CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS





























































I.
LIBER CAIAPHAS
Et misit eum Annas ligatum
ad Caiapham pontificem.
JOH. XVIII, 24
AHIMÈ!

O forte Romagna
de i tempi passati,
nudrice, compagna
d'eroi, di soldati,

il sangue ti stagna
ne i polsi gelati
e sei la cuccagna
de i preti e de i frati.

Co 'l seno possente,
gentil leonessa,
nudristi un serpente

ed or genuflessa,
pentita e piangente
ascolti la messa!

BENEDICIMUS TE

Forme divine, su l'are candide
liete di fiori, benedicevano
i Numi. Ne' sacri laureti
suonavan gl'inni giulivi, gl'inni

a la bellezza. Fuggìano a i salici
le driadi bianche, mal de le splendide
nudità vietando a i mortali
la dilettosa vista e il trionfo,

e da 'l sereno ciel sorridevano
miti su l'uomo gli dèi benefici;
e l'uomo signor de la terra
si sentìa forte, si sentìa grande,

==>SEGUE
1900

Dice l'anno che muore a quel che nasce
– Povero figlio mio, càpiti male!
Il mondo è triste come un funerale
perchè soffre la fame o mal si pasce.

Mangiano pochi furbi a due ganasce,
ma digiunano troppi a l'ospedale,
mentre, povero figlio, a 'l tuo natale
il prete ed il questor tesson le fasce!

Io saluto così l'ultima sera,
larga lasciando eredità di pianto
e tu nasci tra il nembo e la bufera.

Ma crescerai de' sacerdoti a 'l canto,
ne 'l fresco educator de la galera
e ne 'l timor di Dio. Sei l'anno santo! –

QUANDO
IL MUNICIPIO DI BOLOGNA
FESTEGGIÒ LA B. V. DI S. LUCA
ESPONENDO I CENCI ANTICHI
PER INVITO DEI CLERICALI
MASCHI E FEMMINE

Dicono – Gesù mio, quanto schiamazzo
per due vecchi tappeti!
Nemmen se ritornassero in Palazzo
gli Svizzeri ed i preti!

I contadini a non vederli esporre
ci credevan birbanti;
sono elettori anch'essi e quando occorre
votan pei ben pensanti.

Che v'importan quei cenci o i Credi fatti
recitar ne le scuole?
Siam liberali. Non badate agli atti,
badate a le parole. –

Rispondiamo – I tappeti a la ringhiera
non son stracci e cimosa:
cencio di pochi palmi è una bandiera,
ma vuol dir qualche cosa.
==>SEGUE
Confessatelo, via, siate leali,
poichè non siete scaltri:
voi pascete di fumo i liberali
e d'arrosto... quegli altri. –

E v'è chi dice poi – Bisanzio ancora
con le ciarle si regge
de i cento legulei de la malora
che gli falsan la legge.

Lasciamoli cianciar de 'l più e de 'l meno,
lasciamoli garrire;
noi guardiamo più in alto, ad un sereno,
ad un santo avvenire.

Noi guardiamo più in alto e questa bassa
miseria non ci tange.
Con ben altra eloquenza il cor ci passa
la voce di chi piange!

Ma quando il pianto cesserà e verranno
feste più sante, allora
quelle coltri lassù, riscalderanno
il letto a chi lavora. –


SERMONE DI NATALE

O Messia profetato a i sofferenti,
pietoso un dì consolator de 'l mondo,
inutilmente ormai torni a le genti,
bambino biondo!

Non è più il tempo in cui l'amor potea
illuminar le menti e intender l'alme,
in cui per te Gerusalemme avea
osanna e palme.

O dilettose a 'l cor notti stellate
de' colli galilei su i dolci clivi,
tra il canto de le donne innamorate,
sotto gli ulivi;

o susurranti a 'l sol gaie fontane,
di solinghi riposi allettatrici,
cui salìa la canzon de le lontane
spigolatrici;

==>SEGUE
o vigne d'Israel che i dolci frutti
maturaste a l'umìl schiera seguace,
voi non l'udrete più chieder per tutti
giustizia e pace!

E tu, benigno, che a cercar scendevi
l'agnel che si smarrì ne la campagna
e l'Evangelo de l'amor dicevi
su la montagna,

guarda! un'idolatria cauta e discreta
a gli apostoli tuoi cresce l'entrate.
Pietro che ti negò, batte moneta;
Tommaso è frate.

Il sangue che grondò da la tua croce
oggi feconda l'odio e non l'amore.
Presso a 'l complice altar veglia feroce
l'inquisitore.

L'astuta ipocrisia de l'egoismo
che la ragione a l'util suo sommette,
distilla le bugie de 'l catechismo
ne le scolette

e ne la Chiesa che chiamar non sdegna
santo l'inganno e la menzogna pia,
angelico Dottor, Barabba insegna
teologia.

Perchè tornar se a la novella pena
oggi trarresti inutilmente il fianco?
Più carezze non ha la Maddalena
pe 'l rabbi stanco.

Non si ricorda più d'averti amato,
ma, isterica romea, co 'l bacio scende
a 'l laido piè che, de 'l tuo nome ornato,
Caifa le stende;

e colei che chiamar madre ti piacque
e ne 'l sepolcro il corpo tuo compose,
or vezzeggia i clienti e vende l'acque
miracolose.

Fuggi, fuggi da noi, bambino biondo:
torna piangendo da 'l presèpe a 'l cielo.
Il Sillabo di Pio cacciò da 'l mondo
il tuo Vangelo.

==>SEGUE
DUE VOCI

«Pace, Cristo dicea, pace al fecondo
solco in cui dorme la futura messe,
all'officina che mugghiando tesse,
alla nave che varca il mar profondo,

al vecchio bianco ed al bambino biondo,
ai re possenti ed alle plebi oppresse,
pace! Dio manterrà le mie promesse.
Il mio regno non è di questo mondo!»

Ma il prete dice – «Ah, no, tu non avrai
un istante di pace, o mondo indegno,
finchè il tuo Cristo mi rinfaccerai.

Ferro, sangue, velen sarà il mio sdegno
finchè pentito non mi renderai
l'oro, i gendarmi, la mannaia, il regno».

ALLA CITTA DI FERMO
CHE RIDESTA ED ONORA LA MEMORIA DI
GIUSEPPE CASELLINI, IGNAZIO ROSETTANI ENRICO VENEZIA DECAPITATI IN OLTRAGGIO ALLA GIUSTIZIA IN VITUPERIO DELLA RELIGIONE DA PIO IX PONTEFICE MASSIMO

.... non inane
Auspicium pietas renascens.
LEO XIII
Nobil città che spregi e che detesti
chi giustizia non rende all'innocente,
or che ai martiri tuoi liberamente
pietosa come sei ti manifesti,

consegna i traditori e i disonesti
all'istoria che prova e che non mente,
ma prostra i capi mozzi e grida – O gente,
gli assassini, per Dio, non furor questi?

Qui, fatto forte delle altrui paure,
non ministro di Dio ma suo flagello,
Pio strinse il freno con le mani impure.

Il prete, qui, che decretò il macello,
venne per scherno a benedir la scure
e Fermo disse – L'assassino è quello! –
I dolci canti
cari agli amanti
non li sapete;
tolte al fecondo
gaudio del mondo
donne non siete.

E pur qui fuori
ci son dei fiori
per chi li coglie
e trilli e gridi
salgon dai nidi
sotto le foglie.

Passan col vento
tepido e lento
baci e parole
e sul creato
innamorato
fiammeggia il sole.

E pur, non vinto,
l'umano istinto
veglia e v'aspetta
e la parola
– tu vivrai sola –
Dio non l'ha detta,

ma tra gli ulivi
verdi, pe i clivi
di Galilea,
il Cristo biondo
la vita e il mondo
benedicea!

Deh, penitenti
pe i godimenti
che non provaste,
perchè, spietate,
martirizzate
le carni guaste?

Ah, è vero! Eterno
brucia l'inferno
per chi è felice
e Monsignore
se sboccia un fiore
lo maledice.
RIME

I.
Fitte nel capo mio ronzan le rime
come nell'alvear d'api uno sciame,
che colse il miel dalle corolle opime
nel vagabondo errar da stame a stame.

Lo colse per le valli e per le cime,
senza fren di regina o di reame,
e se il libero vol non fu sublime,
l'ala fu pari alle modeste brame.

L'alba le vide uscir col primo lume
e la sera tornar nell'ore estreme,
pel seren, per la piova e per le brume;

ed io che tutte le conosco a nome,
le veggo lavorar ronzando insieme
e poi fuggir di nuovo e non so come.



II.
Api vestite d'òr, strette in cintura,
senza posar giammai da mane a sera,
sotto il bacio del sol l'ala leggera
aprono spensierate alla ventura;

nè, se ben picciolette, hanno paura,
chè ciascuna di lor fatta guerriera,
sa una lama snudar sottile e fiera,
che gocciola velen nella puntura;

e guai se l'offensor non si ritira,
poichè tutte su lui volano a gara
e non lo lascian più finchè respira.

Chi le stuzzica dunque in sua malora
sappia che presto ed a suo danno impara
che la rima è velen, che il verso fora!
LE BALLATE DEL PROCESSO

I.
Verità, libertà, luce, progresso,
voi mi conciaste bene
che mi trovo per voi sotto processo!

L'affare andò così. Pietro pescava
cercando con la rete il suo profitto.
Giù per l'acqua corrente io me n'andava
ed ei mi prese per godermi fritto,
poichè all'arrosto non ci ha più diritto
dal dì che tra le pene
il rogo, grazie a Dio, non ce l'han messo.

Ma il santo pescator che m'afferrava,
dalle mie spine si sentì trafitto.
L'altrui rabbia cristiana e la pia bava
mutaron la puntura in un delitto;
ed è per questo che son tanto afflitto
che, se ben mi sovviene,
non ho mai riso come rido adesso!



II.
Quando per l'arsa Galilea passava
Gesù, lungo il tragitto,
d'amor, di carità così parlava:

– «Fratelli, il regno mio non è concesso
» a chi, assalendo, la vendetta ottiene.
» È il triste Fariseo che genuflesso
» chiede pel fratel suo ceppi e catene
» e va nel tempio con le tasche piene!...» –
Disse, e in croce confitto,
benedicea morendo e perdonava.

E gli Apostoli suoi dicean lo stesso
abominando le viltà terrene:
ma inchiodato che fu, chieser sonnnesso:
– «Quanto guadagno dai carismi viene?» –
Quindi molti a Gesù volser le schiene;
poichè si trova scritto:
Quando il gallo cantò, Pietro negava.
FU VERO?

Pace! pei lunghi secoli
lento l'amor procede,
ma dove pone il piede
germoglia in pace il grano,
e le messi maturano
pingui al lavoro umano.

Lente le idee si movono
e noi moviam con loro,
compagni nel lavoro
e nell'amor fratelli;
tardano assai, ma spezzano
gli scettri ed i coltelli.

Pace!... Ma indarno aspettano
i sofferenti ancora
che sorga in ciel l'aurora;
e il Rabbi che bandiva
la gran novella agli uomini,
forse anche lui mentiva!

TRA UNA UDIENZA E L'ALTRA

Ecco, torno al silenzio ed alla pace
della mia cameretta
or che per poco a me d'intorno tace
l'urlo della vendetta.

E nel bacio de' miei, sincero e sacro,
il cor torna giulivo
e l'anima si monda in un lavacro
d'amor perenne e vivo.

Dal famigliare asil passa lontana
l'ira delle tempeste;
non qui, non qui della malizia umana
può fermentar la peste.

Qui, sulla fronte affaticata, un raggio
santo d'affetto piove,
qui riprendo la forza ed il coraggio
per le battaglie nuove;

le battaglie del ver colla menzogna,
dell'ombra con la luce,
dove il prete di Dio senza vergogna
l'odio a pugnar conduce.
==>SEGUE




ANNIVERSARIO

I.
Or compie l'anno e Monsignor gradiva
lieto, de' figli suoi l'omaggio e il dono
e nobilmente dall'altar bandiva
la parola di Dio: – «pace e perdono!

» Cristo ci perdonò quando moriva,
Cristo l'agnello mansueto e buono.
Con Giuda egli cenò che lo tradiva,
e di Pietro sorrise all'abbandono.

» Io son l'Unto di Lui che con la mano
e col cor generoso ha benedetto
l'adultera, lo scriba e il pubblicano.

» Io son fonte d'amor, fiamma d'affetto!
io sono il Padre rinnegato invano;
son la pace e il perdono. Iddio l'ha detto!» –



II.
Iddio l'ha detto e della sua parola,
preti di Cristo, mi ricordo anch'io,
che m'insegnaste da bambino a scuola,
a suon di nerbo la bontà di Dio.

Ma, col crescer degli anni, il tempo invola
all'anima il candor credulo e pio
e se dal petto vostro alzai la stola,
sempre un cor vi trovai peggio del mio.

Perdono e pace! E pur, se bene ho visto,
non confuse l'amor con la loquela,
ma il sangue sparse perdonando il Cristo.

Perdono e pace! Ma se un verso cela
l'ombra d'un cenno che ti sembri tristo,
sacerdote di Dio, mi dài querela!
MENTRE TUONA

I.
La mia povera vigna è così fatta
che la devo vangar tre volte l'anno,
potarla com va, pari ed esatta,
per legarla di poi, sempre a mio danno:

e non appena il sol me l'ha rifatta,
ci rimetto del mio sapone e ranno
tra zolfo e rame a mantenerla intatta
dalla nebbia, dal male e, dal malanno.

Quando i grappoli poi diventare neri,
tutta l'ira di Dio nel cielo accolta
sopra ci si rovescia e volentieri.

Ed allor buona notte! Addio raccolta,
addio tasse pagate, addio panieri,
serbati sempre per quest'altra volta!



II.
La vigna del Signor – quella; s'intende,
che piantata non fu dal Nazareno –
non chiede al possessor tante faccende
e compensa di più chi spende meno.

Sicuro il frutto dal suo tralcio pende
ingrossando alla nebbia ed al sereno
ed il mille per cento e meglio rende
per poco che le sia dolce il terreno.

Si coltiva in poltrona e senza costo,
non ci crescon l'ortica o la gramigna,
la grandine le sta sempre discosto.

e se chi passa, nel guardar, sogghigna,
c'è il Tribunale che' lo mette a posto...
Oh, la vigna di Dio, che bella vigna!
DE RE RUSTICA

Gallus in sterquilinio suo plurimum potest.
SENECA, Apocol.
I.
È mio quel gallo che alla prima luce
coll'ingrato cantar saluta il giorno
e già vecchio, spennato e disadorno,
pur la cresta insolente al sol produce.

Devasta i seminati e s'introduce
tra le siepi a rubar tutto il contorno,
indi all'usato sterquilinio intorno
le sue galline a razzolar conduce.

Poi quando vien la sera e son già sorte
pallide in ciel le prime stelle accese,
appollaiato sulle gambe storte

dice alle sue galline: – «Ora è palese
ch'io son tremendo, rispettato e forte
e la bestia maggior del mio paese!» –


II.
Io penso intanto: – «Se tirassi il collo,
per non vedermi guasto il seminato,
a questo gallo vecchio e spennacchiato
che quanto mangia più, meno è satollo?

E poi che ne farò? Se fosse un pollo,
benedetto l'arrosto e lo stufato!
Ma un demonio malsano ed arrabbiato
sul far di questo, non sarà mai frollo.

Lasciamolo campar! Vada all'inferno
se lo voglion le volpi o le faine,
o, se piace al Signor, viva in eterno!» –

Schiva il gallo così l'ultimo fine
e in virtù dello sprezzo e dello scherno
regna sovra i capponi e le galline.
PREDICA

I.
Sacerdote d'un Dio che non hai visto
ma di cui nel tuo rito il sangue bevi,
sacerdote di Dio che in alto levi
l'Ostia di pace simbolo di' Cristo:

se tu ci credi e se all'eterno acquisto
dei battezzati affaticar ti devi,
perchè, se il giusto al bacio tuo ricevi,
scacci l'errante e maledici al tristo?

Dolce del Figlio di Maria la voce
al nemico parlò come al fratello;
clemente all'offensor, mite al feroce.

Si tolse in grembo lo smarrito agnello
il buon Pastor che perdonava in croce,
e se la frusta usò, non fu per quello.



II.
Morremo entrambi e, se dicesti il vero,
al di là della terra e della vita
nella luce suprema ed infinita
ci troveremo in faccia al gran Mistero.

Nessun labbro facondo e lusinghiero
venderci allor potrà l'arte scaltrita,
nè mantel di monarca o di levita
potrà coprir la carne od il pensiero.

Io Gli dirò: – Dalla tua legge appreso
ho sol l'amore ed ho nel mondo amato. –
Tu dirai: – Maledissi e fui difeso. –

Io dirò: – Se soffersi, ho perdonato. –
E tu dirai: – Quando mi tenni offeso,
la Giustizia del Re m'ha vendicato –
Olindo Guerrini - ADJECTA - parte I
Pagina a cura di Nino Fiorillo           == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
BRANI DI VITA

di Olindo Guerrini
__________________
Usciti in prima edizione nel 1908 sono un libro di ricordi, in cui vengono raccolte alcune pagine già apparse in Brandelli. E’ una mescolanza di episodi piccoli e grandi, narrati con arguzia e scioltezza,che ci offrono un’avvincente spaccato di vita romagnola dei primi anni del ‘900. Tra bravate da studenti, bevute in osteria, passeggiate in montagna e quadretti cittadini, troviamo osservazioni che – rilette alla luce dei giorni nostri – non ci sembrano molto lontane dalla nostra esperienza. Qua e là spunta qualche nota malinconica, sul tempo che passa e gli amici che non ci sono più. Ma la certezza di aver vissuta una buona vita senza nulla di cui pentirsi fa quasi sembrare amica anche la fine che s’avvicina.
“Ahimè, di troppe cose mi ricordo! Riveggo tutta la mia vita passata con le sue gioie e i suoi dolori. Passo la rassegna delle opere e dei pensieri colla tristezza di chi non rivedrà più mai il tempo e le persone che furono e, sola mia consolazione, è l'assenza di ogni rimorso.
Scruto questa nebbia che mi cinge e mi conforto che al di là non lasciai nessuna colpa e seguito tranquillo questa via che mi conduce lentamente alla fine.... Ed ecco, anche il libro è finito!”
Si sa: quando si è scritto qualche cosa adversus gentes, viene la voglia di stamparla. Ricopiai la mia sconciatura in magnifica calligrafia e la portai ad un giornale che si chiamava l'Amico del Popolo. Era un giornale repubblicano: lo dice il titolo preso al giornale di Marat. Scritto da brave persone, aveva però il difetto di quasi tutti i giornali repubblicani d’allora, quello di parlare sui trampoli come i proclami. Aveva degli articoli di fondo scapigliati, infocati e sbraculati, e se non si fosse saputo che gli scrittori erano brava gente incapace di torcere un capello a nessuno per cattiveria, si sarebbe potuto credere che l’ufficio dell'Amico del Popolo fosse una tana di cannibali infermi mezzo d’idrofobia e mezzo di delirium tremens. E il Governo (i Governi, come i mariti, non sanno mai le cose bene) credeva proprio che in quelle innocenti camere terrene della Seliciata di Strada Maggiore ci campasse una masnada di settembrizzatori assetati di sangue umano, perchè periodicamente faceva cercare o arrestare qualcuno dei collaboratori. Che tempi erano quelli, dopo Mentana! I repubblicani confessi erano sempre aspettati nelle carceri di S. Giovanni in Monte e, tenuti pericolosi, erano però le persone più sicure della città, poichè la sera andavano a casa scortati dalle guardie di sicurezza vestite da uomini. Ma lasciamo andare.
Piano piano, con un po’ di tremarella, mi diressi all’antro dell'Amico del Popolo. Entrato sotto al portone, vidi un uscio con un cartello dov’era scritto Direzione, e dietro l’uscio si sentiva un rumore di voci, un pandemonio che ricordava una scuola di ragazzi in ricreazione. Bussai, due o tre voci mi dissero avanti, spinsi l’uscio, ma non vidi nulla.
Non vidi nulla perchè dentro c’era un fumo tanto denso che si sarebbe tagliato col coltello. Dieci o dodici pipe mantenevano quel nebbione nell’antro. Si capiva che c’era molta gente e si sentiva una voce misteriosa uscir dalla nuvola come la voce di Dio sul Sinai in caligine nubis. Rimasi ritto presso l’uscio e sentii la voce declamare un articolo di fuoco e di fiamme. È passato tanto tempo che non lo ricordo più, ma c’entravano il sangue, le fogne, la spada di Damocle, il toro di Falaride, eppur si muove, la cuffia del silenzio, Dionigi il tiranno, Torquemada, Polignac, i fulmini e le saette. Io rimasi un poco sconcertato in principio, perchè non mi pareva che la voce dicesse sul serio: ma quando sentii uscir dalla nube alcune altre voci d’approvazione, la presi sul serio anch’io e, tirato fuori un sigaro, collaborai col mio fumo a quello della comunità.
Dopo un po’ di tempo finì la declamazione dell’articolo di fondo, finirono le approvazioni, e i personaggi uscirono ad uno ad turo, involti sempre nella fitta nebbia di tante pipe. Mi avvicinai ad un monumento nero che travedevo in fondo alla camera e che giudicai un tavolo. M’immaginavo che dietro ci fosse il direttore del giornale, un buon diavolo che andò a finire, credo, nelle ferrovie, e che in quei tempi scoccava acutissime quadrella alle borse dei conoscenti. Offersi l’articolo, lo misi sul monumento che il senso del tatto mi assicurò essere proprio un tavolo, e non ebbi altra risposta che una lunga serie di grugniti che non sapevo se approvativi o improbativi. Quando ebbi finito di parlare, non sentendo di là del monumento nessun segno di vita umana, tornai indietro, e trovata la porta a tentoni, uscii all’aria aperta. Oh, come respirai largamente! Era ancor freddo, ed il vapore del mio alito mi pareva il residuo del fumo aspirato nell’antro.
Per alcuni giorni lessi assiduamente l'Amico del Popolo sperando di vedermi stampato ed ogni giorno mi portava una disillusione di più. Finalmente l’articolo apparve in appendice!
Così stampato, mi faceva un altro effetto, mi pareva più bello, e l’avrò letto dieci o dodici volte di fila. Non descrivo l’emozione e i palpiti dello sciagurato che ha peccato la prima volta in tipografia. Ferdinando Martini ha descritto tutto con un verismo così preciso, che mi rimetto a lui.
Pareva anche a me che tutti in quel giorno dovessero guardarmi. Ero superbo come Nabucco e guardavo d’alto in basso l’intera umanità. Pero, passeggiando fuori di porta, in un vicolo dove bisogna camminare con precauzione, vidi l'Amico del Popolo stracciato a pezzi e steso a terra come vittima di una faticosa battaglia. Torsi il viso e le narici con dispetto, quasi fossi stato personalmente offeso. Ahimè! Da che altezza precipitai!...
Questa è la vera e precisa relazione del mio primo passo sulla via della pubblicità.
Compiangetemi.

Olindo Guerrini trascorse l'infanzia a Sant'Alberto di Ravenna, dove il padre gestiva la farmacia del paese, e, dopo aver appreso in casa "i primi rudimenti di grammatica e di geografia", fu ammesso al collegio municipale di Ravenna. All'indomani dell'unificazione, il padre lo volle affidare al collegio nazionale di Torino, dove frequentò i corsi ginnasiali. Nel 1865 si trasferì a Bologna e si iscrisse a quella Università, laureandosi in giurisprudenza, nonostante lo scarso interesse che nutriva per quel tipo di studi. Nel 1866 fu arruolato come sergente nella guardia nazionale, ma non si mosse dalla sua regione.
Dalle numerose pagine autobiografiche che rievocano questi anni risultano, da un lato, un'insofferenza nei confronti delle regole troppo rigide e delle costrizioni più soffocanti che determina in lui atteggiamenti di vita scapigliata; dall'altro, un senso costante dei legami familiari e del lavoro, che ne rappresenta l'aspetto per così dire borghese. L'oscillazione fra queste due componenti non dà luogo nel G. a drammatici conflitti o insanabili lacerazioni, ma, smussando ogni eccesso o punta estrema, si compenetra in una più tranquilla adesione ai piaceri e ai doveri della vita, anche quando sembri prevalere l'oltranza provocatoria o polemica. È la matrice di un umorismo solo in apparenza problematico, che piuttosto si stempera nella bonomia scherzosa e nel rovesciamento comico, riconducibili spesso a una dimensione più propriamente provinciale e cittadina.
Nel 1877 il G. pubblicò a Bologna un volume di versi intitolati Postuma, attribuendoli a un fantomatico cugino, Lorenzo Stecchetti, che sarebbe morto di tisi a trent'anni. Le ragioni di questo sdoppiamento sono forse da attribuire al carattere crudo e provocatorio dei componimenti, che bene potevano esprimere gli sdegni e il malessere di un giovane scettico e disincantato, prematuramente destinato alla morte.
La misura di questa esperienza, piuttosto circoscritta e limitata (ma il successo di pubblico fu enorme, facendo registrare ben 32 edizioni dell'opera vivente l'autore), resta quella di una polemica che si richiama, nella maniera più esplicita e spesso scontata, alle ragioni dell'ideologia di sinistra, democratica e socialisteggiante (e comunque non anarchica o rivoluzionaria).
Sul piano della poetica il G. rifiuta e combatte il cosiddetto idealismo, che discendeva dalla tradizione tardoromantica, ossia da quella che F. De Sanctis aveva definito la scuola cattolico-liberale. Ai sentimentalismi più o meno edulcorati e castigati il G. contrappone una visione materialistica della realtà, aperta ai piaceri dei sensi e refrattaria a ogni metafisica: di qui, anche, il serpeggiare di una vena erotica e anticlericale che determinò accese reazioni cui egli replicò pubblicando, nel 1878, altri due volumetti, Polemica e Nova polemica , i cui versi si collocano sul medesimo registro, oltranzista e provocatorio, della raccolta precedente, riproponendone i modi e le forme.
Nel frattempo il G. era venuto pubblicando, su varie riviste, prose critiche e autobiografiche, dove si registrano impressioni e ricordi, immagini di incontri e di esperienze vissute. Se non mancano i consueti spunti polemici di tipo politico e anticlericale (ad esempio la condanna delle superstizioni e della degenerazione del culto dei santi), prevalgono tuttavia i toni di un bozzettismo scorrevole e arioso, facilmente godibile nella scioltezza di rappresentazione delle cose viste.
A ulteriore smentita di ogni immagine intemperante, lo stesso G. ricordava di aver vissuto, dopo il matrimonio, nel 1874, con Maria Nigrisoli (dalla quale ebbe tre figli: Angiolina, morta a quattro anni; Guido, futuro medico e cattedratico; e Lina), una "vita studiosa tra la biblioteca e la casa, badando all'educazione dei figli" e distraendosi "con lunghe gite in bicicletta, lavoretti di fotografia e cure di una sua villa a Gaibola".
Pubblicando, nel 1879, l'ampia monografia La vita e le opere di Giulio Cesare Croce,per la prima volta il G. ricostruiva con ricchezza di documentazione la personalità umana e culturale del cantastorie bolognese, sottolineandone, da un lato, i rapporti con l'ambiente sociale, e distinguendo, dall'altro, un tipo di poesia popolare-cittadina che sta fra la letteratura colta e la tradizione orale, con particolare attenzione alla ricerca delle fonti e alla risonanza presso i destinatari.
Alla passione per la fotografia e per la bicicletta si era intanto venuto affiancando l'interesse per la cucina: dalla conferenza all'Esposizione di Torino del 1883, su La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV, all'edizione del Frammento di un libro di cucina del secolo XIV . Sul finire della vita il G. lavorava a una raccolta di ricette sulla cucina povera, che uscì postuma con il titolo L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa .
Del 1897 sono le Rime di Argia Sbolenfi, dal nome di un personaggio bolognese trasformato dal G. in una macchietta caricaturale. La sedicente figlia di costui appare come autrice di versi che solo in minima parte toccano motivi poetici tradizionali. Sono, per la maggior parte, componimenti satirico-burleschi, da cui emerge una forte componente misoginica, alla quale fa da controcanto un linguaggio non di rado scurrile, soprattutto là dove il doppio senso sottolinea le smanie e le frustrazioni sessuali della protagonista-poetessa. Insieme con le sgrammaticature (oltre a non essere attraente, Argia è anche ignorante, soprattutto all'inizio), non manca la ricerca di soluzioni sperimentali (da un componimento in spagnolo maccheronico a un tipo di sonetto, definito sbolenfio, che consiste soprattutto nell'impiego di parole e rime sdrucciole).
Con un nuovo pseudonimo il G. sottoscrisse l'ultimo lavoro cui pose mano, le Ciacole di Bepi, attribuite a Pio X e pubblicate sul Travaso delle idee di Roma dal 1905 fino alla morte del pontefice; scritte e versificate in dialetto veneto, abbandonano i toni del consueto anticlericalismo per insistere piuttosto sugli aspetti umani di una figura che s'immagina rimpianga la vita di un tempo, sentendosi quasi prigioniera del ruolo cui è costretta.
(Giuseppe Zaccaria)

Guerrini usò una miriade di pseudonimi e inventò molteplici maschere per firmare molte delle sue composizioni. Il più noto è senza dubbio Lorenzo Stecchetti, firmatario di Postuma, Polemica e Nova polemica oltre che delle Rime. Varie le interpretazioni di tale pseudonimo: «probabilmente lo sedusse la cruda straziante disarmonia di quelle sillabe; gli piacque di fare un dispetto agli scrittori di moda, per cui lunga e sudata fatica è trovarsi uno pseudonimo carino piccinino da gala che riempia la bocca di fragrante dolcezza come una caramella alla vaniglia»; «Stecchetti è un nome parlante, allude cioè alla scheletrica magrezza del giovane consunto da tisi»
Un altro eteronimo famoso è lo shakesperiano Mercutio, adottato per alcuni componimenti sparsi sul giornale Il Matto e apparso poi sul frontespizio di Postuma.
Con Marco Balossardi, invece, Guerrini firmò assieme a Corrado Ricci il poema satirico Giobbe, che derideva Mario Rapisardi. Il cognome Balossardi ha la stessa radice del milanese baloss che vuol dire birbante. Altra maschera famosa fu quella di Argia Sbolenfi, una zitella dai desideri erotici spiccati, con la quale compose numerose poesie poi confluite nelle Rime di Argia Sbolenfi.
Bepi, invece, rimanda al veneto Giuseppe Sarto, uscito dal conclave con il nome di papa Pio X: con tale maschera Guerrini fece esprimere in veneto il nuovo papa. Nelle sue intenzioni, «Bepi voleva essere non la caricatura, ma l'interpretazione psicologica di Giuseppe Sarto nella vita segreta di uomo»
Senza dubbio minori sono le maschere di Odino Linguerri, anagramma di Olindo Guerrini, che firmò alcune massime sull'almanacco della birra Dreher e Giovanni Dareni, nella realtà un inserviente zoppo alla Biblioteca Universitaria di Bologna, sotto il nome del quale girarono alcune rime riunite nell'opuscolo Orribile fatto successo presso la Chiesa di Monte Calderaro, distante sette miglia da Bologna.


CHI SA PERCHÈ?

Nel tempio il buon Gesù vide un abietto
branco di mercatanti e di mezzani
che, come i nostri preti e sagrestani,
vendevan l'amuleto e il moccoletto.

Acceso allor di santo sdegno il petto,
prese un randello colle sante mani
e giù legnate che nemmeno ai cani...
Sia lodato in eterno e benedetto!

Di reliquie n'ho visto in ogni canto,
il vin di Cana, l'acqua del costato,
il sudore, il prepuzio, il sangue, il pianto.

Eppur per quante chiese abbia frugato,
nessun frammento del randello santo,
preti, chi sa perchè? non l'ho trovato.



VISSUTE INVANO

Povere suore,
chiudete il core,
coprite gli occhi
col vel raccolto,
chinate il volto
sino ai ginocchi!

Dal vizzo petto
l'ultimo affetto
v'hanno strappato
e il vóto forte
come la morte
v'ha mutilato.

Il cereo viso
senza un sorriso
s'affila e langue;
malsano e bianco
nel vacuo fianco
vi stagna il sangue.

==>SEGUE
MEDITAZIONE

I.
Nella valle giudea di Giosafatte,
nel dì che nuda mostrerem la pelle,
vescovi (che bellezza!) e pecorelle,
vecchie fetenti e giovani ben fatte,

in quel rimescolio di tante schiatte
diverse di colori e di favelle,
se Dio n'aiuti, ne vedrem di quelle
da restar con le ciglia esterrefatte!

Come? Il vivo color di quella faccia
ci parve giovinezza e fu pittura?
Come? Il tumido sen fu carta straccia?

Come? Colui che già facea paura
scagliando l'anatema e la minaccia,
era fatto con questa architettura?


II.
E peggio poi sarà quando vedremo
non solo ignuda la mortal carogna,
ma l'anima salir come alla gogna
senza l'ipocrisia d'un velo estremo,

e dolorosa innanzi a noi l'udremo
intera confessar la sua vergogna
scoprendoci il mister della menzogna
ch'ebbe l'impero e meritava il remo.

Oh, sciagurato allor chi la mercede
numerò del peccato e fu convinto
che ben s'acquista in vendicar la Fede!

Oh, nel giorno tremendo e nel recinto
della valle fatal, per chi ci crede,
misero il vincitor, beato il vinto!
FIDENTIANA

I.
Se contingesse mai che da 'l Pontefice
fussi Episcopo facto in Concistorio,
dormiterei pedendo in faldistorio,
potato et pasto abunde et honorifice;

inde, concusso, erigerei mirifice
le Spezie di Jesù ne l'Ostensorio
et quidem la Sequenza e 'l Responsorio
pulcre concinnerei come un artifice.

De l'util Fede il sacro sancto semine
infunderei così cum diligentia
parum ne' maschi et salde ne le femine;

Sed heu! che non son io quella Excellentia
che preme il throno cum le cluni gemine
et li psalmi di Dio cane in Faventia!


II.
Cane ducendo le capelle al pabulo
per lo itinere sacro et infallibile,
sì che, flexo, il propinquo hirco terribile
non quate più le corna e 'l tintinnabulo.

Mite cum Beniamin come cum Zabulo,
la dulcedine Sua pare impossibile;
ma ne 'l prelio di Dio, mile invincibile,
co 'l solo aspecto fa spavento a 'l Diabulo.

Sed mox, alfin la Sua Mansuetudine
il petaso vedrà d'Eminentissimo
evadendo di poi Beatitudine...

Ehu, tunc; Te quaeso, Pastor mio sanctissimo,
cedimi el pallio tuo per gratitudine
et San Jovese havrà culto dignissimo!!
PELLEGRINI

I.
Non un'ombra di palme all'orizzonte,
sul candor delle sabbie arroventate,
non una nube in ciel, non una fonte
per le povere turbe affaticate!

Come il Profeta volle, accorser pronte,
lacere, macilenti ed assetate,
ma con la speme in cor, la fede in fronte,
benedicendo Iddio che l'ha chiamate.

E i pellegrini dell'Amor superno,
i docili al voler del Sovrumano,
hanno le piaghe del martirio a scherno.

Che val se d'ossa è seminato il piano?
Chi muore nel Signor, vive in eterno...
Questa è la fede falsa ed è il Corano.


II.
Monsignor che s'annoia in prima classe
a sbadigliar coi salmi dell'Uffizio,
dice: – I fedeli miei pagan le tasse
perchè la ferrovia faccia il servizio

ed invece il cuscino è come un'asse,
l'imbottitura è peggio d'un cilizio
e, senza molle, le mie parti grasse
non me le sento più. Sono al supplizio!

E poi, la cioccolata era brodosa,
il consommé pareva stato in gelo...
Ah, che martirio, giurammio, che prosa!

Certo che il pellegrin soffre pel cielo,
ma il comodaccio suo, che bella cosa!... –
Questa è la fede vera ed è il Vangelo.
DAL VERO

Ieri conobbi la Giustizia. Stava
in un tugurio lurido ed infetto,
su certe sedie reduci dal ghetto
che la pidocchieria contaminava.

Tra la veglia ed il sonno interrogava
dei cafoni col gergo e col dialetto
e, miagolando in tono di falsetto,
se stessa, gli altri e il Tribunal seccava.

Poi ghignando mi disse: «Io t'ho legato
le man, la lingua, i piedi e del tuo scritto
nulla davanti a me voglio provato.

Io t'ho messo il bavaglio e t'ho prescritto
che non possa nemmen tirare il fiato.
Or difenditi pure. È il tuo diritto»

DE PROFUNDIS

Poveri morti miei, che mi chiamate
con voi dalla remota oscurità,
vorrei vivere ancor poche giornate
per questi figli e poi venir costà.

Il mio santo dover sarà compiuto
quando il nido potranno abbandonar,
quando nel dì dell'ultimo saluto
tranquillamente li potrò baciar.

Allora, oh allora chiuderò contento
gli occhi che il sol non rivedranno più
e il capo piegherò senza un lamento
per questa vita che crudel mi fu.

Poveri morti, e voi m'accoglierete
come il figlio lontan che ritornò:
quel che avviene quassù domanderete
e come in sogno vi risponderò.

Nel mondo che lasciai, poveri morti,
l'uomo e la donna son malvagi ancor,
portan la croce i deboli pei forti,
la vita è piena d'odio e non d'amor.

È segno di virtù l'esser crudele,
segno di debolezza è la bontà.
Si mangia in ogni casa il pan col fiele,
agro di bile e di perversità.

==>SEGUE
Nelle nicchie romite e tenebrose,
L'istinto del dover più non rimane
dove la Borsa le sue porte aprì.
Se lavoro non c'è, rincara il pane
e se il volgo ne muor, meglio così.

La terra pei ladroni è paradiso
e le commende fan rubar di più.
Il ministro di Dio s'è circonciso
e tien banco all'insegna di Gesù.

Che se tarda dal ciel vien la saetta
e il Sant'Ufficio mal si regge in piè,
i vescovi oramai chiedon vendetta,
per uno scherzo, ai Giudici del Re.

Fino al Genio latin sincero e sano,
che vivea di giustizia e verità,
Zaratustra parlò che al Sovrumano
dice bello il delitto e la viltà.

La rea fortuna e le stagion mutate
han guasto l'aria ed hanno infetto il suol,
l'inverno è caldo e nevica l'estate,
la terra è stanca e si raffredda il sol.

Così la vita non ha più conforti
di fede, di bellezza e carità...
Oh, meglio, meglio assai, poveri morti,
dormir nel buio de l'eternità.

Meglio dormir dove il silenzio serba
la maestà solenne del dolor,
meglio dormir con voi, là dove l'erba
cresce tacendo e non si coglie il fior.

Eppure... ahimè, felicità perfetta
nemmen tra i morti ritrovar si può!
Non conoscono ancor la bicicletta
e allora non c'è gusto! Aspetterò.
________________________
XX SETTEMBRE

Diceva un Monsignor: – «Se il calendario
non segna una bugia,
oggi è il Venti Settembre, anniversario
solenne a Porta Pia.

Oggi l'alloro, l'inno e l'orifiamma
trastullano i Romani
ed oggi il Re spedisce il telegramma
pei fogli di domani.

Come tutto mutò! L'istessa breccia
che pareva un tracollo
fu rovina di pietre alla corteccia
che non toccò il midollo.

Prima, s'intende, facevamo i morti,
ma lavorammo poi
e quando i furbi se ne sono accorti,
comandavamo noi.

Ma ce ne volle! I Santi e le Madonne
furono il primo saggio,
col Viva il Papa-Re delle pie donne
giunte in pellegrinaggio.

Congressi, banche, fraterie, giornali,
ci dieder poi buon frutto.
Guadagnammo Consigli e Tribunali,
entrammo da per tutto.

Ora insegnam de' framassoni ai figli
di Don Bosco i prodigi
e solitari a Mondragone i gigli
cresciamo a San Luigi.

Ah, il vecchio regno, il piccioletto mostro,
ormai chi più lo stima?
Oggi l'Italia intera è regno nostro
e stiam meglio di prima!

Manca soltanto un po' d'Inquisizione,
ma la vedremo presto...
Sia benedetta la rivoluzione,
la breccia e tutto il resto!» –

Ah, Monsignore, attento alle voltate,
se no l'asino casca.
Di questo calmo ciel non vi fidate;
può venir la burrasca.

==>SEGUE
Badate, Monsignor, che la grandezza
non vi serva d'intoppo.
Il soverchio tirar la corda spezza
e voi tirate troppo!

Badate, Monsignor, che se a raccolta
la vecchia tromba suona,
se apriremo la breccia un'altra volta,
sarà la volta buona!



FESTA DEGLI ALBERI

Le piante giovinette, o madre terra,
noi commettiamo al tuo grembo fedel.
Salvale tu dal foco e dalla guerra,
dalla rabbia degli uomini e del ciel.

Fa che crescano al sol tra i fior vermigli,
simbolo di fortezza e di beltà.
Alleva, o madre terra, ai nostri figli
l'albero santo della libertà!



SUB SYDERA POLI

I.
Dalle brume del ciel, sottili e fioche,
le stelle guardan la deserta ghiaccia;
nell'ombra sepolcral taccion le roche
volpi, strisciando alla notturna caccia.

Dormon l'anatre bianche in sulle poche
alghe del nido che la neve agghiaccia;
sul desolato pian russan le foche
poi che lungi dell'uomo è la minaccia.

Candida l'orsa scivola tra i massi
del ghiaccio secolar, quasi per tema
d'esser tradita dal fruscìo dei passi:

e in fondo alla polar pace suprema,
nessun urlo di Vescovo che passi
il raca vomitando e l'anatema!
II.
O pura, eterna ed ineffabil pace
che drizzasti da noi sì lunge il volo,
dunque più non vorrai l'ala fugace
volger benedicendo al nostro suolo?

Dunque il Verbo di Dio parlò mendace
se a regger l'alme l'Iscariota è solo,
se il tuo viso immortal s'asconde e tace
nella deserta immensità del polo?

Ah no, torna con noi! Lascia l'incanto
dei silenzi nevosi, ove natura
par che in ghiaccio converta il nostro pianto!

Torna! Brillan le falci alla pianura
e sale al ciel de' mietitori il canto...
la sacra messe a chi sperò, matura!

PARETAIO CRUSCHEVOLE

Ad Alberto Bacchi Della Lega.
I.
Avacciati, Masin; le ragne appanna
e i giochi assetta, imperocchè non piove.
Appaia il Ribaltone e il Montegiove
dietro la vite della salamanna.

Che se lo mio volume or non m'inganna,
oggi si vuol passar sessantanove...
zirlano i tordi!... o tu lo vedi?... o dove?...
Ha fatto il campanil, sorte tiranna!!

Guata, guata, Masin. Dietro lo spazzo
quiritta, tra la quercia e tra l'abete,
hacci covelle! Scopri lo stiamazzo!

Deh, Masino, che stai? Tira la rete,
c'è!... come è nero!... com'è grande!... ah... pazzo,
m'era sembrato un tordo ed era un prete!


LEGGENDO UNA ENCICLICA

Dice la quarta pagina: – Lettori,
la nostra inalterabile tintura
restituisce alla capigliatura
il lucido, la forza ed i colori.

Approvata da tutti i professori
è inoffensiva, pratica e sicura;
una bottiglia basta per la cura.
Guardarsi bene dai contraffattori.

Dice il Papa: – Il rimedio radicale,
brevettato e premiato con medaglia,
è il mio che sana ogni e qualunque male.

Rinforza i buoni, purga la canaglia
e rende al Papa Roma e il Temporale.
Effetto garantito. Unire il vaglia.



DIVORZIO

Gridano i preti: «Ecco un novello sfregio
alla sposa di Dio l'inferno appresta!
La legge sul divorzio è un sacrilegio!
La ricerca del padre è disonesta!»

Indi chiaman le donne, onore e pregio
di Santa Chiesa, a scriver la protesta
contro l'infamia del Governo Regio...
Ma la ragione degli sdegni è questa:

che se un prete, quest'oggi, a fin di bene,
genera un figlio con la moglie altrui,
c'è un marito che paga e lo mantiene.

Ma se la legge libera costui,
se il figlio può cercar di dove viene,
povero prete! allor chi paga è lui!
Poi sulla carne rotta e palpitante
mise per condimento aceto e sale,
il manigoldo! e mi dicea: – Birbante,

sei dunque tu che osasti in un giornale
empio, scomunicato e maledetto,
un Vescovo trattar come un mortale?

Sei tu, bestemmiator, che in un sonetto
offendesti la sua Magnificenza
e parlasti di lui senza rispetto?

Disinteresse, carità, prudenza,
a farti condannar l'han consigliato:
or degli scherzi tuoi fa penitenza.

Starai qui fra le biscie incatenato,
in questa buca sozza e nauseante,
nudo, sempre allo scuro e bastonato.

Avrai per cibo scarso e rinfrescante
la simbolica fava, il duro cece
e il fagiolo canoro e petulante.

Qui legger libri non potrai, ma invece
mai non ti mancherà la Santa Messa.
Accidenti ai sonetti e a chi li fece!

Non c'è pietà per chi non si confessa
e se non chiedi a Monsignor perdono,
la colpa mai non ti sarà rimessa! –

Disse ed uscì. Di quella voce al suono
io mi tenni perduto e disperai
e in un'ora di strazio e d'abbandono

piansi, come vedete, e m'impiccai.
_______________________
ELEZIONI

Musa mia dolce, che le alterigie
de' carmi arcigni non hai sul viso,
tu che rallegri l'ore mie grigie
di stravaganti scoppi di riso
e volentieri mostri la pelle
dai larghi strappi de le gonnelle,

musa mia dolce, vieni, discendi
alla solinga mia cameretta;
avida ai baci le labbra tendi,
libera i lacci della fascetta,
sciogli la chioma bruna e ricciuta
e chiudi l'uscio. L'ora è venuta,

l'ora in cui l'odio fermenta e invade,
lurida peste, le menti e i cuori;
in cui la gente giù per le strade
rutta bestemmie, rece rancori
e, masticando laide querele,
inghiotte o sputa veleno e fiele.

Ognuno in queste turpi giornate
morde o calunnia, froda o minaccia.
Lo sterco e il fango colto a manate
all'avversario si scaglia in faccia.
Riddano in piazza, lerci e impudichi,
spie, deplorati, ruffiani e plichi:

e i giornalisti, tinta di loia
la meretrice penna d'acciaio,
pur che sia piena la mangiatoia
vendon la feccia del calamaio
per imbrattarne l'onore altrui,
quasi superbo che paghi Lui.

Indi, nell'ora concessa al vóto,
cupi, nervosi, san gli elettori,
parlando basso con viso immoto,
guatando come cospiratori
e in ogni canto dice un cartello:
Votate questo!... Votate quello!...

Entro la sala buia e fetente,
sozza la gromma vernicia i muri
e intorno a un desco men che decente
seduti in cerchio cinque figuri
veglian con l'occhio cogitabondo
l'urna di vetro dal doppio fondo.

==>SEGUE
S'apre la chiama. Nel pigia pigia
vota ciascuna pecora sciocca.
Ardono alcuni di cupidigia,
ad altri l'ira torce la bocca,
ma quasi tutti, dopo votato,
palpano il prezzo del lor mercato;

e tutti, uscendo, da un reo contagio
attossicato sentono il cuore.
Chi entrò dabbene n'uscì malvagio,
chi entrò ribaldo n'uscì peggiore,
chi vinse, il turpe bottino aspetta,
chi perse, spera nella vendetta.

Ecco i comizi! Di quando in quando,
se non accade qualche sinistro,
dall'urna falsa sbuca onorando
un frodolento caro al Ministro,
o un imbecille pien di commende;
e l'un si compra, l'altro si vende.

Or perchè debbo far da mezzano
all'ingordigia di Calandrino?
Perchè mi debbo lordar la mano
scrivendo il nome d'uno strozzino?
Perchè gettarmi nella battaglia
sotto gli sputi della canaglia?

Musa mia dolce, sulla tua faccia
ride un giocondo color di rosa.
Passerò lieto fra le tue braccia
il giorno laido, l'ora schifosa.
Sciogli la chioma bruna e ricciuta
e chiudi l'uscio. L'ora è venuta.

SERENATA ELETTORALE

È notte. Il conte Gròsoli si desta
in una posa, che non è ordinaria,
cioè coi piedi al posto della testa
e le reni per aria.

In camicia così, cogitabondo,
dice il rosario e medita l'impresa
di convertir, non che Ferrara, il mondo
ai dogmi della Chiesa;

quando, ad un tratto, ascolta per la via
un coro di lamenti e di preghiere...
Son fedeli che vanno in compagnia
cantando il Miserere!
==>SEGUE
Dio sia lodato! Il conte allor s'affaccia
al balcone in sottile abbigliamento
e, spalancando le gagliarde braccia,
grida: «o stelle, che sento?

» Chi siete, o pellegrini, e dove andate?
A Roma forse, a Roma pontificia?
O fratelli, per Dio (Bacco), parlate
presto! Sono in camicia!»

Risponde il coro: «Ahimè! Fummo galletti
fatti capponi per comun vergogna
e fu, purtroppo, il Cavalier Minghetti
che ci castrò a Bologna!

» Quando il libero Stato era di moda
peccammo, come Lui, malvolentieri
e qualche penna della nostra coda
donammo ai bersaglieri.

» ma il grano era per noi; ma nella stia
noi dettavam la legge al popol fido,
quando i ribelli ci cacciaron via
e siam fuori del nido!

» Così nel grembo dell'antica fede
tornando e al culto de' ministri suoi,
a maggior gloria della Santa Sede
veniamo a' piedi tuoi.

» Miserere, Signor, dei nostri falli
e nella immensità de' tuoi poteri,
se di capponi non puoi farci galli,
facci almen Consiglieri!

» Deh, conte, ora che sai le nostre pene,
aiutaci ad uscir dal ginepraio
ed insegnaci, tu che la sai bene,
la strada del pollaio!»

Udendo il conte dei pentiti il duolo,
ebbe un sorriso arguto e perspicace,
poi, moderando alla camicia il volo,
disse: «me ne dispiace!

» La strada è questa, ma evitate il bosco
e andate dritti per la via maestra.
Del resto, mascherine, io vi conosco!!!»
E chiuse la finestra.
____________________



PEI LIBERALI PENTITI

Lodiamo Iddio col cuore e col midollo
dell'anima e dell'ossa.
I penitenti con la corda al collo
ritornano a Canossa!

Pei fangosi sentieri e per le vie
già poste in abbandono,
con un lungo alternar di litanie
vanno a chieder perdono

ed il Pastor che lega e che discioglie
il cielo a suo talento,
apre le braccia e nell'ovil raccoglie
il ravveduto armento.

Il terror della colpa e del peccato
aperse gli occhi a tutti.
Oh, il prete che di notte ha seminato,
coglie di giorno i frutti!

Al tuo piè genuflesso eccoti a squadre
il popol tuo devoto;
deh, non negargli, o male offeso Padre,
la carità del vóto.

Scorda il venti settembre e le bandiere
e i discorsi imprudenti.
Già i tappeti eran pochi alle ringhiere
e i lumi quasi spenti.

Non lo faranno più: ma poi che reggi
le sorti d'Israele,
non far che salga del Comune ai seggi
il popolo infedele.

Scegli tra i penitenti! Abbandonati
lascieranno i migliori,
contenti assai se gli ultimi soldati
godranno i tuoi favori,

e benedetti poi dal Santo Erede
e Successor di Pietro,
se sono indegni di baciargli il piede,
gli bacieran... didietro!

Eccoli! Guarda! Barattando i pegni,
combinaron l'affare
coi Padri Gesuiti. Ecco i sostegni
del trono e dell'altare!

Li credesti campioni e cavalieri
de' tuoi colori santi,
mentre il core, la faccia ed i pensieri
eran di zoccolanti;

ed or che infido si mostrò al comando
l'esercito fuggiasco,
ritornano all'ovil, cappuccinando
per la via di Damasco

e riprendono il basto e la catena
colla fronte dimessa...
Ah, liberali dalla pancia piena,
andate a servir messa!

Noi no! Noi colla fronte alta e diritta,
dopo il dover compito,
non curiam la vittoria o la sconfitta!
Noi non abbiam tradito!

LA GOCCIA

DA V. HUGO

La sorgente cadea giù per la roccia,
giù nel tremendo mare, a goccia a goccia,
e il mar tremendo che le navi infrange,
disse: – che vuol da me costei che piange?

Io sono la tempesta e lo spavento!
giungo dove finisce il firmamento.
Io son l'immensità dell'orizzonte,
che bisogno ho di te, povera fonte? –

E la fonte rispose al mar tremendo:
– l'amara immensità non ti contendo,
ma ti do quel che non sapresti avere:
una goccia ti do che si può bere. –
VIA CRUCIS

Se un infame ladron dalla montagna
cala co' suoi pidocchi alla pianura
e trafficando della sua compagna
ne cava assai da esercitar l'usura,

al primo scudo che così guadagna
insegna l'arte alla progenitura:
la cresce ladra, sordida, taccagna
nei coperti sentir dell'impostura.

Poi la veste da prete e l'accompagna
passo passo dal trivio alla tonsura,
fino a che giuri il falso in cappa magna.

Così per forza d'arte e di natura
uno scagnozzo reo d'ogni magagna
ottiene i fiocchi della prelatura.

allor che un vento nero, da gli aridi
monti di Giuda, soffiò su i popoli,
curvò le loro teste a 'l suolo,
rovesciò i templi, distrusse l'are,

e i simulacri giocondi caddero
de gli arsi lauri sopra le ceneri.
Cessaron gl'inni e il dolore
pesò su 'l mondo de i penitenti.

Dove le ninfe procaci tesero,
chiedendo amore, le braccia rosee,
fu visto ghignare il Nimico,
furon sentite grida d'inferno,

e l'uomo pianse stancando gli omeri
sotto la croce per lunghi secoli,
non più regnator de la terra,
ma servo abietto di vane fole;

quando là dove l'onda cerulea
de 'l Reno a 'l Tauno corre più rapida,
là dove ne' fonti e ne' cori
viveano ancora le bianche ondine,

un uomo curvo sopra le tessere
di piombo, assorto ne la nova opera
de 'l torchio, rinvenne il segreto,
trovò la forza liberatrice.

A poco a poco, su da le pagine
impresse, vivo levossi l'alito
d'una giovinezza novella
e il santo grido de la rivolta.

A poco a poco gli dèi rivissero,
mentre i fantasmi giudei svanivano,
e l'uomo, gittato il cilicio,
si sentì ancora signor de 'l mondo.

Te benedetto, per cui siam liberi,
per cui siam grandi, torchio di Guttemberg!
Benedetto il tuo sacro legno,
poi ch'egli vinse quel de la croce!
_________________


CAIAPHAS

Numeri e palpi l'oro
con la mano che liscia ed accarezza.
La vista de 'l tesoro
è la tua voluttà, la tua dolcezza

e chi sa da che fogna
a le fauci de 'l reo scrigno è colato!
Chi sa da qual vergogna
con la fetida man l'hai razzolato!

Ma per chi l'ha raccolta
la moneta non pute e non ha orecchi.
L'usura non ascolta
pianto di bimbi o gemito di vecchi.

L'onor de le fanciulle,
il lavoro de i padri, il pan de i figli,
tombe, talami, culle,
ghermiscon tutto i tuoi rapaci artigli.

Che importa se il denaro
fu salario di ladri o d'omicidi?
È molto, e con l'avaro
occhio a goder lo torni e gli sorridi.

Ma quando il tuo sorriso
mostra più il gaudio de 'l desìo satollo,
ecco, a notte, improvviso,
Satana viene che ti torce il collo.
Da l'avarizia vinta e da 'l peccato
la tua fede morì povera e nuda.
Oggi ne 'l nome tuo regna Pilato,
governa Giuda.

EPIFANIA

Nella profonda tenebra
passava il disperato urlo del vento;
sulla terra pesavano
la neve, la miseria e lo spavento,

quando una fiamma vivida
arse nel ciel come una immensa face
e un santo coro d'angeli
cantò: «A Dio gloria ed alla terra pace!»

Lieti i pastor salirono
sotto quel lume per la via deserta
e doni assai recarono,
poichè fede non v'ha senza l'offerta.

Ma quando i Magi udirono
l'inno di pace andar per l'universo,
ebber paura e dissero:
«Se l'inno canta il vero, il regno è perso!»

E sui cammelli posero
molt'oro, poca mirra e meno incenso
ed a Betlemme vennero
in carovana, pel deserto immenso.

Giunti i Re dentro al misero
presèpe, albergo dell'Amor divino,
i doni anch'essi offrirono,
adorando la Madre ed il Bambino:

ma pur curvati ed umili,
volsero gli occhi attentamente intorno
e, visto quel che vollero,
ripresero la via col nuovo giorno

e consolati dissero:
«Finchè l'asin digiuna e il bue lavora,
» per noi non c'è pericolo
» e i nostri figli regneranno ancora!
_________________
PER LAUREA

Quando il ciuco sentì lenta la briglia,
come tra i ciuchi avvien, divenne ardito,
digrignò i denti ed inarcò le ciglia,
ragliando che il saper morìa fallito;

e l'altre bestie della sua famiglia
d'ogni pel, d'ogni razza e d'ogni sito,
si trovaron d'accordo a meraviglia
tutte nell'applaudir lo scimunito.

Ma tu che ormai con l'occhio e col pensiero
vedi quel che veder non può costui
e della vita intendi il gran mistero,

or deridendo l'ignoranza altrui
per la via del saper raggiungi il vero
e mostri al ciuco che il fallito è lui.




EGOISMO

O fortunato chi sa viver bene,
mangiar, bere, dormire allegramente,
intento solo a canzonar la gente
che i vizietti e le donne gli mantiene,

non lavorare e aver le tasche piene,
esser somaro e comparir sapiente,
non pagar punto ed incassar sovente,
esser birbante e comparir dabbene

e sapersi cavar tutte le voglie
senza soffrir di scrupoli indiscreti;
curar la pancia e non sentirci doglie,

tutti saper del prossimo i segreti,
esser caro al marito ed alla moglie...
Ah, come l'hanno indovinata i preti!

Ma se lungi dal campo e dal nemico
oggi venni a posarmi,
domani all'ombra del vessillo antico
pronto sarò con l'armi.

Tu santa libertà, se ancor lo puoi,
mi sarai guida e scorta.
Se vinco, il vero vincerà con noi
e se cadrò, che importa?

Soldato umil che nel combattimento
le rime al verso intreccia,
ammazzato da un prete a tradimento
morirò sulla breccia.



PER UN «NUMERO UNICO»
VENDUTO PER BENEFICARE

Quando la Carità stende la mano
pietosa e per chi soffre ausilio implora,
la politica ladra e traditora
la spia cupidamente da lontano,

indi sfodera l'ugna e piano piano
ruba l'oro raccolto e lo divora;
Calabria il sa che se ne duole ancora
e grida il nome de' suoi ladri invano!

Ma qui, perchè temer? Non hanno impero
qui de' preti le fraudi o la rapina,
ma il cor non mente e l'animo è sincero.

Ciò che ai dolenti carità destina
va per aperta via, dritto ed intero,
dove il pianto l'aspetta e la rovina.
CIARLE

I.
Mi son lasciato dir: – «Ma, non t'avvedi
che non ci garban, più questi sonetti,
questi epigrammi a coppia, in cui ci metti
quel sempiterno Monsignor tra i piedi?

La storia è lunga ormai più che non credi,
le tue son rifritture e non concetti.
Altro vogliam da te, vecchio Stecchetti,
e le fischiate avrai se non provvedi».

Via, non avete torto, anzi consento
che vi cominci a diventar stantìo
questo reverendissimo argomento;

ma se del poco e vil denaro mio,
Monsignor che lo palpa è pur contento,
lasciate un po' che me lo goda anch'io.


II.
Era un duello. Egli m'avea sfidato
prefiggendomi l'armi, il luogo e l'ora.
Io, povero babbeo, ci sono andato,
ma il prode sfidator non venne fuora.

Vidi un procurator, qualche avvocato
e i Giudici del campo in mia malora.
Han discusso, han dormito, hanno sudato,
ma il prode sfidator l'aspetto ancora.

Solo i padrini suoi disser: – «Sentite:
il condottier che le Romagne ha dome,
oggi non può venir. Soffre d'otite». –

Otite? Io le darei tutt'altro nome
e se siamo d'accordo, acconsentite
ch'io mi diverta col malato... e come!
II.
– Dica, Don Pietro, mi doventa matto
che aiato se ne va per la mia tesa? –
– Oh, scusi! Andava al mattutino in chiesa
e così, per la via, sono distratto. –

– Vien dal ròccolo suo? Quanti n'ha fatto? –
– Eh, mica troppi. Trenta in una presa. –
– Poffare Iddio! Di qui, con tanta spesa,
non riesco a fermar nemmeno il gatto! –

– Lo so, ma glielo dico apertamente;
ella non ferma un pigliamosche al volo
perchè questo mestier vuole altra gente.

Dottor mio caro, per tirar l'aiuolo,
lo stampi pure e se lo metta in mente,
val per cento di loro un prete solo. –

LEGENDA TRIUM SOCIORUM

Corpulento, paffuto e crapulone
dice a' compagni suoi frate Giocondo:
«Credo che la miglior carne del mondo
sia quella del cappone».

Ma ritto e sodo come una colonna,
con l'occhio incantator del basilisco,
frate Lupo risponde: – «Io preferisco
la carne della donna»;

e fra' Leon, che tra le zampe sue
stringe il boccal ricolmo e lo carezza,
conclude: – «Quanto a me, nell'incertezza
le adopro tutt'e due».
ELEGIA

– Amici, addio! Col vostro amaro pianto,
col fraterno dolor non contristate
questo ch'io vi consacro estremo canto!

Al tragico destin m'abbandonate
serenamente! Siate forti e grandi!
Nessun per me deve morir. Giurate!

O chiaro sol, che su la terra spandi
il calor della vita e con i santi
raggi le fiamme dell'amor ci mandi,

o chiaro sol, che i tuoi sublimi incanti
agli occhi de' mortali hai conceduto,
che dài polline ai fior, baci agli amanti,

che nel profondo ciel fermo hai veduto
i secoli passar come giornate,
o sole, o dolce sole, io ti saluto!

Ah, moglie, ah, figli miei, non lagrimate!
Forse, chi sa? ci rivedremo ancora.
È più clemente Iddio che non pensiate!

Un bacio, figli, un altro bacio! Ed ora
mi stringa il birro le catene ai polsi
e de' rei mi trascini alla dimora! –

Così parlai nel punto in che mi sciolsi
dai replicati amplessi e d'esser forte
più che Regolo istesso in me risolsi.

Fieramente portai le mie ritorte,
superbamente al cielo alzai la fronte,
regalmente sorrisi alle mie scorte.

La turrita prigion s'ergea sul monte
squallida e cupa ed allorchè v'entrai
udii levarsi cigolando il ponte.

Nel fondo della torre ivi calai,
e solo, stanco, pesto e scorticato,
sul fracido terren mi coricai,

ma non aveso ancor ripreso il fiato
che mi si fece addosso un aguzzino
con un nerbo di bue ben lavorato.

Come per forza mi cacciò supino
e con quel nerbo me ne diede tante
che qui, guardate, sono ancor turchino.

==>SEGUE
PEI LIBERALI RIPENTITI

Dunque sui nostri colli, e me n'incresce,
dunque nel piano antico,
non si torce più corda e più non cresce
un albero di fico?

Eppur c'è Giuda che gli artigli avari
apre all'ingordo acquisto;
c'è il prete che gli dà trenta denari
perchè gli venda Cristo!

Ma no. La corda, per mestiere antico,
dovete farla voi
e insaponarla bene. In quanto al fico,
ci penseremo noi.

Lo pianteremo colle nostre mani
presso la vostra porta,
come simbolo e stemma, oggi o domani,
che il tempo non importa:

ma l'onor vostro e delle vostre schiere
vi penderà impiccato,
patriottardi dalle due bandiere,
e onesti... a buon mercato.

E sia! L'Italia offriste al Sant'Ufficio
come bagascia ed ora
chi vergogna non ha del meretricio,
lo vóti, in sua malora!

PEI LIBERALI PENTITISSIMI

Non è più il tempo di tramar congiure
in congreghe notturne.
Ora chi vuol tradir, tradisca pure
nel segreto dell'urne;

ma chi non volle arruffianar promesse
o trafficar parole,
chi non seppe mentir per interesse,
parli – ed in faccia al sole –

e dica: ora tu sai, vecchia Bologna,
la verità dov'era!
or conosci la frode e la menzogna
di chi voltò bandiera!

==>SEGUE
III.

ADJECTA

parte I
OLINDO GUERRINI
II.
INTERLVDIVM
... Minuentur atrae
Carmine curae.
HORAT. IV, II.
IL MIO RITRATTO

Io conosco l'applauso e la fischiata,
lo schiaffo e la carezza, il bacio e il morso,
il velen del pensiero e del discorso,
la calma della fede intemerata.

La strada del dolor l'ho insanguinata,
il sentier della gioia io l'ho percorso,
ho bevuto la vita a sorso a sorso
e depongo la tazza ormai vuotata.

E pur se con la mente alla passata
età ritorno ed al cammin trascorso,
la mia serenità non è turbata.

Seguon l'anima e l'occhio in alto il corso
lieve del fumo con la pace usata
e in fondo del bicchier non c'è rimorso.

DICEMBRE

Nel ciel grigio e sonnolento
è una gran malinconia,
e la neve senza vento
muor nel fango della via.

Un mortale increscimento
assalì l'anima mia;
agghiacciato il cor mi sento
nel sudor dell'agonia.

Muore il giorno e al mondo invia
un addio che fa spavento,
un singhiozzo d'elegia.

Muore l'anno e lento lento
nel languor dell'etisia
l'amor nostro, ecco, s'è spento!

ANNO NUOVO

Ecco nel plumbeo ciel mesto s'avvia
verso i regni del nulla un anno ancora
e men triste a se stesso ognun desia
l'anno che nasce con la nova aurora,

ma indarno. Ai sogni della fantasia
benigno il cielo non sorride un'ora.
Della vita mortal dura è la via
e il tempo per passar non la migliora.

L'anno che nasce una speranza porta
sempre con sè che a confidar c'invita
e l'anno vive ancor quand'ella è morta.

Una miseria non è ancor finita
che viva dal suo ceppo un'altra è sorta...
Sperare e disperar, questa è la vita!

MERIDIES

Al sol di luglio disperatamente
friniscon le cicale;
dagli arsi prati vaporar si sente
una fragranza calda e sensuale;
nel meriggio fulgente
aleggiano l'idillio e il madrigale.

Gentil beltà da la fiorente gota,
ascolta. Ecco, risuona
nel deserto sentier la voce nota
che sì spesso d'amor teco ragiona.
Gitta l'anfora vuota,
accorri sorridendo e t'abbandona.

Egli ti dice: a che più tardi? Andiamo
de l'ombre amiche in traccia.
Il piccioletto piè posa sul ramo
che il rimoto sentier sbarra ed impaccia.
Varca sicura. Io t'amo
e ti riceverò nelle mie braccia.

Con la cupida man, senti? t'ho stretto
i fianchi baldanzosi.
Avidamente nel formoso aspetto
figgo, ardenti d'amor, gli occhi bramosi,
mentre porgendo il petto
su l'omero il gentil braccio mi posi.

==>SEGUE

Sotto la forte man che ti sostiene
come ti batte il core!
Come di fiamme le pupille hai piene!
Come le guance tue mutan colore!
Apri a l'amor che viene,
apri le braccia e de la bocca il fiore!

Vedi? Il bosco, laggiù, fido nasconde
chi nel suo sen ricetta.
A quelle oscurità fresche e profonde
il desìo non ti chiama e non ti alletta?
Vieni! Sotto le fronde,
entro l'ombre silenti amor ci aspetta!

PARTENZA

Sotto le rosee brume
laggiù scomparve il sol,
s'è desto l'usignol,
mormora il fiume

e sovra il pian dell'onda
in cui si specchia il ciel,
leggero il navicel
lascia la sponda.

Densa tra poco e fida
la notte il coprirà,
ma in porto giungerà;
l'amor lo guida.

AI COLLEGHI

Tangheri di poeti
che, se andate in amore,
raccontate i segreti
di tutte le signore,

siate meno indiscreti
negli affari di cuore
e imparate dai preti
che non fanno rumore.

Chi spiffera in tribuna
quello che il cor gli detta,
non farà mai fortuna.

Le donne non han mica
scrupoli a darvi retta:
temono che si dica.

NATALE DI BIMBI

Innocenti fanciulli,
che non suggeste ancora
il velen della vita;
gioconda età, fiorita
nel riso dell'aurora,
nel gaudio dei trastulli;

anime ignote al male,
coscïenze serene,
bocche senza segreti,
tornano i giorni lieti
ed il dicembre viene
col ceppo di Natale;

speme di forti padri,
gioia dei dì fugaci,
gloria ed amor del mondo,
porgete il capo biondo
alle carezze, ai baci
delle festanti madri.

Ahi, come triste è l'ora
per l'anime inquïete,
pei cuori avvelenati!
O bimbi, o voi beati,
perchè non intendete,
perchè ignorate ancora!


NATALE DI VECCHI

O vecchi dolorosi,
o cuori affaticati,
occhi che avete pianto
desiderando il santo
sonno dei trapassati
e il giorno dei riposi,

ecco l'estremo verno
batte alle vostre porte
nell'ombra densa e bieca.
È il verno che vi reca
il sonno della morte
ed il silenzio eterno.

==>SEGUE

Tolta dai rami suoi
la foglia inaridita
torna alla terra antica.
Lo strazio e la fatica
della dolente vita
finiscono per voi!

Ecco, profonda tace
la notte in camposanto,
la notte senza fine!
Chiudete gli occhi alfine,
gli occhi che pianser tanto!...
Pace, vegliardi; pace!

VEGLIA ROMANTICA

Disse il fantasma – «Non mi ravvisi?
eppure io piansi tanto per te;
eppure un giorno per te m'uccisi
e il sangue corse fino a' tuoi piè!

M'avevi dato la tua promessa
quando al meriggio saliva il dì
e la tua porta, la sera istessa,
ad un amante nuovo s'aprì.

Dormono i morti, ma veglia il fato
che nella notte li fa levar
e il giuramento dimenticato
ti vien dai lieti sogni a destar.

Hai pur giurato che mi saresti
eternamente sposa fedel:
or la parola che me ne desti
tener la devi dentro l'avel.

Lascia le piume, sali la groppa
meco di questo nero corsier
che nella chiara notte galoppa
verso le croci del cimiter.

Gli occhi di fuoco schizzano lampi
sotto la frusta, sotto lo spron;
passa le case, vola sui campi,
ma i piè leggieri non danno un suon.

Perchè alla briglia stendi la mano?
Perchè, mia bella, gridi così?
Il mio sepolcro non è lontano,
vi giungeremo prima del dì.

==>SEGUE

Oh, come bene vi posan l'ossa
nella mollezza del pingue suol!
Che larghi fiori sopra la fossa
sotto gli ardenti baci del sol!

Tumuli, croci, colonne mozze,
per noi l'umano dolore alzò...
Ah, che giocondo letto di nozze,
bella, il tuo sposo ti preparò!

Ecco, la pace del cimitero
la tua promessa mi manterrà.
Senza memoria, senza pensiero,
vi dormiremo l'eternità!»

A CERTI GIORNALISTI PUDICISSIMI

Pornografia? Sta bene:
ma siete voi sicuri
che il fine ognun misuri
dalle apparenze oscene?

E appunto a voi conviene
d'esser sprezzanti e duri
quando lo sanno i muri
che fondo vi mantiene?

Tartufi rugiadosi,
quanto prendete al mese
per essere virtuosi?

O di candor modello,
chi vi rifà le spese
del gioco e del bordello?
RONZIO D'INSETTI

I.
Nell'arso mezzodì, nella feroce
vampa del sol che brucia e par che getti
fiamme sul mondo, parlano gl'insetti
cautamente fra loro e sottovoce;

e dicon: sia lodato il sol che cuoce
dell'uom le membra, le campagne e i tetti,
poi che viver ci fa senza sospetti
del pericolo nostro e non ci nuoce.

L'uomo riposa ed or non ci molesta
con la falce ne' prati o nelle messi
e il suo terribil piè non ci calpesta.

Peccato il nascer piccoli e dimessi!
Fossimo grandi, o sorte disonesta,
noi non vivremmo timidi ed oppressi!



II.
Ma un saggio scarabeo che discendeva
dagli adorati scarabei d'Egitto
e l'uomo e i fatti suoi ben conosceva,
pallottole facendo a suo profitto,

disse: o popol minuto, e che rileva
il chiacchierar di torto e di diritto,
quando, se alcuno a ragionar si leva,
viene la forza che lo fa star zitto?

Che importa all'uomo della nostra razza?
Ei sortì da natura il cor brutale
e la speranza di mutarlo è pazza.

L'uomo non ha pietà dell'animale.
Guardate come frusta e come ammazza
fino il prossimo suo! Dico il maiale.
RUTH

Hic autem erat mos antiquitus in Israel.
RUTH, IV, 7.
Disse Noemi: «O nuora,
» le mie parole ascolta.
» Nella tua chioma folta
» la giovinezza odora,
» sul fior della tua bocca
» la voluttà s'accende
» e dalle colme bende
» candido il sen trabocca.

» Beato chi sul bianco
» tuo viso avrà la faccia,
» chi cingerà le braccia
» al tuo superbo fianco!
» No, puro fior di neve,
» no, vivo fior di rosa,
» la tua beltà, nascosa
» così morir non deve!

» Se Iddio non ci concesse
» delle dovizie il dono,
» vedi quei campi? Sono
» pingui di bionda messe
» e, se li vuoi, sagace
» l'arte d'averli trova,
» poichè beltà non giova
» se nell'inopia giace».

E Ruth mondò nel fonte
le rigogliose forme,
torse la treccia enorme
come corona in fronte,
al mobil fianco cinse
larga la fascia bruna
ed a cercar fortuna
mossa da Dio s'accinse.

Arse dai raggi estivi
tacean le fronde stanche,
dormìan le agnelle bianche
al rezzo degli ulivi,
ombre chiedeano ai muti
boschi le cavrïole,
era al meriggio il sole
e i campi eran mietuti,

==>SEGUE
allor che Ruth discese
giù dal pendìo deserto
e sovra il piano aperto
l'avido sguardo stese.
Rattenne il passo, intenta
a noverar le biche
delle recise spiche,
poi seguitò contenta.

Ridea la giovinetta
col labbro e le pupille,
sonavano le armille
sulla caviglia schietta,
e le diè un balzo il core
e le diè l'occhio un lampo
quando scoprì nel campo
la tenda del signore.

Al piano addormentato
cauto lo sguardo volse,
il breve piè disciolse
dal sandalo annodato,
gittò la negra benda
che la stringea sull'anca
e seminuda e bianca
entrò sotto la tenda.

Oh, il bel meriggio! Ardeva
il sol nel chiaro azzurro,
nè un soffio, nè un susurro
sull'arso pian fremeva
e sulle stoppie gialle
gli stanchi buoi posando
sognavan, ruminando,
il buio delle stalle.

Oh, il bel meriggio! Ascoso,
al cor giungeva un senso
grave, solenne, immenso,
di calma e di riposo.
Immersa in un languore
di voluttà infinita
parea dormir la vita,
ma non dormìa l'amore.

Popol di Dio, riposa
nel sonno tuo profondo;
sul talamo fecondo
ecco salì la sposa!

==>SEGUE
Oh, il bel meriggio! Hai chiesto
e Dio t'ha benedetto,
poichè sul santo letto
il Patrïarca è desto.

Ma quando un roseo velo,
come un vapor di gemme,
sui colli di Betlemme
mutò colore al cielo,
Ruth, con le gote accese
e il petto ansante ancora,
verso la sua dimora
lenta il cammin riprese

e al tetto suo venuta,
pensando al dì trascorso
sentì come un rimorso
della virtù perduta,
e ricordò il marito
a cui le braccia aperse
quando se stessa offerse
sul talamo fiorito.

E Ruth disse a Noemi:
«Ecco, io ti tenni fede.
» Quei campi son mercede
» ai favor miei supremi;
» ma se le spighe d'oro
» ti porto fra le braccia,
» come alzerò la faccia
» innanzi al Dio che adoro?»

Disse Noemi:«Bada,
» non fu il consiglio mio,
» ma fu il voler di Dio
» che ti segnò la strada.
» L'ombra del sacro ulivo
» coperse il fior di rosa
» e nel tuo sen di sposa
» il Re di Giuda è vivo!»
_______________
SOGNI

I.
Gocciava dai rami bagnati
la nebbia salita dal piano
e l'umida stesa dei prati
non era che un largo pantano.

Il vento ne' lunghi ululati
avea qualche cosa d'umano;
gracchiavano i corvi affamati
lontano, lontano, lontano.

Ma pur se, cedendo al destino,
morivan le tarde vïole
anch'esse nel nostro giardino;

in faccia alle squallide aiuole,
nel buio del nembo vicino,
sognavo la gloria del sole.



II.
Sognavo che il sol trionfante
salìa nell'azzurro profondo.
La terra schiudeva all'amante
le valve del grembo fecondo;

ne' boschi olezzavan le piante
fiorite all'aprile giocondo;
un fiotto d'amor spumeggiante
bollìa nell'arterie del mondo.

In cielo cantavan gli uccelli,
un'aura di nozze saliva
aulente dai bocci novelli

e in faccia alla festa giuliva
de' sogni più cari e più belli,
la speme nel cor mi moriva.
TRISTIA

La tristezza il vol spalanca
sulle squallide contrade.
Tace il vento, il giorno manca,
ogni cosa il tedio invade.

Oh, la neve bianca bianca,
lenta lenta, come cade
adagiando l'ala stanca
sovra i tetti e per le strade!

Non è un'ora e già ravvolta
nel suo funebre mantello
la città dorme sepolta.

Ma quant'è che, fredda e greve
come il marmo d'un avello,
sul mio cor pesa la neve?



ATTESA

Son tre giorni che vivo in sulle spine,
son tre notti che veglio, aspetto e spero.
Sento che sovra me passa un mistero
carico di tempeste e di rovine.

Dove siete oramai lunghe mattine
in pace date all'operar severo,
giorni sereni senz'alcun pensiero,
notti liete di voi, Muse divine?

Ora livido è il cielo e tace il vento
ed in silenzio la natura aspetta
che il primo lampo accenda il firmamento.

A me d'intorno la famiglia stretta,
palpitando d'angoscia e di spavento,
attende lo scrosciar della saetta.
NOVEMBRE

Nei dì grigi e dolenti
in cui piange ogni cosa,
torna la dolorosa
folla degli studenti

che van, sforzati e lenti
nell'alba freddolosa,
ad inghiottir la prosa
dei testi e dei commenti

e, chiusi nell'oscura
scuola che al sonno invita,
subiscon la tortura....

Così, dalla fiorita
età, comincia e dura
la lotta per la vita!



LETTURA SERALE

Gela di fuori. Lenti,
curvi, di mal umore,
entrano gli studenti
nel tepido chiarore
de l'aule graveolenti,
tratti a sciuparvi l'ore
più da la cruda brina
che dal puro desio de la dottrina;

e il capo rassegnato
abbassan sul volume
che l'uso ha verniciato
di secolare untume,
ma il gergo avviluppato
del giuridico acume
affatica ben presto
l'ingegno ancor giovenilmente onesto.

Quindi sul libro chiuso
il gomito si posa
con un senso confuso
di tristezza penosa
e il tanfo di rinchiuso
in quest'aria vischiosa
scende nei petti e pesa
come la coltre sovra i morti stesa;

==>SEGUE
ma i migliori, a gli sciocchi
lasciando il ghigno insano,
inerte sui ginocchi
lascian cader la mano,
mentre levando gli occhi
guardan lontan lontano,
e, immemori del mondo,
sognano desti un avvenir giocondo;

se pur ne l'alta calma
de l'atmosfera immota
chinata su la palma
la giovinetta gota,
coi fissi occhi de l'alma
non veggon la remota,
la memore casetta,
dove la madre pia prega ed aspetta,

od il veron coperto
dai fior di primavera,
da cui, nel raggio incerto
de la morente sera,
rise ne l'aere aperto
la bocca lusinghiera
che all'inesperto core
prima insegnò che cosa fosse amore.

Ahimè, che il sogno lieve
come un soffio è passato
e ognun riprende in breve
il libro abbandonato!
Vincendo il tedio greve
del lavoro forzato,
la lotta per la vita
a sè le menti giovanili invita.

O vita mal concessa,
che dura legge è questa
se su la soglia istessa
bieco il dolor ci arresta,
se, già dai fati oppressa,
l'anima che si desta
mentre dispiega il volo,
sente l'ala spennarsi e cade al suolo?

Ecco. Non han vent'anni
e covan l'odio in seno.
D'ansie, d'error, d'affanni
il core han già ripieno.

==>SEGUE
Di meditati inganni
distillano il veleno
e del torvo interesse
han già le rughe su la fronte impresse!

E pur così li vuole
l'età bassa ed indegna
che da le fredde scuole
la cupidigia insegna,
che nega un posto al sole
a chi servirla sdegna
ed i giovani avvezza
a gittar la virtù per la ricchezza!

Ah no, giovani, uscite!
L'aria di fuori è sana.
Qui stagna la mefite
de la tristizia umana,
qui le carte erudite
puton di cortigiana
ed il cavillo appesta
con l'ulcera venal l'anima onesta!

Uscite! Io vecchio e stanco
qui veglierò soletto,
chinando il capo bianco
sul libro prediletto.
Ecco: su questo banco,
rimango solo e aspetto
da la benigna sorte
il riposo e... chi sa? forse la morte.

AL VEGLIONE

Non sentite in mezzo al canto
come l'eco d'un lamento
come un grido di spavento
entro cui singhiozza il pianto?

Non sentite? È lunga tanto
una notte di tormento
senza pane, a foco spento,
quando il cor sanguina infranto,

quando un lungo struggimento
fa pensare al camposanto
come termine allo stento!...

Ah, pietosi! in questo incanto
non scordatevi un momento
che la fame urla qui accanto!
NEVE

Nelle soffitte squallide
fra i cenci desolati,
morde la fame i visceri
dei bimbi assiderati,
ma le innocenti lacrime
fredda la terra beve...
quante miserie piangono
sotto la bianca neve!

Traggon l'oscene maschere
i passi titubanti
all'osterie che ruttano
urli, bestemmie e canti;
brucia l'ebbrezza ignobile
come una fiamma breve...
quanti coltelli uccidono
sotto la bianca neve!

Scalzo nel fango, un lacero
stuolo di forme umane
chiede il diritto a vivere,
vuole lavoro e pane;
ma l'onta ed il rimprovero
e non il pan riceve...
quante vendette covano
sotto la bianca neve!

Guata su l'acque livide
il vecchio pensieroso
e l'acque gli promettono
la gioia del riposo.
Ai vinti, ai mesti, ai deboli,
gittar la vita è lieve...
quanti sepolcri s'aprono
sotto la bianca neve!
________________
TRITTICO

I.
AMATA

Mentre di fuori tremando le fronde
gemono al vento autunnal che le miete,
pupille larghe, pupille profonde,
che lieto maggio sognando vedete?

Mentre il silenzio de' vespri diffonde
il suo languor nelle stanze segrete,
labbra di rosa per chi sorridete,
ghiotte di baci e d'amor sitibonde?

Pupille nere che dolci splendete,
labbra di rosa fiorenti e gioconde,
felici voi che l'amor conoscete,

l'amor che il pianto del vero v'asconde
con un tumulto d'imagini liete,
con un delirio d'ebbrezze feconde!



II.
SPOSATA

Poi che la bianca ghirlanda riposa
sul casto velo lasciato piangendo
e delle nozze al mistero tremendo
t'affacci bella, innocente, amorosa,

sei vinta e già colla bocca di rosa
tutta te stessa concedi ridendo,
mentre lo sposo t'avvinghia cogliendo
l'intatto fior de la forma vezzosa.

Sei vinta! È lui che tentavi fuggendo,
lui che con l'occhio cercavi pensosa,
lui che la notte sognavi dormendo;

ed or che il labbro sul labbro ti posa,
suggi il suo bacio ed impara arrossendo
le voluttà benedette di sposa.
III.
LASCIATA

Suonan tra i rami del bosco spogliato
canzoni e risa che passano a volo;
va su le nevi d'amanti uno stuolo
e amor trionfa del verno gelato.

E tu che avevi creduto ed amato,
povero core che sanguini solo,
povero uccello pigliato al lacciolo,
non sarai dunque mai più consolato?

Dormono i fior sotto il bianco lenzuolo,
ma nel tripudio del maggio aspettato
uscir dovranno più belli dal suolo.

Ma le dolcezze del tempo passato,
ma le speranze recise dal duolo,
chi più le rende ad un cor disperato?



NON DOMANDATE MAI...

Non domandate mai perchè le stelle
ritornano a vegliar ne 'l ciel sereno,
non domandate mai perchè son belle
nè perchè così lieto è il lor baleno.

Sotto quegli occhi de la notte, a quelle
veglianti faci, l'uno a l'altro in seno
cadon gli amanti e l'anime sorelle
mesconsi a 'l lume lor soave e pieno.

Fino a l'alba così, fino a domani
più gioconde le stelle e scintillanti
sorrideranno in ciel. Lungi, o profani!

Non vi diranno mai le stelle erranti
queste dolcezze di fecondi arcani
noti a loro soltanto ed agli amanti.
SERENATA

Se il canto e le parole
salgono fino a te
sorriderai per me,
raggio di sole!

Se nel tuo bianco petto
trova l'amor mercè,
olezzerai per me,
fior di mughetto!

e se al fedel cantore
sordo il tuo cor non è,
risplenderai per me,
stella d'amore!



DESTINO

O felici del mondo, a cui la sorte
porse la chioma fortunata in mano,
a cui natura diè l'anima forte,
il gaudio della vita, il sangue sano,

improvvisa dal ciel piomba la morte
sulla miseria dell'orgoglio umano:
col dito traditor segna le porte
e chi spera fuggir, lo spera invano;

e là dove il piacer prodiga e spande
le voluttà più caramente liete,
di quel segno l'orror sembra più grande.

Come un gocciar di lagrime segrete
ivi cadono i fior dalle ghirlande,
ivi cessa la danza ed entra il prete.
NORD

Poichè, Anfitrite, di lasciar ti piacque
il tepor delle miti aure tirrene
e l'incanto dell'acque
che sanno la canzon delle Sirene,

visita dunque l'iperboreo gelo
dove il pallido sol male tramonta
e sotto al plumbeo cielo
le nevi eterne senza umana impronta.

Di novelle Nereidi e di Tritoni
non conosciuti ancor vedrai le schiere,
i candidi alcïoni,
i trichechi giganti e l'orche nere.

Ivi nel balenar di strane aurore
coronata sarai del mar regina
e nel rosso bagliore
biancheggerà la forma tua divina.

Va, poichè la canzon delle Sirene
più sul tuo mar natio non alza il volo,
poichè Roma ed Atene
sognan le freddolose arti del polo;

e non tornar mai più. Su questi liti
inaridì spregiato il fior dei canti,
gli Dei sono fuggiti,
veleggiano il tuo mar solo i mercanti.

NOTTE

Lento lento sul canale
il crepuscolo discende,
non un remo l'acqua fende,
non un canto, un grido sale.

Sotto il raggio d'un fanale
l'acqua immobile risplende;
ampio intorno si distende
il silenzio sepolcrale.

Ma sul piano sonnolento,
ad un tratto, un'amorosa
melodia fremer io sento,

e sull'acqua che riposa
passa il brivido del vento
come il bacio d'una sposa.