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Giosuè Carducci - GIAMBI ED EPODI












































GIAMBI ED EPODI


L'opera è composta da due libri formati il primo, da quindici, il secondo da quattordici componimenti, il tutto è preceduto da un Congedo e fu pubblicata nel 1868. L'orizzonte tematico vede prevalere nel primo libro tematiche più intimistiche nel secondo vengono alla luce spunti politici e sociali. Il clima in cui nasce quest'opera è particolare, ormai l'Unità d'Italia è stata realizzata, ma si tratta di una riunificazione monca di Roma e Venezia e questo non ha fatto che deludere e infangare gli ideali del Risorgimento che avevano mosso verso l'indipendenza dallo straniero. Altri episodo come l'inibizione di Garibaldi sull'Aspromonte e le sconfitte di Custoza e Lissa non facevano che esacerbare l'insoddisfazione e la critica verso una classe politica che costruiva poco le sue vittorie sul campo di battaglia rispetto a successi ottenuti con sotterfugi e accordi. Il Congedo esprime la valenza dissimulatrice della poesia che ritorna in un mondo dominato dalla violenza e dalla guerra per denunziarne i mali e i vizi. I ricordi più cari spesso si stagliano nella campagna collinare dell'amata Maremma come avviene nello struggente ricordo del morto fratello Dante in Per val d'Arno. Ma egli sa anche celebrare figure integerrime che in questa società dalla nera moralità risaltano per il candore dell'animo e per la nobiltà dei comportamenti come in A Pietro Thouar, commosso ricordo di un amico che lo aveva aiutato nei primi anni bolognesi, figura umile ma valente studioso e letterato che non si fregiava di titoli per esprimere la propria eminenza ma di generosità. La critica già rivolta nei confronti del potere temporale in Agli amici della val Tiberina, si rinnovella nell'ode a Edoardo Corazzini, in cui il ricordo del giovane amico ferito a Mentana gli da l'occasione di allargare lo sguardo alla Francia che pure aveva sparso ai quattro venti i dogmi della rivoluzione (libertà, fratellanza, uguaglianza) che guidata dal "cesare sinistro" Napoleone III, era diventata "masnadiera papale". Nel frattempo il successor di Pietro "smentisce Iddio" e "Di sangue, mira, il tuo calice fuma; / E non è quello di Cristo". In conclusione l'anatema e la scomunica (vv. 166-172): "Te […] io scomunico, o prete Te pontefice fosco del mistero vate di lutti e d'ire io sacerdote de l'augusto vero, vate dell'avvenire". Essa si corrobora ancor più esacerbata nell'ode Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, l'uno muratore l'altro operaio, che si erano prodigati, avvicinandosi a Roma i garibaldini, a far saltare la caserma Serritori, per provocare una rivolta popolare. Ebbene la vicenda non andò per il verso giusto e i due catturati, furono giustiziati e il loro carnefice fu proprio Pio IX. In un plumbeo giorno di novembre il pontefice è radioso, quasi si celebri una festa e si frega le mani prima dell'esecuzione. Poi il rimprovero si estende a tutte le latitudini partendo dall'Europa che ha permesso questa insania e l'ode ha una conclusione consolatoria : "Savi, guerrier, poeti ed operai, / Tutti ci diam la mano: / Duro lavor ne gli anni, e lieve ormai / Minammo il Vaticano". Non si salvano in questa "Sodoma" nemmeno i politici, essi in Heu pudor!, sono designati come "gregge indegno" e l'Italia appare in mano a Fucci e Bonturi e senza rispetto per coloro che si sono sacrificati per "fare l'Italia", "Ora barattan sulla vostra fossa". Anche una cerimonia toccante come quella dello "Sposalizio del mare", nell'ode Le nozze del mare, viene corrosa "ora" da un aura di decadenza cosi avviene che: "Dopo il dramma lacrimevole /La commedia oggi si dà". Infatti non c'è più il Doge sulla poppa de "l'antico bucentauro" a gettare nelle fredde acque l'anello simbolo di un legame vicendevole che unisce la città e il mare, ma una donna : "De i grandi avi i padiglioni / Son velari, onde una femmina / Il mar d'Adria impalmerà". Egli non può nemmeno giustificare il cieco e anacronistico gesto del neonato governo di istituire una consulta araldica per valutare onoreficenze, stemmi, titoli e quant'altro vecchio nobilume impolverato, per questo un moto di sdegno e di condanna si alza in La consulta araldica in cui c'è il tentativo di risuscitare un mondo di "larve". In Avanti! Avanti!, il titolo è un'incitazione al "sauro destrier de la canzone!", che non è altro se non il moto creativo del poeta, a slanciarsi nella corsa attraverso la gloria, la bellezza, la libertà non illanguidendosi e spossandosi o coprendosi di fiori come la seconda generazione romantica e quindi autoincitazione a continuare la stagione poetica giambica. La corruzione morale emerge anche in A certi censori, in cui sullo sfondo si muovono personaggi a dir poco grotteschi con nomi presi dalla tradizione della satira antica: Mena, Pomponio. Ma la poesia emerge con la sua katàrsis: "E con la spada alto volando prostra I mostri e i giganti, / E con le trombe e la suprema giostra / Chiama i guerrier festanti." La farsa e la caricatura si fanno goliardata in Io Triumphe!, dove i conquistatori che giungono un anno dopo che Napoleone III ha tolto le tende, sono accolti dalle glorie del passato (Furio Camillo, Caio Duilio, Lucio Virginio, Tullio Cicerone, Cornelio Tacito, Marco Giunio, Bruto, Marcaurelio) che di fronte a tanto "sfolgorar" di animi e ingegni si fanno da parte lasciando ai moderni campo libero. L'abbattimento delle stesse smancerie delle favorite, la sfarzosità del re alla corte di Versailles e dell'ancien regime e dei ciechi dogmatismi ad esso collegati sono orgomento di Versagia (vv. 49-52): "E il giorno venne: e ignoti, in un desio /Di veritade, con opposta fé, /Decapitarono, Emmanuel Kant, Iddio, / Massimiliano Robespierre il re." L'immagine iniziale di un'Italia che, con passo felpato, si insedia sul Campidoglio, zittendo le proverbiali oche, campeggia in Canto dell'Italia che va in Campidoglio, dal momento che il loro starnazzare potrebbe insospettire il cardinale Giacomo Antonelli segretario di Stato di Pio IX. La prudenza, perseguita da Giovanni Lanza, in questo caso non è giustificata e appare anzi segno di viltà, tanto più che Napoleone III è ormai lontano da un po'. Queste oche offrono il destro per una critica alla scuola dei "poeti odiernissimi" . Si staglia poi l'immagine di un'Italia per secoli asservita, che passava con disinvoltura di dominazione in dominazione che si sente quasi in colpa per aver "preso" Roma ed è pronta a far penitenza. Nel 1871 la Francia corse un grave pericolo infatti il ritorno alla monarchia, abbattuta dalla Rivoluzione, era dato quasi per certo e l'investito da questo onore e onere era Carlo Ferdinando d'Artois conte di Chambord, col nome di Enrico V. Incarnano questi timori, i distici de La sacra di Enrico Quinto, in cui in un paesaggio a dir poco "sofferente" e "malato" , si svolge lo stuolo regale che si reca a Saint Denis per l'incoronazione, e una tregenda di fantasmi e ossa balla una dance macabre. Anche un fatto di cronaca nera avvenuto nel 1878 e più precisamente, uno scandalo familiare, entra in questa galleria dissoluta. È il caso di A proposito del processo Fadda, scritto in memoria della morte, per altro miserevole, del capitano G. Fadda, che aveva valorosamente combattuto nel 1859, ma che non mori sul campo ma per mano di un cavallerizzo di circo, amante di sua moglie. C'è il parallelismo tra le corrotte "nipoti di Camilla", le matrone romane assetate di sangue e le discendenti tanto dissolute da darsi all'adulterio quanto false nella loro pudicizia di facciata . Questa protesta, questa ironia, corrosiva e irriverente, dopo essere esplosa travolgendo tutto ciò che trovava ora si placava in Canto d'amore, che chiude l'opera. Al di là dei toni iniziali in cui l'arrogante progetto della rocca paolina, finisce sgretolato sotto l'avanzare del popolo umbro, c'è uno spirito di riconciliazione finale.



Pagina tratta da: giosuecarducci.iitalia.com/giambi.htm

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
PROLOGO

No, non son morto. Dietro me cadavere
Lasciai la prima vita. Sopra i volti
Che m'arrideano impallidir le rose,
Moriro i sogni de la prima età.
I miei più santi amori io gli ho sepolti,
Sepolti ho nel mio cuore i desii sterili.
Ad altri le ghirlande gloriose
E i tuoi premii divini, o Libertà.

O Lete, o Lete, la tua pia corrente
Sol dunque ne l'inferno o in eden è?
Fiorisce sol nel verso il pio nepente
Ond'Elena infondea le tazze a i re?
Io vo' fuggir del turbine co 'l volo
Dove una torre ruinata so:
Là come lupo ne la notte solo
Io co 'l vento e co 'l mare ululerò.

Ululerò le lugubri memorie
Che mi fasciano l'alma di dolore,
Ululerò gl'insonni accidiosi
Tedi che fuman da la guasta età,
Invidiando il rorido fulgore
De' miei giovani sogni e i desii splendidi
De le infrante catene e gli animosi
Vostri richiami, o Gloria, o Libertà.

Tutto che questo mondo falso adora
Co 'l verso audace lo schiaffeggerò:
Ei mi tese le frodi in su l'aurora,
A mezzogiorno io le calpesterò.
Che se i delùbri crollano e i tempietti
Ove l'ideal vostro, o vulghi, sta,
Che importa a me? Non fo madrigaletti
Che voi mitriate d'immortalità.



Oh, pria ch'io giaccia, altri e più forti e fulgidi
Colpi da l'arco liberar vogl'io,
E su le penne de gli ardenti strali
Mandare io voglio il vampeggiante cor.
Chi sa che su dal ciel la Musa o Dio
Non l'accolga sanando e sovra il torpido
Padule de l'oblio non gli dia l'ali
Da rivolare a gli sperati amor?

[ Giugno 1871 - 13 giugno 1893. ]

LIBRO PRIMO

I
AGLI AMICI DELLA VALLE TIBERINA

Pur da queste serene erme pendici
D'altra vita al rumor ritornerò;
Ma nel memore petto, o nuovi amici,
Un desio dolce e mesto io porterò.

Tua verde valle ed il bel colle aprico
Sempre, o Bulcian, mi pungerà d'amor;
Bulciano, albergo di baroni antico,
Or di libere menti e d'alti cor.

E tu che al cielo, Cerbaiol, riguardi
Discendendo da i balzi d'Apennin,
Come gigante che svegliato tardi
S'affretta in caccia e interroga il mattin,

Tu ancor m'arridi. E, quando a i freschi venti
Di su l'aride carte anelerà
L'anima stanca, a voi, poggi fiorenti,
Balze austere e felici, a voi verrà.

Fiume famoso il breve piano inonda;
Ama la vite i colli; e, a rimirar
Dolce, fra verdi querce ecco la bionda

Spiga in alto a l'alpestre aura ondeggiar.

De i vecchi prepotenti in su gli spaldi
Pasce la vacca e mira lenta al pian;
E de le torri, ostello di ribaldi,
Crebbe l'utile casa al pio villan.

Dove il bronzo de' frati in su la sera
Solo rompeva, od accrescea, l'orror,
Croscia il mulino, suona la gualchiera
E la canzone del vendemmiator.

Coraggio, amici. Se di vive fonti
Córse, tócco dal santo, il balzo alpin,
A voi saggi ed industri i patrii monti
Iscaturiscan di fumoso vin;

Del vin ch'edùca il forte suolo amico
Di ferro e zolfo con natia virtù:
Co 'l quale io libo al padre Tebro antico,
Al Tebro tolto al fin di servitù.

Fiume d'Italia, a le tue sacre rive
Peregrin mossi con devoto amor
Il tuo nume adorando, e de le dive
Memorie l'ombra mi tremava in cor.

E pensai quando i tuoi clivi Tarconte
Coronato pontefice salì,
E, fermo l'occhio nero a l'orizzonte,
Di leggi e d'armi il popol suo partì;

E quando la fatal prora d'Enea
Per tanto mar la foce tua cercò,
E l'aureo scudo de la madre dea
In su l'attonit'onde al sol raggiò;

E quando Furio e l'arator d'Arpino,
Imperador plebeo, tornava a te,
E coprivan l'altar capitolino

Spoglie di galli e di tedeschi re.

Fiume d'Italia, e tu l'origin traggi
Da questa Etruria ond'è ogni nostro onor;
Ma, dove nasci tra gli ombrosi faggi,
L'agnel ti salta e tùrbati il pastor.

Meglio così, che tra marmoree sponde
Patir l'oltraggio de' chercuti re.
E con l'orgoglio de le tumid'onde
L'orme lambire d'un crociato piè.

Volgon, fiume d'Italia, omai tropp'anni
Che la vergogna dura: or via, non più.
Ecco, un grido io ti do – Morte a' tiranni –;
Portalo, o fiume, a Ponte Milvio, tu.

Portal con suono ch'ogni suon confonda,
Portal con le procelle d'Apennin,
Portalo, o fiume; e un'eco ti risponda
Dal gran monte plebeo, da l'Aventin.

Tende l'orecchio Italia e il cenno aspetta:
Allor chi fia che la vorrà infrenar?
Cento schiere di prodi a la vendetta
Da le tue valli verran teco al mar.

Risplendi, o fausto giorno. Ahi, se più tardi,
Romito e taumaturgo esser vorrò:
Da la faccia de' rei figli codardi
Ne le tombe de' padri io fuggirò.

Con l'arti vo' che cielo o inferno insegna
Da questi monti il foco isprigionar,
E fiamme in vece d'acqua a Roma indegna,
Al Campidoglio vile io vo' mandar.

Pieve Santo Stefano, 25 agosto 1867.

II
MEMINISSE HORRET

Sbarrate la soglia, chiudete ogni varco,
Gittatemi intorno densissimo un vel!
D'orribile sogno mi preme l'incarco:
Ho visto di giallo rifulgere il ciel.

Un lezzo nefando d'avello e di fogna
Uscia dal palagio che a fronte ci sta:
Le vecchie campane sonavano a gogna
Di Piero Capponi per l'ampia città,

E giù da' bei colli che a' dì del cimento
Tonavan la morte su 'l fulvo stranier
Un suon di letane scendea lento lento
E pallide torme dicean – Miserer. –

Con giunte le mani prostrato il Ferruccio
Al reo Maramaldo chiedeva mercé,
E Gian de la Bella levato il cappuccio
Mostrava lo schiaffo che Berto gli diè.

E Dante Alighieri vestito da zanni
Laggiù in Santa Croce facea 'l ciceron.
Diceva – Signori, badatevi a' panni!
Entrate, signori: voi siete i padron.

Che importa se l'onta più, meno, ci frutti?
Io sono poeta, né so mercantar.
Il ghetto d'Italia dischiuso è per tutti.
Al popol d'Italia chi un calcio vuol dar? –

E dietro una tomba vid'io Machiavello
De gli occhi ammiccare con un che passò
E dir sotto voce – Crin morbido e bello,
Sen largo ha mia madre; né dice mai no.

Son fòri fulgenti di dorie colonne

I talami aperti di sue voluttà:
Su 'l gran Campidoglio si scigne le gonne
E nuda su l'urna di Scipio si dà. –

Firenze, nei primi giorni di nov. del 1867.

III
PER EDUARDO CORAZZINI
MORTO DELLE FERITE
RICEVUTE NELLA CAMPAGNA ROMANA
DEL MDCCCLXVII

Dunque d'Europa nel servil destino
Tu il riso atroce e santo,
O di Ferney signore, e, cittadino
Tu di Ginevra, il pianto

Messaggeri inviaste, onde gioioso
Abbatté poi Parigi
E la nera Bastiglia e il radioso
Scettro di san Luigi;

Dunque, tra 'l ferro e 'l fuoco, al piano, al monte,
Cantando in fieri accenti,
Co' piedi scalzi e la vittoria in fronte
E le bandiere a' venti,

Vide il mondo passar le tue legioni,
O repubblica altera,
E spazzare a sé innanzi altari e troni,
Come fior la bufera;

Perché, su via di sangue e di tenèbre
Smarriti i figli tuoi
E mutata ad un'upupa funèbre
L'aquila de gli eroi,

Là ne' colli sabini, esercitati
Dal piè de l'immortale

Storia, tu distendessi i neri agguati,
Masnadiera papale,

E, lui servendo che mentisce Iddio,
Francia, a le madri annose
Tu spegnessi i figliuoli et il desio
Di lor vita a le spose,

E noi per te di pianto e di rossore
Macchiassimo la guancia,
Noi cresciuti al tuo libero splendore,
Noi che t'amammo, o Francia?

Ahi lasso! ma de' tuoi monti a l'aprico
Aer e nel chiostro ameno
Più non ti rivedrò, mio dolce amico,
Come al tempo sereno.

Per l'alpestre cammino io ti seguia;
E 'l tuo fucil di certi
Colpi il silenzio ad or ad or ferìa
De' valloni deserti.

L'alta Roma io cantava in riva al fiume
Famoso a l'universo:
E il can latrando a le cadenti piume
Rompeva a mezzo il verso,

O a te accennando usciva impaziente
Fuor de la macchia bruna;
Or raspa su la tua fossa recente,
E piagnesi a la luna.

Squallidi or sono i monti: ma l'aprile
Roseo nel ciel natio
Tornerà, che doveva una gentile
Ghirlanda al tuo desio:

E in vece condurrà l'allegra schiera
De gli augelli in amore

Su l'erba ch'alta andrà crescendo e nera
Dal tuo giovenil core.

Perché i bei colli di vendemmia lieti,
Perché lasciasti, amico,
Sfuggendo a' pianti de l'amor segreti
Sur un volto pudico?

Perché la madre tua lasciasti? Oh, quando
A mensa ella sedea,
Il tuo loco guardava, e lacrimando
Il viso rivolgea.

Madre, perdona. A un cenno tuo la testa,
La balda testa ei piega;
Ma il suo duce prigion bandì la gesta,
E la gran Roma prega.

Egli su' trionfali archi diritta
Vide, nel ciel del Lazio,
Di Roma vide l'alta imago, afflitta
D'inverecondo strazio.

Ella che tien del nostro patto l'arca,
L'ara del nostro dritto;
Per cui Dante gemé, fremé il Petrarca,
E 'l Machiavelli ha scritto;

Austera e pia ne la materna faccia
Con lagrimoso ciglio
Lo riguardava, e gli tendea le braccia,
E gli diceva: O figlio.

Ed ei, questo predone (ascolta, o greggia
Turpe di schiavi, ascolta),
Questo predon cui l'Apennin verdeggia
Di lieti paschi e folta

Mèsse, questo feroce a cui nel core
Ridea queto un desire,

Per lei lasciava il suo solingo amore,
Per lei corse a morire.

Ed or ne' luoghi, ove fra sé ristretta
È la gente de i morti
Per forza, e chiama a Dio la gran vendetta
Che il mondo riconforti,

Or co' i caduti là nel giugno ardente
De l'alta Roma a fronte
E co' i caduti nel decembre algente
De' martiri su 'l monte

Parla, e Nemesi al suo ferreo registro
Guarda con muto orrore,
Parla di lui, del Cesare sinistro,
Del bieco imperatore.

Le madri intanto accusano ne' pianti
Del viver tardo i fati
E con le man che gli addormian lattanti
Compongono gli occhi a' nati,

In vece di ghirlande le fanciulle
Vestonsi i neri panni,
Mancan le vite a le aspettanti culle...
Maledetti i tiranni!

Ma io per man torrommi questa madre
Vedova, questa sposa
Vedova; e, dove fra sue turbe ladre
Quel prete empio riposa,

E sogna d'armi e ad un selvaggio agguato
Pare che frema e rugga,
E su 'l capo gli penzola inchiodato
Gesù perché non fugga,

Là me n'andrò, là sorgerò, per vie
A tutt'altri secrete,

Come una larva del supremo die
Lento, e dirògli – O prete,

Godi. Di larga strage il breve impero
Empisti e le tue brame.
Trionfa nel tuo splendido San Piero,
O vecchio prete infame.

Con le tremule palme al ciel levate
Canta – Osanna, Dio forte –:
L'organo manda per le volte aurate
Un rantolo di morte.

Quando al popol ti volgi, ed – il Signore,
Mormori, sia con voi, –
Come adultera donna a l'amatore,
Guardi a gli sgherri tuoi.

Su le canne d'acciaio in mezzo a' ceri
L'omicidio scintilla:
Tu 'l vedi, e 'l gaudio vela di sinceri
Pianti la tua pupilla.

China su 'l pio mister che si consuma,
China il tuo viso tristo:
Di sangue, mira, il tuo calice fuma;
E non è quel di Cristo.

Ahi, d'italiche vene è sangue schietto,
Nobile sangue e caro!
E una stilla ve n'ha pur di quel petto
Che queste donne amâro;

Queste donne che dièro a' tuoi decreti
Umile il cuor, l'orecchio
Prono; e pregaron anche in lor secreti
Per te, feroce vecchio!

Io, per le grige chiome de la madre
E per le chiome bionde

De la sposa che sciolte or sotto l'adre
Pieghe un sol vel confonde;

Io, per Gesù che a gli uccisor compianse;
Io, per le donne sante,
Maddalena che amò, Maria che pianse,
O vecchio sanguinante;

Te ch'oro e ferro e bronzo mendicando
Te ne vai per la terra,
Che gridi contro a la tua patria il bando
De l'universa guerra;

Te che il lor sangue chiedi con parole
Soavi a' fidi tuoi,
Ed il sangue di chi re non ti vuole
Ferocemente vuoi;

Te da la pietà che piange e prega.
Te da l'amor che liete
Le creature ne la vita lega,
Io scomunico, o prete;

Te pontefice fosco del mistero,
Vate di lutti e d'ire,
Io sacerdote de l'augusto vero,
Vate de l'avvenire.

[ 12-17 gennaio 1868 ].

IV
NEL VIGESIMO ANNIVERSARIO
DELL'VIII AGOSTO MDCCCXLVIII

Ma non così, quando superbo apriva
L'ali e ne' raggi di vittoria adorno
Almo rise d'Italia in ogni riva
Il tuo gran giorno,


Ma non così sperai, Bologna, il canto
Recar votivo a l'urna de' tuoi forti.
Oggi insegna la Musa iroso il pianto.
Fremono i morti

Abbandonati a' retici dirupi,
Il verde Mincio flebile risponde;
E lunge ne gl'issèi pelaghi cupi
Rimugghian l'onde,

Se per l'azzurro ciel la gialla insegna
Passa a gl'itali zefiri ventando
E lieto lo stranier da poppa segna
Il sen nefando.

Ahi, come punto da mortifer angue,
Ahi, di veleno il cor ferve e ribolle!
Fumate ancor d'invendicato sangue,
Romane zolle!

O forti di Bologna, a voi la fuga
De' nemici irraggiava il guardo estinto;
E, mentre posa ed il sudor s'asciuga,
– Abbiamo vinto –

Disse, chinato sopra il sen trafitto
Del compagno, il compagno. A le parole
Pallido ei rise, e su i cubiti ritto
Salutò il sole

Occidente e l'Italia. E la mattina
Lo stranier, come lupo arduo che agogna,
Ululato avea su da la collina:
– Odi, o Bologna.

Le mie vittoriose aquile io voglio
Piantar dove moriva il tuo Zamboni
A i tre color pensando; e vo' l'orgoglio
De' tuoi garzoni


Pestar sì come il piè de' miei cavalli
Pesta il fien de' tuoi campi. A Dio gradito,
Empier di San Petronio io vo' gli stalli
Del lor nitrito.

Vo' il tuo vin pe' miei prodi ed i sorrisi
De le donne: a la mia staffa prostrati
Ne la polvere io vo' gli antichi visi
De' tuoi magnati.

Odi, Bologna. Stride ampia la rossa
Ala del foco su' miei passi: l'ira
Porto e il ferro ed il sal di Barbarossa:
Sermide mira. –

Lo stranier così disse. Ed un umìle
Dolor prostrò per l'alte case il gramo
Cuor de' magnati. Ma la plebe vile
Gridò: Moriamo.

E tra 'l fuoco e tra 'l fumo e le faville
E 'l grandinar de la rovente scaglia
Ti gittasti feroce in mezzo a i mille,
Santa canaglia.

Chi pari a te, se ne le piazze antiche
De' tuoi padri guerreggi? Al tuo furore,
Sì come solchi di mature spiche
Al mietitore,

Cedon le file; e via per l'aria accesa
La furia del rintocco ulula forte
Contro i tamburi e in vetta d'ogni chiesa
Canta la morte.

Da gli odi fiamma d'olocausti santi,
Da i vapori del sangue alito pio
Sale: o martire plebe, a te davanti
Folgora Dio.


Ecco, su' corpi de' mal noti eroi
Erge la patria i suoi color festiva;
Ed i vecchi e le donne e i figli tuoi
Gridano: Viva.

Il tuo sangue a la patria oggi: a la legge
Il sangue e il pan domani. E pur non fai
Tu leggi, o plebe, e, diredato gregge,
Patria non hai.

Ma quei che a te niegan la patria, quelli
Che per sangue e sudor ti dànno oltraggio,
Ne' giorni del conflitto orridi e belli,
Quando al gran raggio

De l'estate si muore e incontro al rombo
De' cannoni le picche ondanti vanno
E co' le pietre si risponde al piombo,
Ove, ove stanno?

Oh qui non le tediose alme trastulla
De' giuochi la vicenda e de le dame!
La santa Libertà non è fanciulla
Da poco rame;

Marchesa ella non è che in danza scocchi
Da' tondeggianti membri agil diletto,
Il cui busto offre il seno ed offron gli occhi
Tremuli il letto:

Dura virago ell'è, dure domanda
Di perigli e d'amor pruove famose:
In mezzo al sangue de la sua ghirlanda
Crescon le rose.

Dormono ancora i fior dolce fiammanti
Ne' bocci verdi; ma il soave e puro
April verrà. D'agosto ombre aspettanti.
Per voi lo giuro.
[ 31 luglio - 4 agosto 1868 ].

V
IL CESARISMO
[ LEGGENDO LA INTRODUZIONE ALLA VITA
DI CESARE SCRITTA DA NAPOLEONE III ]

I
Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto
Svolge il diritto, e dal misfatto il fato.
Se un erario al bisogno è scassinato
O un cittadino per error trafitto,

Tutto si sanerà con un editto.
A sua gloria e per forza ei ci ha salvato.
Chi ebbe tenga, e quel ch'è stato è stato.
Nuovo ordine di cose in cielo è scritto. –

Così diceva, senator da ieri,
Il ladro fuggitivo servo Mena;
E la plebe a Labien sassi gittava.

Ma la legione undecima cantava:
– Trionfo! quattro nivei destrieri,
Divin trionfo, al divin Giulio infrena! –

II
Quattro al dio Giulio, o dio Trionfo, infrena,
Come al buon Furio già, nivei cavalli:
Leghi al carro d'avorio aurea catena
L'Egitto e il Ponto e gli Africani e i Galli.

Gracco, la plebe tua straniere valli
Ari a un suo cenno; e tu curva la schiena,
Sangue Cornelio, e a' senator da' gialli
Crin la via mostra che a la curia mena.

Dittatore universo, anche la vaga
Lingua d'Ennio ei fermò; l'anno ha costretto
Errante già per la siderea plaga.



Ma fra tant'inni il mondo ode su 'l petto
Santo di Cato stridere la piaga
E scricchiolar di Nicomede il letto.

Settembre 1868.

VI
PER GIUSEPPE MONTI
E GAETANO TOGNETTI
MARTIRI DEL DIRITTO ITALIANO

I
Torpido fra la nebbia ed increscioso
Esce su Roma il giorno:
Fiochi i suon de la vita, un pauroso
Silenzio è d'ogn'intorno.

Novembre sta del Vatican su gli orti
Come di piombo un velo:
Senza canti gli augei da' tronchi morti
Fuggon pe 'l morto cielo.

Fioccano d'un cader lento le fronde
Gialle, cineree, bianche;
E sotto il fioccar tristo che le asconde
Paion di vita stanche

Fin quelle, che d'etadi e genti sparte
Mirar tanta ruina
In calma gioventù, forme de l'arte
Argolica e latina.

Il gran prete quel dì svegliossi allegro,
Guardò pe' vaticani
Vetri dorati il cielo umido e negro,
E si fregò le mani.

Natura par che di deforme orrore

Tremi innanzi a la morte:
Ei sente de le piume anco il tepore
E dice – Ecco, io son forte.

Antecessor mio santo, anni parecchi
Corser da la tua gesta:
A te, Piero, bastarono gli orecchi;
Io taglierò la testa.

A questa volta son con noi le squadre,
Né Gesù ci scompiglia:
Egli è in collegio al Sacro Cuore, e il padre
Curci lo tiene in briglia.

Un forte vecchio io son; l'ardor de i belli
Anni in cuor mi ritrovo:
La scure che aprì 'l cielo al Locatelli
Arrotatela a novo.

Sottil, lucida, acuta, in alto splenda
Ella come un'idea:
Bello il patibol sia: l'oro si spenda
Che mandò Il Menabrea.

I francesi, posato il Maometto
Del Voltèr da l'un canto,
Diano una man, per compiere il gibetto,
Al tribunal mio santo.

Si esponga il sacramento a San Niccola
Con le indulgenze usate,
Ed in faccia a l'Italia mia figliuola
Due teste insanguinate. –

II
E pur tu sei canuto: e pur la vita
Ti rifugge dal corpo inerte al cuor,
E dal cuore al cervel, come smarrita
Nube per l'alpi solvesi in vapor.


Deh, perdona a la vita! A l'un vent'anni
Schiudon, superbi araldi, l'avvenir;
E in sen, del carcer tuo pur tra gli affanni.
La speme gli fiorisce et il desir.

Crescean tre fanciulletti a l'altro intorno,
Come novelli del castagno al piè;
Or giaccion tristi, e nel morente giorno
La madre lor pensa tremando a te.

Oh, allor che del Giordano a i freschi rivi
Traea le turbe una gentil virtù
E ascese a le città liete d'ulivi
Giovin messia del popolo Gesù,

Non tremavan le madri; e Naim in festa
Vide la morte a un suo cenno fuggir
E la piangente vedovella onesta
Tra il figlio e Cristo i baci suoi partir.

Sorridean da i cilestri occhi profondi
I pargoletti al bel profeta umìl;
Ei lacrimando entro i lor ricci biondi
La mano ravvolgea pura e sottil.

Ma tu co 'l pugno di peccati onusto
Calchi a terra quei capi, empio signor,
E sotto al sangue del paterno busto
De le tenere vite affoghi il fior.

Tu su gli occhi de i miseri parenti
(E son tremuli vegli al par di te)
Scavi le fosse a i figli ancor viventi,
Chierico sanguinoso e imbelle re.

Deh, prete, non sia ver che dal tuo nero
Antro niun salvo a l'aure pure uscì;
Polifemo cristian, deh non sia vero
Che tu nudri la morte in trenta dì.


Stringili al petto, grida – Io del ciel messo
Sono a portar la pace, a benedir –
E sentirai dal giovanile amplesso
Nuovo sangue a le tue vene fluir...

In sua mente crudel (volgonsi inani
Le lacrime ed i prieghi) egli si sta:
Come un fallo gittò gli affetti umani
Ei solitario ne l'antica età.

III
Meglio così! Sangue dei morti, affretta
I rivi tuoi vermigli
E i fati; al ciel vapora, e di vendetta
Inebria i nostri figli.

Essi, nati a l'amore, a cui l'aurora
De l'avvenir sorride
Ne le limpide fronti, odiino ancora,
Come chi molto vide.

Mirate, udite, o avversi continenti.
O monti al ciel ribelli,
Isole e voi ne l'oceàn fiorenti
Di boschi e di vascelli;

E tu che inciampi, faticosa ancella,
Europa, in su la via;
E tu che segui pe' i gran mar la stella
Che al Penn si discovria;

E voi che sotto i furiosi raggi
Serpenti e re nutrite,
Africa ed Asia, immani, e voi selvaggi,
Voi, pelli colorite;

E tu, sole divino: ecco l'onesto
Veglio, rosso le mani
Di sangue e 'l viso di salute: è questo

L'angel de gli Sciuani.

Ei, prima che il fatale esecutore
Lo spazzo abbia lavato,
Esce raggiante a delibar l'orrore
Del popolo indignato.

Ei, di demenza orribile percosso,
Com'ebbro il capo scuote,
E vorria pur vedere un po' di rosso
Ne l'òr de le sue ruote.

Veglio! son pompe di ferocie vane
In che il tuo cor si esala,
E in van t'afforza a troncar teste umane
Quei che salvò i La Gala.

Due tu spegnesti; e a la chiamata pronti
Son mille, ancor più mille.
I nostri padiglion splendon su i monti,
Ne' piani e per le ville,

Dovunque s'apre un'alta vita umana
A la luce a l'amore:
Noi siam la sacra legion tebana,
Veglio, che mai non muore.

Sparsa è la via di tombe, ma com'ara
Ogni tomba si mostra:
La memoria de i morti arde e rischiara
La grande opera nostra.

Savi, guerrier, poeti ed operai,
Tutti ci diam la mano:
Duro lavor ne gli anni, e lieve omai
Minammo il Vaticano.

Splende la face, e il sangue pio l'avviva;
Splende siccome un sole:
Sospiri il vento, e su l'antica riva

Cadrà l'orrenda mole.

E tra i ruderi in fior la tiberina
Vergin di nere chiome
Al peregrin dirà: Son la ruina
D'un'onta senza nome.

30 novembre 1868.

VII
HEU PUDOR!

I
Mènte chi dice ch'ove il core avvampa
Secondi l'aura de l'acceso ingegno.
Avrei ben io d'infame eterna stampa
Segnato in fronte questo gregge indegno.

Feroce forse come il tuo m'accampa,
Dante padre, nel cuore odio e disdegno;
Ma chiusa rugge la vorace vampa
Me distruggendo, e mai non giunge al segno.

Altri laghi di pegola, addensata
Di serpenti di mostri e dimon duri
Altra e duplice bolgia avrei scavata;

E v'avrei co' suoi monti e co' suoi muri,
Come uno straccio lurido, gettata
Questa terra di Fucci e di Bonturi.

II
No. Vanni Fucci in faccia a Dio rubava
Con la bestemmia in bocca e in fronte il riso,
Ribadito di serpi egli squadrava
Da l'inferno le fiche al paradiso:

Il poco pan che del suo pianto lava
Ed è nel sangue de' suoi figli intriso

Voi rubate a la patria, e poi con brava
Lingua sputate a lei virtù su 'l viso.

Le case de' nemici al sol lucente,
Con la face a una man, ne l'altra i dardi,
Vanni Fucci cercò superbamente:

Voi, ne la chiusa notte, a passi tardi,
Ferite al canto; voi da l'aurea lente
Piccioletti ladruncoli bastardi.

III
Da le tombe del pian che aprile infiora
E da i monti che batte il verno immite
E da quelle che il mar cuopre e colora,
Morti d'Italia, venite, venite!

Mirate, o morti: il sangue vostro irrora,
Ricadendo aureo nembo, a lor le vite;
Empie a' lenoni il ventre e rincolora
Le rose a' ludi de l'amor sfiorite.

Mirate, o morti: ei fûr che la vittoria
Vi contesero un giorno, e, candid'ossa,
Sol del martirio avvolge voi la gloria:

Ora di lor viltà ne l'ardua possa,
Ora sfidando i popoli e la storia,
Ora barattan su la vostra fossa.

1868-69.

VIII
LE NOZZE DEL MARE
ALLORA E ORA

Quando ritto il doge antico
Su l'antico bucentauro
L'anel d'oro dava al mar,

E vedeasi, al fiato amico

De la grande sposa cerula,
Il crin bianco svolazzar;
Sorrideva nel pensiero
Ne le fronti a' padri tremuli

De' forti anni la virtù,
E gittava un guardo altero,
Muta, a l'onde, al cielo, a l'isole,
La togata gioventù.

Ma rompea superbo un canto
Da l'ignudo petto ed ispido
De gli adusti remator,
Ch'oggi, vivono soltanto,

Tizian, ne le tue tavole,
Ignorati vincitor.
Ei cantavano San Marco,
I Pisan, gli Zeni, i Dandoli,

Il maggior de i Morosin;
E pe' i sen lunati ad arco
Lunghi gli echi minacciavano
Sino al Bosforo e a l'Eussin.

Ne la patria del Goldoni
Dopo il dramma lacrimevole
La commedia oggi si dà:
De i grandi avi i padiglioni

Son velari, onde una femmina
Il mar d'Adria impalmerà.
Le carezze fien modeste:
Consumare il matrimonio

I due sposi non potran:
Paraninfa, da Trieste
L'Austria ride; e i venti illirici

L'imeneo fischiando van.

Fate al Lido un po' di chiasso
E su a bordo un po' di musica!
Le signore hanno a danzar.
Ma, per dio, sonate basso:

Qualcheduno a Lissa infracida,
Che potrebbesi svegliar.
Bah! qui porgono la mano
Vaghe donne, a sprizzi fervidi

Lo sciampagna esulta qui.
Conte Carlo di Persano,
Oggi a festa i bronzi rombano:
Non mancate al lieto dì.
Luglio 1869.

IX
VIA UGO BASSI
Quando porge la man Cesare a Piero,
Da quella stretta sangue umano stilla:
Quando il bacio si dan Chiesa e Impero,
Un astro di martirio in ciel sfavilla.

Ma nel cuor de le genti il chiuso vero
Con un guizzo d'amor risponde e brilla:
Ne la notte l'amor e nel mistero
Le folgori de l'ira dissigilla.

Di ghirlande votive or questa via
Nel solenne suo dì Bologna adombra
D'un prete sconsacrato a l'alma pia.

Ma lascia tu nel gran concilio sgombra,
Roma, una sedia: a te Bologna invia
Tra' carnefici suoi del Bassi l'ombra.

Agosto 1869.


X
ONOMASTICO
Ugo il poeta, allor che Italia in forse
Di vita ne' servili ozi giacea,
Co 'l verbo ardente il secolo percorse,
Scossel con l'ira che virtù ricrea.

Allor che Italia dal giaciglio sorse
Giovenilmente e libertà chiedea,
Lei lo zel d'Ugo martire precorse
E poi co 'l sangue suggellò l'idea.

Ov'è dissidio tra il pensiero e l'opra
E larva la parola è del pensiero
E la parvenza a l'essere va sopra:

O giovinetto, il bel nome severo,
Tuo domestico vanto, la via scopra:
Intera libertà vuol l'uomo intero.

[ Novembre 1871 ].

XI
LA CONSULTA ARALDICA
Cercate pur se il pio siero che stagna
Nel cor d'un paolotto ignoto al dì,
Da i reni d'un ladron de l'Alemagna
Sangue cavalleresco un giorno uscì,

Se ne la tabe che da gli avi nacque
E strugge ai figli l'ultimo polmon
Vive la colpa d'una rea che piacque
Adultera latina al biondo Otton.

Deh dite: quante belve a cui le spade
Affondar ne la carne era virtù,
Quanti marchesi che assalian le strade,
Quanti mitrati che vendean Gesù,


Quanti storici gradi di peccato
Occorron dunque, dite in vostra fé
Per poter la camicia di bucato
Porger la mane al dormiglioso re?

Per quante aule di barbari signori
Vigilate dal pubblico terror
Bisogna aver contaminato i cuori
Ed i ginocchi, e quante volte ancor

Rinnegata la misera latina
Patria e del suo comun le libertà,
Per poter di diritto a la regina
Tener la coda quando a messa va?

Oh non per questo dal fatal di Quarto
Lido il naviglio de i mille salpò,
Né Rosolino Pilo aveva sparto
Suo gentil sangue che vantava Angiò.

Ma voi da l'arche, voi da gli scaffali,
Invidiando a i vermi ombra e sopor,
Corna di cervi e teschi di cignali
Ed ugnoli d'arpie mettete fuor;

Ed a gli scheltri de le ree castella
Che foscheggian pe 'l verde ermo Apennin,
Poi che l'austero e pio Gian de la Bella
Trasse i baroni a pettinare il lin

(E allora il pugno già contratto al brando
Ne l'opera plebea ben si spianò,
E su le labbra tumide il comando
In lusinga servile iscivolò),

A quegli scheltri voi chiedete ancora
Le targhe colorate e il pennoncel;
E vorreste veder l'antica aurora
Arrider mesta a un gotico bertel.


O dormenti nel giorno, il gallo canta,
Ferve il lavoro e cedon l'ombre al ver;
L'azzurro oltremarin di Terra santa
È bava di lumaca in suo sentier.

Rendete pur, rendete a i vecchi scudi
Il pallid'oro che l'ebreo raschiò
Ed a gli elmi le corna: io questi ludi
A la vecchiezza invidiar non so.

E aspettate così ne le supreme
Gran gale, o morituri, il funeral:
La libertà tocca il tamburo, e insieme
Dileguan medio evo e carneval.

Ottobre 1869.

XII
NOSTRI SANTI E NOSTRI MORTI
A i dì mesti d'autunno il prete canta
I morti in terra ed i suoi santi in ciel,
E muta il suon de' bronzi, e l'are ammanta
Oggi di lieto e doman d'atro vel.

Noi d'un cuor solo e con un solo rito
A' tuoi santi e a' tuoi morti, o libertà,
Libiamo il vin del funeral convito,
Come la Grecia ne le antiche età.

Ahi, ma libando a' gloriosi estinti
Ne i dì fausti la greca gioventù
Rammemorava i regi uccisi e i vinti,
E in Atene regnavi unica tu.

De' nostri morti in su le fosse erbose
Pasce il crociato belga il suo destrier:
Il vostro sangue, o eroi, nudrì le rose
Di tiranni lascivi a l'origlier.


Da i monti al mar la bianca turba, eretta
In su le tombe, guarda, attende e sta:
Riposeranno il dì de la vendetta,
De la giustizia e de la libertà.

Faenza, 1 novembre 1869.

XIII
IN MORTE DI GIOVANNI CAIROLI
O Villagloria, da Crèmera, quando
La luna i colli ammanta,
A te vengono i Fabi, ed ammirando
Parlan de' tuoi settanta.

Tinto del proprio e del fraterno sangue
Giovanni, ultimo amore
De la madre, nel seno almo le langue,
Caro italico fiore.

Il capo omai da l'atra morte avvolto
Levasi; ed improvviso
Trema su 'l bianco ed affilato volto
L'aleggiar d'un sorriso,

L'occhio ne l'infinito apresi, il fere
Da l'avvenire un raggio:
Vede allegre sfilar armi e bandiere
Per un gran pian selvaggio,

E in mezzo il duce glorioso: ondeggia
La luminosa chioma
A l'aure del trionfo: il sol dardeggia
Laggiù in fondo su Roma.

Apri, Roma immortale, apri le porte
Al dolce eroe che muore:
Non mai, non mai ti consacrò la morte,
Roma, un più nobile core.


Del cor suo dal bordel venda un fallito
Cetégo la parola,
Eruttando che il tuo gran nome è un mito
Per le panche di scola:

Al divieto straniero adagi Ciacco
L'anima tributaria
Su l'altro lato, e dica – Io son vigliacco,
E poi c'è la mal'aria –:

Per te in seno a le madri, ecco, la morte
Divora altri figliuoli:
Apri, Roma immortale, apri le porte
A Giovan Cairoli.

Egli, ombra vigilante a i dì novelli,
Il tuo silenzio antico
Abiterà co' Gracchi e co' Marcelli
E co 'l suo forte Enrico.

L'ali un dì spiegherà su 'l Campidoglio
La libertà regina:
Groppello, allor da ogni ultimo scoglio
De la terra latina,

E giù da l'Alpi e giù da gli Apennini,
Garzoni e donne a schiera
Verranno a te, fiorite i lunghi crini
D'aulente primavera.

E con lor sarà un vate, radioso
Ne la fronte divina,
Come Sofocle già nel glorioso
Trofeo di Salamina:

Ei toccherà le corde, e de i fratelli
Dirà la santa gesta;
Né mai la canzon ionia a' dì più belli
Risonò come questa.


Groppello, a te co 'l solitario canto
Nel mesto giorno io vegno,
E m'accompagna de l'Italia il pianto
E, nube atra, lo sdegno:

Nel mesto giorno che la quarta volta
Te visitò la Parca,
E sott'essa la tua funerea volta
Batte il martel su l'arca

Del giovinetto, la cui mite aurora
Empiva i clivi tuoi
Di roseo lume. Oh come sola è ora
La casa de gli eroi!

De le sue stanze pe 'l deserto strano
S'incontran due viventi:
Tristi echi rende il sepolcreto vano
Sotto i lor passi lenti:

Avvalla il figlio de la madre in faccia
Il viso e gli occhi muti,
Che non rivegga in lui la cara traccia
De' suoi quattro perduti.

O madre, o madre, a i dì de la speranza
Dal tuo grembo fecondo
Cinque valenti uscieno: ecco, t'avanza
Oggi quest'uno al mondo.

L'alma benigna nel sereno viso
Splendea di que' gagliardi,
Come del sol di giugno il vasto riso
Sovra i laghi lombardi.

Ahi, ahi! de gli stranier tutte le spade
La carne tua gustaro!
Ahi, ahi! d'Italia tutte le contrade
Del cor tuo sanguinaro!


Qual cor fu il tuo, quando l'estremo spiro.
O madre de gli eroi,
Di lui ti rinnovò tutto il martiro
Di tutti i figli tuoi!

Or su le tombe taciturne siedi,
O donna de i dolori,
E i dì estremi volar sopra ti vedi
Come liberatori.

Qui cinque addur nuore dovevi a' nati,
Madre gentile e altera;
Cara speme di prole a' tuoi penati
Ed a la patria: e nera

Suoi segni stende per le avite stanze
La morte. Ma d'augùri
Rifulgon liete e suonano di danze
Le case de' Bonturi.

Corre ivi a fiotti il vino, e sangue sembra;
L'orgia a le fami insulta;
De le adultere ignude in su le membra
La libidine esulta.

I barcollanti amori, in mal feconde
Scosse, d'obliqua prole
Seminan tutte queste serve sponde,
Ed oltraggiano il sole.

E il tradimento e la vigliaccheria,
Sì come cani in piazza,
Ivi s'accoppian anche: ebra la ria
Ciurma intorno gavazza,

E i viva urla a l'Italia. Maledetta
Sii tu, mia patria antica,
Su cui l'onta de l'oggi e la vendetta
De i secoli s'abbica!


La pianta di virtù qui cresce ancora,
Ma per farsene strame
I muli tuoi: qui la viola odora
Per divenir letame.

Oh, risvegliar che val l'ira de i forti,
Di Dante padre l'ira?
Solingo vate, in su l'urne de' morti
Io vo' spezzar la lira.

Accoglietemi, udite, o de gli eroi
Esercito gentile:
Triste novella io recherò fra voi:
La nostra patria è vile.

[ Settembre 1869 - febbraio 1870 ].

XIV
PER LE NOZZE DI
CESARE PARENZO
– Superbo! e lui non tocca
Gentil senso d'amore:
Motto di rosea bocca
A lui non scende in core.
Ei per la via de gli anni
Tutt'i soavi inganni

Gittò, gittò la soma
De le memorie pie;
E con la mente doma
Da torve fantasie,
Solitario, aggrondato,
Va pe 'l divin creato.

Amor covava in petto
Al buon veglio di Teo:
In lui l'ira e 'l dispetto
Albergo e nido feo,






E la Furia pon l'ova,
E la Musa le cova;

E guizzan viperette
Da i sanguinosi vani,
E fischian su le vette
De' versi orridi e strani,
E lingueggiano al sole
Tra rovi di parole. –

E pur (m'udite, o voi
Che un dì mi amaste) ancora
Dischiude i color suoi
E in mezzo al cor m'odora
Più soave che pria
Il fior di poesia.

E ne vo' far ghirlande
Per le fronti severe
Ove suoi raggi spande
L'onor et il dovere,
E per le fronti belle
Di pudiche donzelle.

O monti, o fiumi, o prati:
O amori integri e sani;
O affetti esercitati
Fra una schiatta d'umani
Alta gentile e pura;
O natura, o natura;

Da questo reo mercato
Di falsitadi, anelo
A voi, come piagato
Augello al proprio cielo
Dal fango ond'è implicata
L'ala al sereno usata.

Dolci sonate e molli

Aleggiate, o miei versi,
Qual d'Imetto da i colli
Di roseo lume aspersi
Mormoravan giulivi
Del bel Cefiso a i rivi

Gli sciami de le attee
Api, ed allora inchino
Libava a le tre dee
Il tragico divino
Meditando i secreti
Di Colono oliveti.

Dolci sonate e puri
De la candida festa
Fra i domestici augùri:
Parenzo oggi a la onesta
Tua legge affida, o amore,
Il prode ingegno e il core.

E ride la donzella
A l'amator marito,
Lei che tacita e bella
L'attese, ed a l'ardito
Guerrier di nostra fede
Serbò questa mercede.

Oh dolce oblio profondo
De le lotte anelanti!
Oh divisi dal mondo
Susurri de gli amanti,
Che l'aura pia diffonde
Tra l'ombre e tra le fronde,

Ma in ciel par che gl'intenda
Espero amico lume
E soave risplenda
Con fraterno costume
A la fronte levata

De la fanciulla amata!

Se non che dietro rugge
La marea de la vita,
E l'anima che fugge
Chiama a la via smarrita:
In su l'aspro sentiero
Tornate, o sposi, e al vero.

Da i vostri amori, o prode
Gioventù di mia terra,
A la forza e a la frode
Esca perenne guerra,
Esca a l'italo sole
Una robusta prole;

E il sano occhio nel giorno
Del ver fisi giocondo,
E tutto a lei d'intorno
Rida libero il mondo.
Non è divino fato
Il dolore e il peccato.

A l'armi, a l'armi, o amore!
Tu puoi, tu sol, cotanto!
Se questa speme in core
Io porti, ancora il canto
Da l'anima ferita
Gitterò ne la vita;

E su 'l ginocchio, come
Il gladiator tirreno,
Poggiato, io, fra le chiome
E nel riarso seno
La fresc'aura sentendo,
Morirò combattendo.

[ 1-3 maggio 1870 ].

RIPRESA

XV
AVANTI! AVANTI!

I
Avanti avanti, o sauro destrier de la canzone!
L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione,
Indomito destrier.
A noi la polve a l'ansia del corso, e i rotti vènti,
E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
L'urlo solingo e tier.

I bei ginnetti italici han pettinati crini,
Le constellate e morbide aiuole de' giardini
Sono il lor dolce agon:
Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
De le fanfare al suon;

E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
Il picciol collo inarcano e masticando il morso
Par che rignino – Ohibò! –
Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
D'un corpo che invecchiò,

Ripensando gli scalpiti de' corteggi e le stalle
De' tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
Guarda con muto orror.
E noi corriamo a' torridi soli, a' cieli stellati,
Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
Dietro un velato amor.

Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
Non vedi tu le parie forme del tempo antico
Accennarne colà?

Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
Oh gloria, oh libertà!

II
Ahi, da' prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
Ne' superbi silenzii il tuo superbo amore.
Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
Mi sfolgorâr da' gelidi marmi nel petto un raggio,
Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
E i lampi de' bianchi omeri sotto le chiome d'òr.

E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
O immane statua bronzea su dirupato monte,
Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.

A più frequente palpito di umani odii e d'amori
Meglio il petto m'accesero ne' lor severi ardori
Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va.

Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata,
Gentil leopardo, lanciasi Camillo Demulèn,
E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
Per rivelarti a' popoli, con le taurine braccia,
O repubblica vergine, l'amazonio tuo sen.

A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
Con la pupilla cerula fisa e gli aperti cieli,
Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
Ti rideva da l'anima la fede, allor che il bello
E biondo capo languido chinavi, e te, fratello
Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color;


Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia
Protendea la repubblica santa le aperte braccia
Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol.
Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni,
Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni:
– Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?

Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,
E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente. –
O popolo d'Italia, vita del mio pensier,
O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,
Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
E de' miei versi funebri t'incoroni il bicchier.

III
Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato!
Obliar vo' nel rapido corso l'inerte fato,
I gravi e oscuri dì.
Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
I falchi salutarono augurando ne l'alto
E il bufolo muggì?

Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
Ove china su 'l nubilo inseminato piano
La torre feudal
Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
Veglia de le rasenie cittadi in mezzo a' boschi
Il sonno sepolcral.

Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
Verdi tra il cielo e il mar,
Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
Azzurro ad aspettar?

Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
Torre di Donoratico a la cui porta nera
Conte Ugolin bussò

Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante,
Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante
Ne l'inferno ammirò?

Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte
Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
Novella il cacciator
Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
I falchetti famelici empiono il ciel di strida
E il can guarda al clamor.

Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco;
E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
Fûro il mio solo altar;
E con me nel silenzio meridian fulgente
I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
Veniano a conversar.

E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
Che ne' solchi de i secoli aperti con la spada
Dal console roman
Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
Comune italian,

Tra le germane faide e i salmi nazareni
Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
Canti de' mietitor.
Chi di quell'orzo pascesi, o nobile corsiero,
Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
Nel sano petto il cor.

Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso:
Ecco tutte le redini io ti libero al corso:
Corriam, fiera gentil.
Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
De' mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
E a noi rida l'april,


L'april de' colli italici vaghi di mèssi e fiori,
L'april santo de l'anima piena di nuovi amori,
L'aprile del pensier.
Voliam sin che la folgore di Giove tra la rotta
Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
Cavallo e cavalier,

O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione,
Con l'occhio ancora gravido di luce e visione,
Su 'l toscano mio suol,
Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica
Verso il morente sol.

[ Ottobre 1870 - gennaio 1873 ].


Carducci raffigurato in busto
nella Biblioteca Civica di Verona
Giosuè Carducci
Centenario della morte
Giosue Carducci
Giambi ed epodi (1867-1872).
Nuovamente raccolti e corretti con
prefazione, Bologna, N. Zanichelli, 1882