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A LEOPOLDO II
1847

Il Toscano Morfeo e il re Travicello, nell’animo del Giusti come della maggioranza dei Toscani, s’era trasformato in un grande principe liberale. Erano tutti quanti vittime d’una generosa illusione; e non oseremmo affermare che l’influenza del Capponi sia stata estranea a questa modificazione dei sentimenti del poeta, sebbene a spingerla possano parer sufficienti le concessioni del principe, venute con certa spontaneità e senza violenza. L’ambiente vi contribuiva per la sua parte. Giravano le medaglie coll’effigie di Leopoldo II da una parte e dall’altra quella di Pio, e intorno l’iscrizione: «Leopoldo si strinse con Pio, e il gran patto fu scritto lassù.» In Piemonte e in Lombardia giravano medaglie consimili col ritratto e col nome di Carlo Alberto. In entrambi i principi era ambizione di mettersi a capo del moto per ingrandire lo Stato loro; ma nuoceva a Leopoldo, presso gli Italiani, l’essere arciduca austriaco e d’animo fiacco. Il 12 settembre 1847 ebbe luogo la grande festa in Firenze dei rappresentanti di tutti i Comuni della Toscana: e per quell’occasione il Giusti, fatto presidente della società per organizzare l’intervento della Val di Nievole alla capitale del Granducato, scrisse un manifesto, conservato dal Papini nella Nuova raccolta di Scritti inediti del poeta. In quel proclama il Giusti fa un appello alla concordia: «Non sia tra noi una voce insultante, un atto di minaccia, un aspetto che annunzi rancore, o dispregio neppure per i nostri avversari. Gli odi, le invidie, i risentimenti devono essere cose andate; e cosa andata debbono essere sopratutto i partiti. Il principe dichiarando e provando al cospetto degli uomini di non volere altro che il bene, condusse il Governo al nostro volere, noi al volere del Governo, e colpì di morte le parti, i nomi delle parti, e tuttociò che le parti hanno di
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3 Il Giusti non spiegò mai chiaramente il suo concetto politico, perché esprime il voto di un’Italia sola anche in quest’ode al granduca che colla propria esistenza di sovrano impediva tale unità. Per far l’Italia una, invece di presagire a Leopoldo II i trionfi dell’avvenire in Toscana, bisognava augurargli o di diventare re d’Italia o di sgombrare il posto. 4 Questi versi contengono uno strampalato ravvicinamento. Carlo V distrasse la repubblica fiorentina: Leopoldo, disceso dalla austriaca famiglia di quell’imperatore, ravvivava le speranze di Firenze: e il giglio fiorentino, strappato da Clemente VII, rinasce per opera di Pio IX. Oh i brutti pasticci che fan nascere le fallaci illusioni e i confusi concetti politici! 5 In un esemplare di quest’ode si legge scritta accanto al «nuovo atto immortale» la seguente nota di mano del Giusti: «Allude alla protesta fatta dal granduca al Gabinetto di Vienna, di non volere intervento nessuno per parte degli Austriaci negli Stati di Lucca, riversibili a Lui. La cosa non fu mai nota ufficialmente, ma è vera.»
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dall’altro, ma tutti e due portati allo stile arguto o faceto come vogliamo chiamarlo. Il padrone, sapendo l’indole delle bestie, per rimediare allo sproposito fatto d’invitarli insieme, pro bono pacis gli aveva collocati alle debite distanze. Il primo era un Abate, solito tenere la Bibbia accanto a Voltaire; buon compagnone tagliato al dosso di tutti, né Guelfo né Ghibellino, dirotto al mondo, un maestro di casa nato e sputato. L’altro era un giovane né acerbo né maturo, una specie di cinico elegante, un viso tra il serio ed il burlesco, da tenere una gamba negli studi e una nella dissipazione e via discorrendo. La cena passò in discorsi sconnessi, in pettegolezzi, in lode al Bordeaux e ai pasticci di Strasburgo; vi fu un po’ di politica, un po’ di maldicenza; per farla breve fu una cena delle solite. Alla fine, cioè due ore dopo la mezzanotte, il padrone nel congedare i convitati disse loro: spero che il primo giorno di quaresima vorrete favorirmi alla mia villa a fare il carnevalino. Ringraziarono e accettarono tutti. Ma uno, o che si dilettasse di versi, o che avesse alzato il gomito più degli altri, gridò: Alto, Signori; prima di partire, i due poeti ci hanno a promettere per quel giorno di fare un brindisi per uno. Gli altri applaudirono, e i poeti bisognò che piegassero la testa. Venne il giorno delle Ceneri, e nessuno mancò né alla predica né al desinare. Passato questo né più né meno com’era passata la cena: Sor Abate, tocca a lei, gridò quello stesso che aveva proposto i brindisi; e l’Abate che in quei pochi giorni aveva chiamato a raccolta i suoi studî tanto biblici che volterriani, accomodandoli all’indole della brigata, si messe in positura di recitante, bevve un altro sorso che fu come il bicchiere della staffa, e poi spiccò la carriera di questo gusto:
Io vi ho promesso un brindisi, ma poi1
Di scrivere una predica ho pensato
Perché nessuno mormori di noi;
Perché non abbia a dir qualche sguajato
Che noi facciamo la vita medesima
Tanto di carneval che di quaresima.

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Senza stare a citarvi il Mementomo
O quell’uggia del Passio o il Miserere,
Col testo proverò che un galantuomo
Può divertirsi, può mangiare e bere,
E fare anche un tantin di buscherio
Senza offender Messer Domine Dio.
Narra l’antica e la moderna storia
Che i gran guerrieri, gli uomini preclari.
Eran famosi per la pappatoria;
Tutto finiva in cene e in desinari:
E di fatto un eroe senza appetito,
Ha tutta l’aria d’un rimminchionito.
Perché credete voi che il vecchio Omero
Da tanto tempo sia letto e riletto?
Forse perché lanciandosi il pensiero
Sull’orme di quel nobile intelletto,
Va lontano da noi le mille miglia
Sempre di meraviglia in meraviglia?
Ma vi pare! nemmanco per idea:
Sapete voi perché l’aspra battaglia
Di Troja piace, e piace l’Odissea?
Perché ogni po’ si stende la tovaglia;
Perché Ulisse e quegli altri a tempo e loco
Sanno farla da eroe come da coco.
Socrate, che fu tanto reverito
E tanto onora l’umana ragione,
Se vi faceste a leggere il Convito
Scritto da Senofonte e da Platone,
Vedreste che tra i piatti e l’allegria
Insegnava la sua filosofia.
Ma via, lasciamo i tempi dell’Iliade,
I sapienti e gli eroi del gentilesimo;
Passiamo ai tempi della santa Triade,
Della Circoncisione e del Battesimo:
Piacque sotto la Genesi il mangiare,
E piace adesso nell’era volgare.
Tutti siam d’una tinta, e per natura
Ci tira la bottiglia e la cucina;
Dunque accordiam la ghiotta alla scrittura;
Anzi, portando il pulpito in cantina,
Vediam di fare un corso di buccolica
Tutto di balla alla chiesa cattolica.
Papa Gregorio è un papa di criterio
E di Dio degnamente occupa il posto,

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E che gliene avanzar le sporte piene,
Né si sa se quei pesci eran balene.
Ne volete di più? l’ultimo giorno
Ch’ei stette in terra, e che alla mensa mistica
Ebbe mangiato il quarto cotto in forno,
Istituì la legge eucaristica,
E lasciò nell’andare al suo destino
Per suoi rappresentanti il pane e il vino.
Anzi, condotto all’ultimo supplizio,
Fra l’altre voci ch’egli articolò,
Dicon gli evangelisti che fu sitio;
Ed allorquando poi risuscitò,
La prima volta apparve, e non è favola,
Agli apostoli, in Emaus, a tavola.
E per ultima prova, il luogo eletto
Onde servire a Dio di ricettacolo,
Se dall’ebraico popolo fu detto
Arca, Santo dei Santi e Tabernacolo,
I cristiani lo chiamano Ciborio,
Con vocabolo preso in refettorio.
Lascerò stare esempî e citazioni,
E cosa vi dirò da pochi intesa,
Da consolar di molto i briaconi;
È tanto vero che la Madre Chiesa
Tiene il sugo dell’uva in grande onore,
Che si chiama la vigna del Signore.
Dunque destino par di noi credenti
Nel padre, in quel di mezzo e nel figliuolo,
Di bere e di mangiare a due palmenti,
E tener su i ginocchi il tovagliolo;
E se questa vi pare un’eresia,
Lasciatemela dire e così sia.
Allegri, amici: il muso lungo un palmo
Tenga il minchion che soffre d’itterizia;
Noi siamo sani, e David in un salmo
Dice Servite Domino in laetitia;
Sì, facciam buona tavola e buon viso,
E anderemo ridendo in Paradiso2.

L’Abate era stato interrotto cento volte da risa sgangherate; ma alla chiusa, l’uditorio andò in visibilio, e ricolmati i bicchieri, urlò cozzandoli insieme, un brindisi alla predica e al predicatore; e l’urto fu così scomposto, che il più ne bevve la
       
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ALCUNE POESIE
SCELTE TRA LE
GIOVANILI E LE INEDITE
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Coll’ode a Leopoldo II, che venne in luce nel novembre del 1847 dalla tipografia di Tomaso Baracchi in Firenze, finiscono i versi pubblicati dall’autore. Ma egli ne scrisse molti altri: e le poesie giovanili, da lui rifiutate o messe in disparte, e quelle disseminate nelle lettere private e pubblicate dopo la sua morte, oltrepassano, per il numero, quelle inserite nella raccolta ufficiale. Fra le poesie inedite ve ne sono parecchie neppur finite: imaginatevi quindi quanto siano lontane dalla correzione finale, perché sappiamo come, sotto la lima, i versi non solo si ripulissero, ma anche si trasformassero.
Il Giusti lamentava in vita la smania di stampar tutto quello che si trova nei cassetti d’un letterato morto: e non risparmiava il biasimo al Giordani, al Viani, al Pellegrini per aver dato fuori due volumi di cose giovanili del Leopardi, che nulla giovano alla sua fama. Scriveva al Fredianelli: «Di cento lavori che getterai sulla carta nel lasso della vita, dieci ne condurrai a bene, venti a mezza cottura, settanta rimarranno in embrione. Tu, desideroso di non annojare il pubblico e di non mostrare a tutti i tuoi aborti, darai fuori le ciambelle riuscite col buco e terrai chiuse nella scrivania le altre o impastate male o sciupate in forno; ma pover’arte se la tua scrivania capita in mano a un erede ignorante o a un librajo avido di danaro!.... Dimodoché io consiglierei quelli che han dato saggio di sé o a non serbare i propri abbozzi, o a farseli bruciare sottocchio quando la febbre li ha ridotti fra il prete e il becchino. La religione per le opere dei sommi ingegni non deve degenerare in superstizione...»
A queste savie parole non vogliamo contravvenire, sebbene egli stesso abbia mancato al suo proposito, conservando perfino gli abbozzi delle lettere più intime, di quelle che avrebbero dovuto rimanere un segreto fra lui e lei; epperò alle poesie da lui vivo pubblicate aggiungiamo i versi inediti ch’egli aveva già licenziati per il pubblico, o letti agli amici nelle riunioni cordiali, o inviati loro nelle lettere che sapeva pascolo di tutti; e que’ versi giovanili che non respinse dal gruppo dell’opera sua meditata. Aggiungiamo soltanto due frammenti: quello sui casi di Stenterello Procacci riferito dal Prassi, suo intimo amico, perché rappresenta un nuovo esempio della sua poesia, inspirata probabilmente a quella del milanese Carlo Porta nel Giovannin Bongée, e i versi che, sebbene incompiuti, esprimono l’ultimo suo pensiero sull’opera e sulle speranze umane.
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Giuseppe  Giusti - POESIE  SCELTE - parte VI
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Commento alla poesia
SANT'AMBROGIO
di Marisa Moles
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La lirica prende spunto da un fatto realmente accaduto: mentre si trovava a Milano, ospite di Alessandro Manzoni, Giusti fece visita alla basilica di Sant’Ambrogio, al cui interno s’imbatté in un gruppo di soldati austriaci che a quei tempi occupavano il Lombardo-Veneto. Ad un primo sentimento di repulsione nei confronti dell’oppressore, si sostituisce una sorta di compartecipazione alla sorte di quei soldati che, lontani dalla patria, sono ridotti, forse loro malgrado, a strumento di sopraffazione. Il canto intonato da quei soldati suscita nel poeta una commozione inaspettata da cui scaturisce una riflessione profonda sulla sorte dei popoli che spesso sono soltanto delle marionette nelle mani di chi detiene il potere.
Giusti immagina di rivolgersi ad un alto funzionario della polizia o granducale (il poeta è pistoiese) o austriaca.
Fin dall’incipit si può osservare l’ironia con cui il poeta esprime la sensazione di essere guardato in cagnesco da quel funzionario che l’ha di certo etichettato come anti-tedesco perché nei suoi scherzucci si prende gioco dei birbanti (tiranni, traditori, finti liberali …). Dopo il preambolo, con quel O senta tutto toscano si appresta a raccontare al suo interlocutore ciò che gli era successo una mattina in occasione di una visita nella basilica di Sant’Ambrogio.
Il poeta si trova in compagnia del giovane figlio del Manzoni (forse Filippo), qui chiamato confidenzialmente Sandro e scherzosamente definito un di que’ capi un po’ pericolosi, riferendosi, senza mezzi termini, alla palese avversione che Manzoni nutriva nei confronti degli Austriaci e definendo il capolavoro del poeta lombardo romanzetto, prendendosi gioco anche di lui. L’intento di gabbare il funzionario si fa palese in quel Che fa il nesci (più o meno lo gnorri), salvo poi giungere alla conclusione che forse quel romanzo non l’ha letto perché il suo cervello ha tante altre faccende di cui occuparsi, prima fra tutte, è sottinteso, rendere infelici i poveri “oppressi”. Ecco che, proseguendo lo scherzo, arriva la sferzata per l’ignaro interlocutore: Dio lo riposi è un augurio che solitamente viene rivolto ai morti: il cervello del tale è, dunque, morto e sotterrato, constatazione che porta ironicamente l’attenzione del lettore sull’ignoranza e la pochezza di certi ufficiali.
Eccoci arrivati al racconto del fatto accaduto a Giusti in quel di Sant’Ambrogio. Nella basilica il poeta trova dei soldati, forse Boemi o Croati, popolazioni che allora facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico. Erano lì, come i pali che sorreggono le vigne, a controllare l’ordine, mandati dai funzionari austriaci (le vigne); l’ironia si coglie anche qui in quell’impalati che li descrive nell’atteggiamento servile di chi è sempre pronto ad obbedire. Anche i baffi che Giusti paragona alla stoppa (capecchio), riferendosi ai caratteristici “colori” di quei popoli, perlopiù biondi, costituiscono una nota ironica che si accompagna a quel dritti come fusi davanti a Dio, come se dovessero stare sull’attenti anche davanti al Creatore. Ecco che il ribrezzo, la repulsione prende il sopravvento: Giusti non ha voglia di mischiarsi a quella “marmaglia”, un ribrezzo che, ovviamente, il funzionario non può provare, visto che ci vive in mezzo abitualmente e che, proprio grazie a questo suo impiego che gli garantisce lo stipendio, riesce a sopportare. L’aria, poi, là dentro è decisamente viziata (e non può essere altrimenti visti gli “ospiti”), talmente pesante da far sprigionare persino dalle candele un odore non simile alla cera (che allora doveva essere di ottima qualità) quanto al sego con cui i soldati si ungevano i baffi. Insomma, sembra proprio che la sacralità del luogo risenta dell’influsso negativo di quei soldati puzzolenti.
Quel Ma nell’incipit della nuova ottava riporta l’attenzione sulla sacralità del luogo e ispira nel poeta una sincera commozione religiosa. Le note di un canto (nell’ottava seguente verrà specificato che si tratta del coro dell’opera verdiana I Lombardi alla prima crociata) rende l’atmosfera soave e nel contempo drammatica: si parla di un popolo che soffre fra gli stenti ricordando tutto il bene che ha perduto. Come non leggere tra le righe la sofferenza dei Lombardi, contemporanei di Manzoni e di Giusti, sottoposti all’ingiusta tirannia austriaca?
Il coro porta ad una specie di trasfigurazione del poeta che si sente parte di quella gente, di quel branco che prima aveva osservato da lontano e con disprezzo, come se non fosse più lui, rapito dalla musica e dal canto che lo inebria e lo porta ad essere solidale con chi forse non soffre meno di lui. E sì, ormai è totalmente rapito da quel pezzo nostro, perché legato al concetto di patria, perché appartiene alla nostra cultura, quella italiana, di cui nessuno straniero potrà mai privarci. Sull’onda emotiva di quella musica suonata con arte, ovvero “maestria”, passano in secondo piano anche l’ubbie, i pregiudizi. Ecco, quindi, che al cessar della musica, il poeta vorrebbe ritornare allo stato iniziale, a quella repulsione provata all’entrata in chiesa, ma involontariamente viene giocato da un nuovo tiro: dalle bocche che parean di ghiro (il riferimento ironico è ai baffi dei soldati, simili a quelli del piccolo mammifero) viene intonato un altro canto, questa volta tedesco, che s’innalza verso l’altare, una preghiera che è allo stesso tempo un lamento, un suono grave e solenne, ma contemporaneamente flebile, che gli rapisce per sempre l’anima. L’emozione è, quindi, temperata dall’ironia con cui dipinge gli austriaci: cotenne, in riferimento all’insensibilità come quella della pelle spessa dei maiali, e fantocci esotici di legno, espressione in cui l’aggettivo esotici rimanda a tutto ciò che è estraneo alla nostra cultura. L’empatia, attraverso la musica, si fa incredibilmente concreta.
Anche nel coro tedesco il poeta percepisce la rinascita di quel sentimento nostalgico di infanzia e di patria lontana. Il cuore custodisce e ripete nei momenti di dolore i canti imparati da fanciullo: gli affetti familiari, il desiderio di pace, la voglia e l’inclinazione ad amare in modo disinteressato, il dolore per la lontananza dalla patria sono sensazioni che il poeta non può fare a meno di condividere con quei soldati in un primo momento detestati. Anche il tono della poesia cambia e questa ottava costituisce l’apice del pathos.
Inizia qui la riflessione profonda di Giusti. A ben vedere questi soldati sono vittime anch’essi del potere: un imperatore timoroso dei moti insurrezionali, tanto in Italia quanto nei paesi slavi, strappa alle loro case (evidente qui la metonimia tetti) questi uomini che tengono schiavi noi pur essendo schiavi anch’essi. (evidente qui il chiasmo che rende ancor più drammatica la considerazione del poeta). Provengono dalla Croazia e dalla Boemia ma non sono poi molto diversi da quelle mandrie di buoi che i pastori toscani portano in Maremma a svernare.
L’ottava inizia con un’enumerazione per asindeto che rende particolarmente lento il ritmo dei primi versi. È come se il poeta volesse sottolineare il senso della desolazione che caratterizza la vita dei soldati, incolpevoli strumenti della rapacità consapevole (occhiuta rapina) del sovrano, senza goderne i frutti. La rapacità, poi, riporta allo stemma austriaco, l’aquila grifagna. Essi, sottoposti ad una dura disciplina e costretti ad una condizione di vita difficile, soffrono in silenzio e solitudine, subendo la derisione di chi li odia per quel che rappresentano. È un odio che divide (efficace, qui, la litote non avvicina) i due popoli, l’italiano e il tedesco, giovando a chi regna e può confidare nell’impossibilità di una loro complicità pericolosa. È il concetto del divide et impera.
Nei primi versi dell’ottava finale c’è ancora spazio per la commozione del poeta: la comprensione arriva alla pietà nei confronti di questa povera gente, lontana dalla patria e costretta a subire l’atteggiamento ostile del paese che l’ospita. Ma presto la pietà sfuma in umorismo e chiude ciclicamente la lirica: l’arguzia di Giusti arriva a definire principale l’imperatore che, forse, i soldati intimamente mandano a quel paese. Magari, è pronto a scommetterlo, non lo sopportano esattamente come gli Italiani.
Ma l’immedesimazione qui si ferma: per non correre il rischio di abbracciare uno di quei soldati, l’autore, ricordandosi del suo spirito patriota, deve fuggire. Il caporale rimane lì, con il suo bastone di nocciolo (era l’insegna dei caporali austriaci), impalato esattamente come l’abbiamo trovato all’inizio della poesia, insieme ai suoi compagni di sventura.
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Eppur si sa che il timpano e il salterio
Accorda all’armonia del girarrosto;
E se i preti diluviano di cuore,
Lo potete vedere a tutte l’ore.
La Bibbia è piena di ghiottonerie:
Il nostro padre Adamo per un pomo
La prima fe’ delle corbellerie,
E la rôsa ne’ denti infuse all’uomo.
S’ei per un pomo si giuocò il giardino
Cosa faremo noi per un tacchino?
Niente dirò di Lot e di Noè,
Né d’altri patriarchi bevitori,
Né di quel popol ghiotto che Mosè
Strascinò seco per sì lunghi errori;
Che male avvezzo, sospirò da folle
Perfin gli agli d’Egitto e le cipolle.
Giacobbe, dalla madre messo su,
Isacco trappolò con un cibreo,
E inoltre al primogenito Esaù
Le lenticchie vendè da vero Ebreo:
Anzi gli Ebrei, per dirla qui tra noi,
Chiedono il doppio da quel tempo in poi.
Vo’ dire anco di Gionata, che mentre
Saulle intima ai forti d’Israele
Di tener vuoto per tant’ore il ventre,
Ruppe il divieto per un po’ di miele;
Tanto è ver che la fame è sì molesta,
Che per essa si giuoca anco la testa.
Venendo poi dal vecchio testamento
A ripassar le cronache del nuovo,
Cariche, uffici, più d’un sacramento,
Parabole, precetti, esempi, trovo
(Se togli qua e là qualche miracolo)
Che Cristo li fe’ tutti nel Cenacolo.
Sembra che quella mente sovrumana
Prediligesse il gusto e l’appetito;
Come fu visto alle nozze di Cana
Che sul più bello il vino era finito,
Ed ei col suo potere almo e divino
Lì su due piedi cangiò l’acqua in vino.
Ed oltre a ciò rammentano i cristiani,
E nemmeno l’eretico s’oppone,
Ch’egli con cinque pesci e cinque pani
Un dì sfamò cinque mila persone,

       ==>SEGUE


LA REPUBBLICA

«Il Giusti fu repubblicano per tradizione e per indole», scrive Giovanni Frassi che lo conobbe dai banchi della scuola e passò con lui intere stagioni della virilità; e avrebbe potuto dire come Béranger «je suis de nature républicaine.» La tradizione l’aveva in casa coll’avo materno Celestino Chiti: e amava la repubblica classica quale veniva definita da Platone nel Menesseno, né mai lo fu meglio da altri: «Noi tutti generati d’una madre medesima e tutti fra noi germani fratelli, giudichiamo indegno così il servire l’uno all’altro, come il signoreggiare; e l’uguaglianza di natura c’induce altresì a cercare l’uguaglianza della legge; né per nessuna altra cosa ci sottomettiamo ad alcuno di noi, salvo che per l’opinione della virtù e della sapienza.»
Nel 1847, come fu diffusamente narrato nella biografia, accettò di lavorare per il proprio paese retto da un principe costituzionale con una lealtà che mantenne sempre in mezzo ai torbidi, ai sospetti, alle disillusioni del 1848 e del 1849, fino a quando il granduca, gettando la maschera di liberale, non ebbe chiamati in suo ajuto gli Austriaci; e soleva dire dei rappresentanti della Toscana alla seconda assemblea: «o repubblicani o costituzionali non importa, purché non pensino più a sé che al paese, purché non si buttino mai dietro le spalle i principî del galantuomo». Voleva il bene della patria al disopra degli interessi degli uomini e dei partiti: ecco tutto.
Fu in quel tempo che indirizzò questa poesia a Pietro Giannone, repubblicano d’alti sensi ch’egli altamente stimava, nella quale ripete che comprendeva benissimo la repubblica, ma non si fidava di quelli che se ne erano in quel momento fatti apostoli, quasiché una idea cessi d’esser buona se meno buoni sono coloro che la sostengono. La sola paura che gli faceva la repubblica era quella che dividesse l’Italia in pillole; e lo diceva allora che i varî principi la tenevan divisa coi loro dominî e colle loro ambizioni, mentre Mazzini, il grande unitario, proclamava la sua dottrina in Roma.

Non mi pare idea sì strana
La repubblica italiana
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Dell’amor di patria!
All’amico, al galantuomo,
Che sbattuto, egro, e non domo
Sorge di martirio,
Do la sferza nelle mani,
E sul capo ai ciarlatani
Trattengo le forbici.
Dunque, via, raggranellate
Queste genti sparpagliate
Tornino in famiglia.
Senza indugio, senza chiasso,
Ogni spalla il proprio sasso
Porti alla gran fabbrica.
E sia Casa, Curia, Ospizio,
Officina, Sodalizio,
Torre e Tabernacolo,
E non sia nuova Babelle
Che t’arruffi le favelle
Per toccar le nuvole.
Perché, vedi: avendo testa
Di cercare a mente desta
Popolo per Popolo,
Ogni cura in fondo in fondo
Si rannicchia a farsi un mondo
Del suo paesucolo:
E alla barba del vicino
Tira l’acqua al suo mulino
Per amor del prossimo.
La concordia, l’eguaglianza,
L’unità, la fratellanza,
Eccetera, eccetera,
Son discorsi buoni e belli;
Tre fratelli, tre castelli,
Eccoti l’Italia.
O si svolge in largo amore
Il gomitolo del cuore
(Passa la metafora),
E faremo in compagnia
Una tela, che non sia
Quella di Penelope:
O diviso e suddiviso
Questo nostro paradiso
Col sistema d’Hanneman,
Ottocento San Marini
Comporranno i governini
Dell’Italia in pillole.
Se non credi all’apparenze,
Fa’ repubblica Firenze,

       ==>SEGUE
feroce, di stizzoso, di risibile.»
Il povero poeta deve essersi trovato ben pentito d’avere scritto questi versi quando, due anni dopo, il Granduca gli empiva la Toscana di soldati austriaci. A due soli principi fu indulgente: a Pio IX e a Leopoldo II; e morì dopo aver sopportato i due maggiori dolori politici della sua vita perché i due principi avevano tradita la sua fiducia e quella degli Italiani. Aveva messo in disparte per un momento l’antica fede repubblicana per amor di pace e unione; e dovette provare tutta l’amarezza e l’umiliazione del disinganno.
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Signor, sospeso il pungolo severo,
A Te parla la Musa alta e sicura,
La Musa onde ti venne in pro del vero
Acre puntura.
Libero prence, a gloriosa meta
Vôlto col popol suo dal cammin vecchio,
Con nuovo esempio, a libero poeta
Porga l’orecchio.
Taccian l’accuse e l’ombre del passato,
Di scambievoli orgogli acerbi frutti:
Tutti un duro letargo ha travagliato,
Errammo tutti.
Oggi in più degna gara a tutti giova
Cessar miseri dubbî e detti amari,
Al fiero incarco della vita nuova
Nuovi del pari.
Se al popolo non rechi impedimento
L’abito molle, la dormita pace,
La facil sapienza, il braccio lento,
La lingua audace;
Se non turbino il re larve bugiarde,
Vuote superbie, ambizioni oscure,
Frodi, minacce, ambagi, ire codarde,
Stolte paure:
Piega popolo e re le mansuete
Voglie a concordia con aperto riso;

==>SEGUE

E il lungo ordir della medicea rete
Ecco è reciso.
Che se dell’Avo industrioso istinto1,
Strigato il laccio che vita ci spense,
Nostra virtù da cieco laberinto
Parte redense,
Tardi d’astuta signoria lasciva
La radice mortifera si schianta:
Serpe a guisa di rovo, e usanza avviva
La mala pianta.
Ma vedi come nella Mente eterna
Tempo corregge ogni cosa mortale:
Nasce dal male il ben con vece alterna,
Dal bene il male;
Né questo è cerchio, come il volgo crede,
Che salga e scenda e sé in sé rigire;
È turbine che al ver sempre procede
Con alte spire2.
Nocque licenza a libertà; si franse,
Per troppa tesa, l’arco a tirannia:
E l’una e l’altra fu percossa, e pianse
L’errata via.
Dalla nordica illuvie Italia emerse
Ricca e discorde di possanza e d’arte;
Calò di nuovo il nembo, e la sommerse
Di parte in parte.
Or, come volge calamità al polo,
Volta alla luce che per lei raggiorna,
Compresa d’un amor, d’un voler solo,
Una ritorna3.
Scosso e ravvisto del comune inganno
Che avvolse Europa in tenebroso arcano,
Lei risaluta il Franco e l’Alemanno,
L’Anglo e l’Ispano;
E un agitarsi, un franger di ritorte,
Una voce dal ciel per tutto udita
Che riscuote i sepolcri, e dalla morte
Desta la vita.
E in Te, speranza alla Toscana Gente
Del Quinto Carlo dagli eredi uscìo;
Rinasce il Giglio che stirpò Clemente,

       ==>SEGUE
Diletto a Pio4.
Al culto antico di quel santo stelo
Della libera Italia ultimo seme,
Di re dovere e cittadino zelo
Muovano insieme.
Già da Firenze il fior desiderato
Andò, simbol di pace e di riscatto,
Di terra in terra accolto e ricambiato
Nel dì del patto,
Che ogni altro patto vincerà d’assai
Mille volte giurato e mille infranto.
Signor, pensa quel dì! Versasti mai
Più dolce pianto?
E noi piangemmo, e lacrime d’amore
Padre si ricambiâr, figli e fratelli:
Quel pianto che finì tanto dolore
Nessun cancelli.
Ed or che a noi per nuovo atto immortale5
La tua benignità si disasconde,
E n’avesti dal Serchio al crin regale
Debita fronde,
La gioja austera de’ cresciuti onori
Cresca conforto a Te nell’ardua via;
Tra gente e gente di novelli amori
Cresca armonia.
Al secolo miglior, de’ tuoi figliuoli
Sorga e de’ nostri nobile primizie,
E di gemma più cara orni e consoli
La tua canizie.
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1 L’avo fu Pietro Leopoldo I, principe filosofo, del quale più volte parlammo, che diede alla Toscana la più intelligente e liberale legislazione del secolo scorso. 2 L’idea espressa dal poeta con sì vivace e pittoresca forma corregge quella del circolo di Vico. Gli avvenimenti alternano il bene o il male e si ripetono, ma non come in un circolo chiuso, bensì, nel ripetersi, mutano e migliorano evolvendosi verso la verità e la giustizia, come in una spirale.

       tovaglia. Toccava all’altro, il quale con certi atti dinoccolati, e senza cercare ajuto nel vino, disse: Signori, io in questi giorni non ho potuto mettere insieme nulla di buono per voi; ma ho promesso e non mi ritiro. Solamente vi prego di lasciarmi dire un certo brindisi che composi tempo fa per la tavola d’uno, che quando invita non dice: venite a pranzo da me, ma si tiene a quel modo più vernacolo, o se volete più contadinesco: domani mangeremo un boccone insieme. Udirono la mala parata, e il poeta incominciò:
       
BRINDISI PER UN DESINARE ALLA BUONA

A noi qui non annuvola il cervello
La bottiglia di Francia e la cucina;
Lo stomaco ci appaga ogni cantina,
Ogni fornello.
I vini, i cibi, i vasi apparecchiati
E i fior soavi onde la mensa è lieta,
Sotto l’influsso di gentil pianeta
Con noi son nati.
Queste due strofe non fecero né caldo né freddo,
Chi del natìo terreno i doni sprezza,
E il merito in forestieri unti s’imbroda,
La cara patria a non curar per moda
Talor s’avvezza.
Filtra col sugo di straniere salse
In noi di voci pellegrina lue;
Brama ci fa d’oltramontano bue
L’anime false.
Qui il padrone e gl’invitati cominciarono a sentirsi
una pulce negli orecchi.
Frolli siam mezzi, frollerà il futuro
Quanta parte di noi rimase illesa:
La crepa dell’intonaco palesa
Che crolla il muro.
Fuma intanto nei piatti il patrimonio:
Il nobiluccio a bindolar l’Inglese
(Che i dipinti negati al suo paese,
Pel suolo ausonio
Raggranellando va di porta in porta)
Fra i ragnateli di soffitta indaga;
Resuscitato Raffaello paga

==>SEGUE


Vano, i superbi vanti,
Le garrule discordie,
Perdona ai figli erranti;
Perdona a me le amare
Dubbiezze, e il labbro attonito
Nelle fraterne gare.
Sai che nel primo strazio
Di colpo impreveduto,
Per l’abbondar soverchio
Anche il dolore è muto;
E sai qual duro peso
M’ha tronchi i nervi e l’igneo
Vigor dell’alma offeso.
Se trarti di miseria
A me non si concede,
Basti l’amor non timido,
E l’incorrotta fede;
Basti che in tresca oscena
Mano non pôrsi a cingerti
Nuova e peggior catena.
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1 Versi di Parini.
Ne diploma, né paga, né galera:
Chi le vuol se le pigli e se le tenga,
Ch’è ognuno è matto nella sua maniera.
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L’ELEZIONE
ALL’AMICO ATTO VANNUCCI.
1848

Iliacos intra muros peccatur et extra.

Suonava la campana a deputato,
Svegliando il cittadino e il contadino
All’alto ufficio dell’elettorato.
Se si tratti di greco o di latino,
Se la faccenda è intesa o non è intesa,-
Lo dice il fatto visto da vicino.
Per me direi che il popolo l’ha presa
Come la prende appunto la campana,
Che chiama gli altri e che non entra in chiesa!
Dall’altare di Dio poco lontana
Si distende una mensa lunga e stretta,
Che d’un vecchio tappeto ha la sottana.
Al destro lato vedi una cassetta
Che fa le veci d’urna, e de’ votanti
Ogni boccone ingolla per saetta.
Seggono alla gran tavola davanti
In giubba nera i tre squittinatori,
A guisa di Minossi e Radamanti.
Ex officio presiede a quei lavori
Il Pater Patriae, e fa, secondo l’uso,
Nome per nome appello agli elettori.
«Come le pecorelle escon dal chiuso
A una, a due, a tre, e l’altre stanno
Timidette, atterrando l’occhio e il muso;
E ciò che fa la prima e l’altre fanno,
Addossandosi a lei s’ella s’arresta,
Timide e quete, e lo ‘mperchè non sanno»;
Così procede la gente foresta,
La gente a cui la libertà rifatta
Non ha per anco rifatta la testa.
Dopo una riverenza disadatta,
Senza tanto vagliar dal grano il loglio,
O détta il nome o da sé stessa imbratta.
E qui, Vannucci mio, non è un imbroglio
Di chi siede per altri alla scrittura,
Se spesso a modo suo cucina il foglio?
Sai che in liberi tempi è cosa dura
A una libera penna esser tarpata,
E star lì servilmente a dettatura.
Battezzata la scheda e ripiegata,
Dell’aureo nome nel povero scrigno
Scende il tesoro in carta monetata.

==>SEGUE

A questo monetata, un muso arcigno
Che compra i voti, per un arrembato
M’accenna... coll’occhio maligno;
E ridendo d’un riso stralunato:
«Costui è un burbero mezzano»,
Ammicca di rimando il sullodato.
Cittadini ruffiani, andate piano
Colle risa scambievoli, ché in questo
Siete fratelli, e datevi la mano.
Chi non compra e non vende è l’uomo onesto.
Ma tiro avanti a dirti la commedia,
Ché qui colla morale è bujo pesto.
Inchiodato tre giorni sulla sedia
Rimane il seggio, e aspetta chi non viene,
Dall’uggia sbadigliando e dall’inedia.
Di secento elettori, anderà bene
Se degnano la chiesa un cencinquanta:
E perché ciò? Chi è che gli trattiene?
Se con tanta libidine e con tanta
Fame fu chiesto lo Statuto, quale
Nausea ci svoglia d’assaggiar la pianta?
Per quanto o bene bene, o male male
Venir ne possa, anch’io darò la volta
Al dado del suffragio universale.
E ciò, perché giustizia, a chi l’ascolta,
Tutti... ai diritti dello Stato,
Non ch’io ne speri già miglior raccolta:
Temo il collare, il ricco, il titolato,
Temo i raggiri di tutte le tinte,
Per cui vagella il volgo abbindolato.
Vinca il voto per tutti: avrai tu vinte
Viltà, bassezza, inerzia e noncuranza?
Pochi sono e non vanno, o vanno a spinte.
Non sai che mentre la città dinanza,
La campagna rincula? O ignori forse
Che i molti d’un rovescio hanno speranza?
Guarda, e vedrai se libera risorse
La folla, e s’argomenta del Padrone
Frenar la zanna che sì cheta morse.
Vadano le gazzette a processione,
Urli chi vuole e s’arroventi in piazza
In un branco di bestie e di persone:
Finché sventura non ruoti la mazza.
Percotendo a castigo e a medicina,
Servi saremo e d’abito e di razza.
Come Dio vuole, la terza mattina
Posti a correre il palio i soli due
Che favorì la sorte o la cucina;

==>SEGUE

Debbe ogni scheda le larghezze sue
Stringere in essi, e per modo di dire
Bisogna arar coll’asino o col bue.
Che se dell’urna stitica, sortire
Vedi la palma o nobile intelletto,
O virtù che nessun rompe a servire;
Di’ pur che il mondo è arcanamente retto
Da quella Mente che l’ha destinato
A girar fino in fondo a suo dispetto.
A mala pena sboccia il neonato,
Quasi sbrogliati d’una gran fatica,
Il seggio e gli altri che l’hanno ponsato
Lo mandano, che Iddio lo benedica,
Spargendogli, secondo il consueto,
Gelsomini davanti e dietro ortica.
Ed ecco rintostare il diavoleto,
Ecco la frusta che spietata batte,
E leva il pelo alle mammane e al feto.
Se viene a galla, imagina, un Maratte,
Gridano spasimando i paurosi,
Che gli elettori eleggono in ciabatte.
Se poi galleggia invece un di quei còsi
Impastoiati come sare’ io,
Ovvero un ferma là de’ più famosi;
Apriti cielo al fiotto, al trepestìo
Di cent’altri che strillano: smettete
Di dare il voto, per amor di Dio!
Sull’eletto, o lì sì che d’inquïete
Vespe il ronzio stizzoso e l’ira cresce,
E si sbizzisce del forar la sete.
Per te riesce, per me non riesce,
Per lui non leva un ragnolo d’un buco,
Per quelli là non è carne né pesce;
Questi lo chiama grullo, e quegli eunuco,
Ghiotto d’onori, ingordo di denari;
Uno lo bolla a birba, un altro a ciuco.
E questi colpi di vènti contrari
Sullo stangone e sul repubblicano
Feriscono e imperversano alla pari.
E chi t’ha detto, o popolo sovrano,
Di mandare alla Camera Tommaso
In luogo di Michele o di Bastiano?
Chi t’ha sforzato di votare a caso,
Di stare a letto, di beccare un tanto,
O di lasciarti menar per il naso?
Un’altra volta lascialo in un canto,
E più lento di lui piglia o più desto,
O non gridare se scegli altrettanto.

==>SEGUE
IL DEPUTATO

Rosina, un deputato
Non preme una saetta
Che s’intenda di Stato:
Se legge una gazzetta,
E se la tiene a niente,
È un Licurgo eccellente.
Non importa neppure
Che sappia di finanza:
Di queste seccature
Sa il nome e glien’avanza;
E se non sa di legge,
Sappi che la corregge.
Ma più bravo che mai
Va detto, a senso mio,
Se ne’ pubblici guai,
Lasciando fare a Dio,
Si sbirba la tornata,
A un tanto la calata.
Che asino, Rosina,
Che asino è colui
Che s’alza la mattina
Pensando al bene altrui!
Il mio Signor Mestesso,
È il prossimo d’adesso.
l’onore è un trabocchetto
Saltato dal più scaltro;
La patria, un poderetto
Da sfruttare e nient’altro;
La libertà si prende,
Non si rende, o si vende.
L’armi sono un pretesto
Per urlar di qualcosa;
L’Italia è come un testo
Tirato sulla chiosa
E de’ Bianchi e de’ Neri,
Come Dante Alighieri.
Rispetto all’eguaglianza,
Superbi tutti e matti:
Quanto alla fratellanza,
Beati i cani e i gatti:
Senti che patti belli
Che ti fanno i fratelli?
«Fratelli, ma perdìo
Intendo che il fratello
La pensi a modo mio;
Altrimenti, al macello.»
A detta di Caino,
Abele era codino.
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       E vedrai Peretola.
E così spezzato il pane,
Le ganasce oltramontane
Mangeranno meglio.
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A UNO SCRITTORE DI SATIRE IN GALA

Satirico chiarissimo, lo stile
Vorrai forbire, e colla dotta gente
Rivaleggiar di chiarissima bile?
Vorrai di porcherie, tenute a mente
Spogliando Flacco, Persio e Giovenale,
Latinizzare il secolo presente?
Vorrai di greco e di biblico sale
Salare idee pescate alla rinfusa,
E barba di cassone e di scaffale?
Farai tronfiare e declamar la Musa
Stitica sempre, e sempre a corde tese,
Sempre in cerchio retorico rinchiusa?
Oh di che razza di muggir cortese
Muggiscono per tutto in tuo favore
Tutte l’Arcadie del nostro paese!
Tu del cervello altrui lucidatore?
Libero ingegno, insaccherai nel branco
Del servo pecorame imitatore?
Vedi piuttosto di chiamare a banco
I vizî del tuo popolo in toscano:
Di chiamar nero il nero e bianco il bianco;
E di pigliare arditamente in mano
Il dizionario che ti suona in bocca,
Che, se non altro, è schietto e paesano.
Curar l’altrui magagne a noi non tocca:
Quando nel vicinato ardon le mura,
Ognuno a casa sua porti la brocca.
Di te, dell’età tua prenditi cura;
Lascia a’ ripetitori e agl’indovini
Sindacar la passata e la futura.
Scrivi perché t’intendano i vicini
A tutto pasto, ed a tempo avanzato
Ci scriverai di Greci e di Latini.
Uno che non la voglia a letterato,
Che non ambisca a poeta di stìa,
Di becchime dottissimo inghebbiato,
Ci preferisca in prosa e in poesia,
Pur di cantare a chiare note il vero,
Un idiotismo a una pedanteria:
Poi non si cresca onor né vitupero
Perché lo pianti all’Indice quel prete
Che mal si chiama succeduto a Piero;
Né calcolatamente nella rete
Dia di capo del birro, onde gli venga
Celebrità d’esilio o di segrete:
E non lasci che d’anima lo spenga

==>SEGUE
I PIÙ TIRANO I MENO

I più tirano i meno.
Proverbio.
Che i più tirano i meno è verità,
Posto che sia nei più senno e virtù;
Ma i meno, caro mio, tirano i più,
Se i più trattiene inerzia o asinità.
Quando un intero popolo ti dà
Sostegno di parole e nulla più,
Non impedisce che ti butti giù
Di pochi impronti la temerità.
Fingi che quattro mi bastonin qui,
E lì ci sien dugento a dire: ohibò!
Senza scrollarsi o muoversi di lì;
E poi sappimi dir come starò
Con quattro indiavolati a far di sì,
Con dugento citrulli a dir di no.
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A DANTE

La colpa seguirà la parte offensa
In grido, come suol.
DANTE, Paradiso.
Allor che ti cacciò la Parte Nera
Coll’inganno d’un Papa e d’un Francese,
Per giunta al duro esilio, il tuo paese
Ti diè d’anima ladra e barattiera.
E ciò perché la mente alta e severa
Con Giuda a patteggiar non condiscese:
Così le colpe sue torce in offese
Chi ripara di Giuda alla bandiera.
E vili adesso e traditori ed empi
Ci chiaman gli empi, i vili, i traditori,
Ruttando sé, devoti ai vecchi esempi.
Ma tu consoli noi, tanto minori
A te d’affanni e di liberi tempi,
Di cuor, d’ingegno, e di persecutori.
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I BRINDISI
1843

I commenti a questi Brindisi li ha fatti lo stesso Giusti. Egli scrisse il brindisi del Poeta nel 1840, intitolandolo «Il brindisi per chi mangia e chi si fa mangiare» ricordando al Mayer ch’era stato letto per la prima volta alla sua tavola e che in esso raccomandava «la semplicità del vitto e la schietta allegria. Ho inteso di pungere il fasto ignorante di chi tiene tavola aperta, e la turpe servilità degli scrocconi.» Più tardi scrisse il brindisi dell’Abate, aggiunse quattro strofe a quel del Poeta e ne fece, nel 1843, il lavoro complesso che abbiamo davanti. Lettera di Giuseppe Giusti alla marchesa D’Azeglio:
Miacara amica,
Voi Milanesi siete assuefatti a vedere il carnevale che fa un buco nella quaresima e ruba otto giorni all’Indulto. Non so o non mi ricordo chi v’abbia data questa licenza; ma dev’essere stato di certo un Papa di buon umore e di maniche larghe. Noi, finite le maschere (almeno quelle di cartapesta), e rimanendoci addosso uno strascico di svagatezza, come rimane negli orecchî il suono dei violini dopo una festa di ballo, ci pigliamo a titolo di buon peso, e senza licenza dei superiori, il solo giorno delle ceneri, e tiriamo via a godere sino alla sera, come se il Mementomo non fosse stato detto a noi. Voi quegli otto giorni li chiamate il carnevalone, e noi quest’unico giornarello di soprappiù lo chiamiamo il carnevalino.
La sera del giovedì grasso del 1842, uno di quei tali che danno da mangiare per ozio, e per sentirsi lodare il cuoco, aveva invitati a cena da diciotto o venti, tutti capi bislacchi chi per un verso e chi per un altro, e tutti scontenti che il carnevale fosse lì lì per andarsene. V’erano nobili inverniciati di fresco e nobili un po’ intarlati; v’erano banchieri, avvocati, preti alla mano, insomma omni genere musicorum. Tra gli altri, non so come, era toccato un posto anche a due che pizzicavano di poeta, agli antipodi uno
==>SEGUE
Una e indivisibile,
Da sentirmene sciupare
Per un tuffo atrabiliare
Il cervello, o il fegato.
Fossi re, certo confesso
Che il vedermi intorno adesso
Balenare i popoli,
E sapere, affeddeddio!
Che codesto balenìo
Significa – vattene,
Io vedrei questa tendenza,
A parlare in confidenza,
Proprio contro stomaco.
Pietro mio, siamo sinceri:
La vedrei malvolontieri
Anche, per esempio,
Se ogni sedici del mese,
Alla barba del paese
Trottassi a riscuotere.
Non essendo coronato,
Non essendo salariato,
Ma pagando l’estimo;
Che mi decimi il sacchetto
O la Clamide o il Berretto,
Mi par la medesima.
Anzi, a dirla tale e quale,
Vagheggiando l’ideale
Per vena poetica,
Nella cima del pensiero,
Senza fartene mistero,
Sento la repubblica.
Ma se poi discendo all’atto
Dalla sfera dell’astratto,
Qui mi casca l’asino.
E gl’inciampi che ci vedo
Non mi svogliano del Credo;
Temo degli Apostoli.
Come! appena stuzzicato
Il moderno apostolato,
Pietro, ti rannuvoli?
Mi terrai sì scimunito,
Che grettezza di partito
Mi raggrinzi l’anima?
Oh lo so: tu, poveretto,
Senza casa, senza tetto,
Senza refrigerio,
Ventott’anni hai tribolato,
Ostinato nel peccato
       
==>SEGUE
STORIA CONTEMPORANEA
1848

Sdegno di far più misere
Con diuturno assalto
Le splendide miserie
Di chi vacilla in alto;
Sdegno, vigliacco astuto,
Insultare al cadavere
Dell’orgoglio caduto.
Né bassa contumelia
Che l’uomo in volto accenna,
«Né svergognato ossequio
Mi brutterà la penna»1,
La penna, a cui frementi
Spirano un vol più libero
Più liberi ardimenti.
O, se talor, negl’impeti
Ciechi dell’ira prima,
In aperto motteggio
Travierà la rima,
A lacerar le carte
Tu, vergognando, ajutami,
O casto amor dell’arte.
Il riso malinconico
Non suoni adulterato
Dell’odio o dell’invidia
Dal ghigno avvelenato,
Ne ambizïon delusa
Sfiori la guancia ingenua
Alla vergine Musa.
Nell’utile silenzio
Dei giorni sonnolenti
Con periglioso aculeo
Osai tentar le genti;
Osai ritrarmi quando
Cadde Seiano, e sorsero
I Bruti cinguettando.
Seco Licurghi e Socrati,
Catoni e Cincinnati,
I Gracchi pullularono
d’ozio nell’ozio nati:
Come in pianura molle
Scoppia fungaja marcida
Di suolo che ribolle.
Ahi, rapita nel mobile
Baglior della speranza,
Non vide allora il vacuo

==>SEGUE

Di facile jattanza
L’illusa anima mia,
Che s’abbandona a credere
Il ben che più desia!
E le fu gioja il subito
Gridar di tutti a festa,
E sparir nelle tenebre
La ciurma disonesta,
Ed io, pago e sicuro,
Aver posato il pungolo
Che ripigliar m’è duro.
O Libertà, magnanimo
Freno e desìo severo
Di quanti in petto onorano
Con te l’onesto e il vero,
Se del tuo vecchio amico
Saldo tuttor nell’animo
Vive l’amore antico,
Reggi all’usato termine
La mano e la parola,
Quando in argute pagine
Caldo il pensier mi vola,
Quando in civile arringo
La combattuta patria
A sostener m’accingo.
Teco in aperta insidia
O in pubblico bordello,
Dell’adulato popolo
Non mi farò sgabello,
All’amico le gote
Non segnerò col bacio
Di Giuda Iscarïote.
Dell’orgia, ove frenetica
Licenza osa e schiamazza,
Con alta verecondia
Respingerò la tazza:
Con verecondia eguale
Respinsi un tempo i calici
Di Circe in regie sale.
O veneranda Italia,
Sempre al tuo santo nome
Religïoso brivido
Il cor mi scosse, come
Nomando un caro objetto
Lega le labbra il trepido
E reverente affetto.
Povera Madre! Il gaudio

==>SEGUE
Dirai che adesso a giudicare è presto,
Che questo pollo, duro attualmente,
Nutrirà poi quando sarà digesto.
Ed, io rispondo: O allor perché la gente
È tanto ingorda d’affollarsi al piatto?
Perché non pensa prima a farci il dente?
Ma no: mene, lamenti, ozio, baratto,
E cani e gatti e caetera animalia,
E disfare e rifar quel che fu fatto.
Viva la libertà, Viva l’Italia.
__________________

Per or la sporta.
O nonni, del nipote alla memoria
Fate che torni, quando mangia e beve,
Che alle vostre quaresime si deve
L’itala gloria.
Alzate il capo dai negletti avelli;
Urlate negli orecchi a questi ciuchi
Che l’età vostra non patì Granduchi
Né Stenterelli.
Tutto cangiò, ripreso hanno gli arrosti
Ciò che le rape un dì fruttaro a voi;
In casa vostra, o trecentisti eroi,
Comandan gli osti.

Per tutte queste strofe, la stizza, il dispetto, la vergogna, erano passate e ripassate velocemente sul viso di tutti come una corrente elettrica, e già si sentivano al più non posso. Solamente l’Abate se ne stava là come interdetto, tra la paura di tirarsi addosso l’ironia dell’avversario per un atto di disapprovazione, e quello di perder la minestra per un ghigno che gli potesse scappare. Il poeta seguitava: E strugger puoi, crocifero babbeo... A questa scappata, il padrone che da un pezzo si scontorceva sulla seggiola come se avesse i dolori di corpo, fatto alla meglio un po’ di viso franco, disse con un risolino stiracchiato: se non rincrescesse al poeta, potremmo passare nelle altre stanze a bevere il caffè, e là udire la fine del suo brindisi. Tutti si alzarono issofatto, andarono, fu preso il caffè, e nessuno fece più una parola del brindisi rimasto in asso. Ma il poeta che stava in orecchi, udì in disparte che si dicevano tra loro: che credete che il brindisi fosse bell’e fatto, come ha voluto darci ad intendere? quello è stato un ripiego trovato lì per lì, per suonarla al padrone di casa e a noi. – Che impertinenti che si trovano al mondo! rispondeva quell’altro; a lasciarlo dire, chi sa dove andava a cascare! – Chi fosse curioso di sapere la fine che doveva avere il brindisi, eccola tale e quale:

E strugger puoi, crocifero babbeo,
L’asse paterno sul paterno foco,
Per poi briaco preferire il coco
A Galileo;
       ==>SEGUE


E bestemmiar sull’arti, e di Mercato
Maledicendo il Porco3 e chi lo fece,
Desiderar che ve ne fosse invece
Uno salato?
D’asinità siffatte, anima sciocca,
T’assolve la virtù del refettorio:
Ciancia se vuoi; ma sciolta all’uditorio
Lascia la bocca.
Se parli a tal che l’anima baratta
Col vario acciottolìo delle scodelle,
In grazia degl’intingoli la pelle
Ti resta intatta.
Chi visse al cibo casalingo avvezzo
Stimol non sente di sì bassa fame,
Che paghi un illustrissimo tegame
Sì caro prezzo.
La tavola per lui gioconda scena
È di facezie e di cortesi modi; .
Non è, non è d’ingiuriose lodi
Birbesca arena.
Entri quel prete nella rea palestra,
Che il sacro libro, docile al palato,
Cita dove Esaù vende il primato
Per la minestra;
Rida in barba a San Marco ed a San Luca,
E gridi che il suo santo è San Secondo,
E che il zampon di Modena nel mondo
Compensa il Duca.
O v’entri il dottore! che come corbo
Si cala dello Stato alla carogna,
E colla rete delle lodi agogna
Pescar nel torbo.
Né l’indefesso novellier s’escluda,
Bastonator d’amici e di nemici,
Famoso di cenacoli patrici
Buffone e Giuda.
Qui di lieto color brilli la guancia,
Sia franco il labbro e libero il pensiero:
No, tra gli amici contrappeso al vero
Non fa la pancia.
O beato colui che si ricrea
Col fiasco paesano e col galletto!
Senza debiti andrà nel cataletto,
Senza livrea.

Vedete bene che questo brindisi non aveva che
       ==>SEGUE


far nulla con quel desinare; e anch’io penderei a credere che l’intenzione del poeta non fosse schietta farina. Veramente sentirsele dire sul muso non piace a nessuno; e parrebbe regola di convenienza che mangiando la minestra degli altri si dovesse risparmiare chi ha il mestolo in mano. Ma questi benedetti poeti, con tutta la referenza che professano a Monsignor della Casa, si fanno un Galateo a modo loro; e specialmente quando si sono intestati di volerle dire come le pensano. – Potete bene imaginarvi che a quella tavola il poeta cagnesco bisognò che facesse un crocione, e che l’Abate rimase in perpetuo padrone del baccellajo. Ora ecco qui questi due brindisi al comando di chi li vuole. Il primo assicurerà il fornajo a tutti gli scrocconi che sapranno imitarlo; col secondo bisognerà rassegnarsi a mangiare all’osteria.
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1 Con questi due brindisi si pongono a confronto due generi opposti di poesia, scherzosa, l’uno nato di licenza, l’altro di libertà; il primo falso, il secondo vero o almeno più convenevole. (Nota di G. Giusti.) 2 Ecco le brutte facezie che hanno avuto voga per tanto tempo, lusingando l’ozio e la scempiataggine. L’autore, a costo di macchiare il suo libro, ha voluto darne un saggio per mettere alla berlina questi abusi dell’ingegno. Confessa d’esservisi indotto anco per una certa vanità, sperando che il modo di scherzo tenuto da lui, acquisti grazia dal paragone. (Nota di G. Giusti.) 3 Il Porco di bronzo che si vede davanti alle logge di Mercato NUOVO in Firenze.