CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS






























































LO STIVALE
1836

Io non son della solita vacchetta,
Né sono uno stival da contadino;
E se pajo tagliato coll’accetta,
Chi lavorò non era un ciabattino:
Mi fece a doppie suola e alla scudiera,
E per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia giù giù sino al tallone
Sempre all’umido sto senza marcire;
Son buono a caccia e per menar di sprone,
E molti ciuchi ve lo posson dire:
Tacconato di solida impuntura,
Ho l’orlo in cima, e in mezzo la costura1.
Ma l’infilarmi poi non è sì facile,
Né portar mi potrebbe ogni arfasatto2;
Anzi affatico e stroppio un piede gracile,
E alla gamba dei più son disadatto;
Portarmi molto non potè nessuno,
M’hanno sempre portato a un po’ per uno.
Io qui non vi farò la litania
Di quei che fur di me desiderosi;
Ma così qua e là per bizzarria
Ne citerò soltanto i più famosi,
Narrando come fui messo a soqquadro,
E poi come passai di ladro in ladro.
Parrà cosa incredibile: una volta,
Non so come, da me presi il galoppo,
E corsi tutto il mondo a briglia sciolta;
Ma camminar volendo un poco troppo,
L’equilibrio perduto, il proprio peso
In terra mi portò lungo e disteso3.
Allora vi successe un parapiglia;
E gente d’ogni risma e d’ogni conio
Pioveano di lontan le mille miglia,
Per consiglio d’un Prete o del Demonio:
Chi mi prese al gambale e chi alla fiocca4,
Gridandosi tra lor: bazza a chi tocca.
Volle il Prete, a dispetto della fede,

==>SEGUE



Là rosso e bianco, e quassù giallo e nero16;
Insomma a toppe come un arlecchino;
Se volete rimettermi davvero,
Fatemi, con prudenza e con amore,
Tutto d’un pezzo e tutto d’un colore.
Scavizzolate17 all’ultimo se v’è
Un uomo purché sia, fuorché poltrone;
E se quando a costui mi trovo in piè,
Si figurasse qualche buon padrone
Di far con meco il solito mestiere,
Lo piglieremo a calci nel sedere.
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1 È superfluo far osservare quanto sia arguta questa descrizione: l’Italia ha la forma d’uno stivale: stivale buono a tutti gli usi, alla difesa e alla conquista. Dalla coscia al tallone sta fra i mari: ha l’orlo delle Alpi nella parte superiore e la costura degli Appennini nel mezzo. 2 Arfasatto è colui che fa le cose alla sbadata: lo stivale d’Italia non è facile da calzare; molti han provato, ma nessuno vi riuscì stabilmente. 3 Si accenna alla conquista di tanta parte di mondo conosciuto, fatta dai Romani, finché l’impero cadde sotto il peso della propria immane potenza e fu preda di barbari d’ogni nome. «Cadde (diceva l’improvvisatore famoso Gianni) sotto il peso dell’armi e di sé stesso.» 4 Il Fanfani cosi spiega questo vocabolo: «Fiocco è (o meglio, era perché oggi poco usato) quel pezzetto di pelle tagliato in quadro o altrimenti, che a somiglianza di fiocco mettesi per ornamento sul punto dello stivale che corrisponde alla parte superiore del piede a due dita dal collo di esso, e dove suol farsi il fiocco alle scarpe o scarponcelli che hanno i legaccioli. Anche quel punto del piede dicesi fiocco.»
5 Spedato è colui che non può più camminare per avere il piede indolenzito da lungo viaggio o da scarpe strette o troppo pesanti. Qui si allude alle lunghe contese tra il papa e l’imperator di Germania, e il «bravazzon tedesco» sarebbe Enrico IV. Da questa epoca il poeta passa al fiorire delle repubbliche marinare e commerciali.
6 Stroppiai è una non imitabile storpiatura del verbo storpiare. Anche nella terza sestina il poeta dice: «stroppio un piede gracile». Il lettore avrà da sé compreso che qui si parla del prepotente Carlo d’Angiò e dei Vespri Siciliani cominciati in Palermo. 7 Il poeta ricorda l’episodio di Pier Capponi, il quale a Carlo VIII, che voleva imporre certi sconvenienti capitoli a Firenze colla forza delle armi, convocando i soldati al suono delle trombe, rispose che avrebbe sollevato il popolo col far suonare le campane a stormo.  E i patti furono stracciati. Il Giusti scherza sul nome di Capponi come già fece il Machiavelli nella famosa terzina:

Lo strepito dell’armi e de’ cavalli
Non potè far che non fosse sentita
La voce d’un cappon fra tanti galli.

8 Il professor di medicina è Cosimo de’ Medici, detto padre della patria, titolo tanto largamente prodigato dai contemporanei quanto raramente confermato dai posteri. Il Giusti non divideva gli entusiasmi di certi storici cortigiani della stirpe medicea «da Cosimaccio padre della patria, restauratore della filosofia, Pericle de’ baron cornuti, fino a Gian Gastone di sodomitica memoria, che Dio lo riposi nel profondo dell’inferno». Così scriveva ad Atto Vannucci, lodandolo per la libertà del dire verso i Medici e per aver tolta la maschera a certi decantati birbanti «che per aver ordinate un par di serque di quadri, sono stati fatti compari del secolo loro, come Augusto del suo». 9 Il Gallo è Francesco I re di Francia, e il Catalano è Carlo V di Spagna, i quali, dopo la sconfitta di Lodovico il Moro, si contesero lungamente il predominio in Italia: la vittoria rimase al secondo, e del governo spagnuolo durarono a lungo i danni. 10 Sbertucciato si dice del cappello che per ammaccature ha perduto la sua forma. Il Giusti si prese la licenza di passare il vocabolo dalla testa ai piedi.

Lo Stivale, secondo l’intenzione dell’autore, «si può dire uno svegliarino riguardo alla storia d’Italia». Nel 1836, in mezzo alla fiaccona generale mista alla diffidenza diffusa da tentativi andati a male e alla sfiducia che n’era seguita, sfiducia in tutto, a cominciar dalle proprie forze, il Giusti mandò fuori questa poesia per rompere gli alti sonni nella testa degli uni e anche per combattere coloro che speravano un rinnovamento d’Italia d’accordo coi papi attaccati al poter temporale. Egli scriveva che «nello Stivale si ravvisa più una certa arguzia che una vena veramente poetica». Questo lo si deve al soggetto: il poeta fece la sintesi popolare della storia di casa nostra ed è questo uno dei componimenti che più degli altri vennero mandati a memoria dai giovani di quel tempo. Dalla descrizione geografica passa al racconto degli avvenimenti principali d’Italia, o almeno di quelli che meglio tornavano al suo assunto: nessuno pretenderà in una satira la fedeltà d’una storia completa; questa è piuttosto una corsa attraverso i secoli, nella quale uomini e cose son lumeggiati dall’umorismo e dall’amor di patria.

Ingegnati, se puoi, d’esser palese.
DANTE, Rime.
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11 Morchia è il fondo dei Lombardi, cioè la posatura o il deposito denso e puzzolente di liquidi specialmente oleosi. Con questo grassume gli Spagnuoli insafardarono, cioè sporcarono l’Italia. Molto giustamente il poeta aggiunge «chiarissimo fui detto ed illustrissimo» perché infatti (per dir un esempio) il re iberico decretava a Milano il titolo di Grande di Spagna in compenso d’averla decimata colla carestia e colla fame. 12 Il giglio di color rosso è lo stemma di Firenze. Nella rovina d’ogni libertà era rimasta in piedi la repubblica di Firenze; papa Clemente VII, figlio bastardo (mulo) di Giuliano de’ Medici, incaricò Carlo V di domarla; e dopo il memorando assedio, difesa invano dal Ferrucci, fu vinta e consegnata a quel tristo d’Alessandro nato da Clemente e da una mora, e spento poscia da Lorenzino. 13 Sversati, cioè senza garbo né grazia. Il Giusti scrive nelle lettere: «Sversata si dice di una giubba che non ha verso.» 14 La campagna di Russia che diede il primo crollo a Napoleone I. 15 Ringambalare o rimettere il gambale nello stivale per assettare la polpa, cioè la parte centrale dell’Italia soggetta al papa, e il tomajo o l’Italia meridionale sottomessa ai Bortoni. 16 Turchino nel Piemonte dove regnava la casa di Savoja, rosso e bianco in Toscana coi Lorenesi, giallo e nero, i colori austriaci che sventolavano tristamente sul Lombardo-Veneto. 17 Scavizzolate, cioè cercate minutamente un uomo purchessia, che mi metta in piede, e allora conceremo come si deve chi s’arrogasse di venir qui a fare il solito mestiere di prepotente. Al pari di Machiavelli, il Giusti invocava l’uomo forte che unisse l’Italia.
LA FIDUCIA IN DIO
STATUA DI BARTOLINI
1837

Quasi obliando la corporea salma,
Rapita in Quei che volentier perdona,
Sulle ginocchia il bel corpo abbandona
Soavemente, e l’una e l’altra palma.
Un dolor stanco, una celeste calma
Le appar diffusa in tutta la persona;
Ma nella fronte che con Dio ragiona
Balena l’immortal raggio dell’alma;
E par che dica: se ogni dolce cosa
M’inganna, e al tempo che sperai sereno
Fuggir mi sento la vita affannosa,
Signor, fidando, al tuo paterno seno
L’anima mia ricorre, e si riposa
In un affetto che non è terreno.
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Nell’atrio interno dell’artistico palazzo Poldi-Pezzoli di Milano, occupato in gran parte dal Museo che l’ultimo proprietario lasciò al Comune, si vede la bella statua di Lorenzo Bartolini, e sotto questa il sonetto del Giusti. Il poeta era stato abbandonato dalla sua amica; e, smaniando, andava a caso di qua e di là, cercando refrigerio al dolore acerbissimo che lo dilaniava. Capitò nello studio del Bartolini che dava gli ultimi tocchi di scalpello alla statua della giovanetta che rappresenta la Fiducia in Dio e ne provò tal impressione di sollievo e di pace che l’espresse nel sonetto quasi improvvisato, e che rimane fra i migliori della letteratura italiana. «Scrissi quei quattordici versi (così nelle lettere all’amico Tommasi) in un tempo che l’animo mio per diverse ragioni era pieno d’amarezza; e siccome credo che noi stessi ci procacciamo la maggior parte dei mali che ci vengono addosso, invece d’inveire contro i santi o contro i diavoli, e affettare la ciarlatanesca fraseologia del suicida, avrei voluto dire il Pater noster di buona fede, e invidiare lo spirito della donnicciuola che con una giaculatoria crede d’aver fatto le corna a tutti i birboni dell’universo.                    ==>SEGUE
A SAN GIOVANNI

In grazia della zecca fiorentina
Che vi pianta a sedere in un ruspone1,
O San Giovanni, ogni fedel minchione
A voi s’inchina.
Per voi sconvolto il mondo e indiavolato
S’agita come mare in gran burrasca:
Il vostro aureo vapor giù dalla tasca
Dello scapato
Sgorga in pioggia continua, feconda
Al baro, al sarto, a epicureo vivajo,
E s’impaluda in man dell’usurajo
Pestifer’onda.
Dal turbante invocato e dalla stola
Siete del pari; ai santi, ai birichini,
Ai birri smessi, quondam Giacobini,
Voi fate gola2.
Gridano Ave spes unica in un coro
A voi scontisti, bindoli e sensali,
A voi per cui cancellan le cambiali
Il libro d’oro3.
Vecchia e novizia deità, che il callo
Ha già sul core e pudicizia ostenta,
Perde le rose e itterica doventa
Del vostro giallo.
Il tribuno che tiene un piede in Francia,
L’altro a Modena, e sta tra due sospeso,
Alza ed abbassa al vostro contrappeso
La rea bilancia4.
Voi, ridotto a trar sangue da una rapa,
Dal giorno che impegnò la navicella5,
Chiama al deserto della sua scarsella
Perfino il Papa.
Salve, o bel conio, al secolo mercante
Polare stella! Ippocrate, il giornale,
E la monomania trascendentale
Filosofante,
E prete Apollo in maschera che predica6
Sempre pagano sull’arpa idumea,
Fidano in te, ponsando diarrea
Enciclopedica.
Oh mondo, mondo! oh gabbia d’armeggioni,

==>SEGUE
Dante in più luoghi della Divina Commedia prese il Battista come simbolo di moneta («la lega suggellata del Batista») perché l’antico fiorino della Repubblica fiorentina portava da una parte l’imagine del Precursore, scelto a protettore della città, e dall’altra il giglio («il maledetto fiore – c’ha disviato le pecore e gli agni)». Anzi il nome di fiorino, moneta per eccellenza italiana e comune a molte città del medioevo, deriva appunto dal fiore impresso su quel di Firenze, e lo conservava anche quando portava la biscia o la croce di Milano o le torri di Genova. E il Giusti dal San Giovanni Battista coniato sui rusponi trasse la prima idea di quest’inno «contro quelli che l’anno mercato di tutto». Non vi è poeta satirico che non abbia flagellato gli avidi che trafficano ingegno, principi, onore, coscienza, curvandosi al vitello d’oro; ma nessuna sferza diminuì mai la numerosa abjetta genìa che dura e passa trionfante nella viltà dei diversi tempi. Il poeta fu il giudice più inesorabile e acuto delle cose sue; e di questa scrisse: «l’inno a San Giovanni pare all’autore una delle cose meno felici e vi si sente dentro delle stiracchiature e dei giochi di mano di pessimo gusto». Infatti nelle prime e nelle ultime strofe scintilla l’inspirazione poetica, mentre nelle altre la frase è spesso troppo lavorata, contorta e rende il pensiero oscuro.
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1 Ruspone, moneta d’oro che si coniò fino al 1859 e ch’era il triplo fiorino: valeva 42 lire. Aveva da una parte il giglio, come già si disse, e dall’altra il Precursore seduto. 2 Ad ogni mutar di governo pullulano i traditori che si voltano ai vincitori per avere uffici e danari. Le memorie del tempo narrano di antichi carbonari che si vendettero al duca di Modena o al re di Napoli: e gli archivi segreti dei governi dispotici son pieni delle suppliche dei falsi liberali che vendevano i compagni. L’uso continua ai tempi nostri. 3 Eccoci ad una di quelle lamentate oscurità di forma. In grazia dell’oro, dice il poeta, le cambiali cancellano il libro d’oro o matricola dei nobili; ilche può significare che le ricchezze sono in maggior pregio della nobiltà, oppure che le cambiali dei nobili, riducendoli alla miseria, fan dimenticare i loro titoli. 4 Allude a quei patrioti di due facce, dei quali dicemmo alla prima nota, che facevano l’esule e il carbonaro in Francia e mandavano i rapporti di nascosto al tirannello di Modena. 5 Lo Stato pontificio era oppresso da un gran debito e il papa cercava di spremere quanto più danaro potesse dai sudditi. Il debito fu ereditato in massima parte dal nuovo regno d’Italia. 6 Prete Apollo. La satira flagella i medici, i giornalisti, i filosofi, i scribacchini che compongono, per amor di guadagno, opere d’ogni genere, e specialmente «il prete Apollo in maschera». Erano allora di moda i rimatori di inni sacri a imitazione del Manzoni del quale fu detto come del Frugoni, che fu «padre incorrotto di corrotti figli». Il Giusti accusava gli innajuoli di fingere una fede che non sentivano; ma di ciò parleremo a miglior agio nella satira Ad un amico. 7 Il birro Mida era il re Luigi Filippo che il Giusti diceva figlio del Chiappini e tanto avaro quanto ricco dava la caccia alle eredità, senza riguardo a scandalosi processi, e per aumentare il patrimonio non indietreggiava davanti ad alcuna bassezza. 8 Accusa l’Inghilterra di lavorar sempre a proprio vantaggio, e di mostrarsi generosa per amor di futuri guadagni. 9 Duravano tuttavia, quando fu scritto quest’inno, le trattative diplomatiche per definire l’indipendenza del Belgio insorto contro l’Olanda, dopo le giornate parigine del luglio 1830. La diplomazia fece e discusse ben sessantaquattro protocolli o progetti, prima di accordarsi nell’assestamento definitivo che doveva trovarsi soltanto nel 1839. 10 Altra oscurità di forma. La Spagna era lacerata dalla guerra civile fra i partigiani di Cristina e quelli di Don Carlo: e il cannibale peggiore potrebbe essere Don Carlo stesso, cagione principale della guerra, oppure l’Inghilterra che egli accusava di fomentare la insurrezione per vendere le armi e le polveri. 11 I figli del Demonio sono i re, le cui imagini e i cui motti si vedono coniati sulle monete che ci girano in tasca. La colpa però dei re va divisa colle moltitudini corrotte e trascinate dal «furor di zeri», vale a dire dalla smania di conteggiar guadagni.

BRINDISI
1838

Amici, a crapula
Non ci ha chiamati
Uno dei soliti
Ricchi annojati,
Che per grandigia
Sprecando inviti.
Gonfia agli applausi
De’ parasiti.
A diplomatica
Mensa non siamo
D’un Giuda in carica
Che getti l’amo,
E tra gl’intingoli
E tra i bicchieri
In pro de’ Vandali
Peschi i pensieri1.
Ma un capo armonico2,
Volendo a cena
Una combriccola
Di gente amena,
S’è messo in animo
Di sceglier noi,
Di mezza, taglia,
Compagni suoi;
Bazza burlevole
Che non dà retta
Ai gravi ninnoli
Dell’etichetta.
Difatti esilia
Da questa stanza
La parte mimica
Dell’eleganza;
Né per mobilia
Si pianta allato
Tanto la seggiola
Che il convitato.
Non ci solletica
Con cibi strani,
Sì che lo stomaco
Senta domani
Fastidio insolito
Di stare in briglia
Nell’ordinario

==>SEGUE
Passar via via
Lanterna magica
Di piatteria,
Per cui s’annosano3
Arrosto e vino,
Mostrato in copia,
Dato a miccino.
Qui non ci decima
Sempre il migliore
Il sotterfugio
D’un servitore,
Che d’oro luccichi
Le spalle e il petto,
E di panatica4
Viva a stecchetto.
Di qui non tornano
Polli in cucina
Buoni a rifriggersi
Per domattina;
Ma i piatti girano
Tre volte almeno;
Non si può muovere
Chi non è pieno;
E tutti asciugano
Bottiglie a scialo,
Senza battesimi
Né prese a calo,
Che vanno e vengono
Sempre stappate,
E si licenziano
Capivoltate.
Ecco un’imagine
Pretta e reale
Del fare omerico,
Patriarcale;
Ecco la satira
Chiara e lampante
D’un pranzo funebre
Detto elegante,
Ove si cozzano
Piatti e bicchieri
In un mortorio
Di ghiotti seri;
E lì tra gli abiti
E i complimenti,
L’imbroglio, il tedio
T’allega i denti;

==>SEGUE
O ti ci ficcano
Così pigiato,
Che senza gomiti5
Bevi impiccato.
A un tratto simile
Di cortesia,
Risponda un brindisi
Pien d’allegria,
Ma schietto e libero,
Si che al padrone
Non mandi l’alito
Dello scroccone.
Adesso in circolo
Diamo un’occhiata
Tastando il debole
Della brigata.
Siam tutti giovani,
E grazie al cielo
In corpo e in anima
Tutti d’un pelo;
Tutti di lettere
Infarinati,
Tutti all’unisono
Per tutti i lati.
Se come Socrate
Talun qui pensa
In accademia
Mutar la mensa,
Siam tutti all’ordine,
Al suo comando,
Tagliati a ridere
Moralizzando.
Ma sulla cattedra
Resti ogni lite
Di metafisiche
Gare sciapite;
Fuori il puntiglio,
Fuori il vanume.
Fuori il chiarissimo
Pettegolume.
Un basso strepito
Si sa per prova
Che il tempo lascia
Come lo trova;
E in vil ricambio
Di fango o incenso,
Vi gioca a scapito

==>SEGUE

Fama e buon senso.
Se poi v’accomoda,
O male o bene,
Dire in disordine
Quel che vien viene,
Zitte le ciniche
Baje all’ingrosso,
Che a tutti trinciano
La giubba addosso;
Zitto l’equivoco
Da Stenterello,
Che sa di bettola
E di bordello.
Facciam repubblica
Senza licenza;
Nessun ci addebiti
Di maldicenza;
E tra le celie
Del lieto umore,
Tutti si scottino,
Meno il pudore.
Se nelle lepide
Gare d’ingegno
Tizio o Sempronio
Dà più nel segno;
Se a fin di tavola
E a naso rosso
Una facezia
V’arriva all’osso;
Non fate broncio
Come taluno,
Che, se nel muoversi
Lo tocca un pruno,
Soffia, s’inalbera
E si scorruccia,
E per cornaggine6
Si rincantuccia.
È vero indizio
Di testa secca,
Quando la boria
Ti fa cilecca7,
Buttarsi al serio
Dietro un ripicco
Nato da stimolo
Di fare spicco.
Certa lunatica
Stiticheria

==>SEGUE

Copra l’invidia
Di vecchia arpia,
Che in mezzo secolo
Non s’è cavata
Nemmen la smania
D’esser tentata;
E nella noja
Di quattro mura
Si tappa al vizio
Che non la cura.
O giovi ai Satrapi
Che stanno in tuono
E nel bisbetico
Cercano il buono.
Con dommi stitici
Da veri monchi,
La via s’impacciano
Di mille bronchi,
E si confiscano
I cinque sensi,
Vivendo a macchina
Come melensi.
Come? un ascetico
Di cuore eunuco,
In dormiveglia
Tra il santo e il ciuco,
Scomunicandoci
L’umor giocondo,
Vorrà rimettere
Le brache al mondo?8
Oh, senza storie
Tanto nojose,
I savi cingono
Bontà di rose;
E praticandola
Cortese e piana,
La fanno agevole
E popolana.
All’uomo ingenuo
Non fa lusinga
Certa selvatica
Virtù solinga,
Virtù da istrice,
Che, stuzzicato,
Si raggomitola
Di punte armato.
Lasciamo i ruvidi,

==>SEGUE


Giuseppe  Giusti - POESIE  SCELTE - parte II
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
La poesia di G. GIUSTI

di Paola Belloni
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La poesia di Giuseppe Giusti nasce, com’è noto, nel momento più difficile della politica italiana, quando le idee di unità, indipendenza e rinnovamento, alla base del Risorgimento, infiammavano gli animi spronando alla rivolta. Essa non trae origine da una delle solite forme impressionistiche che trovano le loro basi in un’idea frutto di sentimenti letterari, ma scaturisce da una reazione — alla sofferenza, al sopruso, al giogo straniero — che imprime nel cuore il desiderio di educare, formare e preparare il popolo al patriottismo. Ha uno straordinario ritmo agile e sincopato e, seppur costruita con grande attenzione e cura, sembra disinvolta e perfino ribelle alle regole. Con quell’arguzia e quell’impeto che gli sono abituali, Giusti produce versi fluidi e armoniosi che sanno “colpire il vizio” ed educare il lettore. Non mancano neppure le polemiche culturali e letterarie e nei suoi versi si ritrovano termini presi dal lessico quotidiano accostati a vocaboli dotti e raffinati, in latino e persino in francese, posti qua e là per rendere la provocazione ancor più violenta. Come in ogni buono scrittore di satira, ampio spazio è concesso alla rappresentazione ironica dei costumi del mondo italiano, colto negli aspetti più retrivi, ponendo alla berlina la politica reazionaria, il malgoverno e il malcostume; ma la sua satira mordace non raggiunge mai vette di estrema cattiveria, anzi si ripiega, talvolta, nella malinconia. Sulla fortuna letteraria di Giusti è stato scritto molto; esiste una bibliografia a dir poco sterminata. Eppure non è  un poeta “canonizzato”, la sua causa di “beatificazione” è, infatti, tuttora aperta; lo si considera, piuttosto, un poeta complesso, il “contemporaneo” di tutte le varie epoche. E se rimane — agli occhi di qualche lettore poco attento — troppo paesano e prosaico, forse più uomo che poeta, con il suo acume intelligente ha saputo notare passioni, vizi, debolezze proprie di tutti i tempi e descrivere scene che, seppur pensate in Toscana, durante il regno di Leopoldo II, potrebbero gustarsi in qualsiasi parte d’Italia e in ogni tempo. Il più bel commento al Poeta è dato dai lettori, soprattutto quelli più anziani, che ricordano a memoria gran parte delle sue poesie. Quando il popolo umile, modesto, lavoratore, cita appassionatamente un verso, o parla di un poeta con entusiasmo, ciò significa che l’arte di quel poeta ha penetrato il suo animo facendogli vibrare le corde del cuore.
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La vita di un Poeta

Giuseppe Giusti nacque a Monsummano Terme, nella casa dei nonni paterni, il 12 maggio 1809. Il padre, Domenico, era un proprietario terriero che tenne per molti anni l’amministrazione delle Terme di Montecatini; la madre, Ester, era figlia di un fiero repubblicano di Pescia, Celestino Chiti, che subì persecuzioni e carcere durante la reazione del 1799, dopo la discesa degli Austro-Russi nel nostro paese, e si fece ammirare poi per la generosità mostrata contro i suoi persecutori quando, tornato Napoleone in Italia, fu chiamato a ricoprire una carica molto importante nella sua provincia. Il Nostro nutrì sempre, fin da ragazzo, una grande ammirazione per il nonno materno, di cui nel 1837 scriverà la biografia; l’esempio di Celestino Chiti dovette influire notevolmente sulla sua formazione morale e più tardi sul suo orientamento politico, con grande disappunto del padre che sperava, anzi pretendeva, che il figlio prendesse a modello della propria vita l’avo paterno, quello di cui portava il nome e che aveva assicurato alla famiglia un notevole benessere e un elevato rango sociale. Amico e confidente del granduca Pietro Leopoldo, il vecchio Giusti era stato chiamato da questi alla presidenza del Buon Governo, una specie di direzione generale della polizia con attribuzioni molto ampie. Dopo la caduta dei Lorena ed il trionfo di Napoleone, seppe barcamenarsi così abilmente coi nuovi padroni che Maria  Luisa, reggente del regno d’Etruria, lo nominò suo consigliere particolare e gli conferì un titolo nobiliare. Si capisce perciò che Domenico Giusti sognasse per quell’unico suo figlio maschio una carriera statale tanto brillante da rinverdire in famiglia le glorie paterne. Ma quel ragazzo, che pure mostrava un ingegno pronto e vivace, era destinato a dargli non poche delusioni: in primo luogo impiegando più anni
di quanti non ne fossero necessari ad ottenere una laurea in giurisprudenza e, in secondo luogo, mostrando ben presto una disposizione a mettere in burletta quelle istituzioni di cui avrebbe dovuto essere, nei sogni del padre, una solida colonna. Il cavalier Domenico, che a modo suo componeva versi ed aveva una gran passione per la musica e per la Divina Commedia, fu il primo maestro di quel figliolo ribelle ed inquieto, mentre la pratica religiosa fu affidata alla madre; «le prime cose che m’insegnò mio padre furono le note della musica e il canto del conte Ugolino», scriverà più tardi il Poeta in alcuni frammenti autobiografici:
Mio padre che avrebbe voluto fare di me un
Avvocato, un Vicario, un Auditore, insomma
un arnese simile, quando sapeva che io, invece
di stillarmi sul Codice, almanaccavo con
Dante, dopo aver brontolato un pezzo con me
e con gli altri finiva per dire: Già la colpa è
mia.
A sette anni, secondo l’uso delle famiglie agiate, fu affidato al precettore don Antonio Sacchi, guadagnando
parecchie nerbate una perfetta conoscenza
dell’ ortografia, nessuna ombra di latino, pochi
barlumi di storia […] e poi svogliatezza, stizza,
noia, persuasione interna di non esser buono a
nulla.
La modestia del primo precettore non impedì nell’allievo il formarsi precoce di un gusto letterario, orientato dai testi di scuola verso le biografie eroiche e gli episodi patetico- romanzeschi della presa di Gerusalemme. Nel 1821, all’età degli studi regolari, venne mandato a Firenze all’Istituto “Attilio Zuccagni”, dove ebbe per maestro Andrea Francioni, divenuto più tardi accademico della Crusca, il primo che gli metterà nel cuore «il bisogno e l’amore agli studi». La chiusura della scuola lo costrinse a lasciare Firenze per il liceo “Forteguerri” di Pistoia, dove si
fece notare più per la cattiva condotta che per il buon profitto. Nell’estate del ’23 passò al collegio “Carlo Lodovico” di Lucca e qui rimase due anni fino a quando fu espulso sempre per motivi disciplinari. A dodici anni iniziò a scrivere sonetti poi smarriti per incuria. Continuò a comporre anche una volta tornato a casa, a Montecatini, dove la famiglia si era trasferita dal 1815, e a Pisa, dove fu mandato per compiere gli studi universitari in giurisprudenza. Studente pigro e demotivato, dalla vocazione professionale insicura e ormai entrato in contrasto col padre, preferiva il Caffè dell’Ussero alle aule universitarie, mescolandosi ad allegre brigate, facendo conoscenze buone e cattive e collezionando debiti. La vita scapestrata e la «baraonda gioconda» che in Le memorie di Pisa si propongono come autentica lezione di conoscenza del mondo, culminano in un episodio di pubblica indisciplina: i tumulti studenteschi al Teatro dei Ravvivati, che gli fruttano una convocazione da parte dell’autorità di polizia. Il padre pretende che torni a casa, a Pescia, dove nel frattempo la famiglia si era trasferita. I tre anni seguenti sono i più tristi della sua vita: l’ambiente pesciatino ristretto e pettegolo lo priva di quelle soddisfazioni che Pisa gli aveva offerto; sola consolazione, sola àncora di salvezza, il continuo bisogno di scrivere versi: esercitazioni accademiche, sonetti amorosi, componimenti burleschi.
Così il tempo passa, ma intanto gli echi della rivoluzione parigina di luglio si propagano rapidamente in
Europa mentre, nel ducato di Modena, Ciro Menotti organizza quella temeraria insurrezione contro Francesco IV che gli sarebbe costata la vita. Giuseppe Giusti ne rimane colpito e commosso; le sue poesie di quel tempo, accese di un patriottismo generico ma sincero, restano a testimonianza della partecipazione spirituale ai nuovi ideali di libertà e d’indipendenza e segnano l’inizio di un impegno più serio nella sua attività di poeta. Questa improvvisa fiammata di sentimenti liberali rende ancor più difficili i rapporti col padre – conformista e devoto al Granduca – che, rassicurato dal fallimento dei moti romagnoli, lo rispedisce a Pisa per fargli riprendere gli studi. Nel giugno 1834, a venticinque anni, prende finalmente la laurea e si reca a Firenze per far pratica nello studio di Cesare Capoquadri, un principe del foro fiorentino; ma continua ad occuparsi di tutto fuorché di giurisprudenza. Tuttavia, dopo qualche tempo, per non rompere definitivamente col padre e per non dare un grosso dispiacere alla madre, ottiene l’abilitazione all’esercizio dell’avvocatura. Ma non volle mai esercitare la professione, anzi si arrabbiava se qualcuno lo chiamava avvocato. Intanto la sua fama di poeta era cresciuta, alcuni dei suoi vivaci scherzi satirici erano diventati popolarissimi, senza contare le liriche di stampo amoroso ispirate quasi tutte da Cecilia Burlini, maritata Piacentini, con la quale aveva stretto una relazione a Pescia nel 1829, relazione durata, tra alti e bassi, fino al 1836. La verità è che egli ebbe una sola grande passione: ‘la poesia’; per le donne della sua vita provò solo passioncelle e capricci nei quali avevano molta parte i sensi e poca il cuore. Si stabilì a Firenze. Intanto, però, la sua salute si stava aggravando e a nulla valsero i viaggi per ristabilirsi. Nel settembre del ’45 fu a Milano ospite di Alessandro Manzoni col quale aveva già intrecciato da tempo una relazione epistolare. L’affetto del grande “Sandro” e quello di Tommaso Grossi rappresentarono per lui la consacrazione letteraria, e gratificarono il bisogno di un apprezzamento anche umano della sua persona. Visitò Milano e i Laghi ma, soprattutto, discusse con Manzoni il fine della poesia ed accolse le critiche che questi muoveva sulla natura troppo personale della sua satira. Nell’inverno del 1845-46 si recò a Pisa a casa dell’amico Giovanni Frassi che avrebbe più tardi raccolto il suo epistolario e ne avrebbe scritto la biografia. Rientrato a Firenze, andò a stabilirsi nel palazzo dell’amico Gino Capponi, in via San Sebastiano – attuale via Gino Capponi –, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni. Se le amicizie restano fedeli, tranne quelle oscurate in seguito da dissensi politici, i suoi amori si dispongono in un quadro più instabile e turbato. Al giovanile amore ideale per Isabella Fantoni, succede negli anni dell’università la tormentata relazione con Cecilia Piacentini. La bella signora pesciatina, madre del Giovannino destinatario di una lettera pedagogica, rappresenta un capitolo fondamentale della sua vita. La vicenda si conclude amaramente e con essa il Poeta congeda l’amica lontana e l’amore. Anche il legame con Isabella Rossi, poetessa e donna di fervidi interessi intellettuali, non lo rimuove dalla scelta di uno «scapolato» gaudente, appena incrinato da qualche rimpianto per la mancata vita familiare. Si susseguono poi alcune relazioni, per così dire, altolocate: quella con la marchesa Girolama U., nobildonna fiorentina, (a lei fu dedicato Il Sospiro dell’anima), e quella con Luisa d’Azeglio vedova di Enrico Blondel, fratello della prima moglie di Alessandro Manzoni. La “Marchesa” e il poeta si compresero e rimasero uniti da durevole affetto. Vedova e rimaritata, Luisa, nata Maumari, dovette essere consapevole della scelta fatta, per la quale ogni rapporto col marito, Massimo d’Azeglio, fu poi rotto per sempre. Ma, nonostante tutto, l’amore appartiene ormai per lui ad un universo di disvalori, e l’aridità interiore, rafforzatasi nella concentrazione sul proprio lavoro e sui propri mali fisici, autorizza il distacco e la freddezza. Nella quiete di palazzo Capponi continua il suo lavoro. La poesia, nel frattempo, accantona l’indagine sulla società e si lega alla cronaca politica, quasi a commento degli eventi che precedono il Quarantotto.
Il trionfo dell’ipotesi neoguelfa, dopo il Primato di Gioberti, modifica gli equilibri italiani ed incide sulla politica dei governanti. Le aperture di Leopoldo II, ottenute in seguito a vivaci sollecitazioni del partito moderato, creano un clima di attesa e di speranza che pare rispondere alle richieste mosse negli anni precedenti. Pur facendosi osservatore dei mutamenti positivi del momento, Giusti è in realtà spiazzato dagli avvenimenti. Assiste alle vicende rivoluzionarie della primavera del ’48 da palazzo Capponi e, solo
con l’ascesa al potere dei democratici, sposa la causa moderata. Nella primavera-estate del 1848 è occupato dall’organizzazione della Guardia Civica per la città di Pescia; eletto maggiore, al comando di un battaglione dimostra discrete capacità pratiche; partecipa alla prima e alla seconda legislatura concedendo il proprio appoggio ai governi moderati di Ridolfi e di Capponi e si attira, così, le ire della stampa di sinistra che lo accusa di tradimento. Nel 1849, però, non ha voti sufficienti per essere rieletto all’Assemblea Costituente creata dal governo democratico-rivoluzionario presieduto da Guerrazzi. La sfortunata campagna contro l’Austria conclusasi con l’armistizio di Salasco, il fallimento dell’ipotesi moderata, reso evidente dalla fuga di Leopoldo II e di Pio IX a Gaeta, il governo democratico a Firenze e la breve dittatura di Guerrazzi costituiscono eventi tragici per la sua lucidità mentale. Guerrazzi diventa il suo bersaglio e neppure la fine della dittatura e il ritorno del Granduca appoggiato dagli Austriaci lo distolgono dalla sua chiusura intellettuale. L’isolamento politico diventa anche solitudine morale e i dubbi sulla propria poesia si fanno così forti da costringerlo al silenzio. Alla satira sembra succedere il tentativo di un affresco collettivo.
Intanto, nell’aprile del 1848 viene eletto membro dell’Accademia della Crusca; tornato poi a Firenze all’inizio del 1850, dopo un inverno di malattia, muore in palazzo Capponi la mattina del 31 marzo, giorno di Pasqua, per soffocamento dovuto ad un improvviso flusso sanguigno. La sera del 1° Aprile il suo corpo viene portato nella chiesa di San Miniato al Monte, e lì seppellito. La vita e l’opera di Giuseppe Giusti furono segnate dalla concorrenza di due determinanti fondamentali: il conflitto nei rapporti col padre e il rifiuto del tipo di organizzazione e dei valori dominanti nella società italiana, e toscana in particolare, del suo tempo. Dal primo deriveranno quel rovello, quella insoddisfazione, quel senso di incompiutezza che caratterizzano la sua personalità e sono abbondantemente testimoniati sia dai versi che dalle prose (in specie quelle di tipo autobiografico o di confessione, assai frequenti nell’Epistolario). Esistono, nella sua struttura psichica, cariche atte a sviluppare tutta una serie di reazioni e difese, di spostamento e occultamento dell’ aggressività da una parte, di rassicurazione e riparazione dall’altra. Quelle della prima specie si identificano sostanzialmente col riso e con le sue forme giocose e satiriche, quelle della seconda comprendono l’apatia che è, a livello manifesto, disposizione a lasciarsi andare per sfuggire all’azione e ai contrasti e per sdrammatizzare le situazioni potenzialmente penose. All’angoscia della disgregazione e della morte si oppongono, quindi, tendenze costruttive, la tensione verso una comunione affettiva e sociale, assicurata da contrasti e dissonanze, che potremo chiamare il paesanismo-«chiocciolismo» giustiano:3 un massimo di chiusura ed esclusione del grande mondo che è poi solo una forma di rimpianto della condizione prenatale. Il condizionamento familiare va legato al contesto strutturale della società e del momento storico in cui il Poeta visse. Entro le coordinate storico-culturali proprie della Toscana, la sua posizione è tra le più singolari. Con chiara coscienza egli disdegnò di integrarsi nel sistema granducale della Restaurazione e, così, finì per essere un prototipo della figura moderna dell’intellettuale laureato disoccupato.
Di siffatta strozzatura storica, il nostro ebbe coscienza e cercò di definirla in una sua confessione:
Nella generale ipocondria che mette di mal’umore
i giovani del mio tempo, mi pare di ravvisare
un non so che di affettato e stucchevole.
[…] I desideri impronti, le speranze smoderate
ci avvezzano per tempo a stimarci degni di
ciò che è di meglio al mondo; d’altro canto,
una volontà fiacca in un corpiciattolo più fiacco
che mai c’inchiodano, per dir così, in una
poltrona di beata melensaggine ad aspettare
che la sorte ci dia l’imbeccata; intanto gli anni
passano, i sogni vanno in fumo e noi restiamo
lì grulli e scontenti, e buoni a nulla. […] Allora
versacci di rabbia intonacata di dolore, allora
romanzacci dove si calunnia Dio e l’umana
natura. Tempo fa la malinconia spingeva nei
monasteri o nei romitorii, oggi spinge a dar
fuori in istampa il disgusto di sé sotto colore di
romantiche ubbie.
La coscienza che avrà assai precisa della situazione del suo tempo fu condizionata a tutti i livelli dagli orientamenti della cultura dominante in Toscana. Un intellettuale come lui, specialmente negli anni giovanili, piuttosto che un ruolo di rappresentanza degli interessi di classe, sembra assumerne uno più mediato e universale. Negli anni pisani nutrì incomprensione per le posizioni più decise e radicali, specialmente se legate alle organizzazioni settarie, ma non fu esente da influenze democratico - repubblicane. La sua filosofia giudicativa fu il “buon senso”, saggezza pratica tratta dall’esperienza e dalla memoria paesana e campagnola (quella dei proverbi, di cui lui stesso fu sagace e convinto raccoglitore). Ma la “saggezza-buon senso” non gli consentiva di giungere all’analisi delle cause del problema toscano e italiano per cui la sua reazione rimase ad uno stadio emotivo e moralistico fatto di disagio e di ansia. Le sue idee, però, finirono con l’essere un adattamento alle posizioni della classe egemone, vale a dire di quel liberalismo moderato su cui modellò le proprie aspirazioni indipendentistiche e unitarie. E fu la poesia scherzoso-satirica il più efficace sfogo consentitogli; in questa, infatti, si confondono le due motivazioni della sua personalità: i dinamismi edipici – che lo portavano ad identificare il padre con gli oggetti del mondo socio-politico, emblemi di oppressione, inerzia e assenza di valori – ed il rifiuto della società della Restaurazione. Il suo mondo poetico è scomposto in “scene”, “scenette”, “farse”, “casetti”, la società appare come un confuso groviglio carnevalesco, gli uomini del suo tempo sembrano «burattini» o «pantomini», la sua stessa memoria, negli appunti presi, è fatta di «commedie vedute».5 Tale visione finirà con l’assumere un senso di espressione “corale”, è come se egli divenisse interprete degli oppressi e degli onesti in nome del buon senso. Affermazioni, queste, del tutto in linea con una poetica moderatamente romantica, di cui venne delineando i tratti per più di un decennio, dal ’35 in poi, ma senza un vero svolgimento. Fortemente influenzata dalle posizioni dell’“Antologia”, tale poetica è articolata sui principi dell’arte interprete dei bisogni del tempo, finalizzata al bene e all’utile, rappresentante del vero e destinata, almeno nelle intenzioni, al popolo. Il suo, però, è un romanticismo che si vuole collocare in una condizione di equidistanza dalle due scuole: libertà «dalle panie aristoteliche e dalle fuliggini sataniche» sul piano dei temi e dei motivi, per volontà di “paesanità”, e rifiuto dei suggerimenti stranieri in cui si paventa l’insidia di un asservimento anche intellettuale. Dunque egli non fu certo sprovvisto di una sua cultura
ma non fu neppure un gran lettore e non c’è ragione didubitare delle sue parole quando ad Atto Vannucci scrisse:
Ho avuto molta facilità di imparare, ho letto
pochi libri, ma credo d’averli letti bene assai;
del resto sono ignorantissimo di molte cose
essenziali, da far paura e pietà a me stesso.
Nella medesima lettera autobiografica accenna alla nascita e alla storia delle sue poesie:
Fino dal 1831, a forza di raspare senza guida e
senza concetto, m’era venuto fatto uno scherzo
sulle cose d’allora, e il favore degli amici, piuttosto
che il mio proprio giudizio, mi fece intendere
che poteva aprirmisi una via.
Subito dopo trascurò questa sorta di vocazione: si sentiva ignorante e aveva letto troppo poco. Poi riprese a comporre e
anno per anno ho seguitato, senza presunzione,
senza odio contro nessuno in particolare, e
senza tenere per moneta corrente tutto il bene
che me ne dicono e tutto il grido che me ne
promettono.
Così nascono gli Scherzi che si diffondono in copie manoscritte, per la Toscana prima e per l’Italia poi.
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In quello stato vidi per la prima volta la statua di Bartolini, e mi parve tanto consuonare ai miei affetti di quel momento, che ne volli conservare la memoria unicamente per me con quelle cento cinquanta- quattro sillabe misurate e contate.» Qualcuno potrebbe domandare allo scultore ch’era, a’ suoi tempi, un verista se per esprimere la fiducia in Dio era necessario cavarsi la camicia; ma la posa piena di abbandono e la testa di una meravigliosa espressione giustificano l’entusiasmo del poeta e la grande fama del Bartolini, scolaro di Canova. Il Giusti così descrisse la statua in una lettera al dottor Fredianelli: «La Fiducia in Dio di Bartolini, scolpita per la Poldi-Trivulzio, è rappresentata da una giovinetta che nella prima adolescenza ha già sentito lo strale del dolore e la necessità di cercare un conforto elevando la mente dalle vane speranze di questa vita a quelle di un bene meno caduco. Ella è genuflessa e il corpo e le braccia, con l’una palma nell’altra, lascia mollemente cadere sui ginocchi, volgendo al Cielo la faccia in una soavissima melanconia; nella quale scorgi la certezza d’aver trovato un rifugio. Quell’abbandono del corpo parvemi che mirabilmente indicasse il distacco dalle cose di quaggiù; e l’anima e la vita, trasfusa tutta negli occhi e nella fronte, l’ardore e la speranza del sagrificio che ella e di sé e de’ suoi mali fa al Padre benigno «che prende ciò che si rivolve a lui».

Come dicesse a Dio: d’altro non calme.
DANTE, Purg., VIII.
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Che a grugno stufo
La gente scansano
Facendo il gufo,
Chiusi al contagio
Del mondo infetto
Di sé medesimi
Nel lazzeretto.
Noi nati a starcene
Fuor del deserto,
Tra i nostri simili
Col cuore aperto,
Tiriamo a vivere
Da buona gente,
Raddirizzandoci
Piacevolmente.
Qui l’amor proprio
Sia cieco e sordo;
Qui punzicchiamoci
Tutti d’accordo;
E senza collera
Né grinta tosta,
Facciamo a dircele,
Botta e risposta.
Meglio alla libera
Buttarle fuori,
Che giù nel fegato
Covar rancori;
Falsar un animo
Meschino o reo,
Sotto l’alchimia
Del Galateo.
Ai galantuomini
Non fa paura
Una reciproca
Gaja censura.
All’amichevole
Burlarsi un poco,
Fa pro, solletica,
Riesce un gioco;
E quel sentirsele
Dire in presenza,
Prova l’orecchio
Della coscienza.
Ma già le snocciola
Come le sente
Tanto la Camera
Che il Presidente;

==>SEGUE


Già della chiacchiera
L’estro s’infiamma;
Sento l’aculeo
Dell’epigramma;
Gli atleti s’armano
Tutti a duello:
Guai alle costole
Di questo e quello.
Bravi! la gioja
Che qui sfavilla
Del fluido elettrico
Par la scintilla,
Che dal suo carcere
Appena mossa,
Il primo e l’ultimo
Sente la scossa.
Via, ricordiamoci
Di fare in modo
Che il dire e il bevere
Non faccia nodo,
E, se ci pencola
Sotto il terreno,
Rimanga in bilico
La testa almeno.

Limpido e scorrevole come il buon vino toscano che mette addosso l’umor festoso, amico delle numerate sillabe, ci si presenta questo brindisi al quale il lavoro della lima ha conservato la spontaneità richiesta dal tema. Al leggerlo la mente si riposa e si spianano le rughe sulle fronti, come avviene a un banchetto d’amici, quando la confidenza apre i cuori e detta le facezie e l’affetto spunta le frecciate. Il Giusti era di gusti semplici: per una frittata di sparagi (e quelli di Pescia sono celebrati per la loro bellezza e bontà) o una merenda fra amici rinunciava a ogni più lussuoso cibo. Abborriva dai pranzi fastosi dove spesso tutto è pompa apparente senza sostanza e sono artificiosi le vivande, i vini e i discorsi: preferiva, a ragione, la semplicità abbondante sulla mensa e i modi e i cuori schietti dei convitati seduti intorno, i banchetti famigliari che non si tramutano mai in orgia e dove nella gajezza si conserva la testa sana. Il desinare che gli diede l’idea di questo brindisi ebbe luogo nella casa di Lorenzo Marini di Pescia; e lo paragonava a un altro al quale aveva assistito nel palazzo di un vendifumo blasonato: «Jeri alla tavola del conte (scriveva) ebbi sempre per la testa il tuo desinaretto di martedì. Ti spaventa il confronto? questa volta pigliala in santa pace: bisogna adattarsi e subirlo. Da te eravamo quattro, dal conte diciotto: la tua tavola era per diciotto, quella del conte per quattro. Da te toccavano due triglie di mezzo braccio e tre tordi a testa, se la roba che venne avanti avesse permesso di stare a rigor di conti: il conte, dopo dieci portate di ninnoli, ci fu largo dell’odore di due fagiani, rubati (non da lui) a S. A. I. e R. Un piccolo tavolino coperto da una tovaglia semplicissima, ci apparecchiò in casa tua piatti di frutte d’ogni sorta, qualche biscottino, qualche fiasco di vino de’ tuoi poderi, e, quasi per verbigrazia, due bottiglie di sciampagna e due di bordò, ma vere e pagate. Dalla magnifica dispensa del conte illustrissimo grondava santerne, madera secco a tutto pasto e le meilleur confiturier français aveva addobbato il dessert; ma dicono che il Pappini e Donez siano rimasti compari. Da te parlammo del nostro buon tempo di Pisa, dei nostri castelli in aria e ci burlammo amichevolmente l’un l’altro. Dal
conte discussero di cavalli inglesi, di faraone, ecc., e si bastonarono coi complimenti. In casa tua si potè invecchiare a tavola perché Drea e la Caterina avevano già mangiato. Ministravano alla tavola del conte dodici ganimedi; ma le giubbe o troppo strette o fatte a crescenza, dicevano che otto almeno erano prese a nolo. Il tuo Drea bianco vestito, fu un vero centimano e non ci levò mai i piatti davanti prima che fossero vuoti; ché se i servitori presi a nolo dal conte avessero fatto lo stesso, non avrebbero mangiato.»
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1 Il poeta si rallegra di non essere a desinare da qualche barbassore che copra pubblici uffici e che a tavola ecciti le confidenze per riferirle ai Vandali, cioè ai commissarî di Polizia e agli oppressori stranieri. A Parma era accaduto di quei giorni un caso siffatto. Un finto liberale aveva convitato a banchetto le teste più calde: quei giovani propiziarono largamente all’Italia e il giorno dopo il commissario Sartorius li fece imprigionare. 2 Capo armonico veramente vale cervello balzano, e forse il modo di dire è preso dai musici; qui significa persona di allegro umore. 3 Annosare è sempre usato dal poeta invece di annusare, e non è da imitare. 4 Panatica è parola di senso generico che significa il mangiare e il bere di un uomo: vivere «a stecchetto di panatica» vuol dire avere appena da bere o da mangiare. 5 Senza gomiti, cioè senza dar di gomito nel vicino, e senza sollevare i gomiti non si può bere. 6 Cornaggine, caparbietà, testardaggine, come di chi ha la testa foderata di dura materia cornea. Il Fanfani trova che questa parola non è delle più felici create dal Giusti. 7 Fa cilecca: può tradursi mancare sul più bello e si dice di chi accenna a dare qualche cosa e non la dà; ma qui si usa in un modo diverso che non ha giustificazione d’esempi, e vorrebbe dire; quando la boria ti tenta. 8 Rimettere le brache al mondo: le brache si rimettono ai bambini e i bacchettoni le mettevano agli angioletti di Michelangelo: il Giusti biasima gli ipocriti che ascrivon l’allegria a peccato.

Calzarmi coll’ajuto e da sé solo;
Poi sentì che non fui fatto al suo piede,
E allora qua e là mi dette a nolo:
Ora alle mani del primo occupante
Mi lascia, e per lo più fa da tirante.
Tacca col Prete a picca e le calcagna
Volea piantarci un bravazzon tedesco,
Ma più volte scappare in Alemagna
Lo vidi sul caval di San Francesco:
In seguito tornò; ci s’è spedato5,
Ma tutto fin a qui non m’ha infilato.
Per un secolo e più rimasto vuoto,
Cinsi la gamba a un semplice mercante;
Mi riunse costui, mi tenne in moto,
E seco mi portò fino in Levante, -
Ruvido sì, ma non mancava un ette,
E di chiodi ferrato e di bullette.
Il mercante arricchì, credé decoro
Darmi un po’ più di garbo e d’apparenza:
Ebbi lo sprone, ebbi la nappa d’oro,
Ma un tanto scapitai di consistenza;
E gira gira, veggo in conclusione
Che le prime bullette eran più buone.
In me non si vedea grinza né spacco,
Quando giù di ponente un birichino
Da una galera mi saltò sul tacco,
E si provò a ficcare anco il zampino;
Ma largo largo non vi stette mai,
Anzi un giorno a Palermo lo stroppiai6
Fra gli altri dilettanti oltramontani,
Per infilarmi un certo re di picche
Ci si messe co’ piedi e colle mani;
Ma poi rimase lì come berlicche,
Quando un cappon, geloso del pollajo,
Gli minacciò di fare il campanajo7.
Da bottega a compir la mia rovina
Saltò fuori in quel tempo, o giù di lì,
Un certo professor di medicina,
Che per camparmi sulla buccia, ordì
Una tela di cabale e d’inganni

==>SEGUE


Che fu tessuta poi per trecent’anni8.
Mi lisciò, mi coprì di bagattelle,
E a forza d’ammollienti e d’impostura
Tanto raspò, che mi strappò la pelle;
E chi dopo di lui mi prese in cura,
Mi concia tuttavia colla ricetta
Di quella scuola iniqua e maledetta.
Ballottato così di mano in mano,
Da una fitta d’arpìe preso di mira,
Ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano9
Che si messero a fare a tira tira:
Alfin fu Don Chisciotte il fortunato,
Ma gli rimasi rotto e sbertucciato10.
Chi m’ha veduto in piede a lui, mi dice
Che lo Spagnolo mi portò malissimo:
M’insafardò di morchia e di vernice11,
Chiarissimo fui detto ed illustrissimo;
Ma di sottecche adoperò la lima,
E mi lasciò più sbrendoli di prima.
A mezza gamba, di color vermiglio,
Per segno di grandezza e per memoria,
M’era rimasto solamente un Giglio:
Ma un Papa mulo, il Diavol l’abbia in gloria,
Ai Barbari lo diè, con questo patto
Di farne una corona a un suo mulatto12.
Da quel momento, ognuno in santa pace
La lesina menando e la tanaglia,
Cascai dalla padella nella brace:
Viceré, birri, e simile canaglia
Mi fecero angherie di nuova idea,
Et diviserunt vestimenta, mea.
Così passato d’una in altra zampa
D’animalacci zotici e sversati13,
Venne a mancare in me la vecchia stampa
Di quei piedi diritti e ben piantati,
Co’ quali, senza andar mai di traverso,
Il gran giro compiei dell’universo.
Oh povero stivale! ora confesso
Che m’ha gabbato questa matta idea:
Quand’era tempo d’andar da me stesso,

==>SEGUE


Colle gambe degli altri andar volea;
Ed oltre a ciò, la smania inopportuna
Di mutar piede per mutar fortuna.
Lo sento e lo confesso; e nondimeno
Mi trovo così tutto in isconquasso,
Che par che sotto mi manchi il terreno
Se mi provo ogni tanto a fare un passo;
Ché a forza di lasciarmi malmenare,
Ho persa l’abitudine d’andare.
Ma il più gran male me l’han fatto i Preti,
Razza maligna e senza discrezione;
E l’ho con certi grulli di poeti,
Che in oggi si son dati al bacchettone:
Non c’è Cristo che tenga, i Decretali
Vietano ai Preti di portar stivali.
E intanto eccomi qui roso e negletto,
Sbrancicato da tutti, e tutto mota;
E qualche gamba da gran tempo aspetto
Che mi levi di grinze e che mi scuota;
Non tedesca, s’intende, né francese,
Ma una gamba vorrei del mio paese.
Una già n’assaggiai d’un certo Sere,
Che se non mi faceva il vagabondo,
In me potea vantar di possedere
Il più forte stival del Mappamondo:
Ah! una nevata in quelle corse strambe
A mezza strada gli gelò le gambe14.
Rifatto allora sulle vecchie forme
E riportato allo scorticatojo,
Se fui di peso e di valore enorme,
Mi resta a mala pena il primo cuojo;
E per tapparmi i buchi nuovi e vecchi
Ci vuol altro che spago e piantastecchi.
La spesa è forte, e lunga è la fatica:
Bisogna ricucir brano per brano;
Ripulir le pillacchere; all’antica
Piantar chiodi e bullette, e poi pian piano
Ringambalar la polpa ed il tomajo15:
Ma per pietà badate al calzolaio!
E poi vedete un po’: qua son turchino,

==>SEGUE


Di grulli, di sonnambuli e d’avari,
I pochi che per te fan de’ lunari
Son pur minchioni!
Non delle sfere l’armonia ti guida,
Ma il magnetico suon delle monete:
Francia s’arruffa intanto nella rete
Del birro Mida7.
Sostien l’amico con un laccio al collo
Anglia con fede che la greca ecclissa8;
Lacera il Belgio la volpina rissa
D’un protocollo9.
In furor di Cannibali si cangia
Lo scisma ibero che sé stesso annienta;
Cannibale peggiore or lo fomenta,
Poi so lo mangia10.
Sognan d’Italia i popoli condotti
Con sette fila in cieco laberinto:
Giocano i re per arte e per istinto
Ai bussolotti.
Se l’inumana umanità si spolpa,
Se a conti fatti gli asini siam noi,
Caro Giovanni, un Santo come voi
N’avrà la colpa?
Colpa è di questi figli del Demonio
Che giran per le tasche a voi confusi,
Di cui vedete le sentenze e i musi
Brillar nel conio11.
Colpa di moltitudine che anela
Par da leon col core impecorito:
Falsificando il cuojo ed il ruggito
Sbadiglia e bela.
Che dico mai? Di scettri e candelieri
questa gente non importa un ette:
Tribune invade e cattedre e gazzette
Furor di zeri.
Guerra non è di popoli e sovrani,
È guerra di chi compra e di chi vende:
E il moralista addirizzar pretende
Le gambe ai cani?
Ah! predicar la Bibbia o l’Alcorano,
San Giovanni mio caro, è tempo perso:
Mostrateci la borsa, e l’universo
Sarà cristiano.
___________________



Della famiglia.
Non ci abbarbaglia
Coll’apparecchio,
Perché del pubblico
S’empia l’orecchio,
Sulle stoviglie,
Sul vasellame,
D’un panegirico
Nato di fame.
Queste son misere
Ambizioncine
Di teste anomale
E piccinine,
Che nel silenzio
D’un nome nullo,
Per fare strepito
Fanno il Lucullo;
Sono ammennicoli
E spampanate
Di certe anonime
Birbe dorate,
Che tra noi ronzano
Alla giornata
Come gli opuscoli
Di falsa data;
E così tentano
Turar la bocca
Sopra un’origine
Lercia o pitocca.
Oppur son cabale
Da rifiniti.
Che alla vigilia
D’andar falliti,
Si danno l’aria
Dell’uomo grande,
Che ha l’oro a staja,
Che spende e spande.
Qui non si veggono
Fin sulla scala
Tappeti, fronzoli,
Livree di gala;
Né di risparmio
Bizzarro impasto
Sotto i magnifici
Fumi del fasto,
Imaginatevi,

==>SEGUE
APOLOGIA DEL LOTTO
1838

Don Luca, uomo rotto1,
Ma onesto Piovano,
Ha un odio col Lotto
Non troppo cristiano;
E roba da cani
Dicendo a chi gioca,
Trastulla coll’oca
I suoi popolani.
Don Luca davvero
È un gran galantuomo,
Migliore del clero
Che bazzica in Domo;
Ma è troppo esaltato,
E crede che tocchi
Ai preti aprir gli occhi
Al mondo gabbato.
In oggi educare,
O almeno far vista,
È moda; il collare
Doventa utopista:
E ognuno si scapa2
A far de’ lunari,
Guastando gli affari
Del Trono e del Papa3.
Il giuoco in complesso
È un vizio bestiale,
Ma il Lotto in sé stesso
Ha un che di morale:
Ci avvezza indovini,
Pietosi di cuore;
Doventi un signore
Con pochi quattrini.
Moltiplica i lumi,
Divaga la fame,
Pulisce i costumi
Del basso bestiame.
Di fatto lo Stato,
Non punto corrivo,
Se fosse nocivo
L’avrebbe vietato.
Lasciate, balordi,
Che il Lotto si spanda,
Che Roma gli accordi
La sua propaganda;

==>SEGUE
Si gridi per via:
Cristiani, un bel terno!
S’ajuti il governo
Nell’opera pia.
Di Grecia, di Roma
I regi sapienti
Piantavan la soma
Secondo le genti;
E a norma del vizio
Il morso e lo sprone;
Che brave persone!
Che re di giudizio!
Con aspri precetti
Licurgo severo
Corresse i difetti
Del Greco leggiero;
E Numa con arte
Di santa impostura
La buccia un po’ dura
Del popol di Marte.
O tisici servi
Dal cor di coniglio,
Un savio consiglio
Vi fodera i nervi;
Un tempo corrotto,
Perduta ogni fede,
È gala se crede
Nel giuoco del Lotto.
Lasciate giuocare,
Messer Galileo;
Al verbo pensare
Non v’è giubileo4,
Studiar l’infinito?
Che gusto imbecille!
Se fo le sibille
Non sono inquisito.
Un giuoco sì bello
Bilancia il Vangelo,
E mette a duello
L’inferno col cielo;
Se il Diavolo è astratto,
Un’anima pia
Implora l’estratto
Coll’Ave Maria.
Per dote sperata
Da pigra quintina
La serva piccata

==>SEGUE
Fa vento in cucina.
La pappa condita
Cogli ambi sognati
Sostenta la vita
Di mille affamati.
Se passa la bara,
Del morto ogni cosa
Domandano a gara:
O gente pietosa!
Eh! un popol di scettici
Non piange disgrazie,
Ma giuoca le crazie
Sui colpi apoplettici.
Se suonano a gogna5,
Ci vedi la piena;
Ma in quella vergogna
Si specchia e si frena?
Nel braccio ti dà
La donna vicina,
E dice: Berlina
Che numero fa?
Ah! viva la legge
Che il Lotto mantiene:
Il capo del gregge
Ci vuole un gran bene;
I mali, i bisogni
Degli asini vede,
E al fieno provvede
Col Libro dei sogni6.
Chi trovasi al verde
L’ascriva a suo danno;
Lo Stato ci perde,
E tutti lo sanno.
Lo stesso Piovano
In fondo è convinto
Che a volte ci ha vinto
Perfino il Sovrano7.
Contento del mio,
Né punto né poco,
Per grazia di Dio,
M’importa del giuoco.
Ma certo, se un giorno
Mi cresce la spesa,
Galoppo all’impresa
E strappo uno storno8.
1 Uomo rotto, cioè uomo burberamente sincero. 2 Si scapa: si affatica senza pro, si assottiglia il cervello 3 Del Trono e del Papa. L’amministrazione del Lotto di Toscana si trovava d’accordo col governo pontificio, e le estrazioni si facevano alternativamente a Roma ed in una città di Toscana. 4 Il poeta, continuando l’ironia tagliente, investe Galileo: «Lasciate giocare perché non si corre pericolo d’incappar nell’Inquisizione come voi; per chi pensa non vi è perdono (Giubileo), ma son salvi quelli che fan le cabale (le sibille).» In quegli anni s’eran fatte in Toscana 67 edizioni del Libro de’ Sogni.
5 Suonar a gogna: alla gogna o berlina si esponevano pubblicamente i condannati; e la campana del Bargello avvertiva il popolo che accorreva al brutto spettacolo o per curiosità o per ricavare i numeri da giuocare al lotto. 6 Dopo questa strofa il poeta ne aveva scritta un'altra che poscia omise nel riveder la satira, e fece bene perché valeva pochino ed era troppo contorta
7 Questa strofa nell’abbozzo finiva cosi:
Lo stesso Don Luca
In fondo è convinto
Che a volte ci ha vinto
Perfino il granduca.
8 Strappa uno storno. Quando è scaduto il termine del giuoco, l’impresa del botteghino mette in vendita, per conto suo, un certo numero di biglietti e li espone al pubblico. Questi biglietti si chiamano storni: chi ne vuole uno, lo strappa dalla filza e, pagandolo, lo mostra all’impresario, perché ne tenga conto.
Più di sessant’anni sono passati su questa satira senza offuscarne la freschezza, senza togliere alla sua ironia la triste opportunità. Nel 1838 il Giusti scrivendo contro il lotto e mostrandolo fomite di superstizione, causa di rovina per molte famiglie, tentazione e trappola tesa ai poveri, seguiva l’opinione degli economisti e di tutti i galantuomini contro i governi che mantenevano tale vituperio e ne profittavano. Ma quelli erano governi dispotici, nemici del popolo, e nessuno meravigliava che facessero il male e tutti i buoni speravano che dovessero aver presto fine ed essi e le loro arti malefiche; ma che avrebbe detto il povero poeta se avesse veduto gli uomini stessi che aveva avuto compagni nel biasimo, diventati governanti alla loro volta, non solo mantenere l’abbominio del lotto nel regno d’Italia, ma renderlo più facile per spillar più quattrini dalle tasche dei poveri? Oggi è diventato ricca fonte di immondi guadagni per l’erario: e i ministri si scusano dicendo che è un’imposta volontaria che non fa strillar alcuno colla vista dell’esattore; ma fa strillar bensì le donne e i figlioli che vedono i danari del lavoro andar a perdersi nel pozzo del botteghino, mentre farebbero tanto bene cambiati in pane. Il lotto sarà sempre la più turpe speculazione sulla miseria che si possa imaginare. Nella Toscana la passione del Lotto era sì viva che correva proverbiale il detto: «Lotto, Lusso, Lussuria e Lorenesi – quattro L che han rovinato i miei paesi,» Ma non si scherzava nelle altre regioni; e ci volle tutto l’odio dei Milanesi contro il governo austriaco per tralasciare, d’un colpo, al 1.° gennajo del 1848, di giuocare al lotto, allo scopo di non alimentare le casse dello straniero.
____________________________________________
LA VESTIZIONE
1839

Quando s’aprì rivendita d’onori,
E di croci un diluvio universale
Allagò il trivio di Commendatori;
Quando nel nastro s’imbrogliaron l’ale
L’oche, l’aquile, i corvi e gli sparvieri;
O, per parlar più franco e naturale,
Quando si vider fatti cavalieri
Schiume d’avvocatucci e poetastri,
Birri, strozzini ed altri vituperi;
Tal che vedea la faccia andare agli astri,
Né un soldo sciupò mai per tentar l’ambo
Al gran lotto dei titoli e dei nastri,
Nel cervellaccio imbizzarrito e strambo
Sentì ronzar di versi una congerie:
E piccato di fare un ditirambo,
Senza legge di forme o di materie,
Le sacre mescolò colle profane
E le cose ridicole alle serie.
Parole abburattate e popolane,
Trivialità cucì, convenïenti
A celebrar le gesta paesane,
E proruppe da matto in questi accenti,
Ai rètori lasciando e a’ burattini
Grammaticali ed altri complimenti1.
Rôsa da nobiltà senza quattrini2
Casca la vecchia Tavola, e la nuova
E una ladra genìa di Paladini.
Tanta è la sua viltà che non ne giova:
E i bottegai de’ titoli lo sanno,
Ma tiran via perché gatta ci cova.
Come di Corte riempir lo scanno
Che vuotan Conti tribolati? e come
Le forbici menar se manca il panno3?
Volle di Cavalier prendere il nome,
Spazzaturajo d’anima, un Droghiere:
Bécero si chiamò di soprannome.
In diebus illis girò col paniere
A raccattare i cenci per la via,
Da tanto ch’era nato Cavaliere.
Trovo che fece anco un sinsin la spia,
Poi, come non si sa, l’ipotecario;
Di questo passo aprì la Drogheria.
E coll’usura e facendo il falsario,
Co’ frodi e con bilance adulterate,
Gli venne fatto d’esser milionario.

==>SEGUE
Volle, quand’ebbe i rusponi a palate,
Rubar fin la collottola al capestro,
E col nastro abbujar le birbonate,
D’un Balì che di Corte è l’occhio destro
Dette di frego a un debito stantìo,
E quei l’accomodò col Gran Maestro.
Brillava a festa la casa d’Iddio
Tra il fumo degl’incensi e i lampadari:
D’organi e di campane un diavolìo
Chiamava a veder Bécero agli altari
A insudiciare il sacro ordin guerriero
Che un tempo combattè contro i Corsari.
A lui d’intorno il Nobilume e il Clero
Le parole soffiandogli ed i gesti,
In tutti lo ciurmavan Cavaliero.
Tra i Preti, tra i Taù4 con quelle vesti,
Alterar si sentì la fantasia,
Né gli pareano più quelli né questi;
Ma li vedea mutar fisonomia,
E dall’altar discendere e svanire
Le imagini di Cristo e di Maria.
Era la Chiesa un andare e venire
Di fieri spettri e d’orribili larve,
Con una romba da farlo ammattire.
Crollò il Ciborio, e si divelse e sparve;
E nel luogo di quella una figura
Magra e d’aspetto tisico gli apparve.
In mano ha la cambial, dalla cintura
Di molti pegni un ordine pendea:
La riconobbe tosto per l’Usura
Dalla pratica grande che n’avea;
Vide prender persona i candelieri,
E diventar di scrocchi un’assemblea.
Parean Nobili tutti e Cavalieri,
E d’accordo gridavano al fantasma:
«Mamma, Pisa per voi doventa Algeri»5.
Com’uom che per mefitico miasma
Anela e gronda d’un sudor gelato,
O come un gobbo che patisce d’asma,
Bécero si sentì mozzare il fiato:
Alzossi e per fuggir volse le spalle,
Ma gli treman le gambe, e d’ogni lato
Di strane torme era stipato il calle.
Grullo, confuso
Rimase lì;
Col manto il muso
Si ricoprì.

==>SEGUE
Da quella faccia
Che lo minaccia
Celarsi crede,
Ma sempre vede
Cose d’inferno
Coll’occhio interno
Della paura,
Che non si tura.
Anzi, raccolto
In sé medesimo,
Si sentì l’animo
Vieppiù sconvolto.
E di più nere imagini
Gli si turbò la mente:
Sognò l’accusa, il carcere,
La Corte, il Presidente;
In banco di vergogna
Sedé coi malfattori;
Udì parlar di gogna,
Di pubblici lavori.
Tosato, esposto al popolo,
Ai tocchi d’un battaglio,
l’abito nobilissimo
Cangiò colore e taglio:
La croce sfigurata
Pareva un cartellaccio.
Lo sprone un catenaccio,
La spada una granata.
Poi vide un’alta macchina,
Un militar corteo;
Fantasticò d’ascendere
Su per uno scaleo;
E sotto, una gran folla;
Allato, un Cappuccino;
Fu messo a capo chino,
E udì scattar la molla.
Parvegli a quello scatto
Sentire un certo crollo,
Ch’alzò le mani a un tratto
Per attastarsi il collo.
Ma in quel punto una mano scettrata
Gli calò sulla testa nefaria:
Allo strano prodigio, incantata
La mannaja rimase per aria.
Viva, viva, gridava il buglione6,
La giustizia del nostro Solone;
Se protegge chi ruba e chi gabba,

==>SEGUE
Muoja Cristo, si sciolga Barabba.
Di sotto la toga
Che quasi l’affoga
La testa levò;
D’intorno girò
Quegli occhi di falco;
E allor gli s’offerse
d’Altare, di Palco,
D’Usura, di Cristo,
Un vortice, un misto
Di cose diverse.
Così del malato
Non bene svegliato,
Col falso e col vero
Combatte il pensiero,
Guizzando nel laccio
Di qualche sognaccio.
E già la visïon si disciogliea,
Quando da un lato della Chiesa sente
Incominciare un canto, e gli parea
Superbo nel concetto e impertinente.
Si volta, e vede in aulica livrea
Gente che incoccia maledettamente7
D’esser di carne come tutti siamo,
E vorrebbe per babbo un altro Adamo.
Vedea sbiadito il nastro degli occhielli,
E la fusciacca doventata bieca;
Uniformi ritinte, e de’ giojelli
Il bugiardo baglior che non accieca.
Else e crascià riconoscea tra quelli,
E spallette tenute in ipoteca,
E Marchesi mandati in precipizio;
E più visi di bue che di patrizio.
(Qui ci vuole un certo imbroglio –
Di sussiego e di miseria,
E il frasario dell’orgoglio
Adattato alla materia.
Fatto mantice, il polmone
Spiri vento di Blasone.
Ma di modi arcigni e tronfi
Non ho copia in casa mia,
Né un bisnonno che mi gonfi
Di fastosa idropisia,
E un linguaggio da strapazzo
Ascoltai fin da ragazzo.
Se il poetico artifizio
Non m’ajuta a darmi l’aria

==>SEGUE
D’uno sbuffo gentilizio.
Colpa d’anima ordinaria.
Proverò se ci riesco).
Lo squadravano in cagnesco
E diceano: un mercatino
Che il paese ha messo a rubba,
Un vilissimo facchino
Si nobilita la giubba,
E dal banco salta fuori
A impancarsi co’ Signori?
Si vedrà dunque un figuro,
Nato al fango e al letamajo,
Intorbare il sangue puro
Col suo sangue bottegaio?
E farà questo plebeo
Tanto insulto al Galateo?
Usurai crucesignati
Che si comprano di lei8,
Tra i patrizi scavalcati
Passeranno in tiro a sei
A esalar l’anima ciuca
A sinistra del Granduca?
Rifiniti dal mestiere,
C’è chi paga i Ciambellani
Con un calcio nel sedere;
E rifà di pelacani,
Che il delitto insignorì,
Il vivajo dei Balì.
E di più, ridotto a zero
Il patrizio è condannato
A succhiarsi il vitupero
Di vestir chi l’ha spogliato,
A ridursi sulla paglia
Per far largo alla canaglia.
Se vien voglia ai morti eroi
Dell’avita abitazione,
Oramai, siccome noi
Si tornò tutti a pigione,
Cerchi l’anima degli avi
Il birbon che n’ha le chiavi.
Di questa antifona
l’onda sonora
Su per la cupola
Tremava ancora;
L’illustre bindolo
A capo basso
Parca Don Bartolo

==>SEGUE
Fatto di sasso:
Quand’ecco a scuoterlo
Dal suo stupore
Un nuovo strepito,
Un gran rumore.
Come pinzochera
Che il mondo inganna,
Di dentro Taide,
Di fuor Susanna,
Si sogna i diavoli
Montati in furia,
Dopo la predica
Sulla lussuria;
Così, coll’animo
Sempre alterato.
Tutto Camaldoli,
Tutto Mercato,
Vedea concorrere
In una lega,
Portando l’alito
Della bottega;
Sbracciati, in zoccoli,
E scalzi e sbrici,
E musi laidi
Di vecchi amici;
E Crezie e Càtere,
E Bobi e Beco9,
Su per le bettole
Cresciuti seco.
Questa combriccola
Strana di gente
Agglomerandosi
Confusamente,
Lasciate le idee,
Le frasi ampollose,
Con urla plebee
Rincara la dose,
E lo striglia così nel suo vernacolo
Senza tanto rispetto al Tabernacolo.
Salute a Bécero,
Viva il Droghiere;
Bellino, in maschera
Di Cavaliere!
O come domine,
Se giorni sono
Vendevi zenzero
Per pepe bono,

==>SEGUE
Oggi ci reciti
Col togo addosso
Questa commedia,
Del cencio rosso?
Ah, tra lo zucchero,
Col tuo pestello,
Eri in carattere,
Eri più bello!
Or tra lo strascico
E l’albagìa
Un chiappanuvoli
Par che tu sia.
Eh torna Bécero,
Torna Droghiere,
Leva la maschera
Di Cavaliere.
Se per il solito
Quando ragioni
Dici spropositi
Da can barboni,
Come discorrere
Potrai con gente
Che saprà leggere
Sicuramente?
Ah torna Bécero,
Torna Droghiere,
Leva la maschera
Di Cavaliere.
Se schifo ai nobili
Non fa la loja10
Di certi ciaccheri
Scappati al boja;
Se i Preti a crederti
Son tanti bovi,
Con codest’anima
Che ti ritrovi;
Se per lo scandalo
Di questa festa
Non ti precipita
La Chiesa in testa:
O in oggi ha credito
Lo sbarazzino,
O Santo Stefano
Tira al quattrino.
Ma noi che fécemo11
Teco il mestiere,
S’ha a dir lustrissimo?

==>SEGUE
L’aresti a avere!
Un rivendugliolo
Rimpannucciato
Ci ha a stare in aria?
Va via sguajato!
Va colle logiche12,
Va pure assieme;
Che tu ci bazzichi
Non ce ne preme.
Ma se da ridere,
Po’ poi, ci scappa
Di te, del ciondolo,
E della cappa,
Non te ne prendere,
Non far cipiglio;
Sai di garofani
Lontano un miglio.
Tientene, Bécero;
Gonfia, Droghiere:
Se’ bello in maschera
Di Cavaliere!
Tacquero: e gli parea che ad una voce
Ripigliasser le genti ivi affollate:
– Se dalla forca ti salvò la croce,
Non ti potrà salvar dalle frustate. –
Indi ogni larva se n’andò veloce,
Finì la ceremonia e le fischiate;
E su in ciel Santo Stefano si lagna
Di vedere un Pirata in Cappamagna.
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Chi non conosce, almeno per le fotografie, il monumento di Livorno dei famosi quattro Mori incatenati, sul quale s'inalza la statua del granduca Ferdinando II de' Medici? Per ricordare le sue battaglie contro i Mori, Ferdinando, sul principio del secolo XVII, istituì l'ordine cavalleresco di Santo Stefano, la cui sede era in Pisa, ma che aveva un nido anche in Pescia. Cambiati i tempi, l'ordine era diventato, al par di tutti gli altri, la meta degli ambiziosi inetti o bricconi; i titoli si davano prima, insieme colle pensioni, ai favoriti per premio di palesi o di arcani uffici: fu ancor peggio quando Leopoldo II concesse ai ricchi di comprare un titolo nell'ordine stesso, fondando una commenda semplice, un baliato, un priorato. Per la commenda bisognava vincolare uno o più poderi, cioè un patrimonio stabile, di 20 mila scudi fiorentini (da 7 lire); per esser priore ci volevano tanti fondi per 30 mila scudi e per un baliato di 40 mila. Il patrimonio inalienabile scendeva, insieme al titolo, di maschio in maschio nelle famiglie; spegnendosi la linea maschile, diventava proprietà dell'ordine, cioè dello Stato che se ne serviva per ricompensare gli impiegati zelanti. Leopoldo s'era lasciato illudere, al pari degli altri principi, di poter assicurare meglio il trono col circondarsi di ricchi titolati i cui patrimoni fossero vincolati in modo da essere sottratti, per un assurdo privilegio, ai giusti creditori, e di cortigiani tenuti legati al trono colla vanità di croci e di collari e colla sostanza delle prebende. V'era una manìa in Toscana di entrar nell'ordine: nel 1838, anno in cui il Giusti prese a lavorare alla Vestizione, nella sola Pescia, come assicura il Martini, tre grossi patrimoni erano stati vincolati per istituire priorati e baliati cavallereschi. Il poeta giura e spergiura nelle lettere al Manzoni e ad altri, di non aver voluto segnare a dito alcuno e d'aver fatto una satira generale; ma i caratteri speciali e troppo evidenti della satira stessa, lo contraddicono. Il suo condiscepolo Turchetti lo tradisce scrivendo: "Il burlesco protagonista di questa satira fu uno dei tanti che si alzò a nobiltà da uno dei più umili ed abjetti gradi sociali: e pur troppo non fu il solo. Quando fu passata manoscritta, come tutte le altre, questa poesia nel crocchio degli amici, tutti seppero per qual nuovo cavaliere era stata scritta; carità però vuole che, anche sapendolo, non si nomini..." E neppur noi saremo indiscreti, per quanto il nome sia stampato, perché negli ordini cavallereschi d'Italia s'incontrano tipi ancor peggiori di "baratti e simili lordure". Basti dire che un brutto mobile, diventato milionario coll'usura, fondò un priorato: e si fece vestire lo sfarzoso abito dell'ordine ch'era bianco e turchino mostreggiato di rosso, con una lunga spada e una cappa magna di lana bianca attraversata da una rossa croce. Quando vestivano in borghese, portavano all'occhiello un nastro rosso. Il Giusti, nauseato da questo mercato cavalleresco, compose la satira più imaginosa di quante avesse fin allora scritte, per l'artistica varietà della scena, del pensiero, dello stile. Egli finge che uno strozzino, dopo essere stato falsario e spia, ritiratosi dal suo commercio di droghiere, coll'ajuto d'un balì ben veduto a Corte, ch'era un suo debitore impenitente, si fece ricevere cavaliere. Ma quand'era inginocchiato avanti all'altare (perché i cavalieri dovevano recitare preci quotidiane, sentir messa e far voto di castità relativa prendendo moglie) e gli veniva imposto il manto agognato, ebbe una strana visione, Gli pareva di trovarsi davanti ai giudici a render conto de' suoi misfatti; poi di salire al patibolo dove il boja lo attendeva; ma la mannaja si fermava sul punto di cadergli sul collo; ed allora udiva invece il mormorìo sdegnoso dei vecchi cavalieri offesi dal barattiere plebeo intruso fra loro: e dall'altra parte il coro delle donne e dei monelli di Camaldoli gli davan la caccia beffeggiandolo per il titolo comprato. E intanto, su nel cielo, santo Stefano si lagnava perché l'ordine istituito contro i corsari, ladroni del mare, avesse accolto questo pirata di terraferma. "Troverai che ho un poco lussureggiato specialmente nella veste (scriveva il Giusti a un amico nel mandargli la Vestizione manoscritta) e l'ho fatto - che serve mascherarsi?
"per vanità di mostrarmi disinvolto nei diversi metri. Pure, se credi che valga la pena di guardarvi addentro, vedrai che non sine quare e che la varietà degli accidenti e delle persone introdotte, voleva esser presentata nelle forme rispettivamente convenienti alla materia e all'indole di chi parla. Oggi ognuno che per buone o male arti perviene a farsi ricco vuole che si dimentichi o la sola bassa origine o la bassissima vita. Ma il nastro, la commenda fondata in barba alla legge buonanima

==>SEGUE
contro le manimorte, non gli quieta l'animo, anzi lo fa dispregevole ai patrizi intarlati dal lusso e dall'ignavia e ridicolo ai popolani. Dimodoché non gli rimane da consolarsi che nel suono delle monete, e nelle borse servitoresche dei Pitti. Su queste basi, invece di fare una dissertazione, ho fabbricato questa bazzoffia..." Fu osservato anche che la Vestizione è satira tutta toscana, sia perché prende di mira l'ordine di Santo Stefano, sia per i tipi che vi compajono. Il Giusti ribatteva quest'osservazione ad Alessandro Manzoni: "Gli esempi di persone che dal fango e dalla turpitudine hanno alzata la testa agli
onori del ciondolo e del Casino sono infiniti per tutto il mondo, e quella satira, se avesse valore, potrebbe nel fondo essere europea. I colori locali li ho presi a bella posta dalla Toscana perché qua, nella compra di quella croce, oltre il ridicolo che si trae dietro il compratore, v'è di mezzo il danno pubblico. Leopoldo I svincolò i Fidecommissi e le Manimorte, e rese il moto e la vita alla maggior parte dei beni rimasti fermi in poche mani per secoli e secoli. Ora quei medesimi che si sono avvantaggiati di questo giro ripreso dalle proprietà, tornano a inchiodarle daccapo, fondando commende e baliati. E chi crederebbe che nel granducato v'è di nuovo un milione e mezzo di beni vincolati per la boria di farsi presentar l'arme all'occhiello? Parini per rimpulizzire Milano, scrisse la bella ode sulla salubrità dell'aria, la quale per essere più specialmente milanese, non cessa d'appartenere all'intera civiltà; io lontano le mille miglia da quell'ingegno mirabile, ho tentato lo stesso nella Vestizione. Ho voluto colpire l'abuso di Toscana, e con questo abuso i villani dorati di tutti i paesi. Non accade forse per tutto che questi, guardati di traverso nella classe nella quale si ficcano, burlati da quella dalla quale vorrebbero uscire, siano obbligati di appiattarsi sotto l'ali del potere assoluto che perdona bassezze e delitti purché crescano i laureati? Intanto qua, quando corre voce che qualcuno sia per vestire l'abito di Santo Stefano, si grida: Ecco un altro Bécero; e se non fosse presunzione, ripeterei quello che sento dire, cioè che taluni se ne astengono per non sentirsi alle spalle:
"Salute a Bécero
"Viva il droghiere..."
Però ad onta della satira dobbiam dire che si continuava allegramente a comperare baliati e priorati: e il Giusti stesso lo dovette confessare nella seguente occasione. Lo Statuto del 1848 dichiarava, nell'art. 71, di conservare l'ordine di Santo Stefano. Durante la discussione dell'indirizzo di risposta al discorso del Trono, che si fece nella prima assemblea legislativa, quando si lesse questo inciso: "Né più è da indugiare il Codice civile, la legge per lo scioglimento dei livelli ecclesiastici e d'ogni antico e nuovo vincolo della proprietà fondiaria", il Giusti che, come sappiamo, era deputato, propose si aggiungesse "e delle commende di Santo Stefano".
Rispose il Capoquadri, ministro di grazia e giustizia, che lo Statuto vietava di toccare "quell'ordine sacro e militare ". Ma il Giusti rimbeccò di non aver voluto toccare lo Statuto:
"e per far vedere (proseguì) ch'io non intesi di toccarlo, dico: che in Toscana vi sono commende vecchie e commende nuove. Delle vecchie, se il Principe si è riservato di farne quell'uso che vuole, io non c'entro. Chiamo commende vecchie lo croci che il Principe dispensa con un dato assegnamento; quelle che non sono rappresentate da nessun possesso, che sono, per così dire, commende aeree, e coloro ai quali sono conferite dal Principe vanno a coglierne i frutti all'albero della Depositeria. Chiamo commende nuove quelle che ognuno può fondare oggi, domani, quando gli piace; ognuno, dico, che ha l'ambizione di farsi chiamare commendatore. Propongo la mia aggiunta per un antico sdegno contro una cosa che è in contraddizione colle nostre libertà economiche, coi nostri liberi principi in fatto di civile eguaglianza; la propongo e vi prego di tenerne conto perché sia tolto a noi tutti di vincolare più oltre i nostri possessi per la vanagloria degli occhielli e delle sopraccarte... Da alcuni anni a questa parte, in baliati, priorati e simili sono stati inchiodati da capo parecchi milioni di lire. O cessiamo di vantare le nostre libertà civili ed economiche, o facciamo in modo che queste libertà non vengano magagnate minimamente." Il deputato continuava l'opera del poeta: e la sua proposta fu accolta dall'assemblea. Ma la reazione impedì la riforma; e l'ordine di Santo Stefano venne abolito solamente nel 1859 dal Governo Provvisorio di Toscana.

1 Grammaticali: il poeta, intende dire che, per prorompere nel suo sdegno con maggior schiettezza, lascia ai rètori e ai burattini di fermarsi alle regole grammaticali e alle altre leccature. Anche Dante usò nel Purgatorio (canto XXIII) «o spiritali o altre discipline» per significare «pene spirituali. » In qualche edizione si trova scritto: «la grammatica od altri complimenti.» 2 La vecchia aristocrazia della Tavola rotonda, dice il poeta, si perde nella miseria e la nuova è di gente vile e ladra. 3 Il Giusti nello scrivere questo verso per significare che il principe non può aver corteo di nobili perché questi mancano, pensava evidentemente alla terzina nella quale Dante dice della nobiltà:
Ben se’ tu manto che tosto raccorce
Sì che non s’appon di die in die,
Lo tempo va d’intorno colle force.
4 I Taù sono i camerieri o scudieri dell’Ordine, così chiamati perché portavano sul petto solo tre spicchi della croce in forma di T. 5 L’Ordine di Santo Stefano risiede in Pisa, e qui si vuol significare che invece di formare a Pisa le armate per combattere i pirati algerini, si avevano a Pisa gli algerini corsari stessi. 6 Buglione, vocabolo spregiativo per indicare un’accozzaglia confusa di gente. 7 Incoccia: si ha a male, impermalisce. I nobili si offendevano al pensiero di essere creduti pari agli altri uomini, e avrebbero voluto nascere da un altro Adamo. 8 Comprarsi di lei: ai patrizi si dava del lei, ai mercanti del voi o del tu. 9 Diminutivi popolari di Lucrezia, Caterina, Zanobi e Domenico, 10 Loja: sudiciume inveterato, lordura ammassata e grossa. 11 Idiotismo invece di facemmo. 12 Il popolo chiama logica uno che faccia l’elegante.
A GIROLAMO TOMMASI
ORIGINE DEGLI SCHERZI
1841

Girolamo, il mestier facile e piano
Che gl’insegnò natura ognun rinnega.
E vuol nei ferri dell’altrui bottega
Spellar la mano.
Ognuno in gergo a scrivacchiar s’è messo
Sogni accattati, affetti che non sente,
Settario adulator della corrente,
O di sé stesso.
In due scuole vaneggia il popol dotto1:
La vecchia, al vero il torbo occhio rifiuta;
La nuova, il letterario abito muta
Come il panciotto.
Di qua, cervel digiuno in una testa
Di stoppa enciclopedica imbottita,
D’uscir del guscio e d’ingollar la vita
Furia indigesta;
Calvo Apollo di là trotta alla zuffa
Sul Pegaso arrembato e co’ frasconi2:
Copre liuti e cetre e colascioni
Vernice o muffa.
Aggiungi a questo un tirar giù di lerci
Sonniferi che il torchio transalpino
Vomita addosso a noi, del figurino
Bastardi guerci;
E tosto intenderai come, dal verme
Di bavose letture allumacato,
Del genio paesano appena nato
Raggrinza il germe.
Non tutti il vento forestiero intasa3:
V’ha chi bee le native aure vitali:
Ma non è già chi spolvera scaffali
Tappato in casa;
E sol perché di cronache e leggende
E di scene cucite un sudiciume,
Per carestia, per noja e per costume
Si compra e vende,
Pensa e s’allenta in pueril conato
Di storia o d’epopea, tisico a tanto,
O sotto il peso di tragico manto
Casca sfilato;
O briaco di sé scansa la gente,
E per il lago del cervello oscuro
Pescando nel passato e nel futuro
Perde il presente:
Ma quei cui non fann’ombra all’intelletto
La paga, il boja e gli altri spauracchi;
Che si misura senza alzare i tacchi

==>SEGUE
Col suo subjetto;
Che benedice alla nativa zolla,
Né baratta sapore o si tien basso
Se, Dio volendo, invece d’ananasso.
Nacque cipolla.
Varian le braccia in noi, varia l’ingegno
A diversi bisogni accomodato:
E trono e forca e seggiola e steccato
Non fai d’un legno.
Tommasi, l’umor mio tra mesto e lieto4
Sgorga in versi balzani e semiseri;
Né so piallar la crosta ai miei pensieri,
Né so star cheto.
Anch’io sbagliai me stesso, e nel bollore
Degli anni feci il bravo e l’ispirato,
E pagando al Petrarca il noviziato
Belai d’amore;
Ma una voce segreta ogni momento,
Giù dai fondacci della coscienza,
Mi brontolava in tutta confidenza:
«Muta strumento.
Perché temi mostrar la tua figura,
Se nella giubba altrui non l’hai contratta? –
Dell’ombra propria, come bestia matta,
Ti fai paura.
I tuoi concetti, per tradur te stesso,
Rendi svisati nel prisma dell’arte,
E di secondo lume in sulle carte
Torbo reflesso.
L’indole tua così falsificando,
Se fai d’alchimia intonaco alla pelle,
Del tempo passerai dalle gabelle
Di contrabbando?5
Scimia, se gabberai le genti grosse,
Temi l’orecchio spalancato al vero,
Che ne’ tuoi sforzi dell’inno guerriero
Sente la tosse.
Chi nacque al passo, e chi nacque alla fuga:
Invano invano a volgere il molino
Sforzi la zebra, o a farti il procaccino
La tartaruga.
Lascia la tromba e il flauto al polmone
Di chi c’è nato, o se l’è fitto in testa;
Tu de’ pagliacci all’odierna festa
Fischia il trescone»6.
Ed ecco a rompicollo e di sghimbescio
Svanir le larve della fantasia,
E il medaglione dell’ipocrisia
Vôlto a rovescio.
Come preso all’amor d’una devota,
Se casca il velo rabescato in coro,

==>SEGUE
Vedi l’idolo tuo creduto d’oro
Farsi di mota,
Veggo un Michel di Lando, un Masaniello
Bere al fiasco di Giuda e perder l’erre:
Bruto commendatore, e Robespierre
Frate e Bargello:
Mirare a tutto e non avere un segno;
Superbia in riga d’Angelo custode;
Con convulsa agonia d’oro e di lode
Spennato ingegno;
Un palleggiar di lodi inverecondo;
Atei-Salmisti, Tirtei coll’affanno,
E le grinze nel core a ventun anno,
Lordare il mondo.
Restai di sasso; barattare il viso
Volli e celare i tratti di famiglia:
Ma poi l’ira, il dolor, la meraviglia
Si sciolse in riso;
Ah, in riso che non passa alla midolla!
E mi sento simile al saltambanco,
Che muor di fame, e in vista ilare e franco
Trattien la folla.
Beato me, se mai potrò la mente
Posar quieta in più sereni objetti,
E sparger fiori e ricambiare affetti
Soavemente.
Cessi il mercato reo, cessi la frode,
Sola cagion di spregio e di rampogna;
E il cor rifiuta di comun vergogna
Misera lode.
Ma fino a tanto che ci sta sul collo,
Sorga all’infamia dalla nostra voce,
Di scherno armata e libero e feroce,
Protesta e bollo.
Come se corri per le gallerie
Vedi in confuso un barbaglìo di quadri,
Così falsi profeti e balì ladri,
Martiri spie,
Mercanti e birri in barba liberale,
Mi frullan per la testa a schiera a schiera:
Tommasi, mi ci par l’ultima sera
Di carnevale.
Ecco i miei personaggi, ecco le scene,
E degli scherzi la sorgente prima:
Se poi m’è dato d’infilar la rima
O male, o bene,
Scrivo per me, scemandomi la noja
Di questa vita grulla e inconcludente,
Torpido per natura, e impaziente
D’ogni pastoja.
Chi mira al fumo, o a quello che si conia.

==>SEGUE
Dalle gazzette insegnamenti attinga,
E là si stroppi il cranio, o nella stringa
Del De Colonia7;
Centoni, fantasie scriva a giornata;
Venda la bile, il Credo e la parola,
Mentre gli pianta il compito alla gola
Librajo pirata8,
Che avaro e buono a nulla, esige mondi
Da te che mostri un’oncia di valore;
E co’ romanzi galvanizza il core
De’ vagabondi.
Io no: non porterò di Tizio o Cajo
Oltramontane o arcadiche livree,
Né per lisciarle affogherò l’idee
Nel calamajo.
Non sarò visto volontario eunuco
Recidermi il cervel, perch’io disperi
La firma d’un Real Castrapensieri9
Birbone e ciuco.
Se posso, al foglio non darò rimate
Frasi di spugna, o copie o ipocrisie;
Né per censura pubblica le mie
Stizze private.
Ma scrivendo là là quando mi pare
Sulle farse vedute a tempo mio,
Qualcosa annasperò, se piace a Dio,
Nel mio volgare.
Laudato sempre sia chi nella bara
Dal mondo se ne va col suo vestito:
Muoja pur bestia; se non ha mentito,
Che bestia rara!
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«Una filza di strofe contro quelli che, scrivendo, falsificano l’indole propria»: ecco con quale modestia il Giusti presentava questi splendidi versi. Sono indirizzati a Girolamo Tommasi, lucchese, consigliere di Stato, amico de’ buoni studi e che lasciò un libro di Memorie sulla storia di Lucca. Al Fanfani questa poesia sembrava tanto bella da metterla accanto all’epistola d’Orazio sull’Arte poetica e consigliava i maestri a leggerla e a commentarla nelle scuole affine di eccitare i giovani a fare «la rivoluzione letteraria per isvincolarsi dalle pastoje del rettoricume e della cieca autorità, liberandoci per altro dalla pazza licenza che pur minaccia d’irrompere».
Il Fanfani avea ragione: e noi, che siamo giunti alla fine del secolo, dobbiamo ancor desiderare una letteratura che sia l’espressione genuina del pensiero nazionale. Lottano tuttora idealisti e materialisti colle vaporose, sdolcinate sentimentalità e colle brutali rudezze, entrambi egualmente fuori del vero: si tentano tutti i generi seguendo le scuole francesi, inglesi e tedesche, ma rimanendo sempre copie: e quelli che aspirano all’originalità cadono nello strano, nel mostruoso, nella caricatura. Si risuscita il barocco con tutte le sue gonfiezze vacue senza le forti audacie; e, per contro, altri disprezzano la forma presentando scheletri senza polpe. Solamente nella poesia si manifestò una florida vitalità con carattere nostro italiano, che trae l’inspirazione dall’uomo e dalla natura; ma anche qui i migliori non poterono, quali per ragioni esteriori, quali per decadimento proprio, affermarsi sovrani nell’arte. Guai a chi rinnega la verità e la propria natura per esprimere affetti e idee che non sente! Così sclama il Giusti. A’ suoi tempi davan le ultime battaglie classici e romantici, ed egli invocava la pace tra loro, affinché gli scrittori tutti «interrogassero e sentissero i bisogni dei tempi loro, e facendosene interpreti all’universo mondo, senza adulare il parteggiare contemporaneo, avessero l’arbitrio del foggiare». Confessa anch’egli d’aver sbagliato i suoi primi passi, perché s’era dato a belar versi d’amore; poi la voce della coscienza l’ammonì che non era nato per suonare l’epica tromba o il flauto della lirica e dell’idilio, bensì per osservare il vero e strappare le maschere. E a quella voce vide voltarsi il medaglione dell’ipocrisia e molti che credeva venerandi, gli apparvero tristi, ingannatori, falsarî; e allora impugnò la sferza col sorriso sulle labbra, ma col cuore straziato a sangue e la menò senza riguardo sulla schiena dei vili: «questo che par sorriso ed è dolore!» Tale in breve il concetto della satira.
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1 Ai giorni del Giusti, come già abbiamo detto, duravano le guerre fra classici e romantici 2 In queste due strofe il poeta ci mostra i romantici precipitosi di uscire dalle strettoie classiche e nell’impeto, nella bramosìa del vivere, non curanti di prepararvisi con serietà di studi: contro questi i classici col vecchio Apollo diventato calvo, che si regge appena sul Pegaso, coi ginocchi piegati e coi frasconi. – Si dice che uno semina i frasconi quando fa come i polli, i quali, allorché son malati, lasciano cadere le ali e le trascinano a terra, come chi camminasse carico di lunghi rami e di frasche. Qui sembra più appropriato notare che i carrettieri usano appiccicare frasche e frasconi ai loro cavalli in viaggio per difenderne le spelature e le piaghe dalle mosche e dai tafani. 3 Intasare, si dice di un canale dentro il quale un ostacolo impedisca all’aria o all’acqua di scorrere liberamente: o anche quando un raffreddore impedisce il passaggio del respiro alle narici. Quindi il poeta vuol dire che non tutte le menti sono intoppate dalle mode forastiere. 4 Fra mesto e lieto. Il Giusti aveva cominciato di sé stesso un ritratto, ma non lo compì. Cominciava appunto:Or lieto, or mesto: in giovanile aspetto/ Anima esperta della vita.../ E col verso dolente e col giocondo/ Manifesta a vicenda il vario affetto. 5 Il pensiero, alquanto involuto, è questo: falsificando l’indole e rivestendoti di forme non tue, credi forse di diventar famoso (passare dalle gabelle del tempo) quasi di contrabbando? 6 Il trescone è un antico ballo, ancora in uso fra i contadini, e fischiar il trescone vale fischiare colla cadenza del suono col quale il trescone si balla. 7 Il De Colonia scrisse un trattato di rettorica che per molt’anni si studiò in tutte le scuole di Toscana: si diceva che quel libro non svegliava, ma pervertiva l’ingegno dei giovani. 8 Librajo pirata. Il Giusti era poco amico dei librai, perché gli avevano stampato, senza sua licenza e senza compenso, ma con molti strafalcioni, le sue prime poesie. 9 In Toscana vi era la censura preventiva abolita solamente al 15 maggio 1848. Il Giusti scriveva al Maffei che lo richiedeva di una poesia: «avendo scritto sempre scacciando dal tavolino il fantasma della censura, non ho nulla che possa passar liscio di sotto le forbici di un birro o di un prete». Infatti la prima edizione delle satire, ch’egli fece nel 1845, ha la data di Bastia.
ALL’AMICO NELLA PRIMAVERA DEL 1841
1841

Già, prevenendo il tempo, al colle aprico
Il mandorlo è fiorito,
A te simile, o giovinetto amico,
Che impaziente al periglioso invito
Corri della beltade,
Coi primi passi della prima etade.
Godi, Roberto mio, godi nel riso
Breve di giovinezza:
E se il raggio vedrai d’un caro viso
Che il cor t’inondi di mesta dolcezza,
Apri l’ingenuo petto
Alla soavità d’un primo affetto.
Possa la donna tua farti beato
Coi lieti occhi amorosi;
A te fidata consigliera allato
In atto di benigno angelo posi
E nell’amor ti sia
Come perpetuo lume in dubbia via
Non ti seduca dei vani diletti
La scena allettatrice;
Leggier desìo diviso in molti objetti
Ti prostra l’alma e non ti fa felice:
Sente bennato cuore
Fiorir gioja e virtù d’un solo amore.
Soave cosa un’adorata imago
Sempre vedersi innante,
E serenare in lei l’animo pago,
In lei bearsi riamato amante,
E di sé nell’oblìo
Viver per altri in un gentil desìo.
Oh! mi sovviene un tempo a cui sospiro
Sempre dal cor profondo:
Or che degli anni miei declina il giro
E agli occhi stanchi si scolora il mondo,
Passa la mia giornata
Dalla stella d’amor non consolata.
Pure, a quel tempo ripensando, parmi
Gustar di quella pace,
E alle speranze antiche abbandonarmi.
Così, se cessa il canto e l’arpa tace,
Senti per l’aere ancora
Vagare e mormorar l’onda sonora.
Non farò come quei che al pellegrino
Fonti e riposi addita,
Tacendo i mali e i dubbi del cammino:
Forse da cara mano a te la vita,
Di basse frodi ignaro,

==>SEGUE
Sarà cosparsa di veleno amaro.
Sgomento grave al cor ti sentirai,
Quando svanire intorno
Vedrai l’auree speranze e i sogni gai;
Quando agl’idoli tuoi cadranno un giorno
Le bende luminose
Che la tua mano istessa a lor compose.
Nel tuo pensiero di dolor confuso
Con inquieta piuma
Volgendosi e gemendo amor deluso,
Qual dell’aere che intorno a sé consuma
S’alimenta la fiamma,
Ti struggerà la vita a dramma a dramma.
Ma che? se di viltà non ti rampogna
Rea coscïenza oscura,
Lascia dar lode altrui della menzogna.
Seduto in dignità nella sventura
Sprezza i superbi ingrati
Che nome hanno d’accorti e di beati.
Tu nel dolore interroga te stesso
Come in sicuro speglio;
Fortificando il mite animo oppresso
Per via d’affanni ti conduci al meglio,
E con fronte serena
I carnefici tuoi conturba e frena.
Risorgerai dalle pugne segrete
Del core e della mente
Saggio e composto a nobile quiete.
Vedi? passò la bruma, a alla tepente
Feconda aura d’aprile
Ti dà l’acuta spina un fior gentile.
___________________________
L’antica donna che il Giusti aveva idolatrato con tanto ardore, non usciva mai di mente al poeta. Gli anni eran passati sopra al dolore dell’abbandono: egli s’era innamorato della giovinetta gentile che lo consolò di sorrisi e di speranze, e aveva amato altre donne ancora, ma non aveva mai potuto cancellare dal suo cuore il fortissimo amore di prima. Bastava la vedesse, perché l’antico turbamento si impadronisse di lui. Sul volume dell’Orlandini appose, accanto a questi versi, la seguente nota: «Furono scritti nella primavera del 1841, quando in una nuova percossa avuta dalla donna medesima (quella della poesia all’Amica lontana) lo sdegno ne potè più del dolore. Per inconsideratezza giovanile ho smentito talvolta i sentimenti espressi in questi versi, ma l’animo mio, prima che fosse disturbato, desiderava e sentiva in questa guisa.»
Il Roberto, al quale sono indirizzati, era un giovinetto carissimo al suo cuore; e a lui li mandava sperando che sarebbero caduti sotto gli occhi della bella infedele, per farle rimpiangere il cuore ch’essa aveva mal conosciuto. Egli poi si compiaceva di questa poesia, perché mostrava l’animo suo
dal lato di certi affetti «che si credono impossibili (diceva) col mio modo di scrivere più abituale. Taluni mi tengono per uno scettico, per uno che ride di tutto, per non aver mai saputo piangere di nulla. Eppure non ho mai deriso la virtù, né messo in burla certi principî d’onore dei quali l’uomo onesto si ciba e si conforta. Speravo che sotto le palpebre di quel riso si sarebbe scorta la lagrima nascosa, e molti ce l’hanno veduta: colpa mia se a tutti non vien fatto di trovarla.» Questa poesia ad ogni modo è notevole per la verità degli affetti espressi, per la spontaneità del verso e per una certa impronta dantesca che mostra gli studi prediletti del poeta.
_______________________________
LA CHIOCCIOLA
1842

Viva la Chiocciola,
Viva una bestia
Che unisce il merito
Alla modestia.
Essa all’astronomo
E all’architetto
Forse nell’animo
Destò il concetto
Del canocchiale
E delle scale:
Viva la Chiocciola
Caro animale.
Contenta ai comodi
Che Dio le fece,
Può dirsi il Diogene
Della sua spece.
Per prender aria
Non passa l’uscio;
Nelle abitudini
Del proprio guscio
Sta persuasa,
E non intasa:
Viva la Chiocciola
Bestia da casa.
Di cibi estranei
Acre prurito
Svegli uno stomaco
Senza appetito:
Essa sentendosi
Bene in arnese.
Ha gusto a rodere
Del suo paese
Tranquillamente
L’erba nascente:
Viva la Chiocciola
Bestia astinente.
Nessun procedere
Sa colle buone,
E più d’un asino
Fa da leone.
Essa al contrario,
Bestia com’è,
Tira a proposito
Le corna a sé;
Non fa l’audace,
Ma frigge e tace:
Viva la Chiocciola
Bestia di pace.

==>SEGUE
Natura, varia
Ne’ suoi portenti,
La privilegia
Sopra i viventi,
Perché (carnefici
Sentite questa)
Le fa rinascere
Perfin la testa;
Cosa mirabile
Ma indubitabile:
Viva la Chiocciola
Bestia invidiabile.
Gufi dottissimi
Che predicate
E al vostro simile
Nulla insegnate;
E voi, girovaghi,
Ghiotti, scapati,
Padroni idrofobi,
Servi arrembati,
Prego a cantare
L’intercalare:
Viva la Chiocciola
Bestia esemplare.
______________________
La primavera del 1842 fu per il Giusti, come appare dalle sue lettere, una delle più serene stagioni della sua vita, perché stanco delle emozioni cittadine, si era rifugiato a Pescia fra il nuovo verde delle colline e sotto quel mite cielo, a rinfrescarsi il sangue nell’aria del suo paese. Ed espandeva la sua gioja cogli amici: «il paese proprio è un porto desiderato anche per coloro che senza mai far naufragio, attraversarono il mare sempre inquieto della vita. Io l’ho coi cosmopoliti che per la pazzia di voler essere cittadini del mondo, non sanno esser paesani del proprio paese. Anzi amo di credere che come le piante vegetano meglio in un terreno piuttosto che in un altro, così noi si debba vivere e trovarsi bene, più che in ogni altro, nel luogo che ci ha veduti nascere. Facevo queste e altre riflessioni, passeggiando per la campagna, e senza volerlo, così naturalmente mi ero fermato sulla via a guardare una chioccioletta. Per associazione d’idea (fenomeno che ognuno sente verificare in sé in un modo tutto particolare) mi parve quell’animaletto potesse diventare una viva imagine de’ pensieri che allora mi formicolavano per la testa, e ripensando alla vana boria di noi uomini, agli appetiti smodati, all’ire, all’arroganza nostra, quasi senza volerlo, mi venne fatto di dire: Viva la chiocciola! Questa esclamazione era un quinario sdrucciolo, metro che mi piace oltremodo. Sai che tutto sta nel cominciare; ed io raccozzando quelle poche idee che mi erano passate per la mente, con altre accessorie che vennero dopo, seguitai giù giù la filza dei quinarî, e ne venne questo scherzo leggiero, senza iracondia, tale e quale può darlo un fegato ristorato all’aria nativa e una testa che ogni sera prima delle dieci si addormenta sul guanciale di casa sua.» Questa apologia della chiocciola, nella quale si dipingono i Toscani che escono mal volentieri dal loro guscio, e vi si trova anche un po’ del carattere del Giusti amante della calma di casa sua, non è certamente l’apologia del progresso; ma è una satira garbata e piacevole, «un pretesto (diceva egli medesimo) per pungere di traverso alcuni viziarelli: è uno di quelli scherzi che si scrivono in un momento di buon umore e che pigliano un titolo per semplice scusa. Il metro è gajo, lesto come un ragazzo; la lingua andante sufficientemente.»
__________________________

IL BALLO
1841

PARTE PRIMA.

In una storica
Casa, affittata
Da certi posteri
Di Farinata,
A scelto e splendido
Ballo c’invita
Chilosca, gotica
Beltà sbiadita1.
Come per magico
Vetro all’oscuro,
Folletti e diavoli
Passar sul muro,
Maravigliandosi,
Vede il villano
Che corre al cembalo
Del ciarlatano;
Tali per l’intime
Stanze in confuso,
Cento s’affollano
Sporgendo il muso,
Baroni, Principi,
Duchi, Eccellenze,
E inchini strisciano
E reverenze.
Un servo i ciondoli
Tien d’occhio, e al centro
Le borie anticipa
Di chi vien dentro.
Fra tanti titoli
Nudo il mio nome,
Strazia inarmonico
Gli orecchi, come
In una musica
Solenne e grave,
Un corno, un òboe
Fuori di chiave.
Con un olimpico
Cenno di testa,
La tozza e burbera
Dea della festa,
Benedicendoci
Dal suo divano,
C’insacca al circolo
A mano a mano.
In brevi, rauchi,
Scipiti accenti,
==>SEGUE
Pagato il dazio
De’ complimenti,
Stretto per l’andito
Sfila il bon-ton;
Si stroppia, e brontola
Pardon, pardon.
O quadri, o statue,
O sante travi,
Che del vernacolo
Rozzo degli avi
Per cinque secoli
Nauseate,
Coll’appigionasi
Vi compensate;
Soffrite l’alito
D’un paesano
Che per buaggine
Parla italiano.
Là là inoltrandomi
Pigiato e tardo,
Fra ciuffi e riccioli
M’allungo, e guardo
Ove mefitici
Miasmi esala
Una caldaja
Chiamata Sala.
Come, per muoversi
D’occulto ingegno,
Girano e saltano
Gruppi di legno
Su questi ninnoli
Della Germania,
Così parevano
Presi alla pania;
Cosi scattavano
Duri, impiccati,
Fantasmi e scheletri
Inamidati.
Ivi non gioja,
Non allegria,
Ma elegantissima
Musoneria;
Turate l’anime,
Slargati i pori
A smorti brividi
Di flosci amori;
Gergo di stitica
Boria decente,
Ciarlìo continuo
Che dice niente2.
Ecco si rompono
==>SEGUE
Partite e danze:
S’urta, precipita
Nell’altre stanze
La folla, e assaltano
Dame e signori
Bottiglie, intingoli
E servitori3.
Per tutto un chiedere,
Per tutto un dare,
Stappare, mescere,
E ristappare;
Un moto, un vortice
Di mani impronte,
E piatti e tavole
Tutte in un monte.
Oltre lo stomaco,
Da quella cena
Molti riportano
La tasca piena,
E nel disordine,
Nel gran viavai,
Spesso ci scappano
Anco i cucchiai.

PARTE SECONDA.

Lì tra le giovani
Nuore slombate,
E tra le suocere
Rintonacate;
Tra diplomatiche
Giubbe a rabeschi,
E croci e dondoli
Ciarlataneschi;
Veggo l’antitesi
Di quattro o sei
Eterogenei
Grugni plebei.
A me che ho reproba
La fantasia
Per democratica
Monomania,
Piacque lo scandalo
Dei dommi infranti
In quel blasonico
Santo dei Santi;
Ma poi ficcandomi
Là tra le spinte,
Mi stomacarono
Tre laide grinte4.
Una è crisalide
D’un quondam frate:
==>SEGUE
Oggi per celia
Si chiama abate,
Ma non ha cherica,
Non ha collare;
Devoto al pentolo
Più che all’altare.
Caro ai gastronomi
Per dotta fame,
Temuto e celebre
Per fama infame,
Narrando cronache
E fattarelli,
Magagne, e debiti
Di questi e quelli,
Compra se biasima,
Vende se loda,
E per salario
Lecca la broda.
Gratificandosi
Fanciulle e spose,
Gioca per comodo;
E mamme uggiose
E paralitici
Irchi divaga:
Ruba, fa ridere,
Perde o non paga.
È l’altro un nobile
Tinto d’ieri,
Re cristianissimo
Dei re banchieri.
Scansando il facile
Prete e la scure5,
Già dilettavasi
Di basse usure;
Oggi sollecito
D’illustri prese,
Sdegnando l’obolo
Camaldolese,
Nel nobil etere
Sorse veloce,
E al paretajo
Piantò la croce.
Come putredine
Che lenta lenta
Strugge il cadavere
Che l’alimenta,
E propagandosi
Dai corpi infermi
Par che nel rodere
S’attacchi ai vermi:
Così la rancida
==>SEGUE
Muffa patricia,
Da illustri costole
Senza camicia
Spinte dal debito
Allo spedale,
S’attacca all’ordine
Della Cambiale;
E già ripopola
Corti e Casini
Una colonia
Di scortichini.
Di quei Lustrissimi
L’odio sommesso
Lo scansa e inchinasi
Nel tempo istesso;
Ed ei burlandosi
D’odi e d’onori,
Conta e girondola6
Tra i debitori.
Il terzo è un profugo,
Perseguitato
Peggio d’un utile
Libro stampato.
Senza le barbare
Al birro e al clero
Gabelle e decime
Sopra il pensiero.
Ferito a Rimini,
Quest’infelice
Scappò di carcere
(Almen lo dice);
Errò famelico,
Strappato ed egro;
Si sogna il boja,
Ma dorme allegro7.
O della patria
Sinceri figli,
Degni d’un secolo
Che non sbadigli!
Con voi magnanimi,
Non entri in lega
Chi del patibolo
Si fa bottega,
Come Alcibiade
Variando norme,
Questo girovago
Proteiforme,
Trasfigurandosi
Tende la rete:
A Londra è un esulo,
A Roma è prete.
==>SEGUE
Briaco a tavola
Co’ Ciambellani,
Ai re fa brindisi
Oggi; domani
Vien meco, e recita
O Italia mia!
Le birbe inventano
Che fa la spia.

PARTE TERZA.

Ad una tisica
Larva sdentata8,
Ritinto giovane
Di vecchia data,
Che stava in bilico
Biasciando in mezzo,
Di quel miscuglio
Mostrai ribrezzo.
Oggi che a miseri
Nomi ha giovato
La trascuraggine
Del tempo andato,
E si perpetua
Ogni genìa
Per gran delirio
D’epigrafia;
Mi scusi l’epoca
Se anch’io m’induco
Al panegirico
Di questo ciuco.
Nacque anni domini
Ricco e quartato;
Morto di noja
Dov’era nato,
Per controstimolo
Corse oltremonte:
Di là, versatile
Camaleonte,
Tornò mirabile
Di pellegrini
Colori, e al solito
Finì i quattrini.
E adesso ai Tartari
Cresi cucito,
Ombra patrizia
Tutta appetito,
Ripappa gli utili
Nel piatto altrui
Del patrimonio
Pappato a lui.
Costui negli abiti
==>SEGUE
Strizzato e monco,
Si stira, s’agita,
Si volta in tronco;
E con ironica
Grazia scortese,
Nel suo frasario
Mezzo francese,
Disse: – eh goffaggini!
State a vedere,
E divertitevi:
Col forestiere
Che spende, e in seguito
Ci rece addosso,
Bisogna mungere
E bever grosso.
Po’ poi, le nenie
Messe da banda,
Cos’è l’Italia?
È una Locanda.
L’oste non s’occupa
Di far confronti;
I galantuomini
Gli tasta ai conti:
E fama, credito,
Onore insomma,
Son cose elastiche
Come la gomma.
Certo, le topiche
Zucche alla grossa9,
Col mal di patria
Fitto nell’ossa;
Un malinconico,
Legato al fare
E alla grammatica
Della comare,
Vi cita il Genio.
L’Arti, la Storia...
Tutti cadaveri
Buona memoria.
Io tiro all’ostriche,
Né mi confondo.
Sapete il conio
Che corre al mondo?
Franchezza, spirito,
E tirar via:
Il resto, è classica
Pedanteria. –
Io, che spessissimo
Mi fo melare10
Per vizio inutile
Di predicare,
==>SEGUE
Punto nel tenero,
Risposi: – è vero,
Questo è l’ergastolo
Del globo intero.
Se togli un numero
Di pochi onesti
Che vanno e vengono
Senza pretesti,
Nella penisola
Tira a sboccare
Continuo vomito
D’alpe e di mare.
Piovono e comprano
Gli ossequi istessi
Banditi anonimi,
Serve e re smessi,
A cui confondersi
Col canagliume,
Non è che un cambio
Di sudiciume.
A questa laida
Orda e marame11
Di Conti aerei,
D’ambigue dame,
Irte d’esotica
Prosopopea,
Noi vili e stupidi
Facciam platea;
E un nome vandalo
In offe o in iffe,
Ci compra l’anima
Con un rosbiffe. –
– Eh via, son fisime
Di testa astratta,
Riprese il martire
Della cravatta;
Son frasi itteriche
Del pregiudizio:
Bella! ha gli scrupoli!
Oh! addio novizio. –
E presa l’aria
Dell’uomo avvezzo,
Andette a bevere12
Tutto d’un pezzo.
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Firenze, ai tempi di Giusti, somigliava alla Venezia del secolo passato, dove il Candido di Voltaire incontrava nella locanda mezza dozzina di re spodestati; perché la bellezza della natura, le sontuosità dell’arte e la facilità del vivere sotto un governo tollerante, chiamavano in Toscana tutti quelli che nei loro paesi stavano poco bene. Pretendenti ai troni, principi e duchi, milionari russi e inglesi si trovavano a far da padroni nei palazzi che gli ultimi discendenti delle storiche famiglie della repubblica vendevano o appigionavano per pagare i debiti fatti dagli avi colle matte prodigalità, aumentati dall’inerzia dei nipoti. Le sale si aprivano a feste scialose, alle quali si ammetteva, oltre ai patrizi, ogni sorta di gente senza troppi scrupoli, purché l’apparenza fosse di persone ammodo; e si formava una società cosmopolita che s’affollava specialmente intorno ai rinfreschi. Il Ballo, che il poeta giudicava «uno scherzo dei meglio riusciti» perché se la sceneggiatura non è nuova, vivace si presenta la pittura dei tipi, colpiva ad un tempo il forastierume, com’egli lo chiamava, e il «bon-ton e questa licenza d’ammetter tutti purché abbiano una giubba a coda di rondine.» Descrive le prime impressioni del ballo, pari a quelle d’una lanterna magica che fa sfilare certe figure eteroclite sul muro e le confonde insieme in una ridda; poi ci conduce nella sala dei rinfreschi dove qualcuno intasca anche le posate d’argento, e si ferma a quattro tipi di parassiti che a quelle riunioni si incontravano di frequente. Sono un frate sfratato che vive di maldicenza scroccando pranzi e cene e facendosi tollerare col render servizi misteriosi a fanciulle e spose; un usurajo che comprò un titolo di nobiltà e continua fra le feste i suoi loschi affari coi patrizi che lo disprezzano e l’inchinano; il falso martire che racconta d’essere scampato per miracolo alle forche e che penetra nelle folle per far la spia; e infine il nobile spiantato che dopo essersi fatto divorare il suo, vive divorando quel degli altri. «Queste figure (scrive il Frassi nella Vita) sono con tale esattezza ritratte, con tale vivacità colorite da potersi dire a ragione che la penna in sua mano diventa pennello.» Appena la satira fu conosciuta, a quei quattro furono applicati altrettanti nomi di persone note; e questo voleva significare che i versi colpivano difetti reali e non inseguivano vaghe fantasie. Egli conosceva le persone; ma «dai particolari estraeva le generalità che tornavano al vero come a loro fonte». (Lettera a Manzoni.)
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1 Chilosca: nome inventato dal poeta per indicare colla desinenza una signora russa o polacca. 2 Dopo questa strofa, il poeta ne aveva scritte altre, riferite dal Fioretto, e che poi cancellò come superflue. 3 Anche qui seguivano altre due strofe soppresse per buona ragione d’arte. 4 Grinte, fisionomie impudenti. 5 Quando faceva lo strozzino in piccolo, schivò la censura religiosa, aggiustandosi a danari col prete, e si salvò dalle pene dei codici. 6 Altre edizioni hanno girandola. 7 Questo tipo è probabilmente una reminiscenza d’università. Quando il Giusti era studente a Pisa capitavano sovente ai ritrovi di lui e dei suoi amici i fuggiaschi dalle reazioni che tennero dietro ai moti delle Romagne e dell’Emilia. Gli studenti vuotavano volentieri le loro povere borse nelle mani dei perseguitati, accontentandosi talora di scontare la patriotica generosità, cenando con due soldi di pane; ma poi s’accorsero che v’erano i ladri che esercitavano il mestiere del fuggiasco come una lucrosa industria. 8 Di questo tipo si voleva trovare l’originale in parecchî, perché di nobili spiantati se ne trovano ad ogni passo. 9 Le topiche zucche; le teste grossolane che credono che il mondo finisca a casa loro, e pensano solo alla patria: e quegli uggiosi che non sanno scostarsi dal modo di fare e di parlare casalingo: così il Fanfani. 10 Farsi melare significa farsi tirar addosso le mele: guardatevi bene però, o
lettori, dall’usare questo vocabolo se non volete farvi melare a vostra volta. 11 Marame è quel rifiuto di mercanzia che il mare getta sulla riva. In questo luogo significa marmaglia di conti posticci e di dame dubbie. 12 Modo errato. Il Fanfani, da quell’egregio filologo che fu, osservava giustamente che la voce andette «non solo è idiotismo, ma è formale errore». Va messo insieme all’andiedi per andai che taluni affettano, come se andare fosse un composto del verbo dare col quale non ha che far niente. Dare fa dette e diede perché è verbo irregolare; andare, che è della prima coniugazione ed è regolare, fa andai e andò e niente altro. Si dice forse comandiedi o comandette, mandiedi o mandette?
LE MEMORIE DI PISA
1841

Sempre nell’anima
Mi sta quel giorno,
Che con un nuvolo
D’amici intorno
D’Eccellentissimo1
Comprai divisa,
E malinconico
Lasciai di Pisa
La baraonda
Tanto gioconda.
Entrai nell’Ussero2
Stanco, affollato;
E a venti l’ultimo
Caffè pagato,
Saldai sei paoli3
D’un vecchio conto,
E poi sul trespolo
Lì fuori pronto,
Partii col muso
Basso e confuso.
Quattro anni in libera
Gioja volati
Col senno ingenito
Agli scapati!
Sepolti i soliti
Libri in un canto,
S’apre, si compita,
E piace tanto
Di prima uscita
Quel della vita!
Bevi lo scibile
Tomo per tomo,
Sarai Chiarissimo
Senz’esser uomo.
Se in casa eserciti
Soltanto il passo,
Quand’esci, sdruccioli
Sul primo sasso.
Dal fare al dire
Oh! v’è che ire!
Scusate, io venero,
Se ci s’impara,
Tanto la cattedra
Che la bambara4;
Se fa conoscere
Le vie del mondo,
Oh buono un briciolo
Di vagabondo,
==>SEGUE
Oh che sapienza
La negligenza!
E poi quell’abito
Roso e scucito;
Quel tu alla quacchera
Di primo acchito,
Virtù di vergine
Labbro in quegli anni,
Che poi, stuprandosi
Co’ disinganni,
Mentisce armato
D’un lei gelato!5
In questo secolo
Vano e banchiere
Che più dell’essere
Conta il parere,
Quel gusto cinico
Che aveva ciascuno
Di farsi povero,
Trito e digiuno
Senza vergogna,
Chi se lo sogna?
O giorni, o placide
Sere sfumate
In risa, in celie
Continuate!
Che pro, che gioja
Reca una vita
d’epoca in epoca
Non mai mentita!
Sempre i cervelli
Come i capelli!6
Spesso di un Socrate
Adolescente,
N’esce un decrepito
Birba o demente:
Da sano, è ascetico;
Coi romatismi,
Pretende a satiro:
Che anacronismi!
Dal farle tardi
Cristo ti guardi7.
Ceda lo studio
All’allegria
Come alla pratica
La teoria;
O al più s’alternino
Libri e mattie,
Senza le stupide
Vigliaccherie
Di certi duri
==>SEGUE
Chiotti e figuri8.
Col capo in cembali,
Chi pensa al modo
Di farsi credito
Col grugno sodo?
Via dalle viscere
L’avaro scirro
Di vender l’anima,
Di darsi al birro,
Di far la robba
A suon di gobba.
Ma il punch, il sigaro,
Qualche altro sfogo,
Uno sproposito
A tempo o luogo;
Beccarsi in quindici
Giorni l’esame,
In barba all’ebete
Servitorame
Degli sgobboni
Ciuchi e birboni;
Ecco, o purissimi,
Le colpe, i fasti,
Dei messi all’Indice
Per capi guasti.
La scapataggine
È un gran criterio,
Quando una maschera
Di bimbo serio
Pianta gli scaltri
Sul collo agli altri9.
Quanta letizia
Ravviva in mente
Quella marmorea
Torre pendente,
Se rivedendola
Molt’anni appresso,
Puoi compiacendoti
Dire a te stesso:
Non ho piegato
Né pencolato!
Tali che vissero
Fuor del bagordo,
E che ci tesero
L’orecchio ingordo,
Quando burlandoci
Dei due Diritti,
Senza riflettere
Punto ai Rescritti,
Cantammo i cori
De’ tre colori10;
==>SEGUE
Adesso sbraciano
Gonfi e riunti,
Ma in bieca e itterica
Vita defunti11.
E noi (che discoli
Senza giudizio!)
Siam qui tra i reprobi
Fuor di servizio,
Sempre sereni
E capi ameni.
A quelli il popolo,
Che teme un morso,
Fa largo, e subito
Muta discorso:
A noi repubblica
Di lieto umore,
Tutti spalancano
Le braccia e il core:
A conti fatti,
Beati i matti!
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1 Una variante cancellata sostituiva: «d’arpia legulea». 2 L’Ussero era il caffè frequentato dagli studenti: si trova sul Lungarno ed oggi fu battezzato caffè dell’Unione. 3 Gli studenti circondavano con festa il laureato, ch’era ai loro occhi il vincitore contro il corpo dei professori. 4 La bambara è il giuoco di carte detto anche primiera. 5 Il Giusti era un acerrimo nemico del Lei. «Il Lei (scriveva al Grossi) è aulico nato e sputato: il Voi sa di francese, ma se ne sono serviti i nostri bisnonni che non conoscevano il signor Lei: buon per loro. 6 Il significato non è dubbio: i pensieri devono essere come i capelli, cioè del loro vero colore e non tinti, devono essere pensieri da giovane quando i capelli son biondi o neri, pensieri più seri e gravi quando sono canuti. 7 «Da un’adolescenza giudiziosa spesso nasce una vecchiaia matta: riguardatene. Io per me, sia indole o altro, quando mi sento tentato a fare il serio mi fo il segno della croce...» (Epist. Frassi, vol. I, pagina 168). 8 Il Giusti consiglia di alternare le mattie agli studi; ma era il primo a proclamare la necessità di studiare e si lamentava sempre d’aver studiato troppo poco. 9 Il Fioretto ha trovato questa variante:
Cerco discredito/ Di matto onesto/ Se il senno in tenero/ Cranio è funesto:/ Se pon gli scaltri/ Sul collo agli altri. 10 Veggasi il coro scritto dal Giusti. 11 Il Giusti l’aveva cogli uomini troppo serî.

Tutti i ricordi e i rimpianti della vita di studente son contenuti in questa poesia che il Giusti preferiva a molte altre, appunto perché ritraeva quei tempi a lui cari e passati. Nello scriverla pensava alle facili gioje, alle mute confidenze, alle fervide amicizie, agli amori fulminei ed agli esami improvvisati, alle baldorie, alle penurie, agli entusiasmi e ai disinganni che si seguivano come il sole e le nuvole in quei giorni che la libertà faceva belli. Allora non era costretto a vivere tra le finzioni, ma espandeva l’esuberanza del cervello e del cuore in mezzo agli spensierati compagni. Due volte fu il Giusti a Pisa: una dal 1826 al 1829 e l’altra dal 1832 al 1834 (vedi pagine 34 e 42): e se ne andò a Firenze già celebre; ma cantava che da quegli anni passati all’Università aveva riportato quella serena gioja che è la giovinezza dell’animo e conserva i sogni fervidi anche sotto il cranio coperto di capelli grigi, l’amore per ogni bellezza e per ogni cosa buona e la virtù di credere nell’avvenire anche sull’orlo della fossa.