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PIER PAOLO PASOLINI


LE CENERI DI GRAMSCI


PARTE I
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Pier Paolo Pasolini:

Poeta corsaro e disperato amante del popolo
_________

di
Olivia Trioschi
__________________
PIER PAOLO PASOLINI  - LE CENERI DI GRAMSCI - Parte I









































FINE
Parte prima
Ricordiamo. Giovanotti nerboruti, esaltati, pieni di incoscienza e ardimento, con una gran voglia di saltare, urlare, emergere in qualche modo - qualsiasi modo - alla vita, alla violenza della vita, si trovavano a Napoli luccicante del mare d'autunno. Nelle orecchie avevano la voce stentorea e potente del loro capo, negli occhi i suoi pugni sui fianchi, le gambe divaricate, lo sguardo di vuoto e nero metallo. "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando su Roma - gridava il capo - ormai si tratta di giorni, forse di ore!": grida, sventolio di bandiere, pugnali, fucili, mani, fazzoletti. Il sole fissava, immobile. La piazza ruggiva: voleva Roma, voleva l'Italia, voleva il mondo intero. Cinque giorni dopo aveva Roma e l'Italia. Poi avrebbe cercato di prendersi anche qualche fetta di mondo. Era il 1922. Cosa li aspettava - ai giovanotti -, cosa ci aspettava, noi tutti, generazioni presenti e future, è scritto nei testi di storia e nelle cicatrici fumanti d'Italia. Fascismo: parola corvina, lunga notte di paura. Notte senza fine, pensava Pier Paolo Pasolini.
    È difficile, forse impossibile, parlare di Pasolini, anche solo di Pasolini poeta, senza andare a sbattere, più prima che poi, contro il fascismo. Per lui fu come un'ossessione perenne, prima sotto la forma del fascismo storico e poi in quella, più velenosa e strisciante, di categoria eterna che riassume in sé il conformismo, il disprezzo per il diverso, l'appiattimento intellettuale, il bla-bla politicante. Tanto vale farlo subito, allora. Tanto più che la coincidenza tra le date è, se non simbolica, almeno suggestiva. Pasolini era nato a Bologna proprio in quel fatidico 1922, "anno immerso nel secolo", come dirà più tardi in un verso. Bologna, e per estensione l'Appennino tosco-emiliano, Casarsa in Friuli e Roma sono i tre luoghi della crescita intellettuale, della memoria struggente e della sfida di Pasolini critico, poeta e intellettuale "corsaro". Ultimo maledetto nel cercare scampo alla vita nella poesia, nel cercare di mettere tutto - passione, amore, odio, vita, morte - nei suoi versi. Nel restare ucciso, infine, per mano di un Narciso - di quelli tante volte cantati e amati - proprio dal sistema contro il quale si era scontrato, da sempre. Perché, tra le altre cose, Pasolini era un personaggio scomodo: spietatamente lucido, intelligente e diverso. E perciò solitario. Di Pasolini resta molto. Gli scritti, tanti, di tutti i generi: poesie, romanzi, sceneggiature, interventi critici, articoli, saggi.
Ah, il popolo. Cos'è il popolo? Chi è il popolo? Pasolini se lo chiese per tutta una vita. Lui, il borghese figlio di borghesi, di antica famiglia ravennate era dolorosamente consapevole di essere per sempre escluso dalla massa dei poveri (eccolo qui, il popolo) in cui, prima che una "classe"  nel senso politico del termine, riconosceva una forma di vita innocente, incontaminata e pura. Da qui sono nate le sue prime poesie. Perché va anche detto che Pasolini, variamente definito "provocatore ideologico" piuttosto che "coscienza critica della cultura italiana" - tutto vero, naturalmente - volle essere e fu prima di tutto poeta. Pasolini non era certo tipo da usare le parole a caso. Selettivo ed eletto, dunque. Indubbiamente, lo è sempre stato. E poi, la madre, cui era legato da un "disperato amore" (sono sempre parole sue): "Parma, un viale, e il riso di mia madre" è il primo verso di una poesia. Col padre, invece, le cose non andavano proprio così. Presenza intermittente per molti anni a causa delle lunghe campagne militari, impersonava gli occhi del figlio il più cieco conformismo, la totale mancanza di naturalezza e spontaneità (doti che invece riconosceva e amava nella madre). E il fossato sarebbe col tempo diventato incolmabile, anche se il padre "gongolava" per i successi scolastici del figlio e per la sua evidente e precoce vocazione letteraria.
    La prima raccolta, Poesie a Casarsa, uscì a spese di Pasolini nel 1942, a Bologna, città dove la famiglia era tornata dopo molti anni di traslochi continui legati ai trasferimenti di caserma in caserma dell'ufficiale Carlo Alberto Pasolini. Lì Pier Paolo frequentò l'università, laureandosi in lettere con una tesi su Pascoli (in cui riconosceva un maestro soprattutto per le scelte linguistiche, fondamentali per entrambi) e divenne amico di Roberto Roversi e Francesco Leonetti. Con loro visse la grande stagione dell'ermetismo, fondando nel 1941 una rivista dal significativo titolo Eredi. Nel 1942, dunque, aveva appena vent'anni. Le poesie pubblicate erano state scritte nei tre anni precedenti, a Casarsa ma più spesso lontano da lì. Casarsa era il paese della madre, e ogni estate Pasolini ci andava a passare l'estate nella "povera villeggiatura presso parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva". Questo come notazione storico-geografica. Nella poesia Casarsa diventò il luogo della purezza, della gioventù bella e accesamente sensuale, del mondo come doveva essere prima che iniziasse la Storia: un mondo deve la natura e l'uomo potevano ancora essere tutt'uno. In quest'ottica, la scelta del dialetto come lingua d'elezione si imponeva da sola. Fu una scelta emotiva, prima che intellettuale. In seguito Pasolini si accorse che poteva e doveva essere anche un rifiuto della cultura nazional-fascista che imponeva l'abbandono di idiomi e particolarismi locali in ossequio alle direttive del centro. Ma all'inizio fu, appunto, la scoperta emozionante dell'esistenza di una lingua che possedeva riserve intatte di gusto, sapienza, liricità, di contro alla lingua nazionale impoverita, sfruttata ed esausta. "Su quel poggiolo (a Casarsa) stavo disegnando oppure scrivendo quando risuonò la parola rosada. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada La parola "rosada" pronunciata in quella mattinata di sole non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua e al di là del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo m'interruppi subito. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada".
        Poesie a Casarsa uscì nel totale silenzio della critica, salvo che per una - ma illustrissima - voce: quella di Gianfranco Contini, che recensì il volumetto sul Corriere di Lugano proprio per le resistenze del regime a dare notorietà a un poeta dialettale. Ciò nonostante, fu per Pasolini un momento di felicità completa: "Chi potrà mai descrivere la mia gioia? - ricordava - Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno". Che differenza con quanto avverrà dopo, quando ogni prova pubblica di Pasolini sarà accompagnata da un coro di recensioni, premi, applausi, insulti, denunce, processi. Il volumetto, dunque, nasce così, come un gioiellino prezioso e nascosto. Prezioso perché tale è la lingua scelta: dialetto, sì, ma raffinato e coltivato come "lingua pura per poesia". Non a caso nella prima pagina si leggevano alcuni versi di Peire Vidal, poeta provenzale. Il richiamo a quella lirica ci fornisce un'indicazione importantissima sulle scelte dell'autore: Pasolini non è lontano dalla sua terra (anche se molti di questi versi furono effettivamente scritti a Bologna o altrove, quando più forte si faceva sentire la nostalgia) ma si sente ugualmente esule, tagliato fuori dalla possibilità di attingervi direttamente, di goderla in prima persona come i giovanetti (ideali proiezioni di se stesso) che si muovono leggiadri tra fontane e prati; lui, malato di un'altra civiltà e di un'altra sensibilità colta, sensuale e decadente. Il sentimento di pienezza e felicità che deriva dalla contemplazione della propria terra è quindi minato alla radice, e perciò le soavi e tenere immagini di cui sono fatte le liriche si concludono spesso con un richiamo alla morte. Il Friuli è evidentemente una terra mitica e il dialetto l'unica chiave possibile per tentare di recuperare quel mito che ha tuttavia in sé, fin dall'inizio, i germi della decadenza e della morte. Come se Pasolini proiettasse sulla terra di sua madre la madre stessa, e vivesse per Casarsa lo stesso genere di amore disperato per lei e per la sua infanzia felice. Ma finita, passata per sempre.
         L'8 settembre 1943 Pasolini, militare da appena una settimana, rifiutò di consegnare le armi ai tedeschi e scappò insieme alla madre e al fratello (il padre era prigioniero di guerra in Africa) a Casarsa, dove rimase fino alla fine della guerra e oltre. A chi, in seguito, gli rimproverò di non aver fatto nient'altro che questo contro il fascismo, rispondeva che anzi, la sua partecipazione alla Resistenza era stata tale da farlo finire in camera di sicurezza; dopo di che era vissuto nascosto e terrorizzato all'idea di finire uncinato (fine riservata ai giovani del litorale adriatico renitenti alla leva o antifascisti). Ciò nonostante, non poteva restare inattivo almeno dal punto di vista della cultura. Insieme ad alcuni amici pubblicò il quaderno Stroligut di ca' de l'aga (L'indovino di qua dell'acqua, cioè della sponda destra del Tagliamento) dove la poetica dialettale viene approfondita diventando, ora sì, anche strumento di opposizione al regime e rivendicazione di dignità di lingua: le traduzioni in italiano sono abolite (mentre erano incluse nelle Poesie a Casarsa) e grandi poeti stranieri (come Verlaine e Wordsworth) vengono tradotti in friulano. Dopo la guerra quest'esperienza confluì nell'Academiuta di Lenga Furlana, un gruppo di studio che affiancava alle iniziative di tipo culturale (incluse lezioni private gratuite ai figli dei contadini poveri che avevano smesso di andare a scuola) anche precise richieste politiche in merito all'autonomia del Friuli nell'ambito della neonata repubblica. Intanto due morti avevano segnato la vita di Pasolini: quella della nonna materna, le cui fasi dall'agonia alla sepoltura Pasolini accompagnò con una serie di brevi componimenti in italiano (Guardaci timidamente / dal cielo / come quando nel buio / di questa casa, / sconfortata sedevi) e, poco dopo, quella del fratello partigiano, ucciso nel noto eccidio di Porzus, vicino al confine jugoslavo, in cui i partigiani di Tito, che intendevano allora annettersi il Friuli, massacrarono la brigata Osoppo.
         Pasolini si stava dunque "storicizzando". La sua poesia, da questo momento, non fu più solo di disperato amore per il Friuli e la sua bella gioventù, non fu più solo rimpianto accorato. Vi entrò il popolo, questa nuova forza, vergine e potente, che sarebbe potuta irrompere nella storia con violenza inaudita e benedetta. C'era, doveva esserci, una possibilità di riscatto per il popolo, all'ombra delle belle bandiere (gli stracci rossi) che allora venivano sventolate; Cristo l'aveva promesso: "Piegatevi, gente cristiana, / a sentire un filo di voce, / fra tutto questo silenzio, / che scende dalla croce". Sono queste le componenti del "populismo evangelico" che animerà Pasolini. Una religione-passione, simboleggiata dalla figura del Cristo povero e sofferente e nutrita di simboli arcani, tratti dalla religione pagana e contadina dei suoi friulani ("Verrà il vero Cristo, operaio") in aperto contrasto con la religione-autorità, fortemente compromessa coi fascismi di tutti i tempi, e l'attesa della riscossa da parte del popolo, serbatoio di verità. La "scoperta di Marx" è del 1947, contemporanea a una vicenda reale. "L'ho detto tante volte, in tante interviste: ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato poi nel 1962 con il titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci". Il sogno era per l'appunto la speranza di rinnovamento e giustizia sociale che si sentiva fortissima in Italia, dopo la guerra. Pasolini si impegnò in prima persona, con la passione di sempre, perché quel sogno diventasse realtà. Dopo l'iscrizione al PCI divenne segretario di sezione, e da quella posizione condusse le molte battaglie dell'epoca: quelle per le elezioni del 1946 e per il referendum istituzionale del 1948; quelle antidemocristiane e anticlericali; quelle per l'autonomia del Friuli. Pio XII scomunicava i comunisti e lui affiggeva tatzebao contro i preti sotto il loggiato della piazza di Casarsa. L'intellettuale, pensava Pasolini, aveva il dovere di creare una nuova cultura, una cultura che voleva "trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza" per usare le sue stesse parole. Utopiche, certamente. Come tutte le belle speranze dei bei momenti in cui sembra che tutto possa accadere fuorché una mutazione gattopardesca delle cose, delle persone, delle istituzioni.
    Nell'inverno del '49, scrisse Pasolini, "fuggii con mia madre a Roma, come in un romanzo. Il periodo friulano era finito". Perché questa fuga a rotta di collo, come un braccato, come un delinquente, proprio in un periodo così pieno di speranza? Alcune biografie tacciono, ma i fatti sono ormai risaputi. Pasolini era diventato, per la legge, esattamente questo: un delinquente. In un paese come il nostro, dove il comune senso del pudore, con tutti i suoi necessari corollari di ipocriti silenzi e altrettanto ipocrite denunce a gran voce, ha sempre vinto tutte le sue battaglie e affossato tutte le sue vittime, forse non poteva finire altrimenti che così. Pasolini insegnava allora nella scuola media di un paese vicino a Casarsa. Nell'ottobre del 1949 venne accusato di "corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico". Pochi, forse nessuno, sapevano allora della sua omosessualità. Fu una vera bomba, probabilmente montata ad arte e strategicamente strumentalizzata dalla stampa cattolica locale. Fatto sta che il poeta si trovò insultato, accusato, minacciato, espulso dal PCI "per indegnità morale e politica" e, naturalmente, processato; processi dai quali uscì prosciolto, nel 1950 per l'accusa di corruzione di minorenne, e nel 1952 per quella di atti osceni in luogo pubblico (per insufficienza di prove). A Roma Pasolini abitò dapprima nel "ghetto" vicino al Portico d'Ottavia e in seguito a Rebibbia, vicino al carcere, nelle borgate lungo la Tiburtina. "Per due anni - raccontava - fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese". Di affitto ne pagava tredici. Furono anni "di lavoro accanito, di pura lotta". E in casa l'atmosfera non era certo serena, specie dopo il ritorno del padre. "E mio padre sempre là - continuava il poeta - in attesa, solo nella povera cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti". Quel periodo di "pura lotta" cominciò a sciogliersi, all'inizio degli anni Cinquanta, grazie all'aiuto di alcuni amici. Il poeta dialettale Vittorio Clemente gli trovò il posto a scuola; lo scrittore Giorgio Bassani gli presentò registi di Cinecittà come Soldati, Fellini, Flaiano coi quali Pasolini collaborò alla preparazione di numerosi film (per La donna del fiume di Soldati scrisse la sceneggiatura, così come per Il prigioniero della montagna, insieme a Bassani; Fellini lo volle come filologo per curare le battute in romanesco delle Notti di Cabiria). Nel 1955 Pasolini fondò a Bologna, con Leonetti e Roversi (dell'antico gruppo di Eredi) una nuova rivista letteraria, Officina. Il ruolo di Officina come luogo di confronto e dibattito sui compiti della letteratura e degli intellettuali, come occasione di verifica ideologica (in un momento delicatissimo per il PCI quale fu quello seguito all'indimenticabile 1956), è noto. Alla rivista collaborò, entrando poi nel comitato di redazione, anche Franco Fortini, tanto per fare un nome. Più o meno nello stesso periodo furono pubblicate le poesie e le prose scritte da Pasolini dopo la guerra, dunque in parte risalenti ancora agli anni di Casarsa. Ragazzi di vita, il romanzo sulla periferia romana e i suoi abitanti, uscì nel 1955. Accusa di oscenità, nuovo processo. Riesplodeva il "caso" Pasolini. Non si sarebbe chiuso che vent'anni dopo, con la sua morte.
         Le Poesie a Casarsa, più altre in dialetto, furono riunite nel volume La meglio gioventù e pubblicate nel 1954. Poi ci fu un'inversione cronologica. Nel 1957, infatti, usciva Le ceneri di Gramsci, poesie composte tra il '51 e il '56, e solo nel 1958 (per una serie di motivazioni editoriali e di stesura) L'usignolo della Chiesa cattolica, scritto molto prima, tra il 1943 e il 1949. Queste due raccolte costituiscono uno snodo fondamentale nella poetica pasoliniana, e pertanto è necessario tenere ben presente le date di composizione e non quelle di pubblicazione. Nell'Usignolo, infatti, vive ancora il mondo friulano arcaico e mitizzato cui si accennava prima, percepito dal poeta con tutti i suoi accesi sensi e al contempo con tutta la sua inquietudine esistenziale; e insieme si trova un cristianesimo primitivo e, per la Chiesa, sacrilego, nel quale Cristo è prima di tutto sofferenza della carne, sangue e patimento. Un Cristo eretico, diverso, il cui martirio fa nascere una domanda ineludibile: "Perché Cristo fu esposto in croce?" Perché "esibire la sua morte?" Bisogna esporsi, dunque. È questo l'insegnamento di quell'uomo dal "corpo di giovinetta", insanguinato e inchiodato al suo albero di dolore. E questo è il significato del crocefisso: "sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull'abisso" e tremare "d'intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco / per testimoniare lo scandalo".  La religione, sia pure quella della tradizione contadina, che aveva animato secoli di feste paesane e liturgie nelle povere chiesette friulane, nelle ingenue e sante preghiere dei poveri, non basta più a Pasolini. La Storia rimette in gioco il popolo, e questa volta sembra dargli una possibilità nuova, concreta. Il marxismo, ora, è la speranza. "Pasolini - scrive Luigi Martellini - percorre razionalmente i sentieri periferici che lo portano istintivamente, e passionalmente, verso la ricerca della giustizia". È questo il passaggio fondamentale che avviene con Le ceneri di Gramsci. Passaggio contraddittorio - e Pasolini ne è tanto consapevole che parla, in un verso, di "scandalo del contraddirmi" - tra intelletto e passione, tra razionale e irrazionale, tra necessità di capire la realtà (quella nuova realtà delle borgate e del sottoproletariato romano in cui Pasolini si trova a vivere) e adesione emotiva a un ideale di riscatto che non può essere spiegato razionalmente. È la parte centrale delle Ceneri: "lo scandalo di contraddirmi, dell'essere / con te e contro di te; con te nel cuore / in luce, contro te nelle buie viscere" - Pasolini qui si rivolge direttamente a Gramsci; e più avanti: "attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza". Ma anche il marxismo, nella sua applicazione pratica, nella prassi militante dei suoi dirigenti, rivela presto l'incapacità di conoscere la millenaria vita proletaria del popolo; e ciò diventa ancor più evidente per Pasolini dopo i fatti del 1956, anno in cui scrive tre poemetti. Il popolo è stato tradito dai "compagni di strada" che chiedono "il mistico rigore di un'azione / sempre pari all'idea"; mentre "è all'errore / che io vi spingo, al religioso / errore"; e ancora, rivolgendosi ai dirigenti del PCI: "avete, accecati dal fare, servito / il popolo non nel suo cuore / ma nella sua bandiera: dimentichi / che deve in ogni istituzione / sanguinare, perché non torni mito, / continuo il dolore della creazione".
         Negli anni Sessanta Pasolini scrive ancora poesie, molte, che confluiranno nelle raccolte La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizzar (l'ultima, nel 1971). In esse giunge a compimento la crisi poetica di Pasolini, che comincia a preferire nuove forme espressive (il cinema, com'è noto. Il primo film, Accattone, è del 1961).
    Lo dichiara apertamente nel 1967: "non scrivo più poesie da due o tre anni. Questo non me lo sarei mai aspettato. Perché non scrivo più? Perché ho perduto il destinatario. Non vedo più con chi dialogare usando quella sincerità addirittura crudele che è tipica della poesia. Ho creduto per tanti anni che un destinatario delle mie 'confessioni' esistesse. Mi sono dunque accorto che non esiste".
    Cos'era accaduto? La Storia era andata avanti, era penetrata nel sottoproletariato: gli aveva portato la televisione, le lotterie, i rotocalchi; gli aveva innestato bisogni fasulli, appiattendo quell'allegria fuori dal tempo in cui Pasolini riconosceva e identificava la propria religione. Il popolo era stato "organizzato", imborghesito a furia di elettrodomestici e automobili. "Altre mode / altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo / a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole".
    Anche il miraggio dell'Africa, unica alternativa al disfacimento di cui si sentiva circondato, svanì ben presto. Il vero nemico, invincibile, è la borghesia antropofaga; ed è contro questo Leviatano del XX secolo che si batte negli ultimi anni della sua vita con sempre più numerosi interventi su giornali e riviste, con articoli di denuncia e pubbliche dichiarazioni, con prese di posizione apertamente polemiche: all'indomani degli scontri a Valle Giulia, preambolo del 1968, scrive rivolgendosi agli studenti: "I ragazzi poliziotti / che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) / di figli di papà, avete bastonato / appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è avuto così un frammento / di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte / della ragione), eravate i ricchi, / mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, / la vostra!". La poesia di Pasolini è ora quasi prosa; ma si tratta ancora una volta di una scelta precisa: lontani i tempi delle sperimentazioni e delle infinite libertà espressive date dal dialetto, si impone l'urgente necessità di entrare, a partire dal linguaggio, nella realtà storica, per denunciarne, con ogni mezzo, il nuovo fascismo. Comincia la stagione di Pasolini intellettuale "corsaro", pubblico accusatore dei guasti della classe al potere, nella quale individua, facendo nomi e cognomi, i responsabili dello sfascio delle istituzioni e del paese intero. Stagione breve, tragicamente interrotta in una notte di novembre del 1975. In quella notte, alla periferia di Roma, Pasolini fu esposto, pesto e sanguinante, sulla sua croce. "Storia di froci", dissero.
  Ricordiamo. Ragazzi e ragazze, uomini e donne, uniti dal silenzio, guardano passare una bara, alta sulle loro teste. Alcuni sollevano il pugno chiuso, altri abbassano la testa. Il popolo, qualsiasi cosa sia, saluta il suo disperato amante.
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Le ceneri di Gramsci

I
Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia

con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo;
la fine del decennio in cui appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore;

Tu Gramsci, meno sventato e più sano
dei nostri padri – non padre. Ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

==>SEGUE

II
Tra i due mondi, la tregua, i cui non siamo.
Scelte, dedizioni…. altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che tuttavia la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grige pietre, corte

e impotenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta:e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smorti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga…. quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

==>SEGUE
altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido, e risuonano
- familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: <<And O ye Fountains…>> - le pie
invocazioni….

III
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso, l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei

morti: Le ceneri di Gramsci…Tra speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi

alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. ( O è qualcosa
di diverso, forse, d più estasiato

e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa

la tua tensione, sento quale torto
- qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte

nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Ecco qui ad attestare il seme

non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio

e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimesso

==>SEGUE
rione – ad attestarne la fine.
Ed ecco qui me stesso…povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in vetrine

dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito

è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade

di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo

l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
- con te – il mondo, oggetto non appare

di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?
Eppure senza il tuo rigore, sussisto

perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseria

sprezzante e perso – per un oscuro scandalo
della coscienza.

IV
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
Con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione,
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

==>SEGUE
liberale…. E rozza luce, tra i disgusti
di dandy provinciale, di provinciale
salute… Fino alle infinite minuzie

in cui sfumano, nel fondo animale,
Autorità e Anarchia…ben protetto
dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

difendendo una ingenuità di ossesso,
e con quale coscienza !, vive l’io; io,
vivo, eludendo la vita, con nel petto

il senso di una vita che sia oblio
accorante,violento,….ah come
capisco, muto nel fradicio brusio

del vento, qui dov’è muta Roma,
tra i cipressi stancamente sconvolti,
presso te, l’anima il cui graffito suona

Shelley ….Come capisco il vortice
dei sentimenti, il capriccio ( greco
nel cuore del patrizio, nordico

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
celeste del Tirreno; la carnale
gioia dell’avventura, estetica

e puerile: mentre prostrata l’Italia
come dentro il ventre di un’enorme
cicala, spalanca bianchi litorali,

sparsi nel Lazio di velate torme
di pini, barocchi, di giallognole
radure di ruchetta, dove dorme

col membro gonfio tra gli stracci un sogno
goethiano, il giovincello ciociaro….
Nella maremma, scuri, di stupende fogne

d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
il nocciolo, pei viottoli che il buttero
della sua gioventù ricolma ignaro.

Ciecamente fragranti nelle asciutte
curve della Versilia, che sul mare
aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

==>SEGUE
dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica; ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…

come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

V
Non dico l’individuale, il fenomeno
dell’ardore sensuale e sentimentale….
altri vizi esso ha, altro è il nome

e la fatalità del suo peccare..
Ma in esso impastati quali comuni,
prenatali vizi, e quale

oggettivo peccato! Non sono immuni
gli interni e esterni atti, che lo fanno
incarnato alla vita, da nessuna

delle religioni che nelle vita stanno,
ipoteca di morte, istituite
a ingannare la luce, a dar luce all’inganno.

Destinate a esser seppellite
le sue spoglie al Verano, è cattolica
la sua lotta con esse: gesuitiche

le manie con cui dispone il cuore;
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
la sua coscienza…e ironico ardore

==>SEGUE
le tarsie lievi della sua pasquale
campagna interamente umana,
espone, incupita sul Cinquale,

dipanata sotto le torride Apuane,
i blu vitrei sul rosa…Di scogli,
frane, sconvolti, come per un panico

di fragranza, nella riviera, molle,
erta, dove il sole lotta con la brezza
a dar suprema soavità agli olii

del mare…. E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza

ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome

del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,

in luride spiaggette…
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata

passione di essere nel mondo?

VI
Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea

che al quartiere in penombra si rapprende.
E lo sommuove. Lo fa diventare, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende

di una vita smaniosa che del roco
rotolìo dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concerto fioco

e assoluto. E senti come in quei lontani
esseri che, in vita, gridano, ridono,
in quei loro veicoli, in quei grami

caseggiati dove si consuma l’infido
ed espansivo dono dell’esistenza –
quella vita non è che un brivido,

==>SEGUE
corporea, collettiva presenza;
senti il mancare di ogni religione
vera; non vita, ma sopravvivenza

- forse più lieta della vita - come
d’un popolo di animali, nel cui arcano
orgasmo con ci sia altra passione

che per l’operare quotidiano:
umile fervore cui dà un senso di festa
l’umile corruzione. Quanto più è vano

- in questo vuoto della storia, in questa
ronzante pausa in cui la vita tace –
ogni ideale, meglio è manifesta

la stupenda, adusta sensualità
quasi alessandrina, che tutto minia
e impuramente accende, quando qua

nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
il mondo, nella penombra, rientrando
in vuote piazze, in scorate officine…

già si accendono i lumi, costellando
Via Zagaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande

lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.

Diademi di lumi che si perdono,
smaglianti, e freddi di tristezza
quasi marina….Manca poco alla cena;

brillano i rari autobus del quartiere,
con grappoli d’operai agli sportelli,
e gruppi di militari vanno, senza fretta,

verso il monte che cela in mezzo a sterri
fradici e mucchi secchi d’immondizia
nell’ombra, rintanate zoccolette

che aspettano irose sopra la sporcizia
afrodisiaca: e, non lontano, tra le casette
abusive ai margini del monte, o in mezzo

==>SEGUE
a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
leggeri come stracci giocano alla brezza
non più fredda, primaverile; ardenti

di sventatezza giovanile la romanesca
loro sera di maggio scuri adolescenti
fischiano pei marciapiedi, nella festa

vespertina; e scrosciano le saracinesche
dei garages di schianto, gioiosamente,
se il buio ha resa serena la sera,

e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
il vento che cade in tremiti di bufera,
è ben dolce, benché radendo i capellacci

e i tufi del macello, vi si imbeva
di sangue marcio, e per ogni dove
agiti rifiuti e odore di miseria.

È un brusio la vita, e questi persi
In essa la perdono serenamente,
se il cuore ne hanno pieno: a godersi

eccoli, miseri, la sera: e potente
in essi, inermi, per essi, il mito
rinasce…. Ma io, con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?

1954

Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: "Cinera Gramsci" con le date.
Il pianto della scavatrice

I
         Solo l'amare, solo il conoscere
    conta, non l'aver amato,
    non l'aver conosciuto. Dà angoscia
    
    il vivere di un consumato
    amore. L'anima non cresce più.
    Ecco nel calore incantato
    
    della notte che piena quaggiù
    tra le curve del fiume e le sopite
    visioni della città sparsa di luci,
    
    scheggia ancora di mille vite,
    disamore, mistero, e miseria
    dei sensi, mi rendono nemiche
    le forme del mondo, che fino a ieri
    erano la mia ragione d'esistere.
    Annoiato, stanco, rincaso, per neri
    
    piazzali di mercati, tristi
    strade intorno al porto fluviale,
    tra le baracche e i magazzini misti
    
    agli ultimi prati. Lì mortale
    è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
    alla stazione di Trastevere, appare
    
    ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
    alle loro borgate, tornano su motori
    leggeri - in tuta o coi calzoni
    
    di lavoro, ma spinti da un festivo ardore
    i giovani, coi compagni sui sellini,
    ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori
    
    chiacchierano in piedi con voci
    alte nella notte, qua e là, ai tavolini
    dei locali ancora lucenti e semivuoti.
    
    Stupenda e misera città,
    che m'hai insegnato ciò che allegri e
    feroci
    gli uomini imparano bambini,
    
   ==>SEGUE
le piccole cose in cui la grandezza
    della vita in pace si scopre, come
    andare duri e pronti nella ressa
    
    delle strade, rivolgersi a un altro uomo
    senza tremare, non vergognarsi
    di guardare il denaro contato
    
    con pigre dita dal fattorino
    che suda contro le facciate in corsa
    in un colore eterno d'estate;
    
    a difendermi, a offendere, ad avere
    il mondo davanti agli occhi e non
    soltanto in cuore, a capire
   
    che pochi conoscono le passioni
    in cui io sono vissuto:
    che non mi sono fraterni, eppure sono
    
    fratelli proprio nell'avere
    passioni di uomini
    che allegri, inconsci, interi
    
    vivono di esperienze
    ignote a me. Stupenda e misera
    città che mi hai fatto fare
    
    esperienza di quella vita
    ignota: fino a farmi scoprire
    ciò che, in ognun, era il mondo.
    
    Una luna morente nel silenzio,
    che di lei vive, sbianca tra violenti
    ardori, che miseramente sulla terra
    
    muta di vita, coi bei viali, le vecchie
    viuzze, senza dar luce abbagliano
    e, in tutto il mondo, le riflette
    
    lassù, un po' di calda nuvolaglia.
    È la notte più bella dell'estate.
    Trastevere, in un odore di paglia
    
    di vecchie stalle, di svuotate
    osterie, non dorme ancora.
    Gli angoli bui, le pareti placide
    
   ==>SEGUE
risuonano d'incantati rumori.
    Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
    - sotto festoni di luci ormai sole -
   
    verso i loro vicoli, che intasano
    buio e immondizia, con quel passo blando
    da cui più l'anima era invasa
    
    quando veramente amavo, quando
    veramente volevo capire.
    E, come allora, scompaiono cantando.

    II
         Povero come un gatto del Colosseo,
    vivevo in una borgata tutta calce
    e polverone, lontano dalla città
    
    e dalla campagna, stretto ogni giorno
    in un autobus rantolante:
    e ogni andata, ogni ritorno
    
    era un calvario di sudore e di ansie.
    Lunghe camminate in una calda caligine,
    lunghi crepuscoli davanti alle carte
    
    ammucchiate sul tavolo, tra strade di
    fango,
    muriccioli, casette bagnate di calce
    e senza infissi, con tende per porte...
    
    Passano l'olivaio, lo straccivendolo,
    venendo da qualche altra borgata,
    con l'impolverata merce che pareva
    
    frutto di furto, e una faccia crudele
    di giovani invecchiati tra i vizi
    di chi ha una madre dura e affamata.
    
    Rinnovato dal mondo nuovo,
    libero - una vampa, un fiato
    che non so dire, alla realtà
    
    che umile e sporca, confusa e immensa,
    brulicava nella meridionale periferia,
    dava un senso di serena pietà.
    
   ==>SEGUE
Un'anima in me, che non era solo mia,
    una piccola anima in quel mondo
    sconfinato,
    cresceva, nutrita dall'allegria
    
    di chi amava, anche se non riamato.
    E tutto si illuminava, a questo amore.
    Forse ancora di ragazzo, eroicamente,
    
    e però maturato dall'esperienza
    che nasceva ai piedi della storia.
    Ero al centro del mondo, in quel mondo
    
    di borgate tristi, beduine,
    di gialle praterie sfregate
    da un vento sempre senza pace,
    
    venisse dal caldo mare di Fiumicino,
    o dall'agro, dove si perdeva
    la città fra i tuguri; in quel mondo
    
    che poteva soltanto dominare,
    quadrato spettro giallognolo
    nella giallognola foschia,
    
    bucato da mille file uguali
    di finestre sbarrate, il Penitenziario
    tra vecchi campi e sopiti casali.
    
    Le cartacce e la polvere che cieco
    il venticello trascinava qua e là,
    le povere voci senza eco
    
    di donnette venute dai monti
    Sabini, dall'Adriatico, e qua
    accampate, ormai con torme
    
    di deperiti e duri ragazzini
    stridenti nelle canottiere a pezzi,
    nei grigi, bruciati calzoncini,
    
    i soli africani, le piogge agitate
    che rendevano torrenti di fango
    le strade, gli autobus ai capolinea
    
    affondati nel loro angolo
    tra un'ultima striscia d'erba bianca
    e qualche acido, ardente immondezzaio...
    
   ==>SEGUE


era il centro del mondo, com'era
    al centro della storia il mio amore
    per esso: e in questa
    
    maturità che per essere nascente
    era ancora amore, tutto era
    per divenire chiaro - era,
    
    chiaro! Quel borgo nudo al vento,
    non romano, non meridionale,
    non operaio, era la vita
    
    nella sua luce più attuale:
    vita, e luce della vita, piena
    nel caos non ancora proletario,
    
    come la vuole il rozzo giornale
    della cellula, l'ultimo
    sventolio del rotocalco: osso
    
    dell'esistenza quotidiana,
    pura, per essere fin troppo
    prossima, assoluta per essere
    
    fin troppo miseramente umana.

   III
         E ora rincaso, ricco di quegli anni
    così nuovi che non avrei mai pensato
    di saperli vecchi in un'anima
    
    a essi lontana, come a ogni passato.
    Salgo i viali del Gianicolo, fermo
    da un bivio liberty, a un largo alberato,
    
    a un troncone di mura - ormai al termine
    della città sull'ondulata pianura
    che si apre sul mare. E mi rigermina
    
    nell'anima - inerte e scura
    come la notte abbandonata al profumo
    una semenza ormai troppo matura
    
    per dare ancora frutto, nel cumulo
    di una vita tornata stanca e acerba...
    Ecco Villa Pamphili, e nel lume
    
    ==>SEGUE
che tranquillo riverbera
    sui nuovi muri, la via dove abito.
    Presso la mia casa, su un'erba
    
    ridotta a un'oscura bava,
    una traccia sulle voragini scavate
    di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia
    
    di distruzione - rampa contro radi palazzi
    e pezzi di cielo, inanimata,
    una scavatrice...
    
    Che pena m'invade, davanti a questi
    attrezzi
    supini, sparsi qua e là nel fango,
    davanti a questo canovaccio rosso
    
    che pende a un cavalletto, nell'angolo
    dove la notte sembra più triste?
    Perché, a questa spenta tinta di sangue,
    
    la mia coscienza così ciecamente resiste,
    si nasconde, quasi per un ossesso
    rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?
    
    Perché dentro in me è lo stesso senso
    di giornate per sempre inadempite
    che è nel morto firmamento
    
    in cui sbianca questa scavatrice?
    
    Mi spoglio in una delle mille stanze
    dove a via Fonteiana si dorme.
    Su tutto puoi scavare, tempo: speranze
    
    passioni. Ma non su queste forme
    pure della vita... Si riduce
    ad esse l'uomo, quando colme
    
    siano esperienza e fiducia
    nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia,
    che io credevo persi in una luce
    
    di necessità, e che ora so così liberi!
    
    Insieme al cuore, allora, pei difficili
    casi che ne avevano sperduto
    il corso verso un destino umano,
    
   ==>SEGUE
guadagnando in ardore la chiarezza
    negata, e in ingenuità
    il negato equilibrio - alla chiarezza
    
    all'equilibrio giungeva anche,
    in quei giorni, la mente. E il cieco
    rimpianto, segno di ogni mia
    
    lotta col mondo, respingevano, ecco,
    adulte benché inesperte ideologie...
    Si faceva, il mondo, soggetto
    
    non più di mistero ma di storia.
    Si moltiplicava per mille la gioia
    del conoscerlo - come
    
    ogni uomo, umilmente, conosce.
    Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,
    furono vivi nelle vive esperienze.
    
    Mutò la materia di un decennio d'oscura
    vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò
    che più pareva essere ideale figura
    
    a una ideale generazione;
    in ogni pagina, in ogni riga
    che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia,
    
    c'era quel fervore, quella presunzione,
    quella gratitudine. Nuovo
    nella mia nuova condizione
    
    di vecchio lavoro e di vecchia miseria,
    i pochi amici che venivano
    da me, nelle mattine o nelle sere
    
    dimenticate sul Penitenziario,
    mi videro dentro una luce viva:
    mite, violento rivoluzionario
    
    nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva

    IV
         Mi stringe contro il suo vecchio vello,
    che profuma di bosco, e mi posa
    il muso con le sue zanne di verro
    
    ==>SEGUE
o errante orso dal fiato di rosa,
    sulla bocca: e intorno a me la stanza
    è una radura, la coltre corrosa
    
    dagli ultimi sudori giovanili, danza
    come un velame di pollini... E infatti
    cammino per una strada che avanza
    
    tra i primi prati primaverili, sfatti
    in una luce di paradiso...
    Trasportato dall'onda dei passi,
    
    questa che lascio alle spalle, lieve e
    misero,
    non è la periferia di Roma: "Viva
    Mexico!" è scritto a calce o inciso
    
    sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
    decrepiti, leggeri come osso, ai confini
    di un bruciante cielo senza un brivido.
    
    Ecco, in cima a una collina
    fra le ondulazioni, miste alle nubi,
    di una vecchia catena appenninica,
    
    la città, mezza vuota, benché sia l'ora
    della mattina, quando vanno le donne
    alla spesa - o del vespro che indora
    
    i bambini che corrono con le mamme
    fuori dai cortili della scuola.
    Da un gran silenzio le strade sono invase:
    
    si perdono i selciati un po' sconnessi,
    vecchi come il tempo, grigi come il
    tempo,
    e due lunghi listoni di pietra
    
    corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
    Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
    qualche vecchia, qualche ragazzetto
    
    perduto nei suoi giuochi, dove
    i portali di un dolce Cinquecento
    s'aprano sereni, o un pozzetto
    
    con bestioline intarsiate sui bordi
    posi sopra la povera erba,
    in qualche bivio o canto dimenticato.
    
    ==>SEGUE
Si apre sulla cima del colle l'erma
    piazza del comune, e fra casa
    e casa, oltre un muretto, e il verde
    
    d'un grande castagno, si vede
    lo spazio della valle: ma non la valle.
    Uno spazio che tremola celeste
    
    o appena cereo... Ma il Corso continua,
    oltre quella familiare piazzetta
    sospesa nel cielo appenninico:
    
    s'interna fra case più strette, scende
    un po' a mezza costa: e più in basso
    - quando le barocche casette diradano
    
    ecco apparire la valle - e il deserto.
    Ancora solo qualche passo
    verso la svolta, dove la strada
    
    è già tra nudi praticelli erti
    e ricciuti. A manca, contro il pendio,
    quasi fosse crollata la chiesa,
    
    si alza gremita di affreschi, azzurri,
    rossi, un'abside, pesta di volute
    lungo le cancellate cicatrici
    
    del crollo - da cui soltanto essa,
    l'immensa conchiglia, sia rimasta
    a spalancarsi contro il cielo.
    
    È lì, da oltre la valle, dal deserto,
    che prende a soffiare un'aria, lieve,
    disperata,
    che incendia la pelle di dolcezza...
    
    È come quegli odori che, dai campi
    bagnati di fresco, o dalle rive di un
    fiume,
    soffiano sulla città nei primi
    
    giorni di bel tempo: e tu
    non li riconosci, ma impazzito
    quasi di rimpianto, cerchi di capire
    
    se siano di un fuoco acceso sulla brina,
    oppure di uve o nespole perdute
    in qualche granaio intiepidito
    
    ==>SEGUE
dal sole della stupenda mattina.
    Io grido di gioia, così ferito
    in fondo ai polmoni da quell'aria
    
    che come un tepore o una luce
    respiro guardando la vallata

    V
         Un po' di pace basta a rivelare
    dentro il cuore l'angoscia,
    limpida, come il fondo del mare
    
    in un giorno di sole. Ne riconosci,
    senza provarlo, il male
    lì, nel tuo letto, petto, cosce
    
    e piedi abbandonati, quale
    un crocifisso - o quale Noè
    ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro
    
    dell'allegria dei figli, che
    su lui, i forti, i puri, si divertono...
    il giorno è ormai su di te,
    
    nella stanza come un leone dormente.
    
    Per quali strade il cuore
    si trova pieno, perfetto anche in questa
    mescolanza di beatitudine e dolore?
    
    Un po' di pace... E in te ridesta
    è la guerra, è Dio. Si distendono
    appena le passioni, si chiude la fresca
    
    ferita appena, che già tu spendi
    l'anima, che pareva tutta spesa,
    in azioni di sogno che non rendono
    
    niente... Ecco, se acceso
    alla speranza - che, vecchio leone
    puzzolente di vodka, dall'offesa
    
    sua Russia giura Krusciov al mondo -
    ecco che tu ti accorgi che sogni.
    Sembra bruciare nel felice agosto
    
    di pace, ogni tua passione, ogni
    tuo interiore tormento,
    ogni tua ingenua vergogna
    
   ==>SEGUE
di non essere - nel sentimento -
    al punto in cui il mondo si rinnova.
    Anzi, quel nuovo soffio di vento
    
    ti ricaccia indietro, dove
    ogni vento cade: e lì, tumore
    che si ricrea, ritrovi
    
    il vecchio crogiolo d'amore,
    il senso, lo spavento, la gioia.
    E proprio in quel sopore
    
    è la luce... in quella incoscienza
    d'infante, d'animale o ingenuo libertino
    è la purezza... i più eroici
    
    furori in quella fuga, il più divino
    sentimento in quel basso atto umano
    consumato nel sonno mattutino.

   VI
         Nella vampa abbandonata
    del sole mattutino - che riarde,
    ormai, radendo i cantieri, sugli infissi
    
    riscaldati - disperate
    vibrazioni raschiano il silenzio
    che perdutamente sa di vecchio latte,
    
    di piazzette vuote, d'innocenza.
    Già almeno dalle sette, quel vibrare
    cresce col sole. Povera presenza
    
    d'una dozzina d'anziani operai,
    con gli stracci e le canottiere arsi
    dal sudore, le cui voci rare,
    
    le cui lotte contro gli sparsi
    blocchi di fango, le colate di terra,
    sembrano in quel tremito disfarsi.
    
    Ma tra gli scoppi testardi della
    benna, che cieca sembra, cieca
    sgretola, cieca afferra,
    
    quasi non avesse meta,
    un urlo improvviso, umano,
    nasce, e a tratti si ripete,
    
   ==>SEGUE
così pazzo di dolore, che, umano,
    subito non sembra più, e ridiventa
    morto stridore. Poi, piano,
    
    rinasce, nella luce violenta,
    tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
    urlo che solo chi è morente,
    
    nell'ultimo istante, può gettare
    in questo sole che crudele ancora splende
    già addolcito da un po' d'aria di mare...
    
    A gridare è, straziata
    da mesi e anni di mattutini
    sudori - accompagnata
    
    dal muto stuolo dei suoi scalpellini,
    la vecchia scavatrice: ma, insieme, il
    fresco
    sterro sconvolto, o, nel breve confine
    
    dell'orizzonte novecentesco,
    tutto il quartiere... È la città,
    sprofondata in un chiarore di festa,
    
    - è il mondo. Piange ciò che ha
    fine e ricomincia. Ciò che era
    area erbosa, aperto spiazzo, e si fa
    
    cortile, bianco come cera,
    chiuso in un decoro ch'è rancore;
    ciò che era quasi una vecchia fiera
    
    di freschi intonachi sghembi al sole,
    e si fa nuovo isolato, brulicante
    in un ordine ch'è spento dolore.
    
    Piange ciò che muta, anche
    per farsi migliore. La luce
    del futuro non cessa un solo istante
    
    di ferirci: è qui, che brucia
    in ogni nostro atto quotidiano,
    angoscia anche nella fiducia
    
    che ci dà vita, nell'impeto gobettiano
    verso questi operai, che muti innalzano,
    nel rione dell'altro fronte umano,
    
    il loro rosso straccio di speranza.
    
    1956



Il canto popolare

Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...

Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per il nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

==>SEGUE


E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
La terra di lavoro

Ormai è vicina la Terra di Lavoro,
qualche branco di bufale, qualche
mucchio di case tra piante di pomidoro,

èdere e povere palanche.
Ogni tanto un fiumicello, a pelo
del terreno, appare tra le branche

degli olmi carichi di viti, nero
come uno scolo. Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il gelo

autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regno

dei morti, passati da dolore
a dolore - senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,

eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto

di pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli sale

se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.

Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuore

negli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla
una creatura che dorme nel fondo
d’una vita d’agnellino, e la trastulla

- se si risveglia dal suo sonno
dicendo parole come il mondo nuove -
con parole stanche come il mondo.

==>SEGUE
Questa, se la osservi, non si muove,
come una bestia che finge d’esser morta;
si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta
la voce che a ogni istante le ricorda
la sua povertà come una colpa.

Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda,
senza neanche accorgersi, sospira.
Col piccolo viso scuro come torba,

in un muto odore di ovile,
un giovane è accanto al finestrino,
nemico, quasi non osando aprire

la porta, dare noia al vicino.
Guarda fisso la montagna, il cielo,
le mani in tasca, il basco di malandrino

sull’occhio: non vede il forestiero,
non vede niente, il colletto rialzato
per freddo, o per infido mistero

di delinquente, di cane abbandonato.
L’umidità ravviva i vecchi
odori del legno, unto e affumicato,

mescolandoli ai nuovi, di chiassetti
freschi di strame umano.
E dai campi, ormai violetti,

viene una luce che scopre anime,
non corpi, all’occhio che più crudo
della luce, ne scopre la fame,

la servitù, la solitudine.
Anime che riempiono il mondo,
come immagini fedeli e nude

della sua storia, benché affondino
in una storia che non è più nostra.
Con una vita di altri secoli, sono

vivi in questo: e nel mondo si mostrano
a chi del mondo ha conoscenza, gregge
di chi nient’altro che la miseria conosca.

Sono sempre stati per loro unica legge
odio servile e servile allegria: eppure
nei loro occhi si poteva leggere
==>SEGUE


ormai un segno di diversa fame - scura
come quella del pane, e, come
quella, necessaria. Una pura

ombra che già prendeva nome
di speranza: e quasi riacquistato
all’uomo, vedeva il meridione,

timida, sulle sue greggi rassegnate
di viventi, la luce del riscatto.
Ma ora per queste anime segnate

dal crepuscolo, per questo bivacco
di intimiditi passeggeri,
d’improvviso ogni interna luce, ogni atto

di coscienza, sembra cosa di ieri.
Nemico è oggi a questa donna che culla
la sua creatura, a questi neri

contadini che non ne sanno nulla,
chi muore perché sia salva
in altre madri, in altre creature,

la loro libertà. Chi muore perché arda
in altri servi, in altri contadini,
la loro sete anche se bastarda

di giustizia, gli è nemico.
Gli è nemico chi straccia la bandiera
ormai rossa di assassinî,

e gli è nemico chi, fedele,
dai bianchi assassini la difende.
Gli è nemico il padrone che spera

la loro resa, e il compagno che pretende
che lottino in una fede che ormai è negazione
della fede. Gli è nemico chi rende

grazie a Dio per la reazione
del vecchio popolo, e gli è nemico
chi perdona il sangue in nome

del nuovo popolo. Restituito
è cosi, in un giorno di sangue,
il mondo a un tempo che pareva finito:

la luce che piove su queste anime
è quella, ancora, del vecchio meridione,
l’anima di questa terra è il vecchio fango.
==>SEGUE



Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione
senti ormai che essa non conduce
a nuova aridità, ma a vecchia passione.

E ti perdi allora in questa luce
che rade, con la pioggia, d’improvviso
zolle di salvia rossa, case sudice.

Ti perdi nel vecchio paradiso
che qui fuori sui crinali di lava
dà un celeste, benché umano, viso

all’orizzonte dove nella bava
grigia si perde Napoli, ai meridiani
temporali, che il sereno invadono,

uno sui monti del Lazio, già lontani,
l’altro su questa terra abbandonata
agli sporchi orti, ai pantani,

ai villaggi grandi come città.
Si confondono la pioggia e il sole
in una gioia ch’è forse conservata

- come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra - in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:

vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

1956
Picasso

I
Nel tremito d'oro, domenicale 
di Valle Giulia, la nazione è calda, 
silenziosa: la sua innocenza è pari

alla sua impurezza. Sembra arda 
di popolare gioia, ed è una noia 
irreligiosa che solare si sparge

sui floreali gessi e i gran ventagli 
degli scalini. Non è questo 
che l'atto in cui si sbriciola un'Italia

istituita, un anonimo ed onesto
atto di civiltà... C'è chi lo compie 
tra le aiuole infuocate e il fresco

buio che le solca dai prorompenti 
pini di Villa Borghese, chi 
n'è riverberato nelle pompe

festive di Piazza di Spagna e si 
confonde in un brusio che trasale 
intorno monotono e stupendo: qui

è più acceso il senso di un'Italia 
vibrante in un'antica nota 
di pace, in una morte dolce come l'aria,

dove la classe più alta regna immota.

II
E per la scalea l'anonimo, anima 
senza memoria, in un corpo immiserito 
da secoli di sogni umilmente umani

di borghese esperienza, ormai è mitico 
in questa domenica dorata 
che lo vede chiaro nel chiaro vestito.

Come d'improvviso appare ornata, 
la sua vita, di mite passione, 
e la sua mente (dominata

dentro il cuore dell'Istituzione 
dalla sua dignità dura e servile) 
come pare arda, immune testimone,

d'umile desiderio di capire...


III
La prima tela dalla scorza intensa 
e ròsa, in un gemmante arabesco 
quasi artigiano, dipinta con terra

e nascosto fuoco: ancora fresco 
lo spirito del vecchio anteguerra 
vi mescola scandalo e festa,

l'abnorme del pensiero e il puro della 
tecnica, e ardente e affumicata 
la superficie i suoi toni inanella,

ceree corolle su zolla disseccata. 
Insegna della Francia più alta, 
quando il tramonto pareva un'infuocata

alba, e la disperazione espanta 
pena del creare, e il frantumarsi 
del secolo un suo disegno araldico.

IV
Ma già gli spumeggianti e crudi figli 
in nuvole di biancore, in acciarini 
contorni, con purezza di gigli

e carnalità di cuccioli ferini, 
delineano pur nel lume di un'idea 
degna di Velásquez, pur nelle trine,

l'eccesso di espressione che li crea.

V
L'espressione che sul pelo affiora 
del quadro, come da intimità viscerali, 
infetta di bruciante disamore,

e ne squassa la squama di tonali 
dolcezze, che, se resiste, e anzi 
irrigidisce, è per materiali,

inebbrianti cagli. Ma tra i balzi 
graffianti del pennello, la zona 
di quasi prativa luce, gli sfarzi

dei disaccordi, ecco l'Espressione:
che s'incolla alla cornea e al cuore,
irrichiesta, pura, cieca passione,

==>SEGUE
le forme interne, li fa nuovi oggetti, 
veri oggetti, né conta, anzi è coraggio, 
benché delirante, che si rifletta

in essi l'onta dell'uomo che appannaggio 
fa dell'Uomo, l'onta dell'uomo più 
recente, questo, questo che con saggio

calore guarda evidenziata salire su 
nelle atroci lastre la figura 
di se stesso, la sua colpa, la sua

storia. Vede ridotte alla furia oscura 
del sesso le esaltanti repressioni 
della Chiesa, e dispogliata in pura

chiarezza d'arte la chiara ragione 
liberale; vede celebrata 
in riverberanti figurazioni

la decadenza della snervata 
borghesia ancora avida nel miope 
rimpianto e nel cinismo...

Ma che lietezza profonda e quieta 
nel capire anche il male; che infinita 
esultanza, che vereconda festa,

nell'accorata sete di chiarezza, 
nell'intelligenza, che compiuta attesta 
la nostra storia nella nostra impurezza.

VIII
Poi ecco, colmo, l'errore di Picasso:
esposto sopra le grandi superfici 
che ne spalancano in pareti la bassa,

fittile idea, il puro capriccio, 
arioso, di gigantesca e grassa 
espressività. Egli - tra i nemici

della classe che specchia, il più crudele, 
fin che restavi dentro il tempo d'essa
- nemico per furore e per babelica

anarchia, carie necessaria - esce 
tra il popolo e dà in un tempo inesistente:
finto coi mezzi della vecchia stessa

==>SEGUE
sua fantasia. Ah, non è nel sentimento 
del popolo questa sua spietata Pace, 
quest'idillio di bianchi uranghi. Assente

è da qui il popolo: il cui brusio tace 
in queste tele, in queste sale, quanto 
fuori esplode felice per le placide

strade festive, in un comune canto
ch'empie rioni e cieli, borghi e valli, 
lungo l'Italia, fino all'Alpi, spanto

per declivi falciati e gialli 
frumenti - nei paesi della smarrita 
Europa - dove ripete i balli

e i cori antichi nell'antica 
aria domenicale  Ed è, l’errore, 
in questa assenza. La via d’uscita

verso l'eterno non è in quest'amore 
voluto e prematuro. Nel restare 
dentro l'inferno con marmorea

volontà di capirlo, è da cercare 
la salvezza. Una società 
designata a perdersi è fatale

che si perda: una persona mai.

IX
Sfortunati decenni così vivi 
da non poter essere vissuti 
se non con un'ansia che li privi

di ogni quieta conoscenza, con l'inutile 
dolore di assisterne la perdita 
nella troppa prossimità... Muti

decenni, di un secolo ancor verde, 
e bruciato dalla rabbia dell'azione 
non trascinante ad altro che a disperdere

nel suo fuoco ogni luce di Passione. 
Le ultime stanze gremisce la pura 
paura espressa in cristalline zone

d'infantile e senile cinismo: scura
e abbagliata l'Europa vi proietta
i suoi interni paesaggi. E matura
==>SEGUE


qui, se più trasparente vi si specchia, 
la luce della tempesta; i carnami 
di Buchenwald, la periferia infetta

delle città incendiate, i cupi camions 
delle caserme dei fascismi, i bianchi 
terrazzi delle coste, nelle mani

di questo zingaro, si fanno infamanti 
feste, angelici cori di carogne:
testimonianza che dei doloranti

nostri anni può la vergogna 
esprimere il pudore, tramandare 
l'angoscia l'allegrezza: che bisogna

essere folli per essere chiari.

1953
L’Appennino

I
Teatro di dossi, ebbri, calcinati,
muto, è la muta luna che ti vive,
tiepida sulla Lucchesia dai prati
troppo umani, cocente sulle rive
della Versilia, così intera sul vuoto
del mare – attonita su stive,
carene, vele rattrappite, dopo
viaggi di vecchia, popolare pesca
tra l’Elba, l’Argentario…
La luna, non c’è altra vita che questa.
E vi si sbianca l’Italia da Pisa
sparsa sull’Arno in una morta festa
di luci, a Lucca, pudica nella grigia
luce della cattolica, superstite
sua perfezione…
Umana la luna da queste pietre
raggelate trae un calore
di alte passioni… È, dietro
il loro silenzio, il morto ardore
traspirato dalla muta origine:
il marmo, a Lucca o Pisa, il tufo
a Orvieto…

II
Non vi accende
la luna che grigiore, dove azzurri
gli etruschi dormono, non pende
che a udire voci di fanciulli
dai selciati di Pienza o di Tarquinia…
Sui dossi risuonanti, brulli
ricava in mezzo all’Appennino
Orvieto, stretto sul colle sospeso
tra campi arati da orefici, miniature,
e il cielo. Orvieto illeso
tra i secoli, pesto di mura e tetti
sui vicoli di terra, con l’esodo
del mulo tra pesti giovinetti
impastati nel tufo.
Chiusa nei nervi, nel lucido passo,
tra sgretolate muraglie e scoscese
case, la bestia sale su dal basso
con ai fianchi le tinozze d’accesa

==>SEGUE
uva, sotto il busto di Bonifacio
prossimo a farsi polvere, difeso
da barocca altezza nella medioevale
nicchia della muraglia.

III
È assente dal suo gesto Bonifacio,
dal reggere la fionda nella grossa
mano Davide, e Ilaria, solo Ilaria…
Dentro nel claustrale transetto
come dentro un acquario, son di marmo
rassegnato le palpebre, il petto
dove giunge le mani in una calma
lontananza. Lì c’è l’aurora
e la sera italiana, la sua grama
nascita, la sua morte incolore.
Sonno, i secoli vuoti: nessuno
scalpello potrà scalzare la mole
tenue di queste palpebre.
Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia
perduta nella morte, quando
la sua età fu più pura e necessaria.

IV
Sotto le palpebre chiuse ride
tra i pidocchi il mammoccio di Cassino
comprato ai genitori; per le rive
furenti dell’Aniene, un assassino
e una puttana lo nutrono, nelle
coloniali notti in cui Ciampino
abbagliato sotto sbiadite stelle
vibra di aeroplani di regnanti,
e per i lungoteveri che sentinelle
del sesso battono in spossanti
attese intorno a terree latrine,
da San Paolo, a San Giovanni, ai canti
più caldi di Roma, si sentono supine
suonare le ore del mille
novecento cinquantuno, e s’incrina
la quiete, tra i tuguri e le basiliche.
Nelle chiuse palpebre d’Ilaria trema
l’infetta membrana delle notti
italiane… molle di brezza, serena
di luci… grida di giovanotti
caldi, ironici e sanguinari… odori

==>SEGUE
di stracci caldi, ora bagnati… motti
di vecchie voci meridionali… cori
emiliani leggeri tra borghi e maceri…
Dalla provincia viziosa ai cuori
bianchi dei globi dei bar salaci
delle periferie cittadine,
la carne e la miseria hanno placidi
ariosi suoni. Ma nelle veline
e massicce palpebre d’Ilaria, nulla
che non sia sonno. Forme mattutine
che, precoce, la morte alla fanciulla
legò al marmo. All’Italia non resta
che la sua morte marmorea, la brulla
sua gioventù interrotta…
Sotto le sue palpebre, nel suo
sonno, incarnata, la terra alla luna
ha un vergine orgasmo nell’argenteo buio
che sulla frana dell’Appennino sfuma
scosceso verso coste dove imperla
il Tirreno o l’Adriatico la spuma.
Dentro il rotondo recinto di pelli
e di metallo, isolato tra le fratte
in cerchio in una radura d’erba
verdissima sui dossi del Soratte,
dorme un umido, annerito gregge,
e il pastore con le membra contratte
nel calcare.

V
Sotto le sue palpebre chiuse Luni
all’addiaccio, e le trepide
città dove l’Appennino profuma
più umano nelle cesellate siepi,
tra i caldi arativi della Toscana,
o dove più selvaggio le vecchie pievi
assorbe nell’etrurio – s’allontanano
sull’ala dei vergini, chiari
suoni serali. Ed essa si dipana,
la catena, nei solchi secolari
delle vene del Serchio, dell’Ombrone
e, dietro rudi imbuti e terrei fari
d’albore, il Tevere, nel polverone
appenninico, pagano ancora…
Roma, dietro radure di peoni,
ruderi alessandrini e barocchi indora
alla luna, e disfatte borgate

==>SEGUE
irreligiose, dove tutto si ignora
che non sia sesso, grotte abitate
da feci e fanciulli; i lungofiumi
dal Pincio, all’Aventino, alle scarpate
dello spoglio San Paolo dove i lumi
ingialliscono la calda atmosfera,
risuonano dei passi che le umide
pietre macchiano, e la romana sera
echeggiandone, come una membrana
grattata da un vizioso dito, svela
più acuto l’odore dell’orina.

VI
Un esercito accampato nell’attesa
di farsi cristiano nella cristiana
città, occupa una marcita distesa
d’erba sozza nell’accesa campagna:
scendere anch’egli dentro la borghese
luce spera aspettando una umana
abitazione, esso, sardo o pugliese,
dentro un porcile il fangoso desco
in villaggi ciechi tra lucide chiese
novecentesche e grattacieli.
Sotto le sue palpebre chiuse questo
assedio di milioni d’anime
dai crani ingenui, dall’occhio lesto
all’intesa, tra le infette marane
della borgata.

VII
Si perde verso il bianco Meridione,
azzurro, rosso, l’Appennino, assorto
sotto le chiuse palpebre, all’alone
del mare di Gaeta e di Sperlonga…
Dietro il Massico stende Sparanise
candelabri di ulivi, tra festoni
di piante rampicanti sulle elisie
radure, dove lucono i lampioni
a San Nicola… Si spalanca il golfo
affricano di Napoli, nazione
nel ventre della nazione…
E non più Jacopo (più recente è il sonno
di Ilaria) sotto le palpebre fonde
in civile forma il popolare mondo
italiano, e contro gli sfondi

==>SEGUE
del suo paesaggio, non più scarnisce
in luce di intelletto – che non nasconde
la buia materia – una mano che unisce
a Dio il povero rione. Quaggiù
tutto è preumano, e umanamente gioisce,
contro il riso del volgare fu
ed è inutile ogni parola
di redenzione: splende nella più
ardente indifferenza dei colori
seicenteschi, quasi che al sole
o all’ombra non bastasse che la sola
sfrontata presenza, di stracci, d’ori,
con negli occhi l’incallito riso
dei bassi digiuni d’amore.
Ragazzi romanzi sotto le palpebre
chiuse cantano nel cuore della specie
dei poveri rimasta sempre barbara
a tempi originari, esclusa alle vicende
segrete della luce cristiana,
al succedersi necessario dei secoli:
e fanno dell’Italia un loro possesso,
ironici, in un dialettale riso
che non città o provincia ma ossesso
poggio, rione, tiene in sé inciso,
se ognuno chiuso nel calore del sesso,
sua sola misura, vive tra una gente
abbandonata al cinismo più vero
e alla più vera passione; al violento
negarsi e al violento darsi; nel mistero
chiara, perché pura e corrotta…
Se ognuno sa, esperto, l’ingenuo linguaggio
dell’incredulità, della insolenza,
dell’ironia, nel dialetto più saggio
e vizioso, chiude nell’incoscienza
le palpebre, si perde in un popolo
il cui clamore non è che silenzio.

1951


cieca manualità, impudico gonfiore 
dei sensi, e, dei sensi, tersa noia. 
A nient'altro che a questo ateo furore

poteva, nella cadente Francia, Goya 
cedere la sua violenza. Qui, a esprimersi, 
sono pura angoscia e pura gioia.

VI
Dentro l'ordinata processione, 
orda del sentire e del fare, 
non del credere, paesaggi, persone

sono scheletri in cui corporeo appare 
il loro perduto essere oggetti:
esprimerli è esprimerne il male.

La civetta patrizia con sul petto 
un avido verde o un viola che altro 
senso non ha che infiammare se stesso,

o nell'occhio uno sgorbio, folle e scaltro,
a tradire; i fiori che s'incarnano
a un feto o una seggiola e uno smalto

di toni che li incera nel composto 
ingranaggio; le spiagge dove gongola 
la gioia di un cadaverico agosto,

in cui l'inventare ha una mongola, 
monumentale libertà che nulla costa, 
una brutale libertà che il mondo

trasfigura per l'ignota forza 
che ha il vizio, che ha la voluttà 
dell'esibirsi: tutto porta

ad una calma furia di limpidità.

VII
Quanta gioia in questa furia di capire! 
In questo esprimersi che rende 
alla luce, come materia empirea,

la nostra confusione, che distende 
in caste superfici i nostri affetti 
offuscati! La chiarezza che ne accende

==>SEGUE
Le ceneri di Gramsci è un libro di poesie nel quale Pasolini raccoglie in un unico volume 11 poemetti che lo stesso poeta aveva scritto e pubblicato in varie riviste tra il 1951 e il 1956 revisionati e pubblicati nel 1957 nelle edizioni Garzanti.
Gli undici poemetti sono: 1) L’Appennino; 2) Il canto popolare; 3) Picasso; 4) Comizio; 5) L’umile Italia; 6) Quadri friulani; 7) Le ceneri di Gramsci; 8) Recit; 9) Il pianto della scavatrice; 10) Una polemica in versi; 11) La Terra di lavoro.