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Giosuè Carducci - GIAMBI ED EPODI
































GIAMBI ED EPODI


L'opera è composta da due libri formati il primo, da quindici, il secondo da quattordici componimenti, il tutto è preceduto da un Congedo e fu pubblicata nel 1868. L'orizzonte tematico vede prevalere nel primo libro tematiche più intimistiche nel secondo vengono alla luce spunti politici e sociali. Il clima in cui nasce quest'opera è particolare, ormai l'Unità d'Italia è stata realizzata, ma si tratta di una riunificazione monca di Roma e Venezia e questo non ha fatto che deludere e infangare gli ideali del Risorgimento che avevano mosso verso l'indipendenza dallo straniero. Altri episodo come l'inibizione di Garibaldi sull'Aspromonte e le sconfitte di Custoza e Lissa non facevano che esacerbare l'insoddisfazione e la critica verso una classe politica che costruiva poco le sue vittorie sul campo di battaglia rispetto a successi ottenuti con sotterfugi e accordi. Il Congedo esprime la valenza dissimulatrice della poesia che ritorna in un mondo dominato dalla violenza e dalla guerra per denunziarne i mali e i vizi. I ricordi più cari spesso si stagliano nella campagna collinare dell'amata Maremma come avviene nello struggente ricordo del morto fratello Dante in Per val d'Arno. Ma egli sa anche celebrare figure integerrime che in questa società dalla nera moralità risaltano per il candore dell'animo e per la nobiltà dei comportamenti come in A Pietro Thouar, commosso ricordo di un amico che lo aveva aiutato nei primi anni bolognesi, figura umile ma valente studioso e letterato che non si fregiava di titoli per esprimere la propria eminenza ma di generosità. La critica già rivolta nei confronti del potere temporale in Agli amici della val Tiberina, si rinnovella nell'ode a Edoardo Corazzini, in cui il ricordo del giovane amico ferito a Mentana gli da l'occasione di allargare lo sguardo alla Francia che pure aveva sparso ai quattro venti i dogmi della rivoluzione (libertà, fratellanza, uguaglianza) che guidata dal "cesare sinistro" Napoleone III, era diventata "masnadiera papale". Nel frattempo il successor di Pietro "smentisce Iddio" e "Di sangue, mira, il tuo calice fuma; / E non è quello di Cristo". In conclusione l'anatema e la scomunica (vv. 166-172): "Te […] io scomunico, o prete Te pontefice fosco del mistero vate di lutti e d'ire io sacerdote de l'augusto vero, vate dell'avvenire". Essa si corrobora ancor più esacerbata nell'ode Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, l'uno muratore l'altro operaio, che si erano prodigati, avvicinandosi a Roma i garibaldini, a far saltare la caserma Serritori, per provocare una rivolta popolare. Ebbene la vicenda non andò per il verso giusto e i due catturati, furono giustiziati e il loro carnefice fu proprio Pio IX. In un plumbeo giorno di novembre il pontefice è radioso, quasi si celebri una festa e si frega le mani prima dell'esecuzione. Poi il rimprovero si estende a tutte le latitudini partendo dall'Europa che ha permesso questa insania e l'ode ha una conclusione consolatoria : "Savi, guerrier, poeti ed operai, / Tutti ci diam la mano: / Duro lavor ne gli anni, e lieve ormai / Minammo il Vaticano". Non si salvano in questa "Sodoma" nemmeno i politici, essi in Heu pudor!, sono designati come "gregge indegno" e l'Italia appare in mano a Fucci e Bonturi e senza rispetto per coloro che si sono sacrificati per "fare l'Italia", "Ora barattan sulla vostra fossa". Anche una cerimonia toccante come quella dello "Sposalizio del mare", nell'ode Le nozze del mare, viene corrosa "ora" da un aura di decadenza cosi avviene che: "Dopo il dramma lacrimevole /La commedia oggi si dà". Infatti non c'è più il Doge sulla poppa de "l'antico bucentauro" a gettare nelle fredde acque l'anello simbolo di un legame vicendevole che unisce la città e il mare, ma una donna : "De i grandi avi i padiglioni / Son velari, onde una femmina / Il mar d'Adria impalmerà". Egli non può nemmeno giustificare il cieco e anacronistico gesto del neonato governo di istituire una consulta araldica per valutare onoreficenze, stemmi, titoli e quant'altro vecchio nobilume impolverato, per questo un moto di sdegno e di condanna si alza in La consulta araldica in cui c'è il tentativo di risuscitare un mondo di "larve". In Avanti! Avanti!, il titolo è un'incitazione al "sauro destrier de la canzone!", che non è altro se non il moto creativo del poeta, a slanciarsi nella corsa attraverso la gloria, la bellezza, la libertà non illanguidendosi e spossandosi o coprendosi di fiori come la seconda generazione romantica e quindi autoincitazione a continuare la stagione poetica giambica. La corruzione morale emerge anche in A certi censori, in cui sullo sfondo si muovono personaggi a dir poco grotteschi con nomi presi dalla tradizione della satira antica: Mena, Pomponio. Ma la poesia emerge con la sua katàrsis: "E con la spada alto volando prostra I mostri e i giganti, / E con le trombe e la suprema giostra / Chiama i guerrier festanti." La farsa e la caricatura si fanno goliardata in Io Triumphe!, dove i conquistatori che giungono un anno dopo che Napoleone III ha tolto le tende, sono accolti dalle glorie del passato (Furio Camillo, Caio Duilio, Lucio Virginio, Tullio Cicerone, Cornelio Tacito, Marco Giunio, Bruto, Marcaurelio) che di fronte a tanto "sfolgorar" di animi e ingegni si fanno da parte lasciando ai moderni campo libero. L'abbattimento delle stesse smancerie delle favorite, la sfarzosità del re alla corte di Versailles e dell'ancien regime e dei ciechi dogmatismi ad esso collegati sono orgomento di Versagia (vv. 49-52): "E il giorno venne: e ignoti, in un desio /Di veritade, con opposta fé, /Decapitarono, Emmanuel Kant, Iddio, / Massimiliano Robespierre il re." L'immagine iniziale di un'Italia che, con passo felpato, si insedia sul Campidoglio, zittendo le proverbiali oche, campeggia in Canto dell'Italia che va in Campidoglio, dal momento che il loro starnazzare potrebbe insospettire il cardinale Giacomo Antonelli segretario di Stato di Pio IX. La prudenza, perseguita da Giovanni Lanza, in questo caso non è giustificata e appare anzi segno di viltà, tanto più che Napoleone III è ormai lontano da un po'. Queste oche offrono il destro per una critica alla scuola dei "poeti odiernissimi" . Si staglia poi l'immagine di un'Italia per secoli asservita, che passava con disinvoltura di dominazione in dominazione che si sente quasi in colpa per aver "preso" Roma ed è pronta a far penitenza. Nel 1871 la Francia corse un grave pericolo infatti il ritorno alla monarchia, abbattuta dalla Rivoluzione, era dato quasi per certo e l'investito da questo onore e onere era Carlo Ferdinando d'Artois conte di Chambord, col nome di Enrico V. Incarnano questi timori, i distici de La sacra di Enrico Quinto, in cui in un paesaggio a dir poco "sofferente" e "malato" , si svolge lo stuolo regale che si reca a Saint Denis per l'incoronazione, e una tregenda di fantasmi e ossa balla una dance macabre. Anche un fatto di cronaca nera avvenuto nel 1878 e più precisamente, uno scandalo familiare, entra in questa galleria dissoluta. È il caso di A proposito del processo Fadda, scritto in memoria della morte, per altro miserevole, del capitano G. Fadda, che aveva valorosamente combattuto nel 1859, ma che non mori sul campo ma per mano di un cavallerizzo di circo, amante di sua moglie. C'è il parallelismo tra le corrotte "nipoti di Camilla", le matrone romane assetate di sangue e le discendenti tanto dissolute da darsi all'adulterio quanto false nella loro pudicizia di facciata . Questa protesta, questa ironia, corrosiva e irriverente, dopo essere esplosa travolgendo tutto ciò che trovava ora si placava in Canto d'amore, che chiude l'opera. Al di là dei toni iniziali in cui l'arrogante progetto della rocca paolina, finisce sgretolato sotto l'avanzare del popolo umbro, c'è uno spirito di riconciliazione finale.



Pagina tratta da: giosuecarducci.iitalia.com/giambi.htm

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:dlfmessina@dlf.it == Associazione DLF - Messina
LIBRO SECONDO

XVI
A CERTI CENSORI

No, le luci non ha di Maddalena
Molli e del pianger vaghe;
No, balsami non ha la mia Camena
Per le fetenti piaghe.

Né Cristi siete voi: per ogni fòro
L'anima vostra impura
Fornicò; se v'ha conci il reo lavoro,
Ci pensi la questura.

Ma Fulvia, in quel che la persona bella
Rileva su 'l divano
Ravviando al crin fulgido le anella
Con la tremante mano

E le pieghe a la vesta, tutta in viso
Vermiglia e di piacere
Spumante, con un guardo e con un riso
Ove tutta Citere

Lampeggia e a cui Laide erudita avria
Aggiudicato il mirto,
– Odio – dice – la triste poesia
Che rinnega lo spirto. –

E il buffon Mena, ch'empie d'inodora
Corruzion la pancia
E via co 'l guanto profumato sfiora
Gli schiaffi de la guancia,

Dice – A me giova tra un bicchier di Broglio
E l'altro metter l'ale.
Io mi sento meschino, e a cena voglio
Del soprannaturale


E de i tartufi... Via, dopo l'arrosto
Fa bene un po' d'azzurro:
Apri, poeta: il cielo, il cielo, a costo
Di pigliare un cimurro!

Nel cospetto del ciel l'ebrezza casca
Del senso riscaldato.
Il canto è fede. – E s'accarezza in tasca
Il soldo ruffianato.

Ecco Pomponio, a le cui false chiome
E al giallo adipe arguto,
Dolce Pimplea, tu splendi in vista come
Un grosso angel paffuto

Che ne le chiese del Gesù stuccate
Su le nubi s'adagia,
Su le nubi dorate e inargentate
Che paion di bambagia.

– Amore, amore! – ei sbuffa – il mondo nuota
Tutto nel latt'e miele:
Le rane come me lasciar la mota
E le vipere il fiele.

Vero; un asino crepa a quando a quando
Di martirio o di fame:
Ma il listino a la borsa va montando
E a Pegaso lo strame.

Ho de' valori pubblici, un'amante
Paolotta e un giornale
Del centro che mi paragona a Dante:
Io canto l'ideale.

Seguo l'arte che l'ali erge e dilata
A più sublimi sfere:
Lungi le Muse de la barricata,
Le Grazie petroliere! –


Così le belle e i vati e i savi in coro
Mi vietano con gesto
Di drammatico orrore il sacro alloro...
Deh via, chi ve l'ha chiesto?

Quand'io salgo de' secoli su 'l monte
Triste in sembianti e solo,
Levan le strofe intorno a la mia fronte,
Siccome falchi, il volo.

Ed ogni strofe ha un'anima; ed a valle
Precipita e rimbomba,
Come fuga d'indomite cavalle,
Con la spada e la tromba;

E con la spada alto volando prostra
I mostri ed i giganti,
E con la tromba a la suprema giostra
Chiama i guerrier festanti.

Al passar de le aeree fanciulle
Fremon per tutti i campi
L'ossa de' morti, e i tumoli a le culle
Mandan saluti e lampi.

E il giovinetto pallido, a cui cade
Su gli occhi umido un velo,
Sogna la morte per la libertade
In faccia al patrio cielo.

Avanti, avanti, o messaggere armate
Di fede e di valore!
Su l'ali vostre a più felice etate
Lancio il mio vivo cuore.

A voi la vita mia: me ignota fossa
Accolga innanzi gli anni:
Pugnate voi contro ogni iniqua possa,
Contro tutti i tiranni!
19 dicembre 1871.

XVII
PER IL LXXVIII ANNIVERSARIO
DALLA PROCLAMAZIONE
DELLA REPUBBLICA FRANCESE
Sol di settembre, tu nel cielo stai
Come l'uom che i migliori anni finì
E guarda triste innanzi: i dolci rai
Tu stendi verso i nubilosi dì.

Mesto è sereno, limpido e profondo,
Per l'ampia terra il tuo sorriso va:
Tu maturi su i colli il vino, e al mondo
Riporti i fasti de la libertà.

Mescete, o amici, il vino. Il vin fremente
Scuota da i molli nervi ogni torpor,
Purghi le nubi de l'afflitta mente,
Affoghi il tedio accidioso in cor.

Vino e ferro vogl'io come a' begli anni
Alceo chiedea nel cantico immortal:
Il ferro per uccidere i tiranni,
Il vin per festeggiarne il funeral.

Ma il ferro e il bronzo è de' tiranni in mano;
E Kant aguzza con la sua Ragion
Pura il fredd'ago del fucil prussiano,
Korner strascica il bavaro cannon.

Cavalca intorno a l'avel tuo, Voltèro,
Il diletto di Dio Guglielmo re,
Che porta sopra l'elmo il sacro impero,
Sotto l'usbergo la crociata fé,

E ne la man che in pace tra il sacrato
Calice ed il boccal pia tentennò
Porta l'acciar che feudal soldato
Ne le stragi badesi addottrinò,


E crolla eretta al ciel la bianca testa...
O repubblica antica, ov'è il tuo tuon?
Il cavallo del re, senti, ti pesta,
E dormi ne la tua polve, o Danton?

Mescete vino e oblio. La morta gente,
O epigoni, fra noi non torna più!
Il turbin ne la voce e nel possente
Braccio egli avea la muscolar virtù

Del popol tutto. Oh, il dì più non ritorna
Ch'ei tauro immane le strambe spezzò,
E mugghiò ne l'arena, e su le corna
I regi i preti e gli stranier portò!

Mescete vino, amici. E sprizzò allora
Da i cavi di Marat occhi un balen
Di riso: ei sollevò da l'antro fuora
La terribile fronte al dì seren.

Matura ei custodìa nel sen profondo
L'onta di venti secoli e il terror:
Quanto di più feroce e di più immondo
Patîr le plebi a lui stagnava in cor.

Le stragi sotto il sol disseminate,
I martìr d'ogni sesso e d'ogni età,
I corpi infranti e l'alme violate
E le stalle del conte d'Artoà,

Tutto ei sentia presente: il sanguinoso
Occhio rotava in quel vivente orror,
E chiedea con funèbre urlo angoscioso
Mille vendette ed un vendicator.

De l'odio e del dolor l'esperimento
Il cor gli ottuse e il senso gli acuì:
Ei fiutò come un cane il tradimento,
E come tigre ferita ruggì.


Ma quel che su da l'avvenir salia
D'orror fremito udì Massimilian,
E come falciator per la sua via,
L'occhio ebbe al cielo ed al lavor la man.

De' solchi pareggiati in su 'l confino
Il turbine vi attende, o mietitor:
O mietitori foschi del destino,
Non fornirete voi l'atro lavor.

Maledetto sia tu per ogni etade,
O del reo termidor decimo sol!
Tu sanguigno ti affacci, e fredda cade
La bionda testa di Saint–Just al suol.

Maledetto sia tu da quante sparte
Famiglie umane ancor piegansi a i re!
Tu suscitasti in Francia il Bonaparte,
Tu spegnesti ne i cor virtude e fé.
21 settembre 1870.

XVIII
PER VINCENZO CALDESI
OTTO MESI DOPO LA SUA MORTE
Dormi, avvolto nel tuo mantel di gloria,
Dormi, Vincenzio mio:
De' subdoli e de' fiacchi oggi è l'istoria
E de i forti l'oblio.

Deh non conturbi te questo ronzare
Di menzogne e di vanti!
No, s'anco le tue zolle attraversare
Potessero i miei canti

E su 'l disfatto cuor sonarti come
La favolosa tromba,
No, gridar non vorrei di Roma il nome
Su la tua sacra tomba.


Pur, se chino su 'l tumolo romito
Io con gentile orgoglio
Dir potessi – Vincenzio, risalito
Abbiamo il Campidoglio, –

Tu scuoteresti via da le fredde ossa
Il torpor che vi stagna,
Tu salteresti su da la tua fossa,
O leon di Romagna,

Per rivederla ancor, Roma, a cui 'l verbo
Di libertà gittasti,
Per difenderla ancor, Roma, a cui 'l nerbo
De la vita sacrasti.

Dormi, povero morto. Ancor la soma
Ci grava del peccato:
Impronta Italia domandava Roma,
Bisanzio essi le han dato.

Marzo 1871.

XIX
FESTE ED OBLII
Urlate, saltate, menate gazzarra,
Rompete la sbarra – del muto dover;
Da ville e da borghi, da valli e pendici,
Plaudite a i felici – di oggi e di ier.

Su, vergini e spose, bramose, baccanti,
Spogliate l'Italia di lauri e di fior,
Coprite di serti, di sguardi fiammanti
Le glorie in parata de i nostri signor.

Deh come cavalca su gli omeri fieri
De' baldi lancieri – la vostra virtù!
O sole di luglio, tra i marmi latini
A gli aurei spallini – lusinghi anche tu.


E mobili flutti di fanti e cavalli
Risuonan pe 'l clivo su 'l fòro latin,
E il canto superbo di trombe e timballi
Insulta i silenzi del sacro Aventin.

Ahi sola de' voti d'un dì la severa
Mia musa, o Caprera, – riparla con te,
E, sola e sdegnosa, de l'orgia romana,
Deserta Mentana, – ti chiede mercé.

Là il vino, la luce, la nota che freme,
Ne i nervi, nel sangue risveglian l'ardor:
Qui trema a la luna con l'aura che geme
Lo stelo riarso d'un pover fior.

E altrove la luna del raggio suo puro
Illumina il giuro – rianima il sì,
Che mormora a un altro languente vezzosa
La vedova sposa – del morto ch'è qui,

O empie insolente la camera mesta
Svegliando a le cure del dubbio diman
La madre che in questo bel giorno di festa
In vano pe' trivi chiedeva del pan.

[ 6 luglio 1871 ].

XX
IO TRIUMPHE!
Dice Furio – Facciam largo a i Camilli
Che vengon dopo un anno.
Io de le trombe galliche a gli squilli
Ritorno, ei fuggiranno. –

E Mario – Spegner l'oste entro i confini
Patrii è barbara cosa.
Trionfo a i nuovi imperador latini,
a i vinti di Custosa! –


E Duilio – Tre zattere di legno
Ed il valor romano
Bastava. Or fuggo: ci vuol troppo ingegno
A essere Persano. –

E Virginio – Che far? Non ho figliuole
Altre da dare agli Appi.
Questo mio ferro vecchio or niun lo vuole
Né men per cavatappi. –

E Tullio – L'orazion mia per costoro
È troppo larga o stretta.
Lasciamo a Stanislao Pasquale il fòro,
E il senato al Pancetta. –

E Tacito – O mie storie ispide e tese,
O mio duro latino,
Cediamo il posto a l'orvietan marchese
Al Bianchi e a Pasqualino. –

E Bruto – Via da questa plebe stolta!
Mi faria com'a un cane
Ne' suoi circensi. Almeno ella una volta
Voleva ancora il pane! –

E Marc'Aurelio – Con questo po' d'oro
Che avanza, io non son gonzo.
Fuggiam, fuggiam, non aspettiam costoro,
O mio caval di bronzo. –

Così gli spirti magni entro il latino
Ciel, di lor fuga mesto.
Trionfa la Suburra, urla Pasquino
– Viva l'Italia! io resto.

2 luglio 1871.



XXI
VERSAGLIA
[ NEL LXXIX ANNIVERSARIO
DELLA REPUBBLICA FRANCESE ]
Fu tempo, ed in Versaglia un proclamava:
– Mio quanto cresce in terra e guizza in mar
E in aer vola. – E il prete seguitava:
– Popolo, dice Dio: Tu non rubar. –

E i boschi verdi, e le argentine linfe
Ridenti in lago o trepide tra i fior,
E il tuo marmoreo popolo di ninfe,
Ed i palagi sfolgoranti d'òr,

Versaglia, sepper quanto in servitude
Quanto d'infame in signoria si può.
– Vo' il tuo campo e la donna e la virtude
Tua – disse un uomo, e niun ripose: No.

Veniano i giovinetti e le donzelle
A inginocchiarsi con l'infamia in man,
E del suo bruto sangue un volgo imbelle
Murò il parco de' cervi al re cristian.

Quand'ei dormia, poggiato a un bianco seno,
Co 'l pugno a l'elsa e in su le teste il piè,
Tutta la Francia da l'Oceano al Reno
Era superba di vegliare il re.

Versaglia, e allor che da un macchiato letto
Ei procedeva a un addobbato altar,
Tu d'orgoglio fremevi, e di rispetto
Vedevi Europa innanzi a lui tremar.

Ei la gloria e il valore, egli le scuole
E l'armi, ei l'arte ed ei la verità,
Egli era tutto in tutti: egli era il sole
Che il mondo illustra, e non s'accorge e sta.


Se Dio lui sostenesse o s'ei sostenne
Dio, non fermaro i suoi sacri orator:
Lo sanno i vostri morti, o pie Cevenne,
Che non credevano al suo confessor.

Il re dal suo lascivo Occhio di bue
Guardava il mondo, piccolo al suo piè;
E Dio, mezzan de le nequizie sue,
Benedicea da l'aureo dòmo il re,

Benedicea le violette ascose
Nel velo virginal de la Vallier,
Benedicea le maritali rose
Nel petto de la Montespan altier,

Benedicea d'Engaddi i freschi gigli
Vedovi in seno de la Maintenon:
E d'un sorriso il re facea vermigli
I neri panni del fedele Aron.

L'ere da le sottane e da i cappelli
La corte e la cittade allor segnò;
Il popol, da le fami e da i flagelli;
Poi da la morte, quando si rizzò.

E il giorno venne: e ignoti, in un desio
Di veritade, con opposta fé,
Decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio,
Massimiliano Robespierre, il re.

Oggi i due morti sovra il monumento
Co 'l teschio in mano chiamano pietà,
Pregando, in nome l'un del sentimento,
L'altro nel nome de l'autorità.

E Versaglia a le due carogne infiora
L'ara ed il soglio de gli antichi dì...
Oh date pietre a sotterrarli ancora,
Nere macerie de le Tuglierì.
[ 24 settembre 1871 ].

XXII
CANTO DELL'ITALIA
CHE VA IN CAMPIDOGLIO

Zitte, zitte! Che è questo frastuono
Al lume de la luna?
Oche del Campidoglio, zitte! Io sono
L'Italia grande e una.

Vengo di notte perché il dottor Lanza
Teme i colpi di sole:
Ei vuol tener la debita osservanza
In certi passi, e vuole

Che non si sbracci in Roma da signore
Oltre certi cancelli:
Deh, non fate, oche mie, tanto rumore,
Che non senta Antonelli.

Fate più chiasso voi, che i fondatori
De la prosa borghese,
Paulo il forte ed Edmondo da i languori
Il capitan cortese.

Qua, qua, qua. Che volete voi? Chiamate
Il fratel Bertoldino
O Bernardino? Ei cova, ei ponza, il vate,
Lo stil nuovo latino.

S'ell'è per Brenno, o paperi, sprecata
È omai la guardia. Brava
Io fui tanto e sottil, che sono entrata
Quand'egli se ne andava.

Sì, sì, portavo il sacco a gli zuavi
E battevo le mani
Ieri a' Turcòs: oggi i miei bimbi gravi
Si vestono da ulani.


Al cappellino, o a l'elmo, in ginocchione
Sempre: ma lesta e scaltra
Scoto la polve di un'adorazione
Per cominciarne un'altra.

Così da piede a piè figlia di Roma
I miei baci io trascino,
E giù nel fango la turrita chioma
Con l'astro annesso inchino

Per raccattar quel che sventura o noia
Altrui mi lascia andare.
Così la eredità vecchia di Troia
Potei raccapezzare

A frusto a frusto, via tra una pedata
E l'altra, su bel bello:
Il sangue non è acqua; e m'ha educata
Nicolò Machiavello.

Ora, se date il passo a la gran madre,
Oche, io vo in Campidoglio.
Cittadino roman vo' fare il padre
Cristoforo; e mi voglio

Cingere i lombi di valore, e torte
In rassegnazione,
Oche, io voglio soffrir sino a la morte
Per la mia salvazione.

Voglio soffrire i Taicùn e i Lami,
E il talamo e la culla
Aurea de' muli, e le contate fami,
E i motti del Fanfulla.

Vo' alloggiar co 'l possibile decoro
La gloria del Cialdini,
Cantar l'idillio de l'età de l'oro
Di Saturno Bombrini;


E vo' l'umiltà mia gualdrappare
Di stil manzoniano,
E recitar l'uffizio militare
D'Edmondo il capitano

Per non cader in tentazion. La prosa
Di Paulo Fambri, il grosso
Voltèr de le lagune, è spiritosa
Troppo per il mio dosso:

Gli analfabeti miei, che la lettura
Di poco han superato,
Preferiscon d'assai la dicitura
Più svelta del cognato.

E così d'anno in anno, e di ministro
In ministro, io mi scarco
Del centro destro su 'l centro sinistro,
E 'l mio lunario sbarco:

Fin che il Sella un bel giorno, al fin del mese,
Dato un calcio a la cassa,
Venda a un lord archeologo inglese
L'augusta mia carcassa.

[ 12 novembre 1871 - 11 dicembre 1872 ].

XXIII
GIUSEPPE MAZZINI

Qual da gli aridi scogli erma su 'l mare
Genova sta, marmoreo gigante,
Tal, surto in bassi dì, su 'l fluttuante
Secolo, ei grande, austero, immoto appare.

Da quelli scogli, onde Colombo infante
Nuovi pe 'l mar vedea mondi spuntare,
Egli vide nel ciel crepuscolare
Co 'l cuor di Gracco ed il pensier di Dante


La terza Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero,
E un popol morto dietro a lui si mise.

Esule antico, al ciel mite e severo
Leva ora il volto che giammai non rise,
– Tu sol – pensando – o ideal, sei vero.
11 febbraio 187.

XXIV
ALLA MORTE DI GIUSEPPE MAZZINI

Quando – Egli è morto – dissero,
Io, che qui sola eterna
Credo la morte, un fremito
Correr sentii l'interna
Vita ed al cuore assiderarmi un gel.
Immortal lui credeva. E gli occhi torbidi
Volsi, chiedendo e dubitando, al ciel.
Ei che d'Italia a l'anime

Fu quel ch'a i corpi il sole,
Del quale udiva io parvolo
Mirabili parole
Sì come d'un fatidico
Spirito tra il passato e l'avvenir,
Egli il cui nome appresermi
Con quei d'Italia, ei non potea morir.
Guardai. D'Italia stavano

Le ville i templi i fòri,
Da le sue torri a l'aure
Splendeano i tre colori,
Fremeano i fiumi i popoli
Ed i pensier con onda alterna, il sol
Rideva a l'alpi al doppio mare a l'isole
Come pur ieri... Ed era morto ei sol.
Passato era de i secoli




Nel dì trasfigurante,
A i mondi onde riguardano
Camillo e Gracco e Dante,
Grandi ombre con immobili
Occhi di stelle a le fluenti età,
E riposa Cristoforo
Colombo e Galileo contempla e sta.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

12 marzo 1872.

XXV
A UN HEINIANO D'ITALIA

Quando a i piaceri in mezzo od a i tormenti
Arrigo Heine crollava
La bionda chioma ed a i tedeschi venti
Le sue strofe gittava,

E le furie e le grazie de la prosa
Folli feroci e schiette
Ei liberava da la man nervosa
Qual gruppo di saette,

L'ombra del suo pensiero, ombra di morte,
Da i suon balzava fuora,
E con la scure in man battea le porte
Gridando – È l'ora, è l'ora! –

Dal viso del poeta atroce e bello
Pendea, ridendo, il dio
Thor, e chiedea, brandendo il gran martello,
– Ch'io picchi, o figliuol mio?

Sotto il vento de' cantici immortali
Piegavano croscianti
Le selve de le vecchie cattedrali
Con le lor guglie e i santi:


Rintoccava, da i culmini ondeggiando,
A morto ogni campana,
E Carlo Magno s'avvolgea tremando
Nel lenzuol d'Aquisgrana.

Quando toccate, o tisicuzzo, voi
Il chitarrin cortese,
Mugghian d'assenso tutti i serbatoi
Del mio dolce paese.

Le canzonette, assettatuzze e matte,
Ed isgrammaticate
Borghesemente, fan cagliare il latte
E tremar le giuncate.

Deh, come erra fantastico il belato
Vostro via per l'acerba
Primavera! O montone, al prato, al prato!
O agnello, a l'erba, a l'erba!

Il garofolo giallo e la viola
Vi sorridon gl'inviti:
Ah ghiottoncello, a voi fanno più gola
I cavoli fioriti?

Brucate, ruminate, meriggiate
E belate a i pastori;
E, se potete, i bei cornetti armate
Pe' i lascivetti amori.

Con due scambietti poi l'ebete grifo
Ponete, oh voi beato!,
Su le ginocchia a Cloe, se non ha schifo
Del puzzo di castrato.

[ 21-22 giugno 1872 ].

XXVI
PER IL QUINTO ANNIVERSARIO
DELLA BATTAGLIA DI MENTANA

Ogni anno, allor che lugubre
L'ora de la sconfitta
Di Mentana su' memori
Colli volando va,
I colli e i pian trasalgono
E fieramente dritta
Su i nomentani tumuli
La morta schiera sta.

Non son nefandi scheletri;
Sono alte forme e belle,
Cui roseo dal crepuscolo
Ondeggia intorno un vel:
Per le ferite ridono
Pie le virginee stelle,
Lievi a le chiome avvolgonsi
Le nuvole del ciel.

– Or che le madri gemono
Sovra gl'insonni letti,
Or che le spose sognano
Il nostro spento amor,
Noi rileviam dal Tartaro
I bianchi infranti petti,
Per salutarti, o Italia,
Per rivederti ancor.

Qual ne l'incerto tramite
Gittava il cavaliero
Il verde manto serico
De la sua donna al piè,
Per te gittammo l'anima
Ridenti al fato nero;

E tu pur vivi immemore
Di chi moria per te.

Ad altri, o dolce Italia,
Doni i sorrisi tuoi;
Ma i morti non obliano
Ciò che più in vita amâr;
Ma Roma è nostra, i vindici
Del nome suo siam noi:
Voliam su 'l Campidoglio,
Voliamo a trionfar. –

Va come fósca nuvola
La morta compagnia,
E al suo passare un fremito
Gl'itali petti assal;
Ne le auree veglie tacciono
La luce e l'armonia,
E sordo il tuon rimormora
Su l'alto Quirinal.

Ma i cavalier d'industria,
Che a la città di Gracco
Trasser le pance nitide
E l'inclita viltà,
Dicon – Se il tempo brontola,
Finiam d'empire il sacco;
Poi venga anche il diluvio:
Sarà quel che sarà.
[ 3 novembre 1872 ].

XXVII
A MESSER CANTE GABRIELLI DA GUBBIO
PODESTÀ DI FIRENZE NEL MCCCI
Molto mi meraviglio, o messer Cante,
Podestà venerando e cavaliero,
Non v'abbia Italia ancor piantato intiero
In marmo di Carrara e dritto stante


Sur una piazza, ove al bel ceffo austero
Vostro passeggi il popolo d'avante,
O primo, o solo ispirator di Dante,
Quando ladro il dannaste e barattiero.

I ceppi per a lui la man tagliare
Voi tenevate presti; ei ne l'inferno
Scampò, gloria e vendetta a ricercare.

Spongon or birri e frati il suo quaderno,
E quel povero veltro ha un bel da fare
A cacciar per la chiesa e pe 'l governo.
Maggio 1874.

XXVIII
LA SACRA DI ENRICO QUINTO
Quando cadono le foglie, quando emigrano gli augelli
E fiorite a' cimiteri son le pietre de gli avelli,

Monta in sella Enrico quinto il delfin da' capei grigi,
E cavalca a grande onore per la sacra di Parigi.

Van con lui tutt'i fedeli, van gli abbati ed i baroni:
Quanta festa di colori, di cimieri e di pennoni!

Monta Enrico un caval bianco, presso ha il bianco suo stendardo
Che coprì morenti in campo San Luigi e il pro' Baiardo.

Viva il re! Ma il ciel di Francia non conosce il sacro segno;
E la seta vergognosa si ristringe intorno al legno.

Più che mai su gli aurei gigli bigio il cielo e freddo appare:
Con la pace de gli scheltri stanno gli alberi a guardare;

E gli augelli, senza canto, senza rombo, tristi e neri,
Guizzan come frecce stanche tra i pennoni ed i cimieri.


Viva il re! Ma i lieti canti ne le trombe e ne le gole
Arrochiscono ed aggelano su le bocche le parole.

Arrochiscono; ed un rantolo faticoso d'agonia
Par che salga su dai petti de l'allegra compagnia.

Cresce l'ombra de le nubi, si distende su la terra,
Ed un'umida tenèbra quel corteggio avvolge e serra.

Dan di sprone i cavalieri, i cavalli springan salti:
Sotto l'ugne percotenti suon non rendono i basalti.

Manca l'aria; e, come attratti i cavalli e le persone
Ne la plumbea d'un sogno infinita regione,

Arrembando ed arrancando per gli spazi sordi e bigi
Marcian con le immote insegne per entrar a San Dionigi.

Viva il re! Giù da i profondi sotterranei de la chiesa
Questa voce di saluto come un brontolo fu intesa:

E da l'ossa che in quei campi la repubblica disperse
Una nube di fumacchi si formava, e fuori emerse

Uno stuolo di fantasmi: donne, pargoli, vegliardi,
Conti, vescovi, marchesi, duchi, monache, bastardi;

Tutti principi del sangue: tronchi, mózzi, cincischiati,
I zendadi a fiordiligi stranamente avvoltolati.

Entro i teschi aguzzi e mondi che parean d'avorio fino
Luccicavano le occhiaie d'un sottil fuoco azzurrino.

Qual brandiva, salutando, un cappel bianco piumato
Con un gracil moncherino che solo eragli avanzato;

Qual con una tibia sola disegnava un minuetto;
Qual con mezza una mascella digrignava un sorrisetto.


Tutt'a un tratto quel movente di maligni ossami stuolo
Scricchiolando e sgretolando si levò per l'aria a volo;

Ed intorno a l'orifiamma dispiegante i gigli gialli
Sgambettando e cianchettando intessea carole e balli,

Ed intorno a l'orifiamma sventolante i gigli d'oro
Sibilando e bofonchiando intonava questo coro.

– Ben ne venga il delfin grigio nel reame ove a' Borboni
Né pur morte guarentisce fide o pie le sue magioni.

Passerem dal Ponte Nuovo. Venga a sciôr la sua promessa
Co 'l re grande che Parigi guadagnò per una messa,

E nel marmo anche par senta co' mustacchi intirizziti
Caldo il colpo e freddo il ghiaccio del pugnal de' gesuiti.

Marceremo a Nostra Donna. Mitriati e porporati
Tre arcivescovi i lor sonni per accoglierne han lasciati.

Su l'entrata sta solenne con l'asperges d'oro in pugno
Quel che tinse del suo sangue gli arsi lastrici di giugno.

In disparte ginocchioni veglia a dire le secrete
Quel che spento fu in sacrato per le mani d'un suo prete.

Benedice la corona del figliuol di San Luigi
Quel che giacque sotto il piombo del comune di Parigi.

Tristi cose. Al men tuo padre (son cortesi i giacobini)
Nel palchetto d'un teatro morì al suon de' violini.

Coprì l'onda de l'orchestra la real confessione,
Salì Cristo in sacramento tra le maschere al veglione.

Farem gala a quel teatro noi borbonica tregenda:
Da quel palco (Iddio ti salvi!) muove, o re, la tua leggenda. –


Così strilla sghignazzando via pe'l grigio aere la scorta.
Ma cavalca il quinto Enrico dritto e fermo in vèr la porta.

Su la porta di Parigi co 'l bacile d'oro in mano
A l'omaggio de le chiavi sta parato un castellano.

Ei non guarda, non fa cenno di saluto, non procede:
Un'antica e fatal noia su le grosse membra siede.

Erto il capo e 'l guardo teso, ma l'orgoglio non vi raggia:
Una tenue per il collo striscia rossa gli viaggia.

Non pare ordine o collare che il re doni al suo fedele:
Non è quel di San Luigi, non è quel di San Michele.

Al passar d'Enrico, ei muove a test'alta e regalmente;
Fende in mezzo il gran corteggio: ciascun vede e niun lo sente.

È a la staffa già d'Enrico; ma non piega ad atto umìle,
E tien dritto e fermo il collo mentre leva su il bacile.

– Ben ne venga mio nipote, l'ultim'uom de la famiglia!
Queste chiavi ch'io ti porgo fur catene a la Bastiglia.

Tali al Tempio io le temprava. – Con l'offerta fa l'inchino
Ed il capo de l'offrente rotolava nel bacino;

Ed il capo di Luigi con l'immobile occhio estinto
Boccheggiante nel bacino riguardava Enrico quinto.
[ Novembre 1873 ].

XXIX
A PROPOSITO DEL PROCESSO FADDA

I
Da i gradi alti del circo ammantellati
Di porpora, esse ritte
Ne i lunghi bissi, gli occhi dilatati
Le pupille in giù fitte,


Abbassavano il pollice nervoso
De la mano gentile.
Ardea tra bianche nuvole estuoso
Il sol primaverile

Su le superbe, e ne la nera chioma
Mettea lampeggiamenti.
Fremea la lupa nutrice di Roma
Ne i lor piccoli denti,

Bianchi, affilati, tra le labbra rosse
Contratte in fiero ghigno.
Un selvatico odor su da le fosse
Vaporava maligno.

Era il sangue del mondo che fervea
Con lievito mortale,
Su cui provava già Nemesi dea
Al vol prossimo l'ale.

E le nipoti di Camilla, pria
Di cedere le mani
A i ferri, assaporavan l'agonia
De' cerulei Germani.
II
Voi sgretolate, o belle, i pasticcini
Tra il palco e la galera;
Ed intente a fornir di cittadini
La nuova italica èra,

Studiate, e gli occhi mobili dan guizzi
Di feroce ideale,
Gli abbracciamenti de' cavallerizzi
Tra i colpi di pugnale;

E palpate con gli occhi abbracciatori
Le schiene ed i toraci,
Mentre rei gerghi tra sucidi odori
Testimonian su i baci.


Poi, se un puttin di marmo avvien che mostri
Qualcosellina al sole,
Protesterete con furor d'inchiostri,
Con fulmin di parole.

E pur ieri cullaste il figliuoletto
Tra i notturni fantasmi
Co 'l piè male proteso fuor del letto
Ne gli adulteri spasmi.

Ma voi siete cristiane, o Maddalene!
Foste da' preti a scuola.
Siete moderne! avete ne le vene
L'Aretino e il Loiola.

Ottobre 1879.

XXX
IL CANTO DELL'AMORE

Oh bella a' suoi be' dì Rocca Paolina
Co' baluardi lunghi e i sproni a sghembo!
La pensò Paol terzo una mattina
Tra il latin del messale e quel del Bembo.

– Quel gregge perugino in tra i burroni
Troppo volentier – disse – mi si svia.
Per ammonire, il padre eterno ha i tuoni,
Io suo vicario avrò l'artiglieria.

Coelo tonantem canta Orazio, e Dio
Parla tra i nembi sovra l'aquilon.
Io dirò co' i cannoni: O gregge mio,
Torna a i paschi d'Engaddi e di Saron.

Ma, poi che noi rinnovelliamo Augusto,
Odi, Sangallo: fammi tu un lavoro
Degno di Roma, degno del tuo gusto,
E del ponteficato nostro d'oro. –


Disse; e il Sangallo a la fortezza i fianchi
Arrotondò qual di fiorente sposa:
Gittolle attorno un vel di marmi bianchi,
Cinse di torri un serto a l'orgogliosa.

La cantò il Molza in distici latini;
E il paracleto ne la sua virtù
Con più che sette doni a i perugini
In bombe e da' mortai pioveva giù.

Ma il popolo è, ben lo sapete, un cane,
E i sassi addenta che non può scagliare,
E specialmente le sue ferree zane
Gode ne le fortezze esercitare;

E le sgretola; e poi lieto si stende
Latrando su le pietre ruinate,
Fin che si leva e a correr via riprende
Verso altri sassi ed altre bastonate.

Così fece in Perugia. Ove l'altera
Mole ingombrava di vasta ombra il suol
Or ride amore e ride primavera,
Ciancian le donne ed i fanciulli al sol.

E il sol nel radiante azzurro immenso
Fin de gli Abruzzi al biancheggiar lontano
Folgora, e con desio d'amor più intenso
Ride a' monti de l'Umbria e al verde piano.

Nel roseo lume placidi sorgenti
I monti si rincorrono tra loro,
Sin che sfumano in dolci ondeggiamenti
Entro i vapori di viola e d'oro.

Forse, Italia, è la tua chioma fragrante
Nel talamo, tra' due mari, seren,
Che sotto i baci de l'eterno amante
Ti freme effusa in lunghe anella al sen?


Io non so che si sia, ma di zaffiro
Sento ch'ogni pensiero oggi mi splende,
Sento per ogni vena irmi il sospiro
Che fra la terra e il ciel sale e discende.

Ogni aspetto novel con una scossa
D'antico affetto mi saluta il core,
E la mia lingua per sé stessa mossa
Dice a la terra e a al cielo, Amore, amore.

Son io che il cielo abbraccio, o da l'interno
Mi riassorbe l'universo in sé?...
Ahi, fu una nota del poema eterno
Quel ch'io sentiva e picciol verso or è.

Da i vichi umbri che foschi tra le gole
De l'Apennino s'amano appiattare;
Da le tirrene acròpoli che sole
Stan su i fioriti clivi a contemplare;

Da i campi onde tra l'armi e l'ossa arate
La sventura di Roma ancor minaccia;
Da le ròcche tedesche appollaiate
Sì come falchi a meditar la caccia;

Da i palagi del popol che sfidando
Surgon neri e turriti incontro a lor;
Da le chiese che al ciel lunghe levando
Marmoree braccia pregano il Signor;

Da i borghi che s'affrettan di salire
Allegri verso la cittade oscura,
Come villani ch'hanno da partire
Un buon raccolto dopo mietitura;

Da i conventi tra i borghi e le cittadi
Cupi sedenti al suon de le campane
Come cucùli tra gli alberi radi
Cantanti noie ed allegrezze strane;


Da le vie, da le piazze gloriose,
Ove, come del maggio ilare a i dì
Boschi di querce e cespiti di rose,
La libera de' padri arte fiorì;

Per le tenere verdi mèssi al piano,
Pe' vigneti su l'erte arrampicati,
Pe' laghi e' fiumi argentei lontano,
Pe' boschi sopra i vertici nevati,

Pe' casolari al sol lieti fumanti
Tra stridor di mulini e di gualchiere,
Sale un cantico solo in mille canti,
Un inno in voce di mille preghiere:

– Salute, o genti umane affaticate!
Tutto trapassa e nulla può morir.
Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate.
Il mondo è bello e santo è l'avvenir. –

Che è che splende su da' monti, e in faccia
Al sole appar come novella aurora?
Di questi monti per la rosea traccia
Passeggian dunque le madonne ancora?

Le madonne che vide il Perugino
Scender ne' puri occasi de l'aprile,
E le braccia, adorando, in su 'l bambino
Aprir con deità così gentile?

Ell'è un'altra madonna, ell'è un'idea
Fulgente di giustizia e di pietà:
Io benedico chi per lei cadea,
Io benedico chi per lei vivrà.

Che m'importa di preti e di tiranni?
Ei son più vecchi de' lor vecchi dèi.
Io maledissi al papa or son dieci anni,
Oggi co 'l papa mi concilierei.


Povero vecchio, chi sa non l'assaglia
Una deserta volontà d'amare!
Forse ei ripensa la sua Sinigaglia
Sì bella a specchio de l'adriaco mare.

Aprite il Vaticano. Io piglio a braccio
Quel di sé stesso antico prigionier.
Vieni: a la libertà brindisi io faccio:
Cittadino Mastai, bevi un bicchier!

[ Ottobre 1877 - gennaio 1878 ].





Giosuè Carducci
Centenario della morte
Carducci raffigurato in busto
nella Biblioteca Civica di Verona