CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS
Untitled




PIER PAOLO PASOLINI


POESIE VARIE

Parte II
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Pier Paolo Pasolini:

Poeta corsaro e disperato amante del popolo
_________

di
Olivia Trioschi
__________________
PIER PAOLO PASOLINI  - POESIE VARIE - Parte II









































FINE
Ricordiamo. Giovanotti nerboruti, esaltati, pieni di incoscienza e ardimento, con una gran voglia di saltare, urlare, emergere in qualche modo - qualsiasi modo - alla vita, alla violenza della vita, si trovavano a Napoli luccicante del mare d'autunno. Nelle orecchie avevano la voce stentorea e potente del loro capo, negli occhi i suoi pugni sui fianchi, le gambe divaricate, lo sguardo di vuoto e nero metallo. "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando su Roma - gridava il capo - ormai si tratta di giorni, forse di ore!": grida, sventolio di bandiere, pugnali, fucili, mani, fazzoletti. Il sole fissava, immobile. La piazza ruggiva: voleva Roma, voleva l'Italia, voleva il mondo intero. Cinque giorni dopo aveva Roma e l'Italia. Poi avrebbe cercato di prendersi anche qualche fetta di mondo. Era il 1922. Cosa li aspettava - ai giovanotti -, cosa ci aspettava, noi tutti, generazioni presenti e future, è scritto nei testi di storia e nelle cicatrici fumanti d'Italia. Fascismo: parola corvina, lunga notte di paura. Notte senza fine, pensava Pier Paolo Pasolini.
    È difficile, forse impossibile, parlare di Pasolini, anche solo di Pasolini poeta, senza andare a sbattere, più prima che poi, contro il fascismo. Per lui fu come un'ossessione perenne, prima sotto la forma del fascismo storico e poi in quella, più velenosa e strisciante, di categoria eterna che riassume in sé il conformismo, il disprezzo per il diverso, l'appiattimento intellettuale, il bla-bla politicante. Tanto vale farlo subito, allora. Tanto più che la coincidenza tra le date è, se non simbolica, almeno suggestiva. Pasolini era nato a Bologna proprio in quel fatidico 1922, "anno immerso nel secolo", come dirà più tardi in un verso. Bologna, e per estensione l'Appennino tosco-emiliano, Casarsa in Friuli e Roma sono i tre luoghi della crescita intellettuale, della memoria struggente e della sfida di Pasolini critico, poeta e intellettuale "corsaro". Ultimo maledetto nel cercare scampo alla vita nella poesia, nel cercare di mettere tutto - passione, amore, odio, vita, morte - nei suoi versi. Nel restare ucciso, infine, per mano di un Narciso - di quelli tante volte cantati e amati - proprio dal sistema contro il quale si era scontrato, da sempre. Perché, tra le altre cose, Pasolini era un personaggio scomodo: spietatamente lucido, intelligente e diverso. E perciò solitario. Di Pasolini resta molto. Gli scritti, tanti, di tutti i generi: poesie, romanzi, sceneggiature, interventi critici, articoli, saggi.
Ah, il popolo. Cos'è il popolo? Chi è il popolo? Pasolini se lo chiese per tutta una vita. Lui, il borghese figlio di borghesi, di antica famiglia ravennate era dolorosamente consapevole di essere per sempre escluso dalla massa dei poveri (eccolo qui, il popolo) in cui, prima che una "classe"  nel senso politico del termine, riconosceva una forma di vita innocente, incontaminata e pura. Da qui sono nate le sue prime poesie. Perché va anche detto che Pasolini, variamente definito "provocatore ideologico" piuttosto che "coscienza critica della cultura italiana" - tutto vero, naturalmente - volle essere e fu prima di tutto poeta. Pasolini non era certo tipo da usare le parole a caso. Selettivo ed eletto, dunque. Indubbiamente, lo è sempre stato. E poi, la madre, cui era legato da un "disperato amore" (sono sempre parole sue): "Parma, un viale, e il riso di mia madre" è il primo verso di una poesia. Col padre, invece, le cose non andavano proprio così. Presenza intermittente per molti anni a causa delle lunghe campagne militari, impersonava gli occhi del figlio il più cieco conformismo, la totale mancanza di naturalezza e spontaneità (doti che invece riconosceva e amava nella madre). E il fossato sarebbe col tempo diventato incolmabile, anche se il padre "gongolava" per i successi scolastici del figlio e per la sua evidente e precoce vocazione letteraria.
    La prima raccolta, Poesie a Casarsa, uscì a spese di Pasolini nel 1942, a Bologna, città dove la famiglia era tornata dopo molti anni di traslochi continui legati ai trasferimenti di caserma in caserma dell'ufficiale Carlo Alberto Pasolini. Lì Pier Paolo frequentò l'università, laureandosi in lettere con una tesi su Pascoli (in cui riconosceva un maestro soprattutto per le scelte linguistiche, fondamentali per entrambi) e divenne amico di Roberto Roversi e Francesco Leonetti. Con loro visse la grande stagione dell'ermetismo, fondando nel 1941 una rivista dal significativo titolo Eredi. Nel 1942, dunque, aveva appena vent'anni. Le poesie pubblicate erano state scritte nei tre anni precedenti, a Casarsa ma più spesso lontano da lì. Casarsa era il paese della madre, e ogni estate Pasolini ci andava a passare l'estate nella "povera villeggiatura presso parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva". Questo come notazione storico-geografica. Nella poesia Casarsa diventò il luogo della purezza, della gioventù bella e accesamente sensuale, del mondo come doveva essere prima che iniziasse la Storia: un mondo deve la natura e l'uomo potevano ancora essere tutt'uno. In quest'ottica, la scelta del dialetto come lingua d'elezione si imponeva da sola. Fu una scelta emotiva, prima che intellettuale. In seguito Pasolini si accorse che poteva e doveva essere anche un rifiuto della cultura nazional-fascista che imponeva l'abbandono di idiomi e particolarismi locali in ossequio alle direttive del centro. Ma all'inizio fu, appunto, la scoperta emozionante dell'esistenza di una lingua che possedeva riserve intatte di gusto, sapienza, liricità, di contro alla lingua nazionale impoverita, sfruttata ed esausta. "Su quel poggiolo (a Casarsa) stavo disegnando oppure scrivendo quando risuonò la parola rosada. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada La parola "rosada" pronunciata in quella mattinata di sole non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua e al di là del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo m'interruppi subito. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada".
        Poesie a Casarsa uscì nel totale silenzio della critica, salvo che per una - ma illustrissima - voce: quella di Gianfranco Contini, che recensì il volumetto sul Corriere di Lugano proprio per le resistenze del regime a dare notorietà a un poeta dialettale. Ciò nonostante, fu per Pasolini un momento di felicità completa: "Chi potrà mai descrivere la mia gioia? - ricordava - Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno". Che differenza con quanto avverrà dopo, quando ogni prova pubblica di Pasolini sarà accompagnata da un coro di recensioni, premi, applausi, insulti, denunce, processi. Il volumetto, dunque, nasce così, come un gioiellino prezioso e nascosto. Prezioso perché tale è la lingua scelta: dialetto, sì, ma raffinato e coltivato come "lingua pura per poesia". Non a caso nella prima pagina si leggevano alcuni versi di Peire Vidal, poeta provenzale. Il richiamo a quella lirica ci fornisce un'indicazione importantissima sulle scelte dell'autore: Pasolini non è lontano dalla sua terra (anche se molti di questi versi furono effettivamente scritti a Bologna o altrove, quando più forte si faceva sentire la nostalgia) ma si sente ugualmente esule, tagliato fuori dalla possibilità di attingervi direttamente, di goderla in prima persona come i giovanetti (ideali proiezioni di se stesso) che si muovono leggiadri tra fontane e prati; lui, malato di un'altra civiltà e di un'altra sensibilità colta, sensuale e decadente. Il sentimento di pienezza e felicità che deriva dalla contemplazione della propria terra è quindi minato alla radice, e perciò le soavi e tenere immagini di cui sono fatte le liriche si concludono spesso con un richiamo alla morte. Il Friuli è evidentemente una terra mitica e il dialetto l'unica chiave possibile per tentare di recuperare quel mito che ha tuttavia in sé, fin dall'inizio, i germi della decadenza e della morte. Come se Pasolini proiettasse sulla terra di sua madre la madre stessa, e vivesse per Casarsa lo stesso genere di amore disperato per lei e per la sua infanzia felice. Ma finita, passata per sempre.
         L'8 settembre 1943 Pasolini, militare da appena una settimana, rifiutò di consegnare le armi ai tedeschi e scappò insieme alla madre e al fratello (il padre era prigioniero di guerra in Africa) a Casarsa, dove rimase fino alla fine della guerra e oltre. A chi, in seguito, gli rimproverò di non aver fatto nient'altro che questo contro il fascismo, rispondeva che anzi, la sua partecipazione alla Resistenza era stata tale da farlo finire in camera di sicurezza; dopo di che era vissuto nascosto e terrorizzato all'idea di finire uncinato (fine riservata ai giovani del litorale adriatico renitenti alla leva o antifascisti). Ciò nonostante, non poteva restare inattivo almeno dal punto di vista della cultura. Insieme ad alcuni amici pubblicò il quaderno Stroligut di ca' de l'aga (L'indovino di qua dell'acqua, cioè della sponda destra del Tagliamento) dove la poetica dialettale viene approfondita diventando, ora sì, anche strumento di opposizione al regime e rivendicazione di dignità di lingua: le traduzioni in italiano sono abolite (mentre erano incluse nelle Poesie a Casarsa) e grandi poeti stranieri (come Verlaine e Wordsworth) vengono tradotti in friulano. Dopo la guerra quest'esperienza confluì nell'Academiuta di Lenga Furlana, un gruppo di studio che affiancava alle iniziative di tipo culturale (incluse lezioni private gratuite ai figli dei contadini poveri che avevano smesso di andare a scuola) anche precise richieste politiche in merito all'autonomia del Friuli nell'ambito della neonata repubblica. Intanto due morti avevano segnato la vita di Pasolini: quella della nonna materna, le cui fasi dall'agonia alla sepoltura Pasolini accompagnò con una serie di brevi componimenti in italiano (Guardaci timidamente / dal cielo / come quando nel buio / di questa casa, / sconfortata sedevi) e, poco dopo, quella del fratello partigiano, ucciso nel noto eccidio di Porzus, vicino al confine jugoslavo, in cui i partigiani di Tito, che intendevano allora annettersi il Friuli, massacrarono la brigata Osoppo.
         Pasolini si stava dunque "storicizzando". La sua poesia, da questo momento, non fu più solo di disperato amore per il Friuli e la sua bella gioventù, non fu più solo rimpianto accorato. Vi entrò il popolo, questa nuova forza, vergine e potente, che sarebbe potuta irrompere nella storia con violenza inaudita e benedetta. C'era, doveva esserci, una possibilità di riscatto per il popolo, all'ombra delle belle bandiere (gli stracci rossi) che allora venivano sventolate; Cristo l'aveva promesso: "Piegatevi, gente cristiana, / a sentire un filo di voce, / fra tutto questo silenzio, / che scende dalla croce". Sono queste le componenti del "populismo evangelico" che animerà Pasolini. Una religione-passione, simboleggiata dalla figura del Cristo povero e sofferente e nutrita di simboli arcani, tratti dalla religione pagana e contadina dei suoi friulani ("Verrà il vero Cristo, operaio") in aperto contrasto con la religione-autorità, fortemente compromessa coi fascismi di tutti i tempi, e l'attesa della riscossa da parte del popolo, serbatoio di verità. La "scoperta di Marx" è del 1947, contemporanea a una vicenda reale. "L'ho detto tante volte, in tante interviste: ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato poi nel 1962 con il titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci". Il sogno era per l'appunto la speranza di rinnovamento e giustizia sociale che si sentiva fortissima in Italia, dopo la guerra. Pasolini si impegnò in prima persona, con la passione di sempre, perché quel sogno diventasse realtà. Dopo l'iscrizione al PCI divenne segretario di sezione, e da quella posizione condusse le molte battaglie dell'epoca: quelle per le elezioni del 1946 e per il referendum istituzionale del 1948; quelle antidemocristiane e anticlericali; quelle per l'autonomia del Friuli. Pio XII scomunicava i comunisti e lui affiggeva tatzebao contro i preti sotto il loggiato della piazza di Casarsa. L'intellettuale, pensava Pasolini, aveva il dovere di creare una nuova cultura, una cultura che voleva "trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza" per usare le sue stesse parole. Utopiche, certamente. Come tutte le belle speranze dei bei momenti in cui sembra che tutto possa accadere fuorché una mutazione gattopardesca delle cose, delle persone, delle istituzioni.
    Nell'inverno del '49, scrisse Pasolini, "fuggii con mia madre a Roma, come in un romanzo. Il periodo friulano era finito". Perché questa fuga a rotta di collo, come un braccato, come un delinquente, proprio in un periodo così pieno di speranza? Alcune biografie tacciono, ma i fatti sono ormai risaputi. Pasolini era diventato, per la legge, esattamente questo: un delinquente. In un paese come il nostro, dove il comune senso del pudore, con tutti i suoi necessari corollari di ipocriti silenzi e altrettanto ipocrite denunce a gran voce, ha sempre vinto tutte le sue battaglie e affossato tutte le sue vittime, forse non poteva finire altrimenti che così. Pasolini insegnava allora nella scuola media di un paese vicino a Casarsa. Nell'ottobre del 1949 venne accusato di "corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico". Pochi, forse nessuno, sapevano allora della sua omosessualità. Fu una vera bomba, probabilmente montata ad arte e strategicamente strumentalizzata dalla stampa cattolica locale. Fatto sta che il poeta si trovò insultato, accusato, minacciato, espulso dal PCI "per indegnità morale e politica" e, naturalmente, processato; processi dai quali uscì prosciolto, nel 1950 per l'accusa di corruzione di minorenne, e nel 1952 per quella di atti osceni in luogo pubblico (per insufficienza di prove). A Roma Pasolini abitò dapprima nel "ghetto" vicino al Portico d'Ottavia e in seguito a Rebibbia, vicino al carcere, nelle borgate lungo la Tiburtina. "Per due anni - raccontava - fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese". Di affitto ne pagava tredici. Furono anni "di lavoro accanito, di pura lotta". E in casa l'atmosfera non era certo serena, specie dopo il ritorno del padre. "E mio padre sempre là - continuava il poeta - in attesa, solo nella povera cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti". Quel periodo di "pura lotta" cominciò a sciogliersi, all'inizio degli anni Cinquanta, grazie all'aiuto di alcuni amici. Il poeta dialettale Vittorio Clemente gli trovò il posto a scuola; lo scrittore Giorgio Bassani gli presentò registi di Cinecittà come Soldati, Fellini, Flaiano coi quali Pasolini collaborò alla preparazione di numerosi film (per La donna del fiume di Soldati scrisse la sceneggiatura, così come per Il prigioniero della montagna, insieme a Bassani; Fellini lo volle come filologo per curare le battute in romanesco delle Notti di Cabiria). Nel 1955 Pasolini fondò a Bologna, con Leonetti e Roversi (dell'antico gruppo di Eredi) una nuova rivista letteraria, Officina. Il ruolo di Officina come luogo di confronto e dibattito sui compiti della letteratura e degli intellettuali, come occasione di verifica ideologica (in un momento delicatissimo per il PCI quale fu quello seguito all'indimenticabile 1956), è noto. Alla rivista collaborò, entrando poi nel comitato di redazione, anche Franco Fortini, tanto per fare un nome. Più o meno nello stesso periodo furono pubblicate le poesie e le prose scritte da Pasolini dopo la guerra, dunque in parte risalenti ancora agli anni di Casarsa. Ragazzi di vita, il romanzo sulla periferia romana e i suoi abitanti, uscì nel 1955. Accusa di oscenità, nuovo processo. Riesplodeva il "caso" Pasolini. Non si sarebbe chiuso che vent'anni dopo, con la sua morte.
         Le Poesie a Casarsa, più altre in dialetto, furono riunite nel volume La meglio gioventù e pubblicate nel 1954. Poi ci fu un'inversione cronologica. Nel 1957, infatti, usciva Le ceneri di Gramsci, poesie composte tra il '51 e il '56, e solo nel 1958 (per una serie di motivazioni editoriali e di stesura) L'usignolo della Chiesa cattolica, scritto molto prima, tra il 1943 e il 1949. Queste due raccolte costituiscono uno snodo fondamentale nella poetica pasoliniana, e pertanto è necessario tenere ben presente le date di composizione e non quelle di pubblicazione. Nell'Usignolo, infatti, vive ancora il mondo friulano arcaico e mitizzato cui si accennava prima, percepito dal poeta con tutti i suoi accesi sensi e al contempo con tutta la sua inquietudine esistenziale; e insieme si trova un cristianesimo primitivo e, per la Chiesa, sacrilego, nel quale Cristo è prima di tutto sofferenza della carne, sangue e patimento. Un Cristo eretico, diverso, il cui martirio fa nascere una domanda ineludibile: "Perché Cristo fu esposto in croce?" Perché "esibire la sua morte?" Bisogna esporsi, dunque. È questo l'insegnamento di quell'uomo dal "corpo di giovinetta", insanguinato e inchiodato al suo albero di dolore. E questo è il significato del crocefisso: "sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull'abisso" e tremare "d'intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco / per testimoniare lo scandalo".  La religione, sia pure quella della tradizione contadina, che aveva animato secoli di feste paesane e liturgie nelle povere chiesette friulane, nelle ingenue e sante preghiere dei poveri, non basta più a Pasolini. La Storia rimette in gioco il popolo, e questa volta sembra dargli una possibilità nuova, concreta. Il marxismo, ora, è la speranza. "Pasolini - scrive Luigi Martellini - percorre razionalmente i sentieri periferici che lo portano istintivamente, e passionalmente, verso la ricerca della giustizia". È questo il passaggio fondamentale che avviene con Le ceneri di Gramsci. Passaggio contraddittorio - e Pasolini ne è tanto consapevole che parla, in un verso, di "scandalo del contraddirmi" - tra intelletto e passione, tra razionale e irrazionale, tra necessità di capire la realtà (quella nuova realtà delle borgate e del sottoproletariato romano in cui Pasolini si trova a vivere) e adesione emotiva a un ideale di riscatto che non può essere spiegato razionalmente. È la parte centrale delle Ceneri: "lo scandalo di contraddirmi, dell'essere / con te e contro di te; con te nel cuore / in luce, contro te nelle buie viscere" - Pasolini qui si rivolge direttamente a Gramsci; e più avanti: "attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza". Ma anche il marxismo, nella sua applicazione pratica, nella prassi militante dei suoi dirigenti, rivela presto l'incapacità di conoscere la millenaria vita proletaria del popolo; e ciò diventa ancor più evidente per Pasolini dopo i fatti del 1956, anno in cui scrive tre poemetti. Il popolo è stato tradito dai "compagni di strada" che chiedono "il mistico rigore di un'azione / sempre pari all'idea"; mentre "è all'errore / che io vi spingo, al religioso / errore"; e ancora, rivolgendosi ai dirigenti del PCI: "avete, accecati dal fare, servito / il popolo non nel suo cuore / ma nella sua bandiera: dimentichi / che deve in ogni istituzione / sanguinare, perché non torni mito, / continuo il dolore della creazione".
         Negli anni Sessanta Pasolini scrive ancora poesie, molte, che confluiranno nelle raccolte La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizzar (l'ultima, nel 1971). In esse giunge a compimento la crisi poetica di Pasolini, che comincia a preferire nuove forme espressive (il cinema, com'è noto. Il primo film, Accattone, è del 1961).
    Lo dichiara apertamente nel 1967: "non scrivo più poesie da due o tre anni. Questo non me lo sarei mai aspettato. Perché non scrivo più? Perché ho perduto il destinatario. Non vedo più con chi dialogare usando quella sincerità addirittura crudele che è tipica della poesia. Ho creduto per tanti anni che un destinatario delle mie 'confessioni' esistesse. Mi sono dunque accorto che non esiste".
    Cos'era accaduto? La Storia era andata avanti, era penetrata nel sottoproletariato: gli aveva portato la televisione, le lotterie, i rotocalchi; gli aveva innestato bisogni fasulli, appiattendo quell'allegria fuori dal tempo in cui Pasolini riconosceva e identificava la propria religione. Il popolo era stato "organizzato", imborghesito a furia di elettrodomestici e automobili. "Altre mode / altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo / a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole".
    Anche il miraggio dell'Africa, unica alternativa al disfacimento di cui si sentiva circondato, svanì ben presto. Il vero nemico, invincibile, è la borghesia antropofaga; ed è contro questo Leviatano del XX secolo che si batte negli ultimi anni della sua vita con sempre più numerosi interventi su giornali e riviste, con articoli di denuncia e pubbliche dichiarazioni, con prese di posizione apertamente polemiche: all'indomani degli scontri a Valle Giulia, preambolo del 1968, scrive rivolgendosi agli studenti: "I ragazzi poliziotti / che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) / di figli di papà, avete bastonato / appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è avuto così un frammento / di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte / della ragione), eravate i ricchi, / mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, / la vostra!". La poesia di Pasolini è ora quasi prosa; ma si tratta ancora una volta di una scelta precisa: lontani i tempi delle sperimentazioni e delle infinite libertà espressive date dal dialetto, si impone l'urgente necessità di entrare, a partire dal linguaggio, nella realtà storica, per denunciarne, con ogni mezzo, il nuovo fascismo. Comincia la stagione di Pasolini intellettuale "corsaro", pubblico accusatore dei guasti della classe al potere, nella quale individua, facendo nomi e cognomi, i responsabili dello sfascio delle istituzioni e del paese intero. Stagione breve, tragicamente interrotta in una notte di novembre del 1975. In quella notte, alla periferia di Roma, Pasolini fu esposto, pesto e sanguinante, sulla sua croce. "Storia di froci", dissero.
  Ricordiamo. Ragazzi e ragazze, uomini e donne, uniti dal silenzio, guardano passare una bara, alta sulle loro teste. Alcuni sollevano il pugno chiuso, altri abbassano la testa. Il popolo, qualsiasi cosa sia, saluta il suo disperato amante.
_____________________________





il libro delle croci

Da quel gabbione uscii...
    Nessuno mi guardava.
    Per quale distrazione?
    Per quale pensiero immerso
    senza pietà nel cuore?
    Per quale esclusiva
    incomunicabile passione?
    Come una vecchia carta,
    un pezzo di giornale trascinato
    sul lastrico dal vento,
    vagavo, ignorato, contro i cantoni
    di marmo e ottone,
    gli alberelli severi del Nord,
    i vetri di una Banca...
    Il futuro dell'uomo!
    Nessuno sapeva più nulla della pietà,
    della speranza: sapevano
    in questa accanita città,
    solamente il futuro, come già seppero la vita.
    Ognuno l'aveva in cuore,
    passione quotidiana, scontata
    novità, luce della nuova storia.
    E io senza più capire
    cos'aveva potere d'importargli,
    di avere per loro significato
    di farli ridere, di farli piangere,
    ero un vecchio pezzo di giornale,
    trascinato dal nuovo vento
    tra i loro piedi di Angeli.

Esistenza

Ritrovarmi in questo ovale
    con un legame vitale
    in solitudine a volteggiare
    con l 'infinito aspettare
    di qualcosa.
    Sognare
    di poter camminare
    in un nuoto perpetuo
    di pensieri
    intravedendo una luce bianca.
    La fine di tutto.
    Uno schiocco
    Un pianto.
    La nascita della vita in bracccio a giganti biancheggianti.
    Crescendo vidi cose senza senso
    cosciente del perduto collettivo senno.
    Vidi uomini con biancheggianti vestiti
    baciare e non procreare
    di fronte a un freddo altare
    in nome di una croce
    e un continuo narrare.
    Esseri travestiti
    professare falsi miti
    e scuole dove si imparava a vivere
    lasciando l'intelligenza reprimere.
    Sicuri di un tranquillo lavoro
    si sedevano su un falso trono
    lasciando che un finto quadrato
    rubassero loro gli anni d'oro.
    Ed ora piano piano mi invecchio
    sperando ancora in un qualche cambiamento.
    Disteso in un biancheggiante letto
    rimango cosciente che della vita
    e delle esperienze connesse ad essa
    non mi interessa piu niente.
    Tutto improvvisamente si illumina di bianco
    e mi appresto al grande salto.
    Ma con me non posso portare nient'altro
    che un tatuaggio
    situato dentro al cuore
    con impresso dentro il nome
    di quella persona che in questa vita
    mi diede tanto amore.


Alba

Alba
    O sen svejàt
    dal nòuf soreli!
    O me cialt jet
    bagnàt di àgrimis!

    Cu n'altra lus
    mi svej a planzi
    i dìs ch'a svualin
    via come ombrenis.

MI alzo con le palpebre infuocate

    MI alzo con le palpebre infuocate.
    La fanciullezza smorta nella barba
    cresciuta nel sonno, nella carne smagrita,
    si fissa con la luce fusa nei miei occhi riarsi.
    Finisco così nel buio incendio
    di una giovinezza frastornata dall'eternità;
    così mi brucio, è inutile
    - pensando - essere altrimenti,
    imporre limiti al disordine: mi trascina
    sempre più frusto, con un viso secco
    nella sua infanzia, verso un quieto e folle
    ordine, il peso del mio giorno perso
    in mute ore di gaiezza, in muti
    istanti di terrore...

Senza di te tornavo, come ebbro...

    Senza di te tornavo, come ebbro,
    non più capace d'esser solo, a sera
    quando le stanche nuvole dileguano
    nel buio incerto.
    Mille volte son stato così solo
    dacché son vivo, e mille uguali sere
    m'hanno oscurato agli occhi l'erba, i monti
    le campagne, le nuvole.
    Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
    della fatale sera. Ed ora, ebbro,
    torno senza di te, e al mio fianco
    c'è solo l'ombra.

    E mi sarai lontano mille volte,
    e poi, per sempre. Io non so frenare
    quest'angoscia che monta dentro al seno;
    essere solo.


Hymnus ad nocturnum

    Ho la calma di un morto:
    guardo il letto che attende
    le mie membra e lo specchio
    che mi riflette assorto.

    Non so vincere il gelo
    dell'angoscia, piangendo,
    come un tempo, nel cuore
    della terra e del cielo.

    Non so fingermi calme
    o indifferenze o altre
    giovanili prodezze,
    serti di mirto o palme.

    O immoto Dio che odio
    fa che emani ancora
    vita dalla mia vita
    non m'importa più il modo.




Nazione senza speranze! L'Apocalisse
    esploso fuori dalle coscienze
    nella malinconia dell'Italia dei Manieristi,
    ha ucciso tutti: guardateli - ombre
    grondanti d'oro nell'oro dell'agonia.

A un ragazzo

Così nuovo alla luce di questi mesi nuovi
che tornano su Roma, e che a noi altrove

ancorati a una luce di altri tempi,
sembrano portati da inutili venti,

tu, con fresco pudore, e ingenuamente senza
pietà, scopri per te, per noi, la tua presenza.

Col sorriso confuso di chi la timidezza
e l’acerbità sopporta con allegrezza,

vieni tra gli amici adulti e fieramente
umile, ardentemente muto, siedi attento

alle nostre ironie, alle nostre passioni.
Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,

vergognandoti quasi del tuo cuore festoso...
Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,

ma perché esiste: per te, perché tu sia
nuovo testimone, dolce-contento al quia...

........

Tu vuoi SAPERE, da noi: anche se non chiedi
o chiedi tacendo, già appartato e in piedi,

o tenti qualche domanda, gli occhi vergognosi,
ben sentendo in cuore ch’è vano ciò che osi,

se di noi vuoi sapere ciò che noi ai tuoi occhi
ormai siamo, vuoi che le perdute notti

del nostro tempo siano come la tua fantasia
pretende, che eroica, com’è eroica essa, sia

la parte di vita che noi abbiamo spesa
disperati ragazzi in una patria offesa.

==>SEGUE

Poesie mondane

    Ci vediamo in proiezione, ed ecco
    la città, in una sua povera ora nuda,
    terrificante come ogni nudità.
    Terra incendiata il cui incendio
    spento stasera o da millenni,
    è una cerchia infinita di ruderi rosa,
    carboni e ossa biancheggianti, impalcature
    dilavate dall'acqua e poi bruciate
    da nuovo sole. La radiosa Appia
    che formicola di migliaia di insetti
    - gli uomini d'oggi - i neorealistici
    ossessi delle Cronache in volgare.
    Poi compare Testaccio, in quella luce
    di miele proiettata sulla terra
    dall'oltretomba. Forse è scoppiata,
    la Bomba, fuori dalla mia coscienza.
    Anzi, è così certamente. E la fine
    del Mondo è già accaduta: una cosa
    muta, calata nel controluce del crepuscolo.
    Ombra, chi opera in questa èra.
    Ah, sacro Novecento, regione dell'anima
    in cui l'Apocalisse è un vecchio evento!
    Il Pontormo con un operatore
    meticoloso, ha disposto cantoni
    di case giallastre, a tagliare
    questa luce friabile e molle,
    che dal cielo giallo si fa marrone
    impolverato d'oro sul mondo cittadino...
    e come piante senza radice, case e uomini,
    creano solo muti monumenti di luce
    e d'ombra, in movimento: perché
    la loro morte è nel loro moto.
    Vanno, come senza alcuna colonna sonora,
    automobili e camion, sotto gli archi,
    sull 'asfalto, contro il gasometro,
    nell'ora, d'oro, di Hiroshima,
    dopo vent'anni, sempre più dentro
    in quella loro morte gesticolante: e io
    ritardatario sulla morte, in anticipo
    sulla vita vera, bevo l'incubo
    della luce come un vino smagliante.
   
==>SEGUE


Vuoi sapere che cosa abbiamo ricavato
da quell’avventura, in che cosa è mutato

lo spirito di questa povera nazione
dove provi tra noi la tua prima passione;

sperando che ogni atto che ti preesiste, Chiesa
e Stato, Ricchezza e Povertà, intesa

trovino nel tuo dolce desiderio di vita.
Vuoi sapere l’origine della tua pudica

voglia di sapere, s’essa ha già dato prova
di tanta vita in noi, e adesso cova

già nuova vita in te, nei tuoi coetanei.
Vuoi sapere cos’è l’oscura libertà,

da noi scoperta e da te trovata,
grazia anch’essa, nella terra rinata.

Vuoi SAPERE. Non hai domanda su un oggetto
su cui non c’è risposta: che trema solo in petto.

La risposta, se c’è, è nella pura
aria del crepuscolo, accesa sulle mura

del Vascello, lungo le palazzine
assiepate nel cuore del sole che declina.

Le sere disperate per il troppo tepore
che nei freddi autunni, dimenticato muore

o, dimenticato, in nuove primavere
torna improvviso - le disperate sere

in cui, tu, felice pei tuoi abiti freschi,
o il fresco appuntamento con giovani modesti

come te, e felici, esci svelto di casa,
mentre nel rione suona la sera invasa

dall’ultimo sole- penso a quel serio, candido
ragazzo, il cui silenzio è nella tua domanda.

Certo soltanto lui ti potrebbe rispondere,
se fu in lui, come in te, pura speranza il mondo.

Era un mattino in cui sognava ignara
nei rosi orizzonti una luce di mare:

==>SEGUE

ogni filo d’erba come cresciuto a stento
era un filo di quello splendore opaco e immenso.

Venivamo in silenzio per il nascosto argine
lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi

del nostro ultimo sonno in comune nel nudo
granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.

In fondo Casarsa biancheggiava esanime
nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;

e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti,
la stazione era vuota: oltre i radi tronchi

dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba
del binario, attendeva il treno di Spilimbergo.

L ’ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
dove dentro un libro di Montale era stretta

tra pochi panni, la sua rivoltella,
nel bianco colore dell’aria e della terra.

Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta
ch’era stata mia, la nuca giovinetta...

Ritornai indietro per la strada ardente
sull’erba del marzo nel sole innocente;

la roggia tra il fango verde d’ortiche
taceva a una pace di primavere antiche,

e i rinati radicchi da cui vaporava,
un odore spento e acuto di rugiada,

coprivano il dorso della vecchia scarpata
grande come la terra nell’aria riscaldata.

Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna:
liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana

pace del lavoro, nel parlante amore muti,
tacevano gelseti, macchie d’alni e sambuchi,

vigne e casolari azzurri di solfato,
nel vecchio mezzogiorno del vivido creato.

Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro,
legati a quel dolore che ancora oscura il petto.

==>SEGUE

Ci togli questa luce che a te splende intera,
ch’è della nuova gioventù ogni nuova sera...

Noi invecchiati ora nient’altro diamo
che doloroso amore alla tua lieta fame.

Anche la tua stessa pietà, che cosa dice
se non che la vita solo in te è felice?

Perché, per fortuna, quel nostro passato,
vero, ma come un sogno, è nel tuo cuore grato.

In realtà non esiste, ne sei libero e cerchi
di esso solo quanto può adesso valerti...

Nella tua nuova vita non è esistito mai
fascismo e antifascismo: nulla di ciò che sai

perché vuoi sapere: esiste solamente
in te come un crudele dolce fiore il presente.

Che tutto sia davvero rinato-e finito
sia tutto- è scritto nel tuo sorriso amico.

E’ vizio il ricordare, anche se è dovere;
a quei morti mattini, a quelle morte sere

di dodici anni or sono, non sai se più rancore
o nostalgia, leghi il nostro cuore...

L’ombra che ci invecchia fosse astratta coscienza
voce che contraddice la vitale presenza!

Fosse, com’è in te, la spietata gioia
di sapere, non l’amarezza di sapere ch’è in noi!

Ciò che potevamo risponderti è perduto.
Può parlarti - se tu, ragazzo, sai il muto

suo nuovo linguaggio di ragazzo - soltanto
chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto...

Era ormai quasi estate, e i più bei colori
ardevano nel mite, friulano sole.

Il grano già alto era una bandiera
stesa sulla terra, e il vento la muoveva

fra le tenere luci, riapparse a ricolmare
di festa antica l’aria tra i monti e il mare.

==>SEGUE



Tutti erano pieni di disperata gioia:
sulla tiepida polvere delle vie ballatoi

e balconi tremavano di fazzoletti rossi
e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi

bande di ragazzi andavano felici
da un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.

Mio fratello non c’era, e io non potevo
urlare di dolore, era troppo breve

la strada verso il granaio perso nei campi, dove
per un anno l’ingenua, eternamente giovane,

povera nostra mamma aveva atteso,e ora
era lì che attendeva, sotto il tiepido sole...

Ma ha ragione la vita che è in te: la morte,
ch’è nel tuo coetaneo e in noi, ha torto.

Noi dovremmo chieder, come fai tu, dovremmo
voler sapere col tuo cuore che si ingemma.

Ma l’ombra che è ormai dentro di noi guadagna
sempre più tempo, allenta ogni legame

con la vita che, ancora, un’amara forza
a vivere e capire invano ci conforta...

Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto,
finirà non chiesto, si perderà non detto.







Non è amore

    Non è Amore. Ma in che misura è mia
    colpa il non fare dei miei affetti
    Amore? Molta colpa, sia
    pure, se potrei d'una pazza purezza,
    d'una cieca pietà vivere giorno
    per giorno... Dare scandalo di mitezza.
    Ma la violenza in cui mi frastorno,
    dei sensi, dell'intelletto, da anni,
    era la sola strada. Intorno
    a me alle origini c'era, degli inganni
    istituiti, delle dovute illusioni,
    solo la Lingua: che i primi affanni
    di un bambino, le preumane passioni,
    già impure, non esprimeva. E poi
    quando adolescente nella nazione
    conobbi altro che non fosse la gioia
    del vivere infantile - in una patria
    provinciale, ma per me assoluta, eroica -
    fu l'anarchia. Nella nuova e già grama
    borghesia d'una provincia senza purezza,
    il primo apparire dell'Europa
    fu per me apprendistato all'uso più
    puro dell'espressione, che la scarsezza
    della fede d'una classe morente
    risarcisse con la follia ed i tòpoi
    dell'eleganza: fosse l'indecente
    chiarezza d'una lingua che evidenzia
    la volontà a non essere, incosciente,
    e la cosciente volontà a sussistere
    nel privilegio e nella libertà
    che per Grazia appartengono allo stile.

La ricchezza

Fa qualche passo, alzando il mento,
ma come se una mano gli calcasse
in basso il capo. E in quell’ingenuo
e stento gesto, resta fermo, ammesso
tra queste pareti, in questa luce,
di cui egli ha timore, quasi, indegno,
ne avesse turbato la purezza…
Si gira, sotto la base scalcinata,
col suo minuto cranio, le sue rase
mascelle di operaio. E sulle volte
ardenti sopra la penombra in cui stanato
si muove, lancia sospetti sguardi
di animale: poi su noi, umiliato
per il suo ardire, punta un attimo i caldi
occhi: poi di nuovo in alto… Il sole
lungo le volte così puro riarde
dal non visto orizzonte…
Fiati di fiamma dalla vetrata a ponente
tingono la parete, che quegli occhi
scrutano intimoriti, in mezzo a gente
che ne è padrona, e non piega i ginocchi,
dentro la chiesa, non china il capo: eppure
è così pio il suo ammirare, ai fiotti
del lume diurno, le figure
che un altro lume soffia nello spazio.
Quelle braccia d’indemoniati, quelle scure
schiene, quel caos di verdi soldati
e cavalli violetti, e quella pura
luce che tutto vela
di toni di pulviscolo: ed è bufera,
è strage. Distingue l’umiliato sguardo
briglia da sciarpa, frangia da criniera;
il braccio azzurrino che sgozzando
si alza, da quello che marrone ripara
ripiegato, il cavallo che rincula testardo
dal cavallo che, supino, spara
calci nella torma dei dissanguati.
Ma di lì già l’occhio cala,
sperduto, altrove… Sperduto si ferma
sul muro in cui, sospesi,

==>SEGUE
   

come due mondi, scopre due corpi… l’uno
di fronte all’altro, in un’asiatica
penombra… Un giovincello bruno,
snodato nei massicci panni, e lei,
lei, l’ingenua madre, la matrona implume,
Maria. Subito la riconoscono quei
poveri occhi: ma non si rischiarano, miti
nella loro impotenza. E non è, a velarli,
il vespro che avvampa nei sopiti
colli di Arezzo… È una luce
– ah, certo non meno soave
di quella, ma suprema – che si spande
da un sole racchiuso dove fu divino
l’Uomo, su quell’umile ora dell’Ave.
Che si spande, più bassa,
sull’ora del primo sonno, della
notte, che acerba e senza stelle Costantino
circonda, sconfinando dalla terra
il cui tepore è magico silenzio.
Il vento si è calmato, e, vecchio, erra
qualche suo soffio, come senza
vita, tra macchie di noccioli inerti.
Forse, a folate, con scorata veemenza,
fiata nel padiglione aperto
il beato rantolo degli insetti,
tra qualche insonne voce, forse, e incerti
mottetti di ghitarre…
Ma qui, sul latteo tendaggio sollevato,
la cuspide, l’interno disadorno,
non c’è che il colore ottenebrato
del sonno: nella sua cuccetta dorme,
come una bianca gobba di collina,
l’imperatore dalla cui quieta forma
di sognante atterrisce la quiete divina.


Una forza del passato

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più


Esibizione di vitalità

Ehi, capo, ricordati dell’idea che ti è venuta
(tornando da Arezzo)
fare il Calderón su un prato
Ricostruendo in teatro naturalmente solo Las Niñas.
Brevi intervalli tra scena e scena consistenti
in campi lunghi in cui gli attori arrivano al centro
dell’immenso prato presso il bacino idroelettrico del
[Peschiera,
prendendo le loro posizioni; oppure mentre si riposano
dietro quella fila lontana di pioppi (si potrà indugiare
a descrivere qualcosetta di meridiano e agreste intorno);
intervalli, con il commento musicale di un’orchestra
i cui strumenti vengono accordati (dando, come sempre,
una stretta al cuore).
La recitazione, tuttavia, non sia sperimentale,
e neanche tanto ironicamente distaccata;
il distacco e l’ironia essendo tutti in quel prato;
io e gli attori si sia quasi realisticamente partecipi
al testo,
implicati, appassionati, commossi.
Ricordati, capo, di quel grande, sgomentante prato del Lazio.

La croce uncinata

    Da molte notti, ogni notte,
    passo sotto questo tempio, tardi,
    nel silenzio dell'aria
    del Tevere, tra rovine scomposte.
    Non c'è più intorno nessuno, allo scirocco
    che spira e cade, fioco tra le pietre:
    forse ancora una donna, laggiù, e dietro
    il bar di Ponte Garibaldi, due tre poveri
    ladri, in cerca di dormire, chissà dove.

    Ma qui, nessuno: passo veloce,
    rotto da una notte tutta ansia e amore:
    non ho più niente nel cuore
    e non ho più sguardo negli occhi.
    Eppure, quest'immagine, col passare delle notti,
    si fa sempre più grande, più vicina:
    ecco lo spigolo, liberty, contro la turchina
    distesa del Tevere: ed ecco i poliziotti
    che piantonano il tempio, tozzi e assorti.
    Li vedo appena, coi loro cappotti
    grigiastri, contro un albero secco,
    contro i bui scorci del ghetto:
    e colgo una breve luce, negli occhi
    umiliati dal loro goffo sonno di giovinotti:
    una accecata stanchezza che vede nemici
    in ognuno, un veleno di dolori antichi,
    un odio di servi: restano indietro,
    soli come lo scirocco che vortica tra le pietre.

    Una vergogna, triste come la notte
    che regna su Roma, regna sul mondo.
    Il cuore non vi resiste: risponde
    con una lacrima, che subito ringhiotte.
    Troppe lacrime, ancora non piante, lottano,
    oltre questi umilianti quindici anni,
    dentro le nostre dimentiche anime:
    il dolore è ormai troppo simile al rancore,
    neanche la sua purezza ci consola.

    Troppe lacrime: a coloro che verranno
    al mondo, per molto tempo ancora
    questa vergogna farà arido il cuore.
    
Il glicine
Eccolo, ero morto?, sui
bastioni del Vascello - irreali
come quest'aria che non conosco da piccolo,
o questa lingua di italici
pagani o servi di chierici - i bui
festoni dei glicini. Il quartiere ricco
n'è pieno, dappertutto. Spiccano
viola nel viola delle nuvole e dei viali.
Assurdo miracolo, per un'anima
per cui contano, gli anni,
che sono stati per lei ogni volta immortali.
Questi che ora nascono, sono
i glicini morti, non i loro figli barbarici
- dico barbarici se cupamente nuovo
è il loro essere, muto il loro monito...

Ma lo ripeto: non sono vergini
alla vita, sono dei calchi funerei,
che imitano la barbarie del dire
senza ancora possedere
parola, puro viola sopra il verde...
Io ero morto e intanto era aprile,
e il glicine era qui, a rifiorire.
Com'è dolce questa tinta del cadavere
che copre i muraglioni di Villa Sciarra,
predestinato, prefigurato, alla
fine del tempo che si fa sempre più avido...
Maledetti i miei sensi,
che sono, e sono stati, così abili,
ma non mai tanto perché, solo se recenti,
le antiche fioriture non li tentino!

Maledico i sensi di quei vivi,
per cui, un giorno, nei secoli tornerà aprile:
coi glicini, con quei chicchi lilla,
trepidi in carnali file,
senza quasi colore, quasi, direi, lividi...
E tanto dolci, contro i loro muri d'argilla
o travertino, misteriosi come camomilla,
tanto amici per i cuori che nascono con loro.
Maledico quei cuori, che tanto amo,
perché ancora non sanno, non solo
la vita, ma neanche la nascita!
Ah, la vita solo vera, è ancora
quella che sarà: vergine lascia
solo ai nascituri, il glicine, il suo fascino!
...
    

La scoperta di Marx

Io so che gli intellettuali nella gioventù sentono realmente l‘inclinazione fisica verso il popolo e credono che questo sia amore. Ma questo non è amore: è meccanica inclinazione verso la massa.
M. Gor’kij
    I
    Può nascere da un’ombra
    con viso di fanciulla
    e pudore di viola

    un corpo che m’ingombra
    o, da un grembo azzurro
    una coscienza — sola

    dentro il mondo abitato?
    Fuori dal tempo è nato
    il figlio, e dentro muore.

    II
    Sangue mediterraneo,
    alta lingua romanza
    e cristiana radice

    nel perfetto estraneo
    nato nella stanza
    d’una città felice.

    Tu eri irreligiosa,
    barbara, o ingenua sposa
    e infante genitrice.

    III
    Come sono caduto
    in un mondo di prosa
    s’eri una passeretta,

    un’allodola, e muto
    alla storia - una rosa -
    o madre giovinetta

    era il tuo cuore? in questo
    ordine manifesto
    da te il mondo mi accetta?

      ==>SEGUE
IV
    M’hai trasmesso nel cuore
    già adulto di un tempo
    di cui, adolescente,

    cercai arso d’amore
    le fonti. Ah educazione
    conforme il prepotente

    senso del mio secolo,
    senso unico, eco
    del Cuore preesistente!
   V
    E ogni giorno affondo
    nel mondo ragionato,
    spietata istituzione

    degli adulti — nel mondo
    da secoli arenato
    al suono di un Nome:

    con esso m’imprigiono
     nello stupendo dono
    ch’è ormai solo ragione.
    VI
    Ma il peso di un’età
    che forza la coscienza
    e modella il dovere,

    quando in me avrà
    vinto la resistenza
    del mio cuore leggero?

    se, con te, non ho anima
    d’amore, ma una fiamma
    di lieve carità?
VII
    Non pensavi che il mondo
    di cui sono un figlio
    cieco e innamorato

    non fosse un giocondo
    possesso di tuo figlio,
    dolce di sogni, armato

    di bontà — ma un’antica
    terra altrui che alla vita
    dà l´ansia dell’esilio?
  ==>SEGUE
   





   VIII
    La lingua (di cui suona
    in te appena una nota,
    nell’alba del dialetto)

    e il tempo (a cui ti dona
    la tua ingenua e immota
    pietà) son le pareti

    tra cui sono entrato,
    sedizioso e invasato,
    coi tuoi occhi mansueti.
    IX
    Non soggetto ma oggetto
    madre! un inquieto fenomeno,
    non un dio incarnato

    con i sogni nel petto
    di ansioso figlio! anonima
    presenza, non desolato

    io! M’hai espresso
    nel mistero del sesso
    a un logico Creato.
   X
    Ma c’è nell’esistenza
    qualcos’altro che amore
    per il proprio destino.

    È un calcolo senza
    miracolo che accora
    o sospetto che incrina.

    La nostra storia! morsa
    di puro amore, forza
    razionale e divina.





Ad alcuni radicali

Lo spirito, la dignità mondana,
   l’intelligente arrivismo, l’eleganza,
l’abito all’inglese e la battuta francese,
   il giudizio tanto più duro quanto più liberale,
la sostituzione della ragione alla pietà,
   la vita come scommessa da perdere da signori,
vi hanno impedito di sapere chi siete:
   coscienze serve della norma e del capitale.
    



Ai critici cattolici

Molte volte un poeta si accusa e calunnia,
   esagera, per amore, il proprio disamore,
esagera, per punirsi, la propria ingenuità,
   è puritano e tenero, duro e alessandrino.
È anche troppo acuto nell’analisi dei segni
   delle eredità, delle sopravvivenze;
ha anche troppo pudore nel concedere
   qualcosa alla ragione e alla speranza.
Ebbene, guai a lui! Non c’è un istante
   di esitazione: basta solo citarlo!




A Krusciov

Krusciov, tu sei quel Krusciov che Krusciov non è
   ma è puro ideale, ormai, vivente speranza:
sii Krusciov; sii quell’ideale e quella speranza;
   sii il Bruto, che non uccide un corpo ma uno spirito.




Ai letterati contemporanei

Vi vedo: esistete, continuate a essere amici,
  felici di vederci e salutarci, in qualche caffè,
nelle case delle ironiche signore romane…
  Ma i nostri saluti, i sorrisi, le comuni passioni,
sono atti di una terra di nessuno: una… waste land,
  per voi: un margine, per me, tra una storia e l’altra.
Non possiamo più realmente essere d’accordo: ne tremo,
  ma è in noi che il mondo è nemico al mondo.





Il motivo di Charlot

Sulle lenzuola calde, contorte
abbandonato come un ubriaco o come
n crocifisso, molle, appena tolto

dalla croce, è la cieca inazione
di un disgusto senza la purezza
che dà al peccato luce d’espressione,

-la rinuncia del malato che carezza
il vecchio male-  che qui mi tiene:
e non è notte; è già martina, una brezza

calda fiata nella camera piena
di me, del mio letto bianco e infuocato;
e, fuori, abbacina, gi alta, la serena

giornata estiva. Che tutto sia peccato
sensuale, bassezza e estasi di carne
- echeggiando per il dimenticato

quartiere –è  una povera radio a darne
nuova certezza, con pazza nostalgia.
Sparge intorno con foga calde e scarne

musiche da ballo; e allegria
Popolare accora la borgata,
così viva, recente; l’arsa via

festante di ragazzi e cani, il bucato
di stracci in cui sventola la miseria…
Ah, beata la vita altrui, beata

l’umile colpa dei loro desideri! 



È forse una soluzione esorcizzare
il covo famigliare - l’istituto
della povertà e del terrore?
Per un covo collettivo consacrato
dai miti delle religioni industriali,
per terrorizzati?

Qesta Terra non fu Terra Promessa
quando era al centro del mondo?
Ora ne è ai margini: e voi credete
che sia sempre la stessa, scelta da Dio
per voi?

Come potete voi, laici più di ogni laico,
fondare il più laico degli Stati
su una promessa di Dio?

Ma sono nella vostra assurda patria
come un vostro concittadino».

Esaurito il primo sguardo

Esaurito il primo sguardo, Tel Aviv
non è che una città con la sua vita.
Con la vita di una maggioranza.
Col suo destino che può non interessare,
che può non commuovere. La vita
che va avanti, avanti, sempre
degli altri, come in tutto il mondo.
Una città chiusa, perduta in sé,
scostante, senza più quella tenerezza,
quel bisogno di aiuto, quel bisogno
di liberarsi struggentemente, per farne dono,
della propria storia...

I miei occhi, inconsapevolmente, colpevolmente,
sono per i pochi arabi - che riconosco
non tanto dal passo quanto dagli occhi.
Molti Ebrei gli assomigliano (venuti
dal Marocco, dall’Yemen pastorale): ma
se ne distinguono subito, come per elezione.
Negli occhi degli Ebrei, si legge, infatti,
la lotta contro il desiderio di non essere,
in quelli degli arabi invece si legge la stupida,
la cara voracità di essere.

==>SEGUE

Il deserto

Il deserto (conquistato metro per metro,
da alberelli allineati), l’apparizione
di Berseva, il Desert Inn, l’arrivo a Sodoma,
l’incontro con qualche tribù di beduini...
La storia dei cari a Dio qual è?
Questa degli Ebrei che ora qui
ha l’enormità di pazzi scheletri industriali,
o quella dei beduini, soli coi loro occhi
di allegri serpenti tra gil stracci?
Finito il mio giorno

Finito il mio giorno di festa, stanco
petulante turista (ricercatore
nevrotico per un pannello capitalistico,
infine) mi accorgo che nessuno dei ragazzi
visti sulle rive torbide di Tiberiade
— a passare il loro giorno di festa,
agli autostop, alla pesca, agli sci d’acqua,
centroeuropei respinti nel sole delle colonie —
ha mai alzato la voce o sorriso.
Venuto forse da Cordova

Venuto forse da Cordova, da Siviglia,
dove il sangue arabo e quello latino
danno a un ragazzo ebreo l’assurdità
d’una bellezza cotta da tre soli,
si finge qui perduto a suonare uno strumento,
chitarra, o banjo, a gambe larghe in bilico
sul marciapiede, il cavallo dei calzoni
americani che pare spaccarsi, consunto
per suprema eleganza, com’è. Pazza
di lui, una ragazzetta lo chiama,
lo richiama, finge di non volerne sapere,
di avere altre rabbie nella sua anima.
Lui non sa cosa vuol dire essere amati,
bambino selvaggio, con spalle di atleta,
o lo sa... e infuria la sua timidezza,
nella buffonata del canto, e se per caso
dà retta a lei, è già un padre, o una tenera
madre: viene dai paesi in cui il figlio
sa che deve essere un re. E i compagni
inquieti sul marciapiede slabbrato

=>SEGUE



Trattative con Franco

Cosa c’è nel sole
sopra il cimitero
di Barcellona?

Nulla, ma tra l’andaluso,
tra l’andaluso e il sole,
c’è un vecchio legame.

La sua anima si è staccata da lui
e è venuta ad abitare
sotto il Cimitero di Barcellona.

Un’anima può farsi castigliana
e un corpo restare andaluso
sotto lo stesso sole!

Si dice che anime africane
siano diventate bianche,
e non per volontà del Signore.

(Ma nessun signore di Barcellona
andando in Andalusia
ha avuto l’anima nera.)

Prima di farsi castigliana
l’anima deve imparare il catalano
dentro un corpo andaluso.

Beato allora chi impara il vallone,
perché il suo corpo è nel sole,
nel grande sole del mondo.

Ma qui si passa da sole a sole,
e tra il catalano e l’andaluso
non c’è che l’occhio del castigliano.

Sì, tra l’andaluso e il Francese
c’è il sole dei soli,
non il sole di un cimitero.

Se lui parla castigliano,
imparando intanto il catalano,
dà l’anima per poche pesetas.

Non in cambio della ragione
come l’arabo o il negro
al sole di Lille o Pigalle.

==>SEGUE

Una baracca per un’anima,
un mucchio di tuguri per un mucchio d’anime,
un fuocherello acceso sotto il sole.

Sole di Catalogna!
Fuocherello d’Andalusia!
Garrota di Castiglia!

Terra di Spagna,
cosa aspetti sotto il sole
che non è altro che sole?

Un viaggio di mille ore
per trovare un cimitero
e un mucchio di baracche.

Bisogna venire in Spagna
per vedere il silenzio
di un uomo che non è che uomo.

La ricerca del relativo

Chi ha paura di Balzac? Io.
Dreyer cala, cresce Murnau, cala Mizoguchi, cresce Renoir;
alte le azioni di Keaton, alte quelle di Flaherty.
La diegesi  perde terreno rispetto alla mimesi;
ma né Platone né Aristotile avevano contemplato
la possibilità del discorso vissuto;
ebbene, anche quest’ultimo è in ribasso.
Toccano punte altissime le funzioni diesegetiche
della descrizione, evviva Boileau:
soyez riches et pompeux dans vos descriptions;
catalisi, catalisi da dare in pasto ai porci radunati a Venezia
sempre nuove catalisi, con funzioni narrative oscure,
la Grazia è negli Indizi
[oscurissime
la Storia nelle Funzioni
nelle catalisi c’è la grazia impura e l’indecifrabilità della
la pagano cara i poeti del ridondante!
{storia
D’altra parte i guai che passano se li cercano loro.
Non c’è dubbio che nel ridondante c’è il Demonio,
poiché in esso non si dice sì se è sì né no se è no.




davanti a un nuovo cinema di Gerusalemme,
sulla strada color delle viscere, della polvere
delle pesti, hanno anche loro al gioco dell’amico
occhi ridenti e sgomenti — sgominati
da quel grembo dove regna il pudore
ora follemente teso come quello degli eroi
greci quando si battevano le coscie ridendo.
Sono così puri
perché a Gerusalemme ci saranno nuove stragi,
il loro sangue già scorre, la loro carne
è già martoriata, la loro cenere raccolta,
vittime, che pure ridono, di una scelta
che li vede liberi solo d’essere futuri morti.



L'Italia fascista

La voce di Dante risuonava in aule disperate
Poveri uomini erano incaricati a insegnare
come essere eroi, nelle palestre;
nessuno ci credeva
Poi le piazze si riempivano di questi increduli
bastavano due stanghe, un tavolato
della cattiva tela colorata di rosso
di bianco e di verde; e di nero; bastavano
pochi simboli straccioni, aquile e fasci di legno o stagno;
mai spettacolo fu più economico
che una parata in quei tempi
I vecchi e i giovani di comune accordo
desideravano grandiosità e grandezza;
migliaia di ragazzi sfilavano,
alcuni di loro «scelti», altri semplice truppa;
come in una stasi perduta in mezzo ai secoli
erano mattine di maggio o di piena estate
e il mondo rurale intomo
L’Italia era come una povera isola in mezzo a nazioni
dove l’agricoltura era in declino,
e il poco grano era un oceano immenso
dove cantavano tordi, allodole, gli attoniti uccelli del sole
Le adunate si scioglievano sui palchi cadeva la brezza
e tutto era vero,
le bandiere continuavano a sventolare
al vento che non le riconosceva.

è felice del progressismo
che gli fa sembrare sacrosanto
il dover insegnare al domestici
l’alfabeto delle scuole borghesi.

È felice del laicismo
per cui è più che naturale
che i poveri abbiano casa
macchina e tutto il resto.

È felice della razionalità
che gli fa praticare un antifascismo
gratificante ed eletto,
e soprattutto molto popolare.

Che tutto questo sia banale
non gli passa neanche per la testa:
infatti, che sia così o che non sia così,
a lui non viene in tasca niente.

Parla, qui, un misero e impotente Socrate
che sa pensare e non filosofare,
il quale ha tuttavia l’orgoglio
non solo d’essere intenditore

(il più esposto e negletto)
dei cambiamenti storici, ma anche
di esserne direttamente
e disperatamente interessato. 

Patmos

[Con due note di Angela Molteni sul titolo che Pasolini ha assegnato a questa poesia e sulla strage di piazza  Fontana cui la poesia stessa si riferisce (1969)]

Sono sotto choc
è giunto fino a Patmos sentore
di ciò che annusano i cappellani
i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta
la mia età fra pochi anni, rivelazione di Gesù Cristo
che Dio, per istruire i suoi servi
- sulle cose che devono ben presto accadere -
ha fatto conoscere per mezzo del suo Angelo
al proprio servo Giovanni.
Ci sono là marcite; e molti pioppi. Venendo da là
vestivano di grigio e marrone; la roba pesante,
che fuma nelle osterie con le latrine all'aperto.
Poca creanza, farsi ritrovare così,
da parte di quei galantuomini non ancora del tutto romanizzati,
e sì che tutti i barocci erano spariti da un pezzo!
Ma gli usati corpi, non di monaci,
perché cattolici erano cattolici, ma s'erano sposati, fornicando
la loro parte; insomma, giusto perché dei nipotini oggi piangessero.
Solo un suicidio porterà sulle tracce del responsabile di tal pianto. (1)
Lombardi al Governo! Tra voi e il paese c'è un abisso.
È la vostra banalità che lo scava (le «e» strette
son niente confronto al lessico; che umile dialetto non è;
lo fosse!)
E chi è sotto choc ride con gli occhi di Antonioni
Il quale attesta come parola di Dio e testimonianza di Gesù Cristo
e anche Pasolini ride,
tutto quello che ha veduto,
mentre Moravia è distratto, beato chi legge,
e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia.
Che ne piangano le loro famiglie; io ne parlo da letterato.
Oppongo al cordoglio un certo manierismo.
Di tradizioni recenti son piene le Sette Chiesuole.
Canoni e tropi a disposizione rimpiazzano le commozioni;
e basta deciderlo, l'umore necessario è pronto
con tutti i suoi caratteri

==>SEGUE



(di difesa dietro il lessico, esso, eslege, desueto)
chi è al potere altresì ha le sue figure
entro cui comodamente sostituire al logos il nulla;
dietro una cattedra, un tavolo da lavoro,
col doppiopetto: perché il tempo è lontano.
Così si consola la morte, e chi ha la cattiva creanza
di farsi piangere; ridotto a tronconi: cosa inammissibile
in un uomo serio, che si occupa di agricoltura!
Come poi se fossimo nel '44.
Io sono l'Alfa e l'Omega, colui che è, che era e che viene; l'Onnipotente;
fidando su ciò, l'onorevole Rumor, Pocopotente
ma Potente, comunque,
si dissocia dai telespettatori dei bar
e parla ai piccoli borghesi in famiglia che si saziano
di indignazione del tutto lessicalmente estranea al popolo.
Attilio Valè: presente!
52 anni, abitava a Mairano di Noviglio.
Era separato da otto anni dalla moglie;
era un bell'uomo alto circa un metro e ottanta:
commerciava in bestiame
Io, Giovanni, vostro fratello,
che partecipa con voi alla stessa tribolazione
al regno e alla perseveranza di Gesù,
mi trovai relegato nell'isola chiamata Patmos
a causa del Vangelo di Dio e delle testimonianze che rendevo a Gesù.
L'Autorità dello Stato moderato non contempla la realtà dei sensali.
Pietro Dendena (presente!) 45 anni,
abitava a Lodi in un nuovo edificio di Via Italia 11
con la moglie Luisa Corbellini, la figlia Franca, 17 anni,
che frequenta il corso di segretariato d'azienda,
e il figlio Paolo, 10 anni, alunno di quinta elementare.
Di professione mediatore,
frequentava regolarmente il mercato di Piazza Fontana
non mi meraviglierei da letterato schizoide
che comparisse tale e quale in un olio del Prado
né che avesse un debole per l'Inter;
ci son portichetti a Lodi, tetramente settentrionali -
contro un cielo buio, con nuvole basse -
micragna dei tempi degli Antenati, odor di vacche!
L'è il dì di mort (tutti presenti).
Quanto a Paolo Gerli, 77 anni (presente)

==>SEGUE

ci son portichetti a Lodi a sesto acuto,
e le piccole osterie micragnose sanno di vestiti bagnati
riscaldati dalla stufa
abitava con la moglie in un bellissimo palazzo di Via Savaré, 1,
dove si era trasferito nel 1954
possidente di non pochi terreni agricoli,
curava in proprio il commercio dei prodotti della sua terra.
I vicini di casa, loro,
lo ricordano come un signore gioviale e esuberante.
Usava regolarmente la bicicletta.
Aveva avuto dal matrimonio tre figlie tutte sposate.
Or, ecco, fui rapito in estasi, nel giorno del Signore
e udii dietro a me una voce potente, come di tromba
Eugenio Corsini, 55 anni, presente!
abitava dall'epoca delle nozze in Via Procopio 8,
padre di due figli ormai sposati,
commerciava in olii lubrificanti per macchine agricole.
La moglie non aveva smesso di lavorare.
Non si cantarono serenate in quel 1940;
dal 1940 si era lavorato giudiziosamente, a casa a far la calza.
Si erano frequentate scuole in vista di futuri risparmi;
niente grilli per la testa, che nessuno avesse niente da ridire;
la Morale come una cosa passata di donna in donna;
poco riso negli occhi, e gran risate al momento giusto: a Natale.
Io mi voltai per vedere la voce che parlava
e appena voltato vidi sette candelabri d'oro
Carlo Luigi Perego, 74 anni, risiedeva a Usmate Velate
e in mezzo ai candelabri Uno che assomigliava al Figlio dell'Uomo
in Via Stazione 21
vestito di una lunga veste
lascia la moglie e due figli sposati
che hanno proseguito la sua attività di assicuratore
e cinto d'una fascia d'oro sul petto
Era venuto a Milano per rivedere i vecchi amici
e per sbrigare alcune faccende relative all'attività dei figli
Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana
i suoi piedi erano simili a rame ardente arroventato in una fornace
(così disse chi li raccolse sotto il bancone)
Aveva presieduto, in qualità di coraggioso combattente del '15-18
la locale sezione dell'associazione dei combattenti. Presente!
Carlo Garavaglia, 67 anni, presente!
Alla morte della moglie era andato a abitare con la figlia sposata
la sua voce era come il rumore delle grandi acque

       ==>SEGUE

a Corsico in Via XX Settembre 19.
Nella destra teneva sette stelle.
Era stato macellaio
dalla sua bocca usciva un'acuta spada a due tagli
percepiva attualmente una pensione di 18 mila lire.
La sua faccia era come il sole.
Tentava di realizzare qualche guadagno extra facendo il mediatore.
Carlo Gaiani, presente, 57 anni,
abitava con la moglie alla cascina Salesiana
Era perito agrario
ed aveva condotto con successo l'azienda agricola
che conduceva come affittuario, fino ad alcuni anni addietro.
Ora l'azienda era in decadenza.
Lavorava personalmente la terra con un solo lavorante.
Si era recato alla Banca dell'Agricoltura
per concludere la vendita delle ultime 14 vacche.
Saragat taccio, ma ne parla l'«Observer». (2)
Oreste Sangalli, 49 anni: «Presente!»
affittuario della cascina Ronchetto in via Merula 13 a Milano
mettiamo la sordina alla tromba di quell'Uno
lascia la moglie e due ragazzi, Franco di 13 e Claudio di 11
fare d'ogni erba un fascio degli estremisti
si era recato al mercato di Piazza Fontana
va bene per i giornali indipendenti (dalla Verità)
come tutti i venerdì in compagnia di Luigi Meloni
ma un presidente della Repubblica!
Si erano momentaneamente lasciati a Porta Ticinese
Non si può predicare moderazione
e si erano dati appuntamento a Piazza Fontana
in un paese dove è appunto la moderazione che va male
Hanno trovato entrambi la morte
e dove non si può essere moderati senza essere banali
poco dopo essersi ritrovati.
Luigi Meloni, 57 anni presente:
commerciante di bestiame abitava a Corsico in Via Cavour
con la moglie e il figlio Mario, studente di 18 anni.
Possiede qualche piccola proprietà immobiliare.
Era venuto a Milano con la vettura del Sangalli.
E quando l'ebbi veduto io caddi ai suoi piedi come morto.
Ma egli pose sopra di me la sua destra e disse:
Non temere, io sono il Primo e l'Ultimo.
Io sono il Medio, parvero dire Rumor e i suoi colleghi.
Non si può essere medi, qui, senza essere privi d'immaginazione.
Io sono il Primo e l'Ultimo, il Vivente.
        ==>SEGUE

Giulio China, 57 anni, presente!!
Era uno dei più importanti commercianti di bestiame di Novara,
ove possedeva due cascine. Lascia la moglie e due figlie sposate.
Ho subìto la morte, ma ecco, ora vivo nei secoli dei secoli
(a differenza di Giulio China)
e tengo le chiavi della morte e dell'inferno.
Mario Pasi, cinquant'anni: presente,
abitava con la moglie in un bell'appartamento di Via Mercalli 16.
Ah antichi portichetti a sesto acuto, grigi, scrostati,
sotto cui l'ombra è così fredda che par di essere in Germania
e i negozietti di mercerie stringono il cuore, e ancor più
se vi si vendono anche caramelle, in scatole di cartone
Ma ci son anche palazzi di metallo e vetro
che danno sui parchi
Non aveva figli. Geometra,
si era dedicato all'amministrazione di fondi e stabili.
Era stato ufficiale di cavalleria.
Scrivi dunque le cose che hai vedute,
e le presenti e quelle che verranno dopo di esse:
l'Italia è in crisi, e la stessa crisi che soffro io
(inadattabilità alle nuove operazioni bancarie)
la soffrono alla loro bestial maniera i fascisti:
le ultime 14 vacche! Le ultime 14 vacche!
Ecco il senso misterioso delle sette stelle;
ché se sette erano magre, le altre sette erano ancor grassottelle.
Carlo Silva, 71 anni, abitava in Corso Lodi 108,
con la moglie e un figlio, impiegato alla «Dubied».
Aveva un secondo figlio sposato.
Aveva fatto il mediatore per tutta la vita
ma una lieve forma di paralisi lo aveva costretto
a muoversi con l'ausilio di un bastone.
Percepiva una esigua pensione, ma non aveva rinunciato
a recarsi ogni venerdì al settimanale convegno coi vecchi colleghi.
Bisogna andare da loro, stupidi come vipere, e dir loro:
Siamo fratelli: possediamo le ultime quattordici vacche:
la nostra azienda è in rovina,
lavoriamo con le nostre mani la terra
aiutati da un solo lavorante.
Non siamo più in grado di abitare in questo Paese
che se ne va per le strade nuove della storia
che hai veduto nella mia destra
e dei sette candelabri d'oro;
Gerolamo Papetti, 79 anni,

        ==>SEGUE

abitava alla cascina Ghisolfa di Rho
di cui era proprietario.
Aveva perso la moglie alcuni anni addietro.
Lascia tre figli, uno dei quali, Giocondo,
lo aveva accompagnato a Milano
ed è rimasto ferito in seguito allo scoppio.
Le sette stelle sono i sette Angeli delle sette Chiese
e i sette candelabri sono le sette Chiese.
Beh, non ho intenzione di scrivere l'intero Apocalisse:
ormai basta solo progettarlo;
e così le idee, basta enunciarle: realizzarle è superfluo.
In piena epoca industriale,
coltiviamo dunque la terra con le nostre mani, e un solo lavorante.
Andremo dunque presto a vendere le nostre ultime 14 vacche
ai Vicini nel 1970 avanti Cristo.
No, davvero non si può,
l'ecolalie neanche notarili
vomitate su noi dai nostri coetanei al Governo
sono intollerabili. Caro Moravia, caro Antonioni,
andiamo di là.
Poi venni a casa.
La porta che dava sul corridoio della camera di mia madre
era aperta: da ciò arguii la sua inquietudine.
Essa ha ottant'anni, l'età di Gerolamo Papetti:
e penso a ciò che deve ancora soffrire.
Da letterato che fa della letteratura
dichiaro la mia solidarietà a «Potere Operaio»
e a tutti gli altri groupuscules di estrema sinistra,
Saragat non doveva fare un fascio di quell'erba:
e dunque sugli scudi Tolin.
Le sette Chiese sono su di noi, le zozze.
Scende la notte dello choc: il Naviglio va sottoterra
Tu ti suiciderai
se avevi tutto da guadagnare e nulla da perdere (3)
e quindi non sei un fascista di sinistra, che, poverino,
coi suoi ideali estremistici ora così tragicamente frustrati,
è divenuto mio caro fratello, e vorrei abbracciarlo forte;
tu ti ucciderai, fascista pazzo,
e il tuo suicidio non servirà ad altro
che a dare una disgraziata traccia alla Polizia.
In attesa di essere vendute, queste nostre ultime 14 vacche
pascolano crepuscolari a Patmos
dove ci si limita a scrivere, dell'Apocalisse, il solo prologo.

       ==>SEGUE

Ma approfondiamo
(che altro non si fa a Patmos,
senza giungere mai a conclusioni diverse da quelle previste,
il deprimente disprezzo per la borghesia, ivi compresi
i morti di cui sopra, tutti onorabilmente vissuti infino alla fine)
proseguendo, proseguendo eroicamente,
dopo aver steso un velo sulla sconfitta dei giovani
A Efeso a Pergamo a Smirne a Tiatira a Sardi a Filadelfia e a Laodicea
vivono i lettori che disprezzano i buoni sentimenti
e sanno, sanno bene del binomio Autorità-Banalità,
ma ciò non esclude che anche tra loro
i buoni sentimenti siano poi del tutto screditati, anzi, anzi!
Ma le conclusioni di ogni approfondimento sono prevedibili, ripeto.
L'ultimo odor di stalla e di farina
e la stoffa che fuma nelle osterie con la latrina all'aperto
dove va gente che se la intende sull'onorabilità
e vi fa del razzismo romanico
unisce intellettuali di sinistra e fascisti a un unico culto
in via di estinzione: allontanando nel cosmo il punto di vista (4)
essi appaiono tutti raccolti a imprecare allo stesso tabernacolo;
la porta della storia è una Porta Stretta
infilarsi dentro costa una spaventosa fatica
c'è chi rinuncia e dà in giro il culo
e chi non ci rinuncia, ma male, e tiri fuori il cric dal portabagagli,
e chi vuole entrarci a tutti i costi, a gomitate ma con dignità;
ma son tutti là, davanti a quella Porta.

-------------------

(1) Questi versi sono stati scritti tra il 13 e il 14 dicembre; prima che si sapesse del suicidio dell'anarchico Pinelli.
(2) Ricordo di nuovo al lettore che questi versi sono stati scritti solo il giorno dopo i fatti di cui si parla.
(3) Prevedendo in questi versi un suicidio, pensavo, con assurda ingenuità, che il colpevole che si sarebbe suicidato sarebbe stato un fascista.
(4) Come nella Commedia pappo coesiste notoriamente con pulcro.

Versi sottili come righe di pioggia

Bisogna condannare
severamente chi
creda nei buoni sentimenti
e nelI’innocenza.

Bisogna condannare
altrettanto severamente chi
ami il sottoproletariato
privo di coscienza di classe.

Bisogna condannare
con la massima severità
chi ascolti in sé e esprima
i sentimenti oscuri e scandalosi.

Queste parole di condanna
hanno cominciato a risuonare
nel cuore degli Anni Cinquanta
e hanno continuato fino a oggi.

Frattanto l’innocenza,
che effettivamente c’era,
ha cominciato a perdersi
in corruzioni, abiure e nevrosi.

Frattanto il sottoproletariato,
che effettivamente esisteva,
ha finito col diventare
una riserva della piccola borghesia.

Frattanto i sentimenti
ch’erano per loro natura oscuri
sono stati investiti
nel rimpianto delle occasioni perdute.

Naturalmente, chi condannava
non si è accorto di tutto ciò:
egli continua a ridere dell’innocenza,
a disinteressarsi del sottoproletariato

e a dichiarare i sentimenti reazionari.
Continua a andare da casa
all’ufficio, dall’ufficio a casa,
oppure a insegnare letteratura:

==>SEGUE

Israele

So che il vecchio Ben Gurion

So che il vecchio Ben Gurion
(corridore di corse campestri
che ha fatto a piedi per l’ultima volta
la strada del Parlamento)
è nel suo kibutz, in esilio,
come un bambino scappato di casa.

I feriti non sono intimiditi dai feriti.
Anzi, li possono accusare: «Dite, voi, nell’intimo
feriti da una gloriosa, milenaria timidezza...
perché siete evasi dal mondo,
per ricostruirlo secondo i vecchi amori
che tanto vi hanno intimiditi?

Come potete sopportare, minoranza
di vittime antiche,
di essere ora, nei kibutz, nelle città,
una maggioranza piena della dignità di essere?

Voi, che avete vinto con la Ragione
la Non-Ragione, al cui mito tanto, peraltro,
avevate contribuito, perché
perché vi lasciate oggi vincere dalle sue fiabe
più sfiorite — questo ritorno alla terra?

Ho visto in una strada dei dipartimenti
del Nord, tra rimboschimenti e giacenze
di un mondo nudo, ancora, come una colonia,
ma già profondamente lavorato, un piccolo
vostro ebreo sottoproletario, non più
che un cupo pastorello lucano... o siriano...
Cosa vi spinge all’esperienza della povertà?

Ho visto, con bianche mani di intellettuale
un ebreo adoperare arnesi d’agricoltore.
Che senso ha fare questa esperienza
ora che proprio il mondo contadino muore,
da preistoria fatto storia (con tutto
cià che voi, con Greci, Fiorentini,
Europei avete
dato, perché fosse storia dell’uomo)
- per cedere fi posto a una Nuova Preistoria?

==>SEGUE
La Resistenza e la sua luce

Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l'Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce...

Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un'alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge..
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l'alba nascente fu una luce
fuori dall'eternità dello stile...
Nella storia la giustizia fu coscienza
d'una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.
"L'intelligenza non avra' mai peso, mai nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai da uno dei milioni d'anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato:irreale è ogni idea, irreale ogni passione, di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l'ha mai liberato. Mostrare la mia faccia,la mia magrezza,alzare la mia sola puerile voce non ha piu' senso: la vilta' avvezza a vedere morire nel modo piu' atroce gli altri, nella piu' strana indifferenza. Io muoio, ed anche questo mi nuoce."