendore de la luna
si diffonde giù pe' boschi, quando i fiori
e i molli aliti de i tigli
via pe 'l fresco esalano,

il pensiero de le tombe come un'ombra
in me scende; né più i fiori né più i tigli
dànno odore; tutto il bosco
è per me crepuscolo.

Queste gioie con voi, morti, m'ebbi un tempo;
come il fresco era e il profumo dolce intorno!
come bella eri, o natura,
in quell'albor tremulo!
[ 27-31 luglio 1881 ].
III
LA TORRE DI NERONE
Da A. VON PLATEN

Narra la fama, e ancor n'ha orrore il popolo:
Nerone, indétto a la città l'incendio,
salì su quella torre a lo spettacolo
del rogo, allegro ed avido.

Correano al cenno suo gl'incendiarii,
baccanti in festa, e roteavan picei
serti di fiamma. Dritto su' merli aurei
Neron tocca la cetera.

—Gloria —egli canta— al fuoco: a l'oro ei simile,
ei degno del Titan che al cielo tolselo:
l'augel di Giove il porta; ed il primo alito
egli accolse di Bromio.


Vieni, splendido nume: al crine i pampini,
molle danza su 'l mondo anzi che in polvere
torni: di Roma qui raccogli il cenere
e nel tuo vino mescilo.
[ Maggio 1875 ].

IV
ERO E LEANDRO
Da A. VON PLATEN
Ero l'amata muore, ne i flutti cercando la morte;
Saffo l'amante muore, morte chiedendo a i flutti.

Amore, iddio crudele, a te cadon vittime entrambe:
scorgile tu nel cheto reame di Persèfone.

Ma di Leandro al petto conduci la vergin di Sesto,
guida al fiume di Lete la deserta di Lesbo.
15-23 novembre 1882.

V
LA LIRICA
Da A. VON PLATEN

A la materia l'anima s'appiglia,
polso del mondo è l'azione; e a sorde
orecchie spesso versa i canti l'alta
lirica musa.

A tutti Omero s'apre e svariati
gli arazzi de la favola dispiega,
l'autor del dramma trascinando i volghi
le scene eleva.

Ma il vol del sacro Pindaro, di Flacco
l'arte e, o Petrarca, il tuo librato verso,
lento ne i cuori imprimesi, e a la plebe
arduo sfugge.





Grazia che pensa, non agevol ritmo
di canzoncine intorno la teletta:
non lieve sguardo penetra le loro
alme possenti.

Eterno vaga per le genti il nome,
ma raro ad essi spirito s'aggiunge
amico e pio che onori le gagliarde
menti profonde.

24 giugno 1881.
Giosuè Carducci
Centenario della morte