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Il Vespro


Ma de gli augelli e de le fere il giorno
E de’ pesci squammosi e de le piante
E dell’umana plebe al suo fin corre.
Già sotto al guardo de la immensa luce
Sfugge l’un mondo: e a berne i vivi raggi
Cuba s’affretta e il Messico e l’altrice
Di molte perle California estrema:
E da’ maggiori colli e dall’eccelse
Rocche il sol manda gli ultimi saluti
All’Italia fuggente; e par che brami
Rivederti o Signor prima che l’alpe
O l’appennino o il mar curvo ti celi
A gli occhi suoi. Altro finor non vide
Che di falcato mietitore i fianchi
Su le campagne tue piegati e lassi,
E su le armate mura or braccia or spalle
Carche di ferro, e su le aeree capre
De gli edificj tuoi man scabre e arsicce,
E villan polverosi innanzi a i carri
Gravi del tuo ricolto, e su i canali
E su i fertili laghi irsuti petti
Di remigante che le alterne merci
A’ tuoi comodi guida ed al tuo lusso;
Tutti ignobili aspetti. Or colui veggia

Che da tutti servito a nullo serve.
Pronto è il cocchio felice. Odo le rote
Odo i lieti corsier che all’alma sposa
E a te suo fido cavalier nodrisce
Il placido marito. Indi la pompa
Affrettasi de’ servi; e quindi attende
Con insigni berretti e argentee mazze
Candida gioventù che al corso agogna
I moti espor de le vivaci membra:
E nell’audace cor forse presume
A te rapir de la tua bella i voti.
Che tardi omai? Non vedi tu com’ella
Già con morbide piume a i crin leggeri
La bionda che svani polve rendette;
E con morbide piume in su la guancia
Fe’ più vermiglie rifiorir che mai
Le dall’aura predate amiche rose?
Or tu nato di lei ministro e duce
L’assisti all’opra; e di novelli odori
La tabacchiera e i bei cristalli aurati
Con la perita mano a lei rintègra:
Tu il ventaglio le scegli adatto al giorno;
E tenta poi fra le giocose dita
Come agevole scorra. Oh qual con lieti
Nè ben celati a te guardi e sorrisi
Plaude la dama al tuo sagace tatto!
Ecco ella sorge; e del partir dà cenno:
Ma non senza sospetti e senza baci

A le vergini ancelle il cane affida
Al par de’ giochi al par de’ cari figli
Grave sua cura: e il misero dolente
Mal tra le braccia contenuto e i petti
Balza e guaisce in suon che al rude vulgo
Ribrezzo porta di stridente lima;
E con rara celeste melodia
Scende a gli orecchi de la dama e al core.
Mentre così fra i generosi affetti
E le intese blandizie e i sensi arguti
E del cane e di sè la bella oblia
Pochi momenti; tu di lei più saggio
Usa del tempo: e a chiaro speglio innante
I bei membri ondeggiando alquanto libra
Su le gracili gambe; e con la destra
Molle verso il tuo sen piegata e mossa
Scopri la gemma che i bei lini annoda;
E in un di quelle ond’hai si grave il dito
L’invidiato folgorar cimenta:
Poi le labbra componi; ad arte i guardi
Tempra qual più ti giova; e a te sorridi.
Al fin tu da te sciolto, ella dal cane
Ambo al fin v’appressate. Ella da i lumi
Spande sopra di te quanto a lei lascia
D’eccitata pietà l’amata belva;
E tu sopra di lei da gli occhi versi
Quanto in te di piacer destò il tuo volto.
Tal seguite ad amarvi: e insieme avvinti,

Giuseppe Parini  -  IL GIORNO



Tu a lei sostegno, ella di te conforto,
Itene omai de’ cari nodi vostri
Grato dispetto a provocar nel mondo.
Qual primiera sarà che da gli amati
Voi sul vespro nascente alti palagi
Fuor conduca o Signor voglia leggiadra?
Fia la santa Amistà, non più feroce
Qual ne’ prischi eccitar tempi godea
L’un per l’altro a morir gli agresti eroi;
Ma placata e innocente al par di questi
Onde la nostra età sorge sì chiara
Di Giove alti incrementi. Oh dopo i tardi
De lo specchio consigli e dopo i giochi
Dopo le mense, amabil dea, tu insegni
Come il giovin Marchese al collo balzi
Del giovin Conte; e come a lui di baci
Le gote imprima; e come il braccio annode
L’uno al braccio dell’altro; e come insieme
Passeggino elevando il molle mento
E volgendolo in guisa di colombe;
E palpinsi e sorridansi e rispondansi
Con un vezzoso tu. Tu fra le dame
Sul mobil arco de le argute lingue
I già pronti a scoccar dardi trattieni
S’altra giugne improvviso a cui rivolti
Pendean di già: tu fai che a lei presente
Non osin dispiacer le fide amiche:
Tu le carche faretre a miglior tempo

Di serbar le consigli. Or meco scendi;
E i generosi ufici e i cari sensi
Meco detta al mio eroe; tal che, famoso
Per entro al suon de le future etadi,
E a Pilade s’eguagli e a quel che trasse
Il buon Tesèo da le Tenarie foci.
Se da i regni che l’alpe o il mar divide
Dall’Italico lido in patria or giunse
Il caro amico; e da i perigli estremi
Sorge d’arcano mal, che in dubbio tenne
Lunga stagione i fisici eloquenti,
Magnanimo garzone andrai tu forse
Trepido ancora per l’amato capo
A porger voti sospirando? Forse
Con alma dubbia e palpitante i detti
E i guardi e il viso esplorerai de’ molti
Che il giudizio di voi menti si chiare
Fra i primi assunse d’Esculapio alunni?
O di leni origlieri all’omer lasso
Porrai sostegno; e vital sugo a i labbri
Offrirai di tua mano? O pur con lieve
Bisso il madido fronte a lui tergendo,
E le aurette agitando, il tardo sonno
Inviterai a fomentar con l’ali
La nascente salute? Ahi no; tu lascia
Lascia che il vulgo di sì tenui cure
Le brevi anime ingombri; e d’un sol atto
Rendi l’amico tuo felice a pieno.

Sai che fra gli ozj del mattino illustri,
Del gabinetto al tripode sedendo,
Grand’arbitro del bello oggi creasti
Gli eccellenti nell’arte. Onor cotanto
Basti a darti ragion su le lor menti
E su l’opre di loro. Util ciascuno
A qualch’uso ti fia. Da te mandato
Con acuto epigramma il tuo poeta
La mentita virtù trafigger puote
D’una bella ostinata: e l’elegante
Tuo dipintor può con lavoro egregio
Tutti dell’amicizia onde ti vanti
Compendiar gli ufici in breve carta;
O se tu vuoi che semplice vi splenda
Di nuda maestade il tuo gran nome;
O se in antica lapide imitata
Inciso il brami; o se in trofeo sublime
Accumulate a te mirar vi piace
Le domestiche insegne, indi un lione
Rampicar furibondo e quindi l’ale
Spiegar l’augel che i fulmini ministra,
Qua timpani e vessilli e lance e spade,
E là scettri e collane e manti e velli
Cascanti argutamente. Ora ti vaglia
Questa carta o signor serbata all’uopo;
Or fia tempo d’usarne. Esca e con essa
Del caro amico tuo voli a le porte
Alcun de’ nuncj tuoi; quivi deponga




La tessera beata; e fugga; e torni
Ratto su l’orme tue pietoso eroe,
Che già pago di te ratto a traverso
E de’ trivii e del popolo dilegui.
Già il dolce amico tuo nel cor commosso,
E non senza versar qualche di pianto
Tenera stilla il tuo bel nome or legge,
Seco dicendo: "oh ignoto al duro vulgo
Sollievo almo de’ mali! Oh sol concesso
Facil commercio a noi alme sublimi
E d’affetti e di cure! Or venga il giorno
Che sì grate alternar nobili veci
A me sia dato!" Tale sbadigliando
Si lascia da la man lenta cadere
L’amata carta; e te la carta e il nome
Soavemente in grembo al sonno oblia.
Tu fra tanto colà rapido il corso
Declinando intraprendi ove la dama
Co’ labbri desiosi e il premer lungo
Del ginocchio sollecito ti spigne
Ad altre opre cortesi. Ella non meno
All’imperio possente a i cari moti
Dell’amistà risponde. A lei non meno
Palpita nel bel petto un cor gentile.
Che fa l’amica sua? Misera! Ieri,
Qual flisse la cagion, fremer fu vista
Tutta improvviso, ed agitar repente
Le vaghe membra. Indomito rigore

Occupolle le cosce; e strana forza
Le sospinse le braccia. Illividiro
I labbri onde l’Amor l’ali rinfresca;
Enfiò la neve de la bella gola;
E celato candor da i lini sparsi
Effuso rivelossi a gli occhi altrui.
Gli Amori si schermiron con la benda;
E indietro rifuggironsi le Grazie.
In vano il cavaliere, in van lo sposo
Tentò frenarla, in van le damigelle
Che su lo sposo e il cavaliere e lei
Scorrean col guardo; e poi ristrette insieme
Malignamente sorrideansi in volto.
Ella truce guatando curvò in arco
Duro e feroce le gentili schiene
Scalpitò col bel piede; e ripercosse
La mille volte ribaciata mano
Del tavolier ne le pugnenti sponde.
Livida pesta scapigliata e scinta
Al fin stancò tutte le forze; e cadde
Insopportabil pondo sopra il letto.
Nè fra l’intime stanze o fra le chiuse
Gemine porte il prezioso evento
Tacque ignoto molt’ore. Ivi la Fama
Con uno il colse de’ cent’occhi suoi;
E il bel pegno rapito uscì portando
Fra le adulte matrone, a cui segreto
Dispetto fanno i pargoletti amori,

Che da la maestà de gli otto lustri
Fuggon volando a più scherzosi nidi.
Una è fra lor che gli altrui nodi or cela
Comoda e strigne; or d’ispida virtude
Arma suoi detti; e furibonda in volto
E infiammata ne gli occhi alto declama
Interpreta ingrandisce i sagri arcani
De gli amorosi gabinetti; e a un tempo
Odiata e desiata eccita il riso
Or co’ proprj misterj or con gli altrui.
La vide la notò, sorrise alquanto
La volatile dea, disse: tu sola
Sai vincere il clamor de la mia tromba.
Disse, e in lei si mutò. Prese il ventaglio,
Prese le tabacchiere, il cocchio ascese;
E là venne trottando ove de’ grandi
È il consesso più folto. In un momento
Lo sbadigliar s’arresta. In un momento
Tutti gli occhi e gli orecchi e tutti i labbri
Si raccolgono in lei: ed ella al fine,
E ansando e percotendosi con ambe
Le mani le ginocchia, il fatto espone
E del fatto le origini riposte.
Riser le dame allor pronte domane
A fortuna simil, se mai le vaghe
Lor fantasie commoverà negato
Da i mariti compenso a un gioco avverso,
O in faccia a lor per deità maggiore




Negligenza d’amante, o al can diletto
Nata subita tosse: e rise ancora
La tua dama con elle: e in cor dispose
Di teco visitar l’egra compagna.
Ite al pietoso uficio, itene or dunque:
Ma lungo consigliar duri tra voi
Pria che a la meta il vostro cocchio arrive.
Se visitar, non già veder l’amica
Forse a voi piace, tacita a le porte
La volubile rota il corso arresti:
E il giovanetto messagger salendo
Per le scale sublimi a lei v’annunzj
Si che voi non volenti ella non voglia.
Ma, se vaghezza poi ambo vi prende
Di spiar chi sia seco, e di turbarle
L’anima un poco, e ricercarle in volto
De’ suoi casi la serie, il cocchio allora
Entri: e improvviso ne rimbombi e frema
L’atrio superbo. Egual piacere inonda
Sempre il cor de le belle o che opportune
O giungano importune alle lor pari.
Già le fervide amiche ad incontrarse
Volano impazienti; un petto all’altro
Già premonsi abbracciando; alto le gote
D’alterni baci risonar già fanno;
Già strette per la man co’ dotti fianchi
Ad un tempo amendue cadono a piombo
Sopra il sofà. Qui l’una un sottil motto

Vibra al cor dell’amica; e a i casi allude
Che la Fama narrò: quella repente
Con un altro l’assale. Una nel viso
Di bell’ire s’infiamma: e l’altra i vaghi
Labbri un poco si morde: e cresce in tanto
E quinci ognor più violento e quindi
Il trepido agitar de i duo ventagli.
Così, se mai al secol di Turpino
Di ferrate guerriere un paro illustre
Si scontravan per via, ciascuna ambiva
L’altra provar quel che valesse in arme;
E dopo le accoglienze oneste e belle
Abbassavan lor lance e co’ cavalli
Urtavansi feroci; indi infocate
Di magnanima stizza i gran tronconi
Gittavan via de lo spezzato cerro,
E correan con le destre a gli elsi enormi.
Ma di lontan per l’alta selva fiera
Un messagger con clamoroso suono
Venir s’udiva galoppando; e l’una
Richiamare a re Carlo, o al campo l’altra
Del giovane Agramante. Osa tu pure
Osa invitto garzone il ciuffo e i ricci
Si ben finti stamane all’urto esporre
De’ ventagli sdegnati: e a nuove imprese
La tua bella invitando, i casi estremi
De la pericolosa ira sospendi.
Oh solenne a la patria oh all’orbe intero

Giorno fausto e beato al fin sorgesti
Di non più visto in ciel roseo splendore
A sparger l’orizzonte. Ecco la sposa
Di Ramni eccelsi l’inclit’alvo al fine
Sgravò di maschia desiata prole
La prima volta. Da le lucid’aure
Fu il nobile vagito accolto a pena,
Che cento messi a precipizio usciro
Con le gambe pesanti e lo spron duro
Stimolando i cavalli, e il gran convesso
Dell’etere sonoro alto ferendo
Di scutiche e di corni: e qual si sparse
Per le cittadi popolose, e diede
A i famosi congiunti il lieto annunzio:
E qual per monti a stento rampicando
Trovò le rocche e le cadenti mura
De’ prischi feudi ove la polve e l’ombra
Abita e il gufo; e i rugginosi ferri
Sopra le rote mal sedenti al giorno
Di novo espose, e fe’ scoppiarne il tuono;
E i gioghi de’ vassalli e le vallèe
Ampie e le marche del gran caso empièo.
Nè le Muse devote, onde gran plauso
Venne l’altr’anno a gl’imenei felici,
Già si tacquero al parto. Anzi, qual suole
Là su la notte dell’ardente agosto
Turba di grilli, e più lontano ancora
Innumerabil popolo di rane



Sparger d’alto frastuono i prati e i laghi,
Mentre cadon su lor fendendo il buio
Lucide strisce, e le paludi accende
Fiamma improvvisa che lambisce e vola;
Tal sorsero i cantori a schiera a schiera;
E tal piovve su lor foco febèo,
Che di motti ventosi alta compaggine
Fe’ dividere in righe, o in simil suono
Uscir pomposamente. Altri scoperse
In que’ vagiti Alcide, altri d’Italia
Il soccorso promise, altri a Bizanzio
Minacciò lo sterminio. A tal clamore
Non ardi la mia Musa unir sue voci:
Ma del parto divino al molle orecchio
Appressò non veduta; e molto in poco
Strinse dicendo: "Tu sarai simile
Al tuo gran genitore".



Il giorno


Il giorno è un componimento del poeta Giuseppe Parini scritto in endecasillabi sciolti, che mira a rappresentare in modo satirico l'aristocrazia di quel tempo. Con esso inizia di fatto il tempo della letteratura civile italiana.
Il poemetto era inizialmente diviso in tre parti: Mattino, Mezzogiorno e Sera. L'ultima sezione venne in seguito divisa in due parti incomplete: il Vespro e la Notte. Ecco come Parini suddivideva la giornata ideale del suo pupillo, "il giovin signore", appartenente alla nobiltà milanese.

Mattino

Il Giovin Signore si sveglia sul tardi, in quanto la sera prima è stato sommerso dai suoi onerosi impegni mondani. Una volta alzato deve scegliere tra il caffè (se tende ad ingrassare) o la cioccolata (se ha bisogno di digerire la cena della sera prima), poi verrà annoiato da delle visite importune, ad esempio un artigiano che richiede il compenso per un lavoro. Seguono le cosiddette visite gradite (per esempio il maestro di francese o di piano); dopodiché non resta che fare toeletta e darsi ad alcune letture (in senso mondano, tese a sfoggiare poi la propria "cultura"). Prima di uscire, viene vestito con abiti nuovi, si procura vari accessori tipici del gentiluomo settecentesco (quali coltello, tabacchiera, etc.), e sale in carrozza per recarsi dalla dama di cui è cavalier servente (secondo la pratica del cicisbeismo, di cui lo stesso Parini è forte critico).

Mezzogiorno, ribattezzato successivamente Meriggio.

Il Giovin Signore, arrivato a casa della dama dove verrà servito il pranzo, incontra il marito della suddetta, che appare freddo ed annoiato. Finalmente è ora di pranzo, e i discorsi attorno al desco si susseguono, fino a che un commensale vegetariano (l'essere vegetariano era una moda discretamente diffusa tra gli aristocratici del tempo, cosa che a Parini sapeva di ipocrisia dato il loro quasi disprezzo per gli uomini di casta inferiore), che sta parlando in difesa degli animali, fa ricordare alla dama il giorno funesto in cui la sua cagnolina, la vergine cuccia, venne lanciata nella polvere da un cameriere a seguito di un morso ricevuto al piede (opportunamente punito per la sua sfrontatezza con il licenziamento, dopo anni di servizio, lasciando l'ex-dipendente e la sua famiglia nella povertà. In questo passo, l'ironia sorridente di Parini si trasforma in vero sarcasmo). Segue lo sfoggio della cultura da parte dei commensali, il caffè e i giochi.

Vespro

Si apre con una descrizone del tramonto. Il Giovin Signore e la dama fanno visita agli amici e vanno in giro in carrozza, ma solo dopo che la donna ha congedato pateticamente la sua cagnetta e il Giovin Signore si è rassettato davanti allo specchio. Poi si recano da un amico ammalato (solo per lasciargli il biglietto da visita) e da una nobildonna che ha appena avuto una crisi di nervi, mentre discutono su una marea di pettegolezzi. A questo punto interviene il Giovin Signore che annuncia la nascita di un bambino, il figlio primogenito di una famiglia nobiliare.

Notte

I due amanti prendono parte ad un ricevimento notturno, ed il narratore inizia la descrizione dei diversi personaggi della sala, in particolare degli "imbecilli", caratterizzati da sciocche manie. Poi si passa alla disposizione dei posti ai tavoli da gioco (che possono risvegliare vecchi amori o creare intrighi) e infine ai giochi veri e propri. Così si conclude la "dura" giornata del nobile italiano del 1700, che tornerà a casa a notte fonda per poi risvegliarsi il mattino dopo, sempre ad ora tarda.

Stile e significato dell'opera

L'impronta ironica del poema mira innanzitutto ad una critica nei confronti della nobiltà settecentesca italiana, ambiente che lo stesso Parini aveva frequentato come precettore di famiglie aristocratiche, e che quindi conosceva molto bene. Libertinismo, licenziosità, corruzione ed oziosità sono solo alcuni dei vizi che l'autore denuncia nella sua opera, incarnati perfettamente da questa classe sociale che, a giudizio del poeta, aveva perso quel vigore necessario a farsi guida del popolo, come invece era stata in passato. Parini infatti non si pone come nemico della casta nobiliare (come al contrario molti pensatori del suo tempo erano), ma si fa portavoce di una teoria secondo la quale l'aristocrazia vada rieducata al suo originario compito di utilità sociale, compito che giustifica appieno tutti i diritti ed i privilegi di cui gode. Da qui si può comprendere come la sua polemica antinobiliare fosse in linea con il programma riformatore di Maria Teresa d'Austria, che puntava ad un reinserimento dell'aristocrazia entro i ranghi produttivi della società. A spiegare la critica pariniana, è emblematica la definizione del Giovin Signore data nel proemio del Vespro: colui "che da tutti servito a nullo serve"; giocando sull'ambivalenza del verbo "servire", che può anche significare "essere utile a". Partendo da questo punto, si può cogliere come il poeta abbia intenzionalmente costruito l'intera opera sul gioco dell'ambiguità: se per una lettura superficiale (e quindi del Giovin Signore stesso) il componimento può apparire un'esaltazione ed un'adesione agli atteggiamenti della classe nobiliare, un approfondimento fa invece emergere tutta la forza dell'ironia volta ad una vera e propria critica, nonché denuncia sociale. L'antifrasi è evidente anche nel ruolo di precettor d'amabil rito che l'autore intende assumere, incaricandosi d'insegnare, attraverso "Il Giorno", come riempire con momenti ed esperienze piacevoli la noia della giornata d'un Giovin Signore. Ciò fa sì che quest'opera rientri nel genere della poesia didascalica, molto diffusa nell'epoca classica e nei momenti dell'Illuminismo. Lo stile è senza dubbio di alto livello, tipico del poema epico antico e della lirica classica: i frequenti richiami classici ed il tono solenne non sono da intendere solo nella loro funzione di supporto all'ironia ed alla finalità critica del componimento (quali senza dubbio sono, ma non solo), ma anche come un gusto poetico estremamente colto, ricco e raffinato. La scelta stilistica del poeta di un linguaggio proprio dell'epica, di una grande attenzione ai particolari e di una minuziosità descrittiva, accompagnano quindi quell'intento di ambiguità nei confronti della materia trattata: assumendo i personaggi dell'opera come veri e propri eroi del poema, mettendo su di un piedistallo i loro vizi ed i loro modi di vivere, Parini riesce acutamente a sminuirli, provocando nel lettore sì un sorriso, ma un sorriso che sa di amaro.


IL GIORNO



Il capolavoro di Parini è il poema il giorno diviso in quattro parti: il mattino, il mezzogiorno il vespro e la notte . Le prime due parti sono pubblicate rispettivamente nel 1763 e 1765, alle altre il poeta lavora fino alla morte lasciandole incompiute. Nel Giorno il poeta immagina di essere precettore di un giovane nobile e di insegnargli minuziosamente cosa deve fare durante il giorno per diventare un degno rappresentante della propria classe sociale . Il poema , in realtà , è una satira di forte impegno morale contro l'aristocrazia: cioè Parini non intende scrivere un galateo di comportamento per i nobili ma condannare la loro vita oziosa, inutile, egoista e corrotta (Il Giovin Signore si alzava tardi mentre tutta la plebe era al lavoro,faceva colazione con comodo leggendo e ascoltando musica.Poi andava dal parrucchiere per sistemare i capelli ed incipriarli. A mezzogiorno andava a pranzo dalla sua dama di cui era il cicisbeo(corteggiatore autorizzato dai mariti)insieme ad altri nobili.Si mangiava e si chiacchierava pettegolando.Dopo arrivava il momento del gioco e della passeggiata . A sera il Giovin Signore si recava da una dama che dava ricevimento e festa per tutta la notte.) Nell'opera, con accenti intensi e appassionati, Parini denuncia anche la miseria in cui vive la gente del popolo, in stridente contrasto con il lusso e l'abbondanza in cui vive la nobiltà.
Il Giorno, si presenta come un poema didascalico in endecasillabi sciolti in cui un precettore, che narra in prima persona, illustra ad un Giovin Signore di famiglia aristocratica le leggiadre cure e le alte imprese che lo devono impegnare nelle diverse ore di una giornata, per ingannare il lungo tedio che lo minaccia. Il lettore, tuttavia, avverte immediatamente che l'intonazione è ironica, e che l'intenzione dell'autore è di smascherare la vacuità e la stupidità della vita del ceto nobiliare settecentesco.Il poema è didascalico perchè cerca di spiegare il comportamento dei nobili attraverso delle favole , delle quali le più note sono la favola del piacere (Parini immagina un’età remota, in cui gli uomini vivevano allo stato di natura,senza la distinzione tra plebe e nobiltà ; tutti gli uomini erano egualmente soggetti al bisogno(che li spingeva a cibarsi degli stessi frutti, a bere la stessa acqua…). L’uniformità degli uomini spiacque agli dei, che mandarono sulla terra il Piacere: coloro che avevano organi più sensibili furono in grado di provare i suoi stimoli e di gustare le cose belle e piacevoli, dando origine alla nobiltà, quelli che avevano organi più ottusi continuarono ad obbedire solo al bisogno, dando origine alla plebe.), la favola della cipria( Il Dio Amore era stanco delle dispute tra cavalieri vecchi e giovani.I vecchi dicevano che erano migliori di loro anche nell'intimità, invece i giovani li canzonavano.Il Dio fece cadere dal cielo una quantità di cipria sui capelli dei giovani e fece colorare con cosmetici le guance dei vecchi per renderli tutti uguali) e la favola di Amore e Imene( Erano figli di Venere : vennero ad un diverbio tra di loro e non si accompagnarono più) per dimostrare che l'amore è una cosa e il matrimonio(Imene è il Dio del matrimonio)è tutt'altra cosa.
Il progetto del poema maturò nel clima ideologico e culturale che fa da sfondo alle Odi di contenuto civile: entusiasmo per le idee illuministiche, disponibilità a collaborare con le autorità per una riforma illuminata della società lombarda, volontà di correggere i costumi dell'aristocrazia per richiamarla ai suoi doveri di classe dirigente. Con questo spirito, Giuseppe Parini pubblica le prime due parti del poema, il Mattino (1763) ed il Mezzogiorno (1765), alle quali avrebbe dovuto seguirne un'altra intitolata la Sera; quest'ultima non fu terminata e fu sdoppiata negli anni successivi in due parti, il Vespro e la Notte, alle quali Parini lavorò sino al 1795, senza riuscire a portarle a termine; nel frattempo continuava a correggere e rielaborare le prime due parti.
Si possono quindi distinguere due versioni del poema di Parini, corrispondenti a due momenti storici e psicologici differenti: la redazione originaria del Mattino e del Mezzogiorno, e la seconda stesura dei due poemetti più il Vespro e i frammenti della Notte, non pubblicata dall'autore lombardo. Dopo la morte di Parini, gli studiosi si sono cimentati nel difficile compito di stabilire un testo definitivo che fosse il più possibile vicino alle intenzioni del poeta: le ultime acquisizioni della critica hanno portato a considerare la versione iniziale de Il Giorno e la sua rielaborazione successiva, entrambe rimaste incompiute, come due progetti letterari distinti e relativamente autonomi.

Pagina a cura di Nino Fiorillo  ===  e-mail:dlfmessina@dlf.it  ===  Associazione DLF - Messina