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PIER PAOLO PASOLINI


POESIE VARIE

Parte I
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Pier Paolo Pasolini:

Poeta corsaro e disperato amante del popolo
_________

di
Olivia Trioschi
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PIER PAOLO PASOLINI  - POESIE VARIE - Parte I









































FINE
Parte prima
Ricordiamo. Giovanotti nerboruti, esaltati, pieni di incoscienza e ardimento, con una gran voglia di saltare, urlare, emergere in qualche modo - qualsiasi modo - alla vita, alla violenza della vita, si trovavano a Napoli luccicante del mare d'autunno. Nelle orecchie avevano la voce stentorea e potente del loro capo, negli occhi i suoi pugni sui fianchi, le gambe divaricate, lo sguardo di vuoto e nero metallo. "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando su Roma - gridava il capo - ormai si tratta di giorni, forse di ore!": grida, sventolio di bandiere, pugnali, fucili, mani, fazzoletti. Il sole fissava, immobile. La piazza ruggiva: voleva Roma, voleva l'Italia, voleva il mondo intero. Cinque giorni dopo aveva Roma e l'Italia. Poi avrebbe cercato di prendersi anche qualche fetta di mondo. Era il 1922. Cosa li aspettava - ai giovanotti -, cosa ci aspettava, noi tutti, generazioni presenti e future, è scritto nei testi di storia e nelle cicatrici fumanti d'Italia. Fascismo: parola corvina, lunga notte di paura. Notte senza fine, pensava Pier Paolo Pasolini.
    È difficile, forse impossibile, parlare di Pasolini, anche solo di Pasolini poeta, senza andare a sbattere, più prima che poi, contro il fascismo. Per lui fu come un'ossessione perenne, prima sotto la forma del fascismo storico e poi in quella, più velenosa e strisciante, di categoria eterna che riassume in sé il conformismo, il disprezzo per il diverso, l'appiattimento intellettuale, il bla-bla politicante. Tanto vale farlo subito, allora. Tanto più che la coincidenza tra le date è, se non simbolica, almeno suggestiva. Pasolini era nato a Bologna proprio in quel fatidico 1922, "anno immerso nel secolo", come dirà più tardi in un verso. Bologna, e per estensione l'Appennino tosco-emiliano, Casarsa in Friuli e Roma sono i tre luoghi della crescita intellettuale, della memoria struggente e della sfida di Pasolini critico, poeta e intellettuale "corsaro". Ultimo maledetto nel cercare scampo alla vita nella poesia, nel cercare di mettere tutto - passione, amore, odio, vita, morte - nei suoi versi. Nel restare ucciso, infine, per mano di un Narciso - di quelli tante volte cantati e amati - proprio dal sistema contro il quale si era scontrato, da sempre. Perché, tra le altre cose, Pasolini era un personaggio scomodo: spietatamente lucido, intelligente e diverso. E perciò solitario. Di Pasolini resta molto. Gli scritti, tanti, di tutti i generi: poesie, romanzi, sceneggiature, interventi critici, articoli, saggi.
Ah, il popolo. Cos'è il popolo? Chi è il popolo? Pasolini se lo chiese per tutta una vita. Lui, il borghese figlio di borghesi, di antica famiglia ravennate era dolorosamente consapevole di essere per sempre escluso dalla massa dei poveri (eccolo qui, il popolo) in cui, prima che una "classe"  nel senso politico del termine, riconosceva una forma di vita innocente, incontaminata e pura. Da qui sono nate le sue prime poesie. Perché va anche detto che Pasolini, variamente definito "provocatore ideologico" piuttosto che "coscienza critica della cultura italiana" - tutto vero, naturalmente - volle essere e fu prima di tutto poeta. Pasolini non era certo tipo da usare le parole a caso. Selettivo ed eletto, dunque. Indubbiamente, lo è sempre stato. E poi, la madre, cui era legato da un "disperato amore" (sono sempre parole sue): "Parma, un viale, e il riso di mia madre" è il primo verso di una poesia. Col padre, invece, le cose non andavano proprio così. Presenza intermittente per molti anni a causa delle lunghe campagne militari, impersonava gli occhi del figlio il più cieco conformismo, la totale mancanza di naturalezza e spontaneità (doti che invece riconosceva e amava nella madre). E il fossato sarebbe col tempo diventato incolmabile, anche se il padre "gongolava" per i successi scolastici del figlio e per la sua evidente e precoce vocazione letteraria.
    La prima raccolta, Poesie a Casarsa, uscì a spese di Pasolini nel 1942, a Bologna, città dove la famiglia era tornata dopo molti anni di traslochi continui legati ai trasferimenti di caserma in caserma dell'ufficiale Carlo Alberto Pasolini. Lì Pier Paolo frequentò l'università, laureandosi in lettere con una tesi su Pascoli (in cui riconosceva un maestro soprattutto per le scelte linguistiche, fondamentali per entrambi) e divenne amico di Roberto Roversi e Francesco Leonetti. Con loro visse la grande stagione dell'ermetismo, fondando nel 1941 una rivista dal significativo titolo Eredi. Nel 1942, dunque, aveva appena vent'anni. Le poesie pubblicate erano state scritte nei tre anni precedenti, a Casarsa ma più spesso lontano da lì. Casarsa era il paese della madre, e ogni estate Pasolini ci andava a passare l'estate nella "povera villeggiatura presso parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva". Questo come notazione storico-geografica. Nella poesia Casarsa diventò il luogo della purezza, della gioventù bella e accesamente sensuale, del mondo come doveva essere prima che iniziasse la Storia: un mondo deve la natura e l'uomo potevano ancora essere tutt'uno. In quest'ottica, la scelta del dialetto come lingua d'elezione si imponeva da sola. Fu una scelta emotiva, prima che intellettuale. In seguito Pasolini si accorse che poteva e doveva essere anche un rifiuto della cultura nazional-fascista che imponeva l'abbandono di idiomi e particolarismi locali in ossequio alle direttive del centro. Ma all'inizio fu, appunto, la scoperta emozionante dell'esistenza di una lingua che possedeva riserve intatte di gusto, sapienza, liricità, di contro alla lingua nazionale impoverita, sfruttata ed esausta. "Su quel poggiolo (a Casarsa) stavo disegnando oppure scrivendo quando risuonò la parola rosada. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada La parola "rosada" pronunciata in quella mattinata di sole non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua e al di là del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo m'interruppi subito. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada".
        Poesie a Casarsa uscì nel totale silenzio della critica, salvo che per una - ma illustrissima - voce: quella di Gianfranco Contini, che recensì il volumetto sul Corriere di Lugano proprio per le resistenze del regime a dare notorietà a un poeta dialettale. Ciò nonostante, fu per Pasolini un momento di felicità completa: "Chi potrà mai descrivere la mia gioia? - ricordava - Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno". Che differenza con quanto avverrà dopo, quando ogni prova pubblica di Pasolini sarà accompagnata da un coro di recensioni, premi, applausi, insulti, denunce, processi. Il volumetto, dunque, nasce così, come un gioiellino prezioso e nascosto. Prezioso perché tale è la lingua scelta: dialetto, sì, ma raffinato e coltivato come "lingua pura per poesia". Non a caso nella prima pagina si leggevano alcuni versi di Peire Vidal, poeta provenzale. Il richiamo a quella lirica ci fornisce un'indicazione importantissima sulle scelte dell'autore: Pasolini non è lontano dalla sua terra (anche se molti di questi versi furono effettivamente scritti a Bologna o altrove, quando più forte si faceva sentire la nostalgia) ma si sente ugualmente esule, tagliato fuori dalla possibilità di attingervi direttamente, di goderla in prima persona come i giovanetti (ideali proiezioni di se stesso) che si muovono leggiadri tra fontane e prati; lui, malato di un'altra civiltà e di un'altra sensibilità colta, sensuale e decadente. Il sentimento di pienezza e felicità che deriva dalla contemplazione della propria terra è quindi minato alla radice, e perciò le soavi e tenere immagini di cui sono fatte le liriche si concludono spesso con un richiamo alla morte. Il Friuli è evidentemente una terra mitica e il dialetto l'unica chiave possibile per tentare di recuperare quel mito che ha tuttavia in sé, fin dall'inizio, i germi della decadenza e della morte. Come se Pasolini proiettasse sulla terra di sua madre la madre stessa, e vivesse per Casarsa lo stesso genere di amore disperato per lei e per la sua infanzia felice. Ma finita, passata per sempre.
         L'8 settembre 1943 Pasolini, militare da appena una settimana, rifiutò di consegnare le armi ai tedeschi e scappò insieme alla madre e al fratello (il padre era prigioniero di guerra in Africa) a Casarsa, dove rimase fino alla fine della guerra e oltre. A chi, in seguito, gli rimproverò di non aver fatto nient'altro che questo contro il fascismo, rispondeva che anzi, la sua partecipazione alla Resistenza era stata tale da farlo finire in camera di sicurezza; dopo di che era vissuto nascosto e terrorizzato all'idea di finire uncinato (fine riservata ai giovani del litorale adriatico renitenti alla leva o antifascisti). Ciò nonostante, non poteva restare inattivo almeno dal punto di vista della cultura. Insieme ad alcuni amici pubblicò il quaderno Stroligut di ca' de l'aga (L'indovino di qua dell'acqua, cioè della sponda destra del Tagliamento) dove la poetica dialettale viene approfondita diventando, ora sì, anche strumento di opposizione al regime e rivendicazione di dignità di lingua: le traduzioni in italiano sono abolite (mentre erano incluse nelle Poesie a Casarsa) e grandi poeti stranieri (come Verlaine e Wordsworth) vengono tradotti in friulano. Dopo la guerra quest'esperienza confluì nell'Academiuta di Lenga Furlana, un gruppo di studio che affiancava alle iniziative di tipo culturale (incluse lezioni private gratuite ai figli dei contadini poveri che avevano smesso di andare a scuola) anche precise richieste politiche in merito all'autonomia del Friuli nell'ambito della neonata repubblica. Intanto due morti avevano segnato la vita di Pasolini: quella della nonna materna, le cui fasi dall'agonia alla sepoltura Pasolini accompagnò con una serie di brevi componimenti in italiano (Guardaci timidamente / dal cielo / come quando nel buio / di questa casa, / sconfortata sedevi) e, poco dopo, quella del fratello partigiano, ucciso nel noto eccidio di Porzus, vicino al confine jugoslavo, in cui i partigiani di Tito, che intendevano allora annettersi il Friuli, massacrarono la brigata Osoppo.
         Pasolini si stava dunque "storicizzando". La sua poesia, da questo momento, non fu più solo di disperato amore per il Friuli e la sua bella gioventù, non fu più solo rimpianto accorato. Vi entrò il popolo, questa nuova forza, vergine e potente, che sarebbe potuta irrompere nella storia con violenza inaudita e benedetta. C'era, doveva esserci, una possibilità di riscatto per il popolo, all'ombra delle belle bandiere (gli stracci rossi) che allora venivano sventolate; Cristo l'aveva promesso: "Piegatevi, gente cristiana, / a sentire un filo di voce, / fra tutto questo silenzio, / che scende dalla croce". Sono queste le componenti del "populismo evangelico" che animerà Pasolini. Una religione-passione, simboleggiata dalla figura del Cristo povero e sofferente e nutrita di simboli arcani, tratti dalla religione pagana e contadina dei suoi friulani ("Verrà il vero Cristo, operaio") in aperto contrasto con la religione-autorità, fortemente compromessa coi fascismi di tutti i tempi, e l'attesa della riscossa da parte del popolo, serbatoio di verità. La "scoperta di Marx" è del 1947, contemporanea a una vicenda reale. "L'ho detto tante volte, in tante interviste: ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato poi nel 1962 con il titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci". Il sogno era per l'appunto la speranza di rinnovamento e giustizia sociale che si sentiva fortissima in Italia, dopo la guerra. Pasolini si impegnò in prima persona, con la passione di sempre, perché quel sogno diventasse realtà. Dopo l'iscrizione al PCI divenne segretario di sezione, e da quella posizione condusse le molte battaglie dell'epoca: quelle per le elezioni del 1946 e per il referendum istituzionale del 1948; quelle antidemocristiane e anticlericali; quelle per l'autonomia del Friuli. Pio XII scomunicava i comunisti e lui affiggeva tatzebao contro i preti sotto il loggiato della piazza di Casarsa. L'intellettuale, pensava Pasolini, aveva il dovere di creare una nuova cultura, una cultura che voleva "trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza" per usare le sue stesse parole. Utopiche, certamente. Come tutte le belle speranze dei bei momenti in cui sembra che tutto possa accadere fuorché una mutazione gattopardesca delle cose, delle persone, delle istituzioni.
    Nell'inverno del '49, scrisse Pasolini, "fuggii con mia madre a Roma, come in un romanzo. Il periodo friulano era finito". Perché questa fuga a rotta di collo, come un braccato, come un delinquente, proprio in un periodo così pieno di speranza? Alcune biografie tacciono, ma i fatti sono ormai risaputi. Pasolini era diventato, per la legge, esattamente questo: un delinquente. In un paese come il nostro, dove il comune senso del pudore, con tutti i suoi necessari corollari di ipocriti silenzi e altrettanto ipocrite denunce a gran voce, ha sempre vinto tutte le sue battaglie e affossato tutte le sue vittime, forse non poteva finire altrimenti che così. Pasolini insegnava allora nella scuola media di un paese vicino a Casarsa. Nell'ottobre del 1949 venne accusato di "corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico". Pochi, forse nessuno, sapevano allora della sua omosessualità. Fu una vera bomba, probabilmente montata ad arte e strategicamente strumentalizzata dalla stampa cattolica locale. Fatto sta che il poeta si trovò insultato, accusato, minacciato, espulso dal PCI "per indegnità morale e politica" e, naturalmente, processato; processi dai quali uscì prosciolto, nel 1950 per l'accusa di corruzione di minorenne, e nel 1952 per quella di atti osceni in luogo pubblico (per insufficienza di prove). A Roma Pasolini abitò dapprima nel "ghetto" vicino al Portico d'Ottavia e in seguito a Rebibbia, vicino al carcere, nelle borgate lungo la Tiburtina. "Per due anni - raccontava - fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese". Di affitto ne pagava tredici. Furono anni "di lavoro accanito, di pura lotta". E in casa l'atmosfera non era certo serena, specie dopo il ritorno del padre. "E mio padre sempre là - continuava il poeta - in attesa, solo nella povera cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti". Quel periodo di "pura lotta" cominciò a sciogliersi, all'inizio degli anni Cinquanta, grazie all'aiuto di alcuni amici. Il poeta dialettale Vittorio Clemente gli trovò il posto a scuola; lo scrittore Giorgio Bassani gli presentò registi di Cinecittà come Soldati, Fellini, Flaiano coi quali Pasolini collaborò alla preparazione di numerosi film (per La donna del fiume di Soldati scrisse la sceneggiatura, così come per Il prigioniero della montagna, insieme a Bassani; Fellini lo volle come filologo per curare le battute in romanesco delle Notti di Cabiria). Nel 1955 Pasolini fondò a Bologna, con Leonetti e Roversi (dell'antico gruppo di Eredi) una nuova rivista letteraria, Officina. Il ruolo di Officina come luogo di confronto e dibattito sui compiti della letteratura e degli intellettuali, come occasione di verifica ideologica (in un momento delicatissimo per il PCI quale fu quello seguito all'indimenticabile 1956), è noto. Alla rivista collaborò, entrando poi nel comitato di redazione, anche Franco Fortini, tanto per fare un nome. Più o meno nello stesso periodo furono pubblicate le poesie e le prose scritte da Pasolini dopo la guerra, dunque in parte risalenti ancora agli anni di Casarsa. Ragazzi di vita, il romanzo sulla periferia romana e i suoi abitanti, uscì nel 1955. Accusa di oscenità, nuovo processo. Riesplodeva il "caso" Pasolini. Non si sarebbe chiuso che vent'anni dopo, con la sua morte.
         Le Poesie a Casarsa, più altre in dialetto, furono riunite nel volume La meglio gioventù e pubblicate nel 1954. Poi ci fu un'inversione cronologica. Nel 1957, infatti, usciva Le ceneri di Gramsci, poesie composte tra il '51 e il '56, e solo nel 1958 (per una serie di motivazioni editoriali e di stesura) L'usignolo della Chiesa cattolica, scritto molto prima, tra il 1943 e il 1949. Queste due raccolte costituiscono uno snodo fondamentale nella poetica pasoliniana, e pertanto è necessario tenere ben presente le date di composizione e non quelle di pubblicazione. Nell'Usignolo, infatti, vive ancora il mondo friulano arcaico e mitizzato cui si accennava prima, percepito dal poeta con tutti i suoi accesi sensi e al contempo con tutta la sua inquietudine esistenziale; e insieme si trova un cristianesimo primitivo e, per la Chiesa, sacrilego, nel quale Cristo è prima di tutto sofferenza della carne, sangue e patimento. Un Cristo eretico, diverso, il cui martirio fa nascere una domanda ineludibile: "Perché Cristo fu esposto in croce?" Perché "esibire la sua morte?" Bisogna esporsi, dunque. È questo l'insegnamento di quell'uomo dal "corpo di giovinetta", insanguinato e inchiodato al suo albero di dolore. E questo è il significato del crocefisso: "sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull'abisso" e tremare "d'intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco / per testimoniare lo scandalo".  La religione, sia pure quella della tradizione contadina, che aveva animato secoli di feste paesane e liturgie nelle povere chiesette friulane, nelle ingenue e sante preghiere dei poveri, non basta più a Pasolini. La Storia rimette in gioco il popolo, e questa volta sembra dargli una possibilità nuova, concreta. Il marxismo, ora, è la speranza. "Pasolini - scrive Luigi Martellini - percorre razionalmente i sentieri periferici che lo portano istintivamente, e passionalmente, verso la ricerca della giustizia". È questo il passaggio fondamentale che avviene con Le ceneri di Gramsci. Passaggio contraddittorio - e Pasolini ne è tanto consapevole che parla, in un verso, di "scandalo del contraddirmi" - tra intelletto e passione, tra razionale e irrazionale, tra necessità di capire la realtà (quella nuova realtà delle borgate e del sottoproletariato romano in cui Pasolini si trova a vivere) e adesione emotiva a un ideale di riscatto che non può essere spiegato razionalmente. È la parte centrale delle Ceneri: "lo scandalo di contraddirmi, dell'essere / con te e contro di te; con te nel cuore / in luce, contro te nelle buie viscere" - Pasolini qui si rivolge direttamente a Gramsci; e più avanti: "attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza". Ma anche il marxismo, nella sua applicazione pratica, nella prassi militante dei suoi dirigenti, rivela presto l'incapacità di conoscere la millenaria vita proletaria del popolo; e ciò diventa ancor più evidente per Pasolini dopo i fatti del 1956, anno in cui scrive tre poemetti. Il popolo è stato tradito dai "compagni di strada" che chiedono "il mistico rigore di un'azione / sempre pari all'idea"; mentre "è all'errore / che io vi spingo, al religioso / errore"; e ancora, rivolgendosi ai dirigenti del PCI: "avete, accecati dal fare, servito / il popolo non nel suo cuore / ma nella sua bandiera: dimentichi / che deve in ogni istituzione / sanguinare, perché non torni mito, / continuo il dolore della creazione".
         Negli anni Sessanta Pasolini scrive ancora poesie, molte, che confluiranno nelle raccolte La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizzar (l'ultima, nel 1971). In esse giunge a compimento la crisi poetica di Pasolini, che comincia a preferire nuove forme espressive (il cinema, com'è noto. Il primo film, Accattone, è del 1961).
    Lo dichiara apertamente nel 1967: "non scrivo più poesie da due o tre anni. Questo non me lo sarei mai aspettato. Perché non scrivo più? Perché ho perduto il destinatario. Non vedo più con chi dialogare usando quella sincerità addirittura crudele che è tipica della poesia. Ho creduto per tanti anni che un destinatario delle mie 'confessioni' esistesse. Mi sono dunque accorto che non esiste".
    Cos'era accaduto? La Storia era andata avanti, era penetrata nel sottoproletariato: gli aveva portato la televisione, le lotterie, i rotocalchi; gli aveva innestato bisogni fasulli, appiattendo quell'allegria fuori dal tempo in cui Pasolini riconosceva e identificava la propria religione. Il popolo era stato "organizzato", imborghesito a furia di elettrodomestici e automobili. "Altre mode / altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo / a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole".
    Anche il miraggio dell'Africa, unica alternativa al disfacimento di cui si sentiva circondato, svanì ben presto. Il vero nemico, invincibile, è la borghesia antropofaga; ed è contro questo Leviatano del XX secolo che si batte negli ultimi anni della sua vita con sempre più numerosi interventi su giornali e riviste, con articoli di denuncia e pubbliche dichiarazioni, con prese di posizione apertamente polemiche: all'indomani degli scontri a Valle Giulia, preambolo del 1968, scrive rivolgendosi agli studenti: "I ragazzi poliziotti / che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) / di figli di papà, avete bastonato / appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è avuto così un frammento / di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte / della ragione), eravate i ricchi, / mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, / la vostra!". La poesia di Pasolini è ora quasi prosa; ma si tratta ancora una volta di una scelta precisa: lontani i tempi delle sperimentazioni e delle infinite libertà espressive date dal dialetto, si impone l'urgente necessità di entrare, a partire dal linguaggio, nella realtà storica, per denunciarne, con ogni mezzo, il nuovo fascismo. Comincia la stagione di Pasolini intellettuale "corsaro", pubblico accusatore dei guasti della classe al potere, nella quale individua, facendo nomi e cognomi, i responsabili dello sfascio delle istituzioni e del paese intero. Stagione breve, tragicamente interrotta in una notte di novembre del 1975. In quella notte, alla periferia di Roma, Pasolini fu esposto, pesto e sanguinante, sulla sua croce. "Storia di froci", dissero.
  Ricordiamo. Ragazzi e ragazze, uomini e donne, uniti dal silenzio, guardano passare una bara, alta sulle loro teste. Alcuni sollevano il pugno chiuso, altri abbassano la testa. Il popolo, qualsiasi cosa sia, saluta il suo disperato amante.
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Figlio

Figlio, la gioventù ti vive in fondo al cuore
rossa e sola, come il sole che muore.

Figlio, in fondo al cuore ti vive un po' d'amore
rosso e abbandonato, come il sole che muore.

Figlio, in fondo al cuore, Roma ti vive sola
rossa e senza amore come il sole che muore.

Figlio, se tu dormi quel po' di rosso muore
e quando ti risvegli non vedi più il sole.

Figlio, anche il perdono di Dio è un po' di sole
che ti fa trasparente e rosso e presto muore.

Figlio! biondino al sole di San Pietro che muore
di gioventù e abbandono nella tua morte mora!


Supplica a mia madre

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

Ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...
Marilyn
Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro ai fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
e si mette addosso le loro sciarpette,
tocca non vista i loro libri, i loro coltellini,
tu sorellina più piccola,
quella bellezza l'avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non ha mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Sparì, come un pulviscolo d'oro.
Il mondo te l'ha insegnata.
Così la tua bellezza divenne sua.
Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.
E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci mendicanti di colore,
le zingare, le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Roma
Sparì, come una colombella d'oro.
Il mondo te l'ha insegnato,
e così la tua bellezza non fu più bellezza.
Ma tu continuavi ad esser bambina,
sciocca come l'antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente
te la portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime
impudica per passività, indecente per obbedienza.
Sparì come una bianca ombra d'oro.
La tua bellezza sopravvissuta del mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne così un male.
Ora i fratelli maggiori finalmente si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: "È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn ci abbia indicato la strada?"
Ora sei tu, la prima, tu la sorella più piccola, quella
che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte.


Il Pci ai giovani

È triste. La polemica contro
il PCI andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, figli.
E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati...
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio
delle Università) il culo. Io no, amici.
Avete facce di figli di papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete paurosi, incerti, disperati
(benissimo) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori e sicuri:
prerogative piccoloborghesi, amici.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera,
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli, la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
e lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.

==>SEGUE
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, amici.

Romancerillo

I
Figlio, oggi è Domenica,
e suonano a stormo le campane,
ma il mio cuore è come
un ramo che si sfoglia.

Per i pergolati lontani
sento Cenci cantare,
quando era ancora vivo,
nei germogli degli anni.

Ah bambino, sono con il cuore
in un bianco borgo friulano.

II
Tutto il mio vivere
è passato.
Io ero fanciulla,
e tu eri morto.

Ah perchè torni
adesso nel sonno,
e da tanti anni
dimenticato?

Tutto il mio vivere
è passato.
Tu sei un fanciullo,
e noi sogniamo.



Lo scandalo del contraddirmi...

Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più.

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia...

Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?





Pioggia sui confini

Giovinetto, piove il Cielo
sui focolari del tuo paese,
sul tuo viso di rosa e miele
nuvoloso nasce il mese.

Il sole scuro di fumo,
sotto i rami del gelseto,
ti brucia e sui confini,
tu solo, canti i morti.

Giovinetto, ride il Cielo
sui balconi del tuo paese,
sul tuo viso di sangue e fiele,
rasserenato muore il mese.



Tornando al paese

Giovinetta, cosa fai
sbiancata presso il fuoco,
come una pianticina
che sfuma nel tramonto?
"Io accendo vecchi sterpi,
e il fumo vola oscuro,
a dire che nel mio mondo
il vivere è sicuro".
Ma a quel fuoco che profuma
mi manca il respiro,
e vorrei essere il vento
che muore nel paese.




O me giovinetto

O me giovinetto! Nasco
nell'odore che la pioggia
sospira dai prati,
di erba viva... Nasco
nello specchio della roggia.

In quello specchio, Casarsa
-come i prati di rugiada-
trema di tempo antico.
Là sotto, io vivo di pietà,
lontano fanciullo peccatore

in un riso sconsolato.
O me giovinetto, serena
la sera tinge l'ombra
sui vecchi muri: in cielo
la luce acceca.
quella vita non è che un brivido,


Canzonetta

La primavera dorme lieve,
sul prato trasparente,
fra il vuoto dell'erba
e il tepore del vento.

Nell'acqua del suo seno
guardo il mio viso selvaggio
di ragazzo specchiato su viole
morte da mille annate.

Ma dorme... Il suo veleno
è il tiepido respiro
dell'orizzonte chiuso
nel celeste del suo giro.



Cosí giunsi ai giorni della Resistenza...

Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l' Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce...

Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un'alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l'alba nascente fu una luce
fuori dall'eternità dello stile...
Nella storia la giustizia fu coscienza
d'una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.


A Rosario

Nella terra la carne è greve,
nel cielo si fa di luce.
Non abbassare gli occhi, povero giovane,
se nel grembo l'ombra pesa.

Ridi tu, giovane leggero,
sentendo nel tuo corpo
la terra calda e scura
e il fresco, chiaro cielo.

In mezzo alla povera Chiesa
è pieno di peccato il tuo buio,
ma nella tua luce leggera
ride il destino di un puro.



Verso le Terme di Caracalla

Vanno verso le Terme di Caracalla
giovani amici, a cavalcioni
di Rumi o Ducati, con maschile
pudore e maschile impudicizia,
nelle pieghe calde dei calzoni
nascondendo indifferenti, o scoprendo,
il segreto delle loro erezioni...
Con la testa ondulata, il giovanile
colore dei maglioni, essi fendono
la notte, in un carosello
sconclusionato, invadono la notte,
splendidi padroni della notte...

Va verso le Terme di Caracalla,
eretto il busto, come sulle natie
chine appenniniche, fra tratturi
che sanno di bestia secolare e pie
ceneri di berberi paesi - già impuro
sotto il gaglioffo basco impolverato,
e le mani in saccoccia - il pastore
migrato
undicenne, e ora qui, malandrino e
giulivo
nel romano riso, caldo ancora
di salvia rossa, di fico e d'ulivo...

Va verso le Terme di Caracalla,
il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
che il feroce Frascati ha ridotto
a una bestia cretina, a un beato,
con nello chassì i ferrivecchi
del suo corpo scassato, a pezzi,

rantolanti: i panni, un sacco,
che contiene una schiena un po' gobba,
due cosce certo piene di croste,
i calzonacci che gli svolazzano sotto
le saccocce della giacca pese
di lordi cartocci. La faccia
ride: sotto le ganasce, gli ossi
masticano parole, scrocchiando:
parla da solo, poi si ferma,

==>SEGUE
    

e arrotola il vecchio mozzicone,
carcassa dove tutta la giovinezza,
resta, in fiore, come un focaraccio
dentro una còfana o un catino:
non muore chi non è mai nato.

Vanno verso le Terme di Caracalla



Canto delle campane

Quando la sera si perde nelle fontane,
il mio paese è di colore smarrito.

Io sono lontano, ricordo le sue rane,
la luna, il triste tremolare dei grilli.

Suona Rosario, e si sfiata per i prati:
io sono morto al canto delle campane.

Straniero, al mio dolce volo per il piano,
non aver paura: io sono uno spirito d'amore,

che al suo paese torna di lontano.


Sesso, consolazione della miseria!

Sesso, consolazione della miseria!
La puttana è una regina, il suo trono
è un rudere, la sua terra un pezzo
di merdoso prato, il suo scettro
una borsetta di vernice rossa:
abbaia nella notte, sporca e feroce
come un'antica madre: difende
il suo possesso e la sua vita.
I magnaccia, attorno, a frotte,
gonfi e sbattuti, coi loro baffi
brindisi o slavi, sono
capi, reggenti: combinano
nel buio, i loro affari di cento lire,
ammiccando in silenzio, scambiandosi
parole d'ordine: il mondo, escluso, tace
intorno a loro, che se ne sono esclusi,
silenziose carogne di rapaci.
Ma nei rifiuti del mondo, nasce
un nuovo mondo: nascono leggi nuove
dove non c'è più legge; nasce un nuovo
onore dove onore è il disonore...
Nascono potenze e nobiltà,
feroci, nei mucchi di tuguri,
nei luoghi sconfinati dove credi
che la città finisca, e dove invece
ricomincia, nemica, ricomincia
per migliaia di volte, con ponti
e labirinti, cantieri e sterri,
dietro mareggiate di grattacieli,
che coprono interi orizzonti.
Nella facilità dell'amore
il miserabile si sente uomo:
fonda la fiducia nella vita, fino
a disprezzare chi ha altra vita.
I figli si gettano all'avventura
sicuri d'essere in un mondo
che di loro, del loro sesso, ha paura.
La loro pietà è nell'essere spietati,
la loro forza nella leggerezza,
la loro speranza nel non avere speranza.
   

L'alba meridionale

I
Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
del capitale, l'epifenomeno (infimo)
dell'avanguardia. La polizia tributaria
(quasi accertamento filosofico
sugli incartamenti di un poeta)
fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
contaminati da carità, dolenti
di inspiegabili consunzioni, e pieni
di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
però con mia gongolante leggerezza perché qua,
non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
Torno, e trovo milioni di uomini occupati
soltanto a vivere come barbari discesi
da poco su una terra felice, estranei
ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia
della Preistoria che a tutto ciò darà senso,
riprendo a Roma le mie abitudini
di bestia ferita, che guarda negli occhi,
godendo del morire, i suoi feritori...

II
Torno... e una sera il mondo è nuovo,
una sera in cui non accade nulla - solo,
corro in macchina - e guardo in fondo
all'azzurro le case del Prenestino -
le guardo, non me ne accorgo, e invece,
quest'immagine di case popolari
dentrol'azzurro della sera, deve
restarmi come un'immagine del mondo
(davvero chiedono gli uomini altro che vivere?)
- case qui piccole, muffite, di crosta bianca,
là alte, quasi palazzi, isole color terra,
galleggianti nel fumo che le fa stupende,
sopra vuoti di strade infossate, non finite,
nel fango, sterri abbandonati, e resti
d'orti con le loro siepi - tutto tacendo
come per notturna pace, nel giorno. E gli uomini
che vivono in quest'ora al Prenestino
sono affogati anch'essi in quelle strie
sognanti di celeste con sognanti lumi
    
   ==>SEGUE



- quasi in un crepuscolo che mai
si debba fare notte - quasi consci,
in attesa di un tram, alle finestre,
che Fora vera dell'uomo è l'agonia -
e lieti, quasi, di ciò, coi loro piccoli,
i loro guai, la loro eterna sera -
ah, grazia esistenziale degli uomini,
vita che si svolge, solo, come vera,
in un paesaggio dove ogni corpo è solo
una realtà lontana, un povero innocente.

III
Torno, e mi trovo, prima d'un appuntamento
da Carlo o Cartone, da Nino a Via Rasella
o da Nino a Via Borgognone in una zona
oggetto di mie sole frequentazioni...
Due o tre tram e migliaia di fratelli
(col bar luccicante sullo spiazzo,
e il dolore, spento nelle coscienze italiane,
d'essere poveri, il dolore del ritorno a casa,
nel fango, sotto nuove catene di palazzi)
che lottano, si colpiscono, si odiano tra loro,
per la meta di un gradino sul tram, nel buio,
nella sera che li ignora, perduti in un caos
che il solo fatto d'appartenere a un rione remoto
lo delude nel suo essere una cosa reale.
Io mi ritrovo il vecchio cuore, e pago
il tributo ad esso, con lacrime
ricacciate, odiate, e nella bocca
le parole della bandiera rossa,
le parole che ogni uomo sa, e sa far tacere.
Nulla è mutato! siamo ancora negli Anni Cinquanta!
siamo negli Anni Quaranta! prendete le armi!
Ma la sera è più forte di ogni dolore.
Piano piano i due tre tram la vincono
sulle migliaia di operai, lo spiazzo
è quello dei dopocena, sul fango, sereno,
brilla il chiaro d'una baracca di biliardi,
la poca gente fa la coda, nel vento
di scirocco di una sera del Mille, aspettando
il suo tram che la porti alla buia borgata.
La Rivoluzione non è che un sentimento.


Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano
    
    Li osservo, questi uomini, educati
    ad altra vita che la mia: frutti
    d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
    quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
    storica di Roma. Li osservo: in tutti
    c'è come l'aria d'un buttero che dorma
    armato di coltello: nei loro succhi
    vitali, è disteso un tenebrore intenso,
    la papale itterizia del Belli,
    non porpora, ma spento peperino,
    bilioso cotto. La biancheria, sotto,
    fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
    che trapela il suo umido, rosso,
    indecente bruciore. La sera li espone
    quasi in romitori, in riserve
    fatte di vicoli, muretti, androni
    e finestrelle perse nel silenzio.
    È certo la prima delle loro passioni
    il desiderio di ricchezza: sordido
    come le loro membra non lavate,
    nascosto, e insieme scoperto,
    privo di ogni pudore: come senza pudore
    è il rapace che svolazza pregustando
    chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
    essi bramano i soldi come zingari,
    mercenari, puttane: si lagnano
    se non ce n'hanno, usano lusinghe
    abbiette per ottenerli, si gloriano
    plautinamente se ne hanno le saccocce
    piene.
    Se lavorano - lavoro di mafiosi
    macellari,
    ferini lucidatori, invertiti commessi,
    tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
    manovali buoni come cani - avviene
    che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
    troppa avita furberia in quelle vene...
    
   ==>SEGUE

Sono usciti dal ventre delle loro madri
    a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
    preistorici, e iscritti in un'anagrafe
    che da ogni storia li vuole ignorati...
    Il loro desiderio di ricchezza
    è, così, banditesco, aristocratico.
    Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
    a vincere l'angosciosa scommessa,
    a dirsi: "È fatta," con un ghigno di re...
    La nostra speranza è ugualmente
    ossessa:
    estetizzante, in me, in essi anarchica.
    Al raffinato e al sottoproletariato spetta
    la stessa ordinazione gerarchica
    dei sentimenti: entrambi fuori dalla
    storia,
    in un mondo che non ha altri varchi
    che verso il sesso e il cuore,
    altra profondità che nei sensi.
    In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.


Alla bandiera rossa

Per chi conosce solo il tuo colore,
bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui
esista:
chi era coperto di croste è coperto di
piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese
africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore,
bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi
sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e
operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti
sventoli.
    

Frammento alla morte
Vengo da te e torno a te,
sentimento nato con la luce, col caldo,
battezzato quando il vagito era gioia,
riconosciuto in Pier Paolo
all'origine di una smaniosa epopea:
ho camminato alla luce della storia,
ma, sempre, il mio essere fu eroico,
sotto il tuo dominio, intimo pensiero.
Si coagulava nella tua scia di luce
nelle atroci sfiducie
della tua fiamma, ogni atto vero
del mondo, di quella
storia: e in essa si verificava intero,
vi perdeva la vita per riaverla:
e la vita era reale solo se bella...

La furia della confessione,
prima, poi la furia della chiarezza:
era da te che nasceva, ipocrita, oscuro
sentimento! E adesso,
accusino pure ogni mia passione,
m'infanghino, mi dicano informe, im
puro
ossesso, dilettante, spergiuro:
tu mi isoli, mi dai la certezza della vita:
sono nel rogo, gioco la carta del fuoco,
e vinco, questo mio poco,
immenso bene, vinco quest'infinita,
misera mia pietà
che mi rende anche la giusta ira amica:
posso farlo, perché ti ho troppo patita!

Torno a te, come torna
un emigrato al suo paese e lo riscopre:
ho fatto fortuna (nell'intelletto)
e sono felice, proprio
com'ero un tempo, destituito di norma.
Una nera rabbia di poesia nel petto.
Una pazza vecchiaia di giovinetto.
Una volta la tua gioia era confusa
con il terrore, è vero, e ora
quasi con altra gioia,
livida, arida: la mia passione delusa.
    
    ==>SEGUE


Mi fai ora davvero paura,
perché mi sei davvero vicina, inclusa
nel mio stato di rabbia, di oscura
fame, di ansia quasi di nuova creatura.

Sono sano, come vuoi tu,
la nevrosi mi ramifica accanto,
l'esaurimento mi inaridisce, ma
non mi ha: al mio fianco
ride l'ultima luce di gioventù.
Ho avuto tutto quello che volevo,
ormai:
sono anzi andato anche più in là
di certe speranze del mondo: svuotato,
eccoti lì, dentro di me, che empi
il mio tempo e i tempi.
Sono stato razionale e sono stato
irrazionale: fino in fondo.
E ora... ah, il deserto assordato
dal vento, lo stupendo e immondo
sole dell'Africa che illumina il mondo.

Africa! Unica mia
alternativa
   
Ballata delle madri

Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d'esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate, a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d'amore,
se non d'un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l'antico, vergognoso segreto
d'accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.
   ==>SEGUE
Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
- nel vostro odio - addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
E' così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.
    


L'USIGNOLO DELLA CHIESA CATTOLICA

LA PASSIONE

I
Cristo nel corpo
sente spirare
odore di morte.
Ah che ribrezzo
sentirsi piangere!
Marie, Marie,
albe immortali,
quanto dolore...
Io fui fanciullo
e oggi muoio.

II
Cristo, il tuo corpo
di giovinetta
è crocifisso
da due stranieri.
Sono due vivi
ragazzi e rosse
hanno le spalle,
l'occhio celeste.
Battono i chiodi
e il drappo trema
sopra il Tuo ventre...
Ah che ribrezzo
col caldo sangue
sporcarvi i corpi
color dell'alba!
Foste fanciulli,
e per uccidermi
ah quanti giorni
d'allegri giochi
e d'innocenze.

==>SEGUE




III
Cristo alla pace
del Tuo supplizio
nuda rugiada
era il Tuo sangue.
Sereno poeta,
fratello ferito,
Tu ci vedevi
coi nostri corpi
splendidi in nidi
di eternità!
Poi siamo morti.
E a che ci avrebbero
brillato i pugni
e i neri chiodi,
se il Tuo perdono
non ci guardava
da un giorno eterno
di compassione?

IV
Cristo ferito,
sangue di viole,
pietà degli occhi
chiari dei Cristiani!
Fiore fiorente,
sul monte lontano
come possiamo
piangerti, o Cristo?
II cielo è un lago
che mugge intorno
al muto Calvario.
O Crocifisso,
lasciaci fermi
a contemplarti.



La Samaria
annega al buio,
la morte tuona
s'un cimitero
di fresche aiuole!
Polvere e fronde
echi di voci
riversi al vento
nel mesto buio.
Ah siamo uomini
dimentichiamo.
Dietro di Cristo
sui monti morti
il cielo fugge,
è un cieco fiume.

L'ANNUNCIAZIONE

I FIGLI:

Madre, cos'hai
sotto il tuo occhio?
Cosa nascondi
nel riso stanco?
Domeniche antiche,
fresche di cielo,
antichi maggi
rossi negli occhi
delle tue amiche,
antichi incensi...
Ora, al tuo letto,
tremiamo per te,
madre, fanciulla,
per le domeniche,
gli incensi, i maggi.
Tu eri tanto
bella e innocente...
Madre... chi eri
quand'eri giovane?
E Lui, chi era?
Madre, che muoia...
Ah, sia fanciulla
sempre la vita
nella severa
tua vita fanciulla...
==>SEGUE



L' ANGELO:

Non senti i figli?
O lodoletta
canta in un'alba
di eterno amore...

MARIA:

Angelo, il grembo
sarà candore.
Pei figli vergini
io sarò vergine.


L I T A N I A

JANUA COELI

La porta s'apre
quando la pioggia
marcisce la sera.
Allora un raggio

rompe dai nuvoli.
Tu nuda, o Vergine,
specchi nell'umido
il viso azzurro.

SPECULUM JUSTITIAE

Specchio del cielo!
In te le nubi
i muri gli alberi
cadono immoti.

Spio capovolto...
Che pace paurosa!
Non c'è un sospiro
nel cielo, un alito.


=>SEGUE





STELLA MATUTINA

Nel duro silenzio
rustici uccelli
pungono l'aria
e il casto cuore.

Che calma morte!
Su ridestiamoci,
che il nostro cuore
vuole peccare.

REGINA PACIS

O Inesistente
quante preghiere
strappate al cuore
per ricadere

sul nostro cuore!
Febbrile e vano
suono degli angelus
sul giorno umano.








Gli italiani

L'intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da uno dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.

Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza

a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.




MATER PURISSIMA

Poveri miei occhi
di giovinetto
chini s'un corpo
colore dell'alba!

II gesto santo
del mio peccato
cade in un vespro
di castità

MATER CASTISSIMA

Ahi crudeltà
non trapassarmi
con gli occhi il corpo!
Sì, esso è nudo

caldo e innocente...
Sotto quel crudo
amore degli occhi
mi sento morire.

MATER INVIOLATA

Dal tuo grembiule
accieca il figlio
un lume candido
di albe e gigli.

Madre! quel lume
è tanto puro
che la tua coscia
pare di neve.

TURRIS EBURNEA

Seni di avorio
nidi di gigli,
non v'ha violato
mano di padre.

Fianchi lucenti
di nere nuvole
non vi fa scuro
la nostra pioggia.

==>SEGUE


Quanto a te, democratico fallito,
guarda che io, scherzando, so sparare:
reduce dai fronti d’ Oltremare,
là dove tu, vigliacco, ci hai tradito,
posso uccidere in te l’Anti - idea
migranze E-edition

V
Io sono anormale, e saperlo, non devo.
Isterico e ricattatore mi richiamo
alla Norma. Quanto più mi allontano
da me, in un cursus honorum ch’è sollievo
tragico, tanto più ripudio ciò che amo.
La tua diversità, democratico, è anormale:
io ti condanno alle buie zone
della schizofrenia, nella mia funzione
di Magistrato o Uomo d’ Ordine: tremare
devi, tremare! tu, scandalo e passione.

VI
Io sono un servo: ma dirmelo è reato.
E chi può entrare nella mia coscienza?
Un servo è un mistero: vive senza
vita, fin da piccolo: figlio dedicato
all’Autorità, per antica obbedienza.
So che tu sei, democratico, un servo,
un servo d’altri idoli o nazioni.
Non crederai che io te la perdoni!
Un servo umile uccide quello superbo:
aspetta solo un cenno dei padroni.

VII
Io sono un decadente, e lo rifiuto.
C’è un livello stupendo, dove canta
il soldato, e la massaia è santa:
il livello dove splende la salute.
Chi non è sano rovina la pianta.
Marcio democratico, col bisturi
ti resecherò come cancrena:
dolce è la pianta della vita serena
e tu co ‘l negar tuo la rattristi.
Sì, ti schiaccerò: D’Annunzio insegna.

==>SEGUE

VIII
Io sono un mite: ma ne ho il pudore.
Fin da ragazzo nella mia cittadina
di provincia, la mia era una vita bizantina.
E così oggi che sono professore.
Il Conformismo è la mia medicina.
Democratico, illuso conformista
di altre idee, tu sei un me stesso
rovesciato, ma ugualmente ossesso.
Perciò ti ucciderò, quasi per mistica
elezione, Pindaro buffone del progresso !

IX
Io sono un immorale, e lo nascondo.
Con questo vizio, benché nato bene
- nonni ex leoni e nonne ex iene,
perciò padre ricco - son venuto al mondo
E’ la Morale, così, che mi sostiene.
Democratico, che tu sia un immorale
mi pare ovvio, dato che tu critichi
la mia morale. Ti si deve azzittare,
vai condannato ad un carcere a vita:
e lì magari diventa immortale.

X
Io sono un porco, ma privatamente,
Piccolo borghese, una posizione
discreta, certamente! Diciamo generone,
con negozio al Tritone.. Per frenare la gente
occorre il Buon Costume: è mia convinzione
Porco democratico, sta attento !
‘Na cortellata in panza, ci sta poco
a dartela, zozzone: col fuoco
non si scherza, non c’è argomento
pel piccolo borghese: il gioco è gioco.

XI
Io sono un povero, e ne sono umiliato.
Odio la povertà, e covo, traditore,
la religione del Possesso in cuore.
Attendo il giorno che sarò rispettato,
fuori dagli altri, fuori dalla storia.
Anche tu, democratico, sei povero:
==>SEGUE


perchè mi togli l’interiore speranza?
Ma il popolo sa il pericolo che avanza:
vai liquidato, tu e le tue nuove
filosofie: noi ci teniamo l’ignoranza.

XII
Io sono un capitalista, e lo so.
Deboli, nani, mediocri, falliti,
anormali, servi, decadenti, miti
immorali, porci, miseri: li do
al tuo Brecht, nuove maschere politiche.
Democratico classista, tu che sai
che non sanno ciò che sono, e sono
ciò che non sanno, non avrai perdono:
in quale nuovo Buchenwald morrai,
fetide ossa senza luce e nome.

La religione del mio tempo
   
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I
        Sì, certo, era un Dio... e altri meno pazzi
        e stupendi ce n'è. Coi loro sacerdoti,
        e, vorrei anche dire, con i loro santi.

        Santi poveri, martoriati dai ben noti
        dolori, col terribile dovere
        di arrivare, senza troppi terremoti,

        alla fine del mese, per riavere
        in tasca le poche sospirate lire:
        impiegatucci, funzionari, leve

        di un Partito, per cui vivere e morire.
        Felici ti mostrano un paio di scarpe
        nuove, un quadruccio buono all'appena civile

        parete della casa, una bella sciarpa
        natalizia per la moglie: ma dentro,
        dietro quell'infantile palpito,

        quello stento, ti misurano col metro
        della loro fede, del loro sacrificio.
        Sono inflessibili, sono tetri,

        nel loro giudicarti: chi ha il cilicio
        addosso non può perdonare.
        Non puoi da loro aspettare una briciola

        di pietà: non perché lo insegni Marx,
        ma per quel loro dio d'amore,
        elementare vittoria di bene sul male,

        ch'è nei loro atti. Ma come nel biancore
        dell'estetico dio del mare, informe Forma,
        mescolanza irrazionale di gioia e dolore,

        sbianca l'opacità del gesso, la norma
        che svaluta... così arrossa nel rosso
        dell'altro Dio - quello che trasforma

       ==>SEGUE


il mondo, quello futuro ed incorrotto -
        il sangue dei giorni di Stalin...
        Non torna nulla. Nemmeno il paradosso

        esistenziale, in cui, fertili-aridi,
        vivono quasi tutti coloro che conosco:
        borghesi colti, esperti di essenziali

        infrastrutture, spiriti del bosco
        della mondanità, della cultura:
        a popolare le pure sere di Piazza del Popolo,

        dei nuovi quartieri oltre le vecchie mura,
        del centro dove la città s'infossa
        in preziosi vicoli scintillanti e luridi...

        Genio arreso, con le sue quattro ossa
        sotto eleganti vesti, ognuno porta intorno
        una faccia intenta, dove gli altri possano

        sospettare qualcosa; nei caffè, di giorno,
        nei salotti, la sera: ma ognuno cerca
        nella faccia dell'altro invano un ritorno

        delle speranze antiche: e se vi accerta
        una speranza, è una speranza inconfessabile,
        nel cerchio della domanda e dell'offerta,

        il cui sguardo è come per uno spasimo
        di interna ferita: che rende esanimi,
        accidiosi, scontenti, spinge a uno sciopero

        dei sentimenti, a una colpevole stasi
        della coscienza, ad una pace insana,
        che vuole i nostri giorni grigi e tragici.

        Così, se guardo in fondo alle anime
        delle schiere di individui vivi
        nel mio tempo, a me vicini o non lontani,

        vedo che dei mille sacrilegi possibili
        che ogni religione naturale
        può enumerare, quello che rimane

        ==>SEGUE


sempre, in tutti, è la viltà.
        Un sentimento eterno - una forma
        del sentimento - fossile, immutabile,

        che lascia in ogni altro sentimento
        diretta o indiretta, la sua orma.
        È quella viltà che fa l'uomo irreligioso.

        È come un profondo impedimento
        che, all'uomo, toglie forza al cuore,
        calore al ragionamento,

        che lo fa ragionare di bontà
        come di un puro comportamento,
        di pietà come di una pura norma.

        Può renderlo feroce, qualche volta,
        ma sempre lo rende prudente:
        minaccia, giudica, ironizza, ascolta,

        ma è sempre, interiormente, impaurito.
        Non c'è nessuno che sfugga a questa paura.
        Nessuno perciò è davvero amico o nemico.

        Nessuno sa sentire vera passione:
        ogni sua luce subito s'oscura
        come per rassegnazione o pentimento

        in quell'antica viltà, in quell'ormone
        misterioso che si è formato nei secoli.
        Lo riconosco, sempre, in ogni uomo.

        Lo so bene che altro non è che insicurezza
        vitale, antica angoscia economica:
        che era regola della nostra vita animale

        ed è stata assimilata ora in queste povere
        nostre comunità: che è difesa,
        disperata, che si annida là dove

        c'è un minimo di pace: nel possesso.
        E ogni possesso è uguale: dall'industria
        al campicello, dalla nave al carretto.

        ==>SEGUE


Perciò è uguale in tutti la viltà:
        com'è alle grige origini o agli ultimi
        grigi giorni di ogni civiltà...

        Così la mia nazione è ritornata al punto
        di partenza, nel ricorso dell'empietà.
        E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza,

        e la governa. Non ha certo rimorso,
        chi non crede in nulla, ed è cattolico,
        a saper d'essere spietatamente in torto.

        Usando nei ricatti e i disonori
        quotidiani sicari provinciali,
        volgari fin nel più profondo del cuore,

        vuole uccidere ogni forma di religione,
        nell'irreligioso pretesto di difenderla:
        vuole, in nome d'un Dio morto, essere padrone.

        Qui, tra le case, le piazze, le strade piene
        di bassezza, della città in cui domina
        ormai questo nuovo spirito che offende

        l'anima ad ogni istante, - con i duomi,
        le chiese, i monumenti muti nel disuso
        angoscioso che è l'uso d'uomini

        che non credono - io mi ricuso
        ormai a vivere. Non c'è più niente
        oltre la natura - in cui del resto è diffuso

        solo il fascino della morte - niente
        di questo mondo umano che io ami.
        Tutto mi dà dolore: questa gente

        che segue supina ogni richiamo
        da cui i suoi padroni la vogliono chiamata,
        adottando, sbadata, le più infami

        abitudini di vittima predestinata;
        il grigio dei suoi vestiti per le grigie strade;
        i suoi grigi gesti in cui sembra stampata

       ==>SEGUE


l'omertà del male che l'invade;
        il suo brulicare intorno a un benessere
        illusorio, come un gregge intorno a poche biade;

        la sua regolarità di marea, per cui resse
        e deserti si alternano per le vie,
        ordinati da flussi e da riflussi ossessi

        e anonimi di necessità stantie;
        i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema,
        il cuore tetramente arreso al quia...

        E intorno a questo interno dominio
        della volgarità, la città che si sgretola
        ammucchiandosi, brasiliana o levantina,

        come l'espressione di una lebbra
        che si bea ebbra di morte sugli strati
        dell'epoche umane, cristiane o greche,

        e allinea tempeste di caseggiati,
        gore di lotti color bile o vomito,
        senza senso, né di affanno né di pace;

        sradica i riposanti muri, i gomiti
        poetici dei vicoli sui giardini interni,
        i superstiti casolari dalla tinta di pomice

        o topo, tra cui fichi, radicchi, svernano
        beati, i selciati striati di una grama
        erbetta, i rioni che parevano eterni

        nei loro lineamenti quasi umani
        di grigio mattone o smunto cotto:
        tutto distrugge la volgare fiumana

        dei pii possessori di lotti:
        questi cuori di cani, questi occhi profanatori,
        questi turpi alunni di un Gesù corrotto

        nei salotti vaticani, negli oratori,
        nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti:
        forti di un popolo di servitori.

       ==>SEGUE
Ballate della violenza

I
Io sono un debole, non lo sa nessuno.
C’è una Forza, e io la eleggo a sola
forza del mondo: Dio. La mia storia,
la nostra storia, è soltanto un fumo.
Per il nemico non posso avere amore.
Democratico, sei un debole uomo,
e, per mano mia, sarai vinto:
dovrà tacere in te l’atroce istinto
alla libertà. Forse avrai da Dio perdono:
da me no: io uccido, non convinco.

II
Io sono un nano, e non voglio saperlo.
C’è una grandezza, e in essa m’identifico.
La grandezza è la patria. Mi magnifico
in essa, lapide sopra il mio inferno.
Non ho odio pel nemico, io: ne ho schifo
Sei un nano, democratico! Io, io,
io so, io ho la luce: tu no.
Per questo io ti impiccherò,
sacrilega coscienza del mio
amore per la grandezza che non ho

III
Io sono un mediocre, e non c’è prova.
Per questo è sublime la mia idea
della Famiglia, l’umile epopea
del corso increato che mi giova
ogni giorno. Ho disprezzo per chi crea.
Tu sei un mediocre, democratico !
Per questo, se ne ho l’ordine, ti ammazzo.
Eh già ! uno del plotone, uno del mazzo !
La finirai di fare il fanatico
idealista, ti leverai dal c.....

IV
Io sono un fallito: posso ammetterlo?
No certo! Perciò con la paglietta
di traverso, compio la vendetta
con umorismo, con umiltà dialettica:
so l’Ideale, e detesto chi lo infetta.

==>SEGUE


V
Cristo, ai tuoi poveri
figli dispersi
nell'infinito
cielo del vivere,
ecco, morendo
Tu lasci questa
finita Immagine.
Soave fanciullo,
corpo leggero,
ricci di luce...
è San Giovanni.
Perduti in nubi
d'indifferenza
in Sé ci chiama
e a Sé ci informa
questo Tuo Corpo.

VI
Cristo si abbatte
dentro il Suo corpo.
Da sé remote
in quali ardenti
campagne ha sguardo
la Sua pupilla?
Qui è ben cieco,
fermo sull'ossa:
un uccelletto
insanguinato
su una proda.
Dietro, la luce
marcisce il cielo.
Per le vallate
e per le vette
non suona voce:
ultimo e dolce
fruscio la serpe
che si rintana.
O Dio che ombre
dentro il chiarore
delle saette!

==>SEGUE


Com'è giunto lontano dai tumulti
        puramente interiori del suo cuore,
        e da paesaggio di primule e virgulti

        del materno Friuli, l'Usignolo
        dolceardente della Chiesa Cattolica!
        Il suo sacrilego, ma religioso amore

        non è più che un ricordo, un'ars retorica:
        ma è lui, che è morto, non io, d'ira,
        d'amore deluso, di ansia spasmodica

        per una tradizione che è uccisa
        ogni giorno da chi se ne vuole difensore;
        e con lui è morta una terra arrisa

        da religiosa luce, col suo nitore
        contadino dei campi e casolari;
        è morta una madre ch'è mitezza e candore

        mai turbati in un tempo di solo male;
        ed è morta un'epoca della nostra esistenza,
        che in un mondo destinato a umiliare

        fu luce morale e resistenza.
"L'intelligenza non avra' mai peso, mai nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai da uno dei milioni d'anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato:irreale è ogni idea, irreale ogni passione, di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l'ha mai liberato. Mostrare la mia faccia,la mia magrezza,alzare la mia sola puerile voce non ha piu' senso: la vilta' avvezza a vedere morire nel modo piu' atroce gli altri, nella piu' strana indifferenza. Io muoio, ed anche questo mi nuoce."