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Salvatore
Di Giacomo

VI

CANZONE
_______________________

SEGUITO



CARCIOFFOLÀ

– Oi mamma mamma, che luna, che luna!
mme vene, mme vene…
malincunia …

            CORO
Malincunia…

E si sta luna me porta furtuna,
mariteme ampresso,
mammélla mia!…

            CORO
Mammélla mia!…

– E dimme a chi vuo’…

            CORO
C’ ’o ndanderandì…

Ca io piglio e t’ ’o donco…

            CORO
C’ ’o ndanderandò…

– Nun saccio a chi voglio,
cunziglieme, ma’,
ca troppo me mbroglio
c’ ’o ndanderandà…

            CORO
E ndanderandì!
E ndanderandà!
Che bona figliola!
carcioffolà!…
– Oi figlia figlia, vulisse ’o pumpiere
ca spàrpeta e more
pe st’ uocchie nire?

           ==>SEGUE


CORO
Pe st’ uocchie nire?

E’ stato fatto sargente ll’atriere,
è bello, è figliulo,
s’ abbusca ’e llire!

            CORO
S’ abbusca ’e llire!

– Oi mamma, gnernò!

            CORO
C’ ’o ndanderandì…

Truvàtene a n’ato…

            CORO
C’ ’o ndanderandò. ..

Si voglio ’o vrasiere
na vota appiccià,
mm’ ’o stuta ’o pumpiere
c’ ’o ndanderandà…

            CORO
E ndanderandì!
E ndanderandà!
Che bona figliola!
carcioffolà!…

– ’O campanaro ca sta dint’ ’o ’vico
Salvatore di Giacomo - Poesie
mm’ ha fatto, mm’ ha fatto
na mmasciatella…

            CORO
Na mmasciatella…

«Oi gno’, mm’ ha ditto, sentite a n’ amico,
tenite na figlia
ch’ è troppo bella!»

          ==>SEGUE
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Nota bio-bibliografica di Salvatore Di Giacomo
_________

a cura di
Annalisa Castellitti
__________________
"Nel giornalismo io sono non uno scrittore, ma uno scrivano. La mia fissazione è questa, che Napoli è una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato ai peggiori". È lo stesso Salvatore Di Giacomo, nato a Napoli il 12 marzo 1860, a tracciare il suo profilo di poeta e giornalista in una Pagina autobiografica apparsa nel 1886 sulla rivista settimanale napoletana L'Occhialetto di Vincenzo Fornaio e Tommaso De Vivo. Egli racconta di aver abbandonato gli studi di medicina, quella "cantina dei cadaveri" destinati ad uno "spettacolo tristemente comico", in seguito ad una lezione di anatomia e ad un inquietante episodio che segnò definitivamente il suo allontanamento dall'Università:
Al meglio della lezione, uscii dalla sala. Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati. Il bidello scivolò, la tinozza - Dio mio! - la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a' miei piedi! […] Quell'inserviente, dalla faccia butterata e cinica, dall'aria insolente, dalla voce sempre rauca, com'egli era sempre oscenamente avvinazzato, si chiamava Ferdinando. Per la faccia sua, cincischiata a quel modo, i compagni lo chiamavano, napoletanamente, Setaccio. Io devo la mia salvazione a Setaccio, perché da quel giorno la cantina dei cadaveri non mi vide più e nemmeno l'Università, dove compivo il terzo anno di medicina.
Dopodiché iniziò una collaborazione giornalistica con il Corriere di Napoli, dove c'era allora Martin Cafiero mentre Federico Verdinois curava la famosa "parte letteraria": "Nel Corriere - continua - principai a scrivere alcune novelle di genere tedesco, che, se puzzavano di birra, non grondavano, però, dell'onor dei martiri e del sangue degli amanti. Quelle novelle piacquero, e l'aver creduto, tanto il Cafiero quanto il Verdinois, che io le copiassi da qualche libro tedesco, mi decise, anzi mi costrinse a scriverne molte altre. Dopo tre o quattro mesi, eccomi diventato ordinario collaboratore al Corriere, insieme con Roberto Bracco e Peppino Mezzanotte. In quel tempo tutti e tre scrivevano novelle, ci volevamo un gran bene e ci stimavamo assai".
La sua attività di CRONISTA continuò presso altri quotidiani e note riviste dell'epoca, tra cui il giornale Pro Patria, la Gazzetta letteraria di Vittorio Bersezio ed infine il Pungolo, dove capitò "fra ottimi amici, con un direttore che è la più franca e onesta e cordiale persona che abbia conosciuta". Negli anni della sua permanenza al Pungolo, la "città disgraziata" nella quale l'autore svolse il suo ruolo di giornalista fu segnata nel 1884 dal tragico evento del colera, al quale seguì la cosiddetta opera di "risanamento", il cui programma è riassumibile nella celebre frase del presidente del Consiglio di allora, Agostino Depretis: "Bisogna sventrare Napoli". In tale contesto, segnato dalla perdita del padre a causa dell'epidemia colerica, Di Giacomo, pur avendo sempre ignorato -  come egli stesso afferma nella citata pagina autobiografica - il "vocabolario politico", scrisse venti sonetti intitolati 'O funneco verde (Napoli, Pierro, 1886) sul fenomeno dello sventramento urbano che stava mutando l'aspetto della sua città. Significativo fu, però, il suo incontro con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, i quali lo legarono "con vantaggiosi contratti prima ai giornali romani Capitan Fracassa, Cronaca Bizantina e Corriere di Roma e poi al Corriere di Napoli, dove l'autore Di Giacomo si occupò prevalentemente di cronaca e cronaca giudiziaria con lo pseudonimo Il Paglietta, il quotidiano che i due fondarono nel 1888 e diressero fino al 1892, quando lo lasciarono per creare Il Mattino". Ma scrisse anche di arte, firmandosi col proprio nome o con lo pseudonimo di "Salvador", di eventi mondani, quando sostituì la Serao, siglandosi "Snob" e "Vice", di cronaca nera e di cronaca varia.
La quotidianità del lavoro giornalistico lo aveva portato a contatto con la NAPOLI dei vicoli, quella più tormentata e vera, in un ambiente che lui, piccolo borghese, non avrebbe mai frequentato così da vicino, registrandone giorno per giorno con la penna e con la macchina fotografica le vicende umane che lo impressionavano maggiormente. Oggetto della sua osservazione del reale, che si riflette in una vera e propria posizione "sociologica" rispetto alla cultura cittadina, è lo spaccato di vita della plebe, caro ai topoi della letteratura verista: "Quello di Di Giacomo con la sua città […] è un rapporto d'amore, languidamente problematico. Il giornalista si muove nelle strade, nelle piazze della sua città guardando, spesso non capendo profondamente, ma intuendo, con lo slancio umanitario ed ispirato che gli apparteneva, un mondo convulso ed infelice che si agita dietro il facile folklore additato dai viaggiatori del secolo precedente. […] Il suo modo di concepire la napoletaneità […] è un tentativo di modificare l'immagine superficiale e scontata di una Napoli che si moverebbe soltanto dietro un cliché consunto, un canovaccio che prevederebbe sempre gli stessi gesti e le stesse battute. Per Di Giacomo, giornalista con una sensibilità di poeta, Napoli è invece un calderone di vita, di sofferenze, di fatti a volte incomprensibili ma sempre profondamente autentici anche nella loro gestualità teatrale […]".
Successivamente Salvatore Di Giacomo abbandonò la vita di redazione, amata ed odiata allo stesso tempo, per passare alla carriera di BIBLIOTECARIO, che svolse per circa quarant'anni, prima alla Universitaria, dal biennio 1894-1896 in poi, e poi alla sezione Lucchesi-Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli, dove dal 1903 ottenne la responsabilità organizzativa e successivamente la nomina di direttore. Tuttavia "qualche cosa mancava sempre alla sua inquietudine spirituale", quella serenità dello spirito che nemmeno l'arrivo dell'amore per una donna molto più giovane di lui, che poi sposò nel febbraio del 1916 dopo un tormentato fidanzamento durato circa undici anni, riuscì ad appagare. Alla primogenita del magistrato Antonio Avigliano, ELISA, che Di Giacomo conobbe nell'estate del 1905 quando la ventiseienne si recò dal poeta quarantacinquenne per attingere notizie dirette per la sua tesi di laurea, incentrata proprio sulla poesia digiacomiana, furono scritte numerose lettere, dalle quali si evince la personalità intima del poeta, acceso da una folle passione ma, nel contempo, travagliato da una cupa gelosia. Queste lettere "mettono in chiara luce il profilo psicologico, estremamente "sensibile", per non dire neuropatico, dello scrittore e la sua dedizione assoluta all'arte e alla poesia", che sembrava amare più dell'amore stesso per la sua donna, quella donna che egli lascerà sola negli ultimi anni della propria vita, durante i quali fu colpito da una grave malattia che lo portò alla morte nell'aprile del 1934, cinque anni dopo la sua nomina come Accademico d'Italia.
Nel 1889 Di Giacomo, non ancora sposato, iniziò a frequentare la casa di BENEDETTO CROCE, con il quale ebbe "rapporti vari e variabili, secondo i rispettivi umori e le rispettive concezioni della vita, secondo la natura degli studi e delle attività pratiche connesse, a cui l'uno e l'altro si andavano via via dedicando: avvicinamento, per esempio, quando entrambi si muovevano sul terreno della minore storia napoletana, Croce attendendo ai Teatri di Napoli, Di Giacomo alla Cronaca del San Carlino, e i due prendendosi cura della nuova rivista Napoli mobilissima; distacchi più o meno prolungati quando il Croce si astraeva nei grossi problemi filosofici che si erano affacciati alla sua mente, o apriva la breve parentesi ministeriale, e Di Giacomo […] si buttava senza respiro nella produzione canzoniera".
Una parte della critica ha affermato che la vasta e varia opera digiacomiana "ha il suo segno unitario e il suo sigillo nella poesia", la quale si snoda tra "una fase più propriamente veristica e narrativa" ed "un'altra più intimamente fantastica e sentimentale". Nella veste di cantore e POETA di Napoli, Di Giacomo si è "immedesimato nella vita, nella storia, nella lingua e nel dialetto della sua città, fino a diventarne un simbolo e un emblema" universale. L'inizio della sua produzione in versi fu precoce (Sonetti, Tocco di Napoli, 1884) e risale all'inizio degli anni Ottanta dell'Ottocento, quando iniziarono ad apparire sui giornali e periodici napoletani delle sue liriche dialettali o canzoni, "con un'indistinzione sostanziale di cui occorre far gran conto", come annota Antonio Palermo nel saggio che ha dedicato all'autore nel suo volume Da Mastriani a Viviani. Tra i suoi celebri componimenti si ricordano il poemetto 'O munasterio (1887), Zi' munacella (1888), ed ancora Pianefforte 'e notte, Marzo e 'Na tavernella 'ngoppa Antignano. Oltre alla sua prima canzone di successo, Uocchie de suonno (1882), inizialmente con la musica di Francesco Andreatini e poi due anni dopo con quella di Mario Costa, nella cui versione il nome viene cambiato in Napulitanata, i suoi brani furono musicati da validi artisti, quali lo stesso Mario Costa per la celebre Era de maggio (1885), Enrico De Leva che rese famosa 'E spingole frangese (1888), Eduardo Di Capua per 'A retirata d' 'e marenare (1890), Francesco Paolo Tosti per la melodia Marechiare, che, scritta nel 1885, ebbe un successo internazionale e fu tradotta persino in latino. Non vanno dimenticati, poi, i libri di prose narrative Minuetto settecentesco (Napoli, Pierro, 1883), Nennella (Milano, Quadrio, 1884), Mattinate napoletane (Napoli, Casa Ed. Art. Let., 1886) e Rosa Bellavista ("Napoli letteraria", 1886).
Nella produzione digiacomiana, all'attività poetica (dal 1882 in poi) e novellistica (dal 1877 in poi) si affianca quella teatrale (iniziata nel 1888-89), che, pur essendo posteriore di circa un decennio rispetto alle prime due, è comunque strettamente legata ad entrambe da un rapporto di derivazione o di influenza tematico. A dimostrarlo sono i DRAMMI A "San Francisco" (1897), che è una riduzione teatrale dell'omonima collana di sette sonetti del 1895, 'O voto (1889), l'atto unico 'O mese mariano (1900) e i due atti Assunta Spina (che debuttò al Teatro Nuovo di Napoli, 27 marzo 1909), i quali sono la versione scenica delle novelle Il voto (1888), Senza vederlo (1884) e Assunta Spina (1888). L'interesse di Di Giacomo per i teatro si manifesta a priori nella sua revisione del linguaggio napoletano della commedia di Achille Torelli 'O buono marito fa 'a bona mugliera (Fenice di Napoli, 1886). Nel 1886-1887 si colloca la commedia lirica in tre atti La Fiera, con musica di Nicola D'Arienzo e versi digiacomiani derivati dal testo di Alberto Nota (Teatro Nuovo di Napoli, 1 marzo 1887), mentre al 1887-1888 risale la sua versione in dialetto dei drammi Santa Lucia e A bascio puorto di Goffredo Cognetti, il quale sceneggiò il dramma Mala vita (Teatro Nuovo di Napoli, 27 aprile 1889) ricavandolo a sua volta dalla novella digiacomiana Il voto.
Sull'importanza delle trasformazioni che subiscono i testi digiacomiani, nel passaggio dalle stesure narrative e liriche a quelle drammaturgiche, si è soffermato ancora una volta Antonio Palermo nel saggio sopraccitato, sostenendo che l'"esempio apparentemente più chiaro di una doppia partita con se stesso, Di Giacomo lo fornisce con il suo teatro", ma sarebbe "semplicistico e inesatto parlare di un compito puramente divulgativo" assolto dal teatro digiacomiano, poiché "facendo da tramite essenziale per il rapporto con il pubblico fu proprio il teatro a costringerlo all'invenzione, come prova l'assai tarda (1909) realizzazione scenica di Assunta Spina".
Di Giacomo dimostrò anche un interesse teorico per le vicende storiche dei teatri napoletani, che confluì nelle singolari CRONACHE raccolte nei volumi Napoli, figure e paesi (Napoli, Perrella, 1909) e Luci ed ombre napoletane (Napoli, Perrella, 1914). Ma il forte senso del teatro che l'autore possedeva si avverte, in particolare, nella monografia intitolata Storia del teatro San Carlino del 1918 e negli articoli Teatro dialettale ("Corriere di Napoli", 6 giugno 1898), Pel teatro dialettale ("Fortunio, 16 ottobre 1898") e Per un repertorio dialettale ("Il teatro moderno", n. 7, 5 luglio 1904), in cui, rispondendo all'articolo di Eduardo Scarpetta apparso nel numero precedente dello stesso giornale ("Il teatro moderno", n. 6, 19 giugno 1904), Di Giacomo sostenne l'impossibilità della formazione di un teatro popolare napoletano: "Voi dunque credete o volete far credere ch'io tenti appunto la composizione d'un teatro drammatico stabile napoletano? Siete in errore. Io desidero semplicemente scrivere - e incitare altri perchè pur le scriva - delle commedie napoletane: di sentimento, di ambiente, di dialetto napoletani. Non soltanto ma - delle commedie in cui non esclusivamente la tragicità ma si rattrovi pur tanta altra e svariata espressione della nostra fisionomia locale e teatrabile". Intervennero nella polemica, sviluppatasi sulle pagine del Teatro moderno, altri critici e letterati napoletani, tra cui Ferdinando Russo (numero del 25 agosto) e Roberto Bracco (numero del 10 ottobre). A questo gruppi di articoli digiacomiani, si accosta quello intitolato Il "San Ferdinando" (Napoli d'oggi, Pierro, 1900, pp. 419-438), riguardo al teatro popolare di Federico Stella. Salvatore Di Giacomo, che "rimane il più autorevole propulsore della nostra scena vernacolare",[18] attraverso i suoi "personaggi", "figure dalla doppia esistenza, quella di semplici persone, di napoletani immersi nella gran folla della grande metropoli, e quella di attori, che continuano ad essere altri da quello che sono, un poco confondendo di continuo le due esistenze che in fondo hanno confini in identificabili,  […] vive tutto l'universo napoletano nelle sue ascese e nelle sue decadenze".
L'elemento caratterizzante l'attività teatrale, che si apre quindi con 'O voto, e che distingue i drammi dalle novelle è senza dubbio l'uso DIALETTO, impiegato d'altronde nei testi lirici, "in cui la visione della realtà locale si combina con le tendenze della poesia europea contemporanea". Se nelle seconde Di Giacomo "utilizza la lingua letteraria, se pur avvicinata alla lingua parlata, che gli sembra lo strumento naturale per raccontare le storie dei suoi personaggi, nei drammi, come nelle poesie e nelle canzoni, ritiene necessario usare il dialetto, che è il linguaggio del teatro popolare napoletano, al quale egli si rifà, anche se avverte il bisogno di conferirgli una nuova dignità d'arte". Il suo teatro si ricollega, dunque, alla storia del teatro popolare napoletano, ma l'uso del dialetto, che apparentemente contraddice il suo ideale di "teatro d'arte" ispirato alla verità, al decoro, alla misura linguistica ed artistica, fu in un certo senso "una scelta obbligata, come era stata per le poesie e per le canzoni, perché era la lingua del popolo che Di Giacomo portava sulla scena e di cui rappresentava la vita. E se questo linguaggio non era il "dialetto letterario", al quale inclinava il Torelli, ma il "dialetto parlato", in realtà questo dialetto era regolarizzato nella grammatica e nella sintassi, scelto e sorvegliato nel lessico e in definitiva rimodellato sulla lingua letteraria". Sull'intera arte di Di Giacomo "si stende - ha dichiarato Toni Iermano - un velo di malinconia che la indirizza verso rotte artistiche non classificabili secondo definizioni rigide. D'altronde Di Giacomo non si era voluto ascrivere al mondo dei letterati napoletani bensì a quello pittorico e musicale".
Alla fine di questo excursus sulla poliedrica produzione artistica di Salvatore Di Giacomo, impegnato su diversi versanti in qualità di giornalista, bibliotecario, erudito, traduttore, fotografo, autore di racconti, poesie, canzoni nonché di drammi e copioni cinematografici, sembra interessante ricordare l'atteggiamento dell'autore nei confronti delle severe critiche lanciate contro il suo teatro da parte dell'ambiente teatrale sia napoletano che nazionale. La sua posizione è ben descritta nella parte conclusiva della Pagina autobiografica:
In quanto a quello che io scrivo "per me", voi potete trovarlo ne' miei libri. L' "io" ho cercato di sempre accamparvelo: esso vibra per nevrotica necessità in tutte le cose mie, e, per quanto io m'adoperi a tenerlo a bada, quello riesce in mezzo, come si dice, pel rotto della cuffia. Per un certo mio innato vizio di spiritualità è accaduto, qualche volta, che la critica materialistica m'abbia smembrato, ed i molti pezzi della mia forma sentimentale abbia appeso, palpitanti, alla sua beccheria forestiera. Io non m'irrito, né m'addoloro […]. Ogni critico sceglie le sue vittime; ognuna di coteste guardie di finanza dell'arte esige un dazio alla barriera. Si può perfino sopportarla questa vecchia signora petulante e zitellona. Ma, quando si parla di arte e di gioventù, io non so non amare i giovani che danno del loro cuore e della lor mente, coloro che hanno per innamorata l'arte e per grammatica una serenata!...
In tali parole si intravede chiaramente l'amore dell'autore verso la propria arte, quell'arte che trae dalla realtà la finzione scenica e fa della stessa scena il palcoscenico della vita, in cui ad indossare le maschere siamo tutti noi, personaggi di un teatro che, "disgraziatamente, non è mai la verità".
L'interesse per l'orizzonte digiacomiano si è risvegliato in occasione del cinquantenario della morte dello scrittore, nel 1984, e successivamente nel più recente centocinquantenario della sua nascita, celebrato a Napoli il 10 marzo 2010 durante il Convegno Ritorna Di Giacomo? Bilancio e prospettive di una storia a 150 anni dalla nascita (1860-2010), promosso dall'Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Dipartimento di Filologia Moderna della Federico II, diretto dal professore Pasquale Sabbatino. Tuttavia, queste celebrazioni non si sono concretizzate nella realizzazione di un'EDIZIONE CRITICA e integrale delle opere dello scrittore napoletano, la maggior parte delle quali sono conservate attualmente nella Raccolta Di Giacomo sita nella sezione napoletana Lucchesi-Palli della Nazionale e catalogate sul sito Archivi Teatro Napoli nella sezione Bibliografia digiacomiana (a cura di Antonio Laurino).
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CORO
Ch’ è troppo bella!

E dimme si ’o vuo’…

            CORO
C’ ’o ndanderandì…

– Oi ma’, nun ’o voglio…

            CORO
C’ ’o ndanderandò…

Se sose a primm’ora,
va fora a sunà,
e piglia e se n’esce
c’ ’o ndanderandà…

            CORO
E ndanderandì!
E ndanderandà!
Che bona figliola!
carcioffolà!…

– Oi mamma mamma, che luna lucente,
che stelle, che stelle
ca stanno ncielo!

            CORO
Ca stanno ncielo!

Oi ma’, sentite… teniteme mente…
Pigliateme ’e sposa
na vesta e ’o velo…

            CORO
Na vesta e ’o velo…

Se’ mise nun so’…

            CORO
C’ ’o ndanderandì…

Ca saccio a nu ninno…

==>SEGUE
Sì zita?» mm’ ha ditto.
So’ zita, neh, ma’?
Embè, datemmillo,
c’ ’o ndanderandà…

            CORO
E ndanderandì!
E ndanderandà!
Che bona figliola!
carcioffolà! …



HO UN BEN FORMATO CUORE!…

Passano ll’ anne: scappano,
volano comm’ ’o viento;
mme veco nfronte nascere
paricchie file ’argiento:

mangio cchiù ppoco, e correre
nun saccio troppo cchiù:
ma perdere, ma perdere
nun pozzo na virtù…

Io, no, nun so’ nu santo!
E ancora faccio ’ammore…

Ma ho un ben formato cuore
e me ne vanto!

Sta virtù,
sta virtù
naturale,
ch’ è nata
cu mmico,
vedite, io ve dico
mme fa…

            CORO
Che te fa?

Cchiù allero
campà!

Carmè, tu si’ na femmena

ca, mo nce vo’, capisce:
pecché, pecché, guardanneme,
pecché te ntenerisce?

Nègalo, si si’ femmena,
nègalo primm’ ’e mo:
te puo’ llagnà? Richiàralo,
te tratto bbona o no?

==>SEGUE




Dillo tu stessa i’ quanto
me faccio ancora onore…

Ho un ben formato cuore?
E mme ne vanto!

Sta virtù,
sta virtù
naturale,
ch’ è nata
cu mmico,
tu ’o ssaie, ca cu ttico,
mme fa…

            CORO
Che te fa?

Cchiù allero
campà!

Tu ce pazzie? Ccà ll’ uommene
mo vanno a caro prezzo:
ve nchianteno, ve tratteno
cu furia e cu disprezzo.

N’ ommo ca se n’ incarrica
e ll’ obbligo suio fa,
te crire tu ch’ è fàcele,
ch è fàcele a truvà?…
Scuse, pecché, ogni tanto,
mme dice: «E bravo Tore!»?

Ho un ben formato cuore!
E mme ne vanto!

Sta virtù,
sta virtù
naturale,
ch’ è nata
cu mmico,
tu ’o ssaie, ca cu ttico,
mme fa…

            CORO
Che te fa?

Cchiù allero
campà!
CAMPAGNOLA

Scennenno p’ Antignano a primma sera,
ievo cantanno n’ aria p’ ’a via:
mme suspirava attuorno ’a primmavera,
e mme faceva ’a luna cumpagnia…

St’ aria nuvella
diceva ogni mumento:
«Quanto si’ bella!
Ma quanto sto scuntento!
Tieneme mente:
nun te n’ adduone, oi ne’?…
Io mme cunzumo, io moro,
io spanteco pe tte!…»

E cantanno accussì sta campagnola
tècchete e te ncuntraie mmiez’ a tant’ ate:
e tu ’e lassaste e rummaniste sola,
e mme deciste: – Oi ni’, pe chi cantate

st’ aria nuvella
ca dice ogni mumento:
«Quanto si’ bella!
E quanto sto scuntento!»? –
E io rispunnette:
– Nun te n’ adduone, oi ne’,
ca me cunzumo e moro
e spanteco… pe tte?… –

Murmuliaste: – Overo?… – E, chiano chiano,
tu t’ accustaste… e io pure m’ accustaie…
Tu mme guardave: io te strignette ’a mano
e dint’ ’o chiaro ’e luna te vasaie…

P’ ’a notte doce
cu ccore e passione
nziemme, a doie voce,
cantàimo sta canzone:
«Tieneme mente,
tu ’o ssaie, tu ’o puo’ vedé
ca io me cunzumo, io moro,
io spanteco… pe tte…!»




CUCU’!

Quanno ’a luna sta ncoppa ’a campagna
e cchiù nnere ’e mmuntagne fa fa’,
nu cucù mmiez’ ’e ffronne se lagna,
c maie requie nn’ arriva a truvà.

Sceglie st’ ora ca dormeno ’a gente
pe puterse cchiù meglio sfucà,
e, scetato, ’o sento io sulamente
dint’ ’a pace d’ ’a notte cantà…

Cucù!…
Cucù!… Cucù!…
Licenzia ogni speranza
– mme pare ca mme dice –
e nun ce penzà cchiù…
Cucù, cucù…

P’ ’a via nova te sento ’a matina
pure a te, Chiarastella, cantà:
e mm’ affaccio a sta voce argentina,
e… te veco cu n’ato passà!…

Ah, che core!… E che barbara sorta
c’ aggi’ avuto cu ttico tené!
Stu cucù, ca mme chiamma, me porta
na mmasciata crudele, e de te!…

Cucù!…
Cucù!… Cucù!…
Licenzia ogni speranza
– mme pare ca mme dice –
e nun ce penzà cchiù…
Cucù, cucù…
Salvatore di Giacomo - Poesie

TIEMPE D’AMMORE!

Ricordete, Carmè, ll’ anno passato,
quanno turnaie cu ll’ anzia ’e te vedé;
purtavo ancora ’e panne d’ ’o surdato,
e primm’ ’e mamma iette ascianno a tte!

Tiempe felice! – penzavo io p’ ’a strata –
chi sa si nu’ starrate pe turnà!…
Chi sa si ancora eguale e maie cagnata
Carmela bella mia pozzo truvà!

Tiempe felice!
Tiempe d’ ammore!
Pecché tremmanno
mme dice ’o core

ca comm’ ’o viento
ve ne vulate?
Ca nun turnate
maie cchiù, maie cchiù?!…

E accussì, cammenanno, ’int’ ’e denocchie
me senteva nu triemmolo saglì:
e cchiù avanzavo ’o passo, e, nnanz’ a st’ uocchie,
cchiù te vedevo quase accumparì…

«Ccà sta! – dicette finalmente – E chesta
è ’a fenestella addò s’affacciarrà!»
Ma nchiusa rummanette sta fenesta,
e friddo friddo io rummanette llà.

Tiempe felice!
Tiempe d’ ammore!
Pecché tremmanno
mme dice ’o core

ca comm’ ’o viento
ve ne vulate?
Ca nun turnate
maie cchiù, maie cchiù?!

==>SEGUE
’A gente mme dicette: «A cchi vulite?
Si vulite a Carmela nun ce sta:
’A ’int’ ’o quartiero, si nun ’o ssapite
Carmela è scumparuta, ’a n’ anno fa!»

– Date nu surzo d’ acqua a stu figliulo!
Facitelo nu poco risturà!
S’ è fatto ianco comm’ a nu lenzulo!…
Vedite chella a chi iette a ngannà!… –

Tiempe felice!
Tiempe d’ ammore!
Diceva e dice
sempe stu core,

ca comm’ ’o viento
ve ne vulate!…
Ca nun turnate
maie cchiù! Maie cchiù! …
’A SENZITIVA

Carmè, nun fa’ ’a superba,
te tengo scanagliata:
tu si’ comm’ a chell’ erba

c’ appena ch’ è tuccata,
s’ arrasa, s’annasconne
e se retira ’e ffronne…

Ma ’o ssaccio ch’ è carattere ca tiene,
’o saccio, e te perdono
sta smania ca te vene…

E te guardo ’int’ a ll’ uocchie e me n’ addono.
Carmè, tu mme vuo’ bene!

Quanno nun parle o appena
rispunne, indifferente,
che pena, aimmé che pena!

Ma po’ mme vene a mente
ca ll’erba senzitiva
si pare morta è viva.

E ’o ssaccio ch’è carattere ca tiene
’o ssaccio, e te perdono
sta smania ca te vene…

E te guardo ’int’ a ll’ uocchie e me n’ addono…
Carmè, tu mme vuo’ bene!

Guarda, io te stregno ’a mano
e tu m’ avuote ’a faccia…
Pecché, si chiano chiano

mme cade ’int’ a sti braccia,
e ncopp’ a sti denocchie
tu sciúlie, e nchiude ll’ uocchie?…

Ah, ’o ssaccio ch’ è carattere ca tiene,
’o ssaccio, e te perdono
sta smania ca te vene…

Nun ’e chiudere st’uocchie! Io me n’addono…
Carmè!… Tu mme vuo’ bene!

SONGO I ’!

Quanno io dico: Na femmena bella
nun me fa cchiù mangià né durmì…
tu, ca siente ’a canzone nuvella,
tu, ca ’o ssaie, pienze e dice: Songo i’!
Songo i’! Songo i’!
Certamente – tu dice – songo i’!

E si dico: ’a canosco io sultanto,
saccio io sulo che core ca tene
me n’ ha fatto, crudele, fa’ chianto,
e metratta, ’a se’ mise, accussì…
Songo i’! Songo i’!
Sta crudele – tu dice – songo i’!

Che mme mporta si mo, nteneruta,
sti chitarre tu rieste a sentì?
Quanno, stracqua, sta voce è fenuta,
Chiarasté, te ne scuorde e bonnì!

Quanno dico: Stu core scuntento,
pe chi sbatte vulesse sapé!
Pe chi chiagno, pe chi m’allamento?
Pe chi chiagne? – tu dice – pe me!
Pe me’ Pe me!
Meh ca ’o ssaie ca tu chiagne pe me!

E accussì comm’ a chillo ca vede
c’uno more e ’o putesse sarvà,
ma, surtanto pecché nun ce crede.
comm’ a te, nun ne sente piatà…

Piatà! Piatà!
Nun me cride e nun siente piatà!

Che mme mporta si mo, nteneruta,
sti chitarre tu rieste a sentì?
Quanno, stracqua, sta voce è fenuta,
Chiarasté, te ne scuorde e bonnì!

Mo, addereto a sti lastre llucente,
t’ annascunne e nun saie che mme di’:
ma ’i te veco, stu core te sente…
Chiarasté, sto ccà bascio, songo i’!

==>SEGUE


Songo i’! Songo i’!
Chi chiagnenno te chiamma songo i’!

E vurria ca sentenno sta voce
mme dicisse na vota ca sì;
s’io mo dico: Na femmena doce
mme vo’ bene… rispunne: Songo i’!
Songo i’! Songo i’!
Dimme dimme: Va buono… songo i’!

Che mme mporta si mo, nteneruta,
sti chitarre tu rieste a sentì?
Chiarasté, sta canzone è fenuta,
Chiarasté, schiara iuorno, bonnì!
Bonnì! Bonnì! …

’A MUGLIERA CA PRIMM’ ’E SPUSA…

Tarantella, tarantella!
Quanno t’aggio canusciuta,
ianca e rrossa, allera e bella,
tu facive ’a primm’ asciuta.

Nu buchè tenive nzino,
na cardenia ’int’ ’e capille,
e a marìteto vicino
t’ azzeccave pe parlà…

E che buo’? Mme cunfesso ’o peccato:
mme songo nfurmato – mme songo nfurmato…
E aggio ntiso ca primm’ ’e spusà…
Trallairà, larallà, trallairà!…

Ah, munno, munno! Si’ na rutella!
E mo? Abballàmmela – sta tarantella!…

Seca se’, secamulleca’
Nne passaieno ’a duie tre mise,
quanno nnanze a na puteca
tc vedette, ’int’ ’e Mannise.

«Chi è sta femmena cianciosa?»
iett’ attuorno addimannanno.
E azzeccosa e… ginirosa
appuraie ch’ ire, accussì.
==>SEGUE


Sì, che buo’? Mme cunfesso ’o peccato:
mme songo nfurmato – mme songo nfurmato…
E aggio ntiso ca primm’ ’e spusà…
Ah! Lalà! Trallairà, lairairà!…

Ah, munno, munno! Si’ na rutella!
E mo?… Abballàmmela – sta tarantella!…

Na puteca ’int’ ’o quartiere
mm’ affittaie, so’ già duie anne:
cu mmarìteto ’o barbiere
mme facette sangiuvanne.

Sto ’e rimpetto? E tutte ’e ssere,
certo, lloco aggia cadé:
ioco ’a scopa c’ ’o barbiere,
ioco a pizzeco… cu tte…

«Cussalute, te si’ situato!»
me diceno ’a gente – dint’ ’o vicenato.
«’O ssapive ca primm’ ’e spusà…
Larallà, traillarà, lairairà?…»

Ah, munno, munno! Si’ na rutella!
E mo?… Abballàmmela – sta tarantella!…


’E TRE SURDATE

Tre surdate d’ ’o stesso reggimento
se sparteveno ’o suonno tutte e tre.
Maie scumpagnate manco nu mumento,
sempe nzieme ’e bedive accumparé.

Erano tutte e tre belle e assanguate,
e teneveno tutte ’a stessa aità:
quann’uno asceva ascevano chill’ate,
ieveno nzieme a vévere e a mangià…

Larà! Larà!
Stu bell’amorcunzente
(dicite ’a verità?)
‘nn’ è facele a truvà!
Marsce an avà! Larà!
Brebbetebbré! Brebbetebbrà!…

Na sera (e fuie p’ ’a festa d’ ’o Statuto)
avettero ’a surtita tutte e tre:
steveno allere, aveveno vevuto,
e ghieveno cantanno «E bbiva ’o Re»!

E dicette uno: – Overo è nu peccato
ca senza nnammurate avimma sta’!
– Statte, cumpagno! – rispunnette n’ ato
I’ veco tre figliole!… – Addó?… – ’E bbi’ llà’…

– Larà! Larà –
dicettero ’e dunzelle
vedennele accustà.–
Sentite, capurà,
venite ’a ccà… Larà!…
Brebbetebbré! Brebbetebbrà! –

E po’?… Nun saccio di’ pe qua’ raggione,
chi sa?… pe gelusia… chi sa pecché…
s’avettero, penz’io, ntussecà buone,
sti povere surdate, tutte e tre.

Erano tutte e tre belle e assanguate,
e teneveno tutte ’a stessa aità…
Se so’ ammalincunute e abbandunate…
Fanno ’e sarcizie senza vuluntà…

==>SEGUE
– Larà… Larà…
Meglio era a restà sule
– diceno tutte e tre,
penzanno a chelli là. –
Emo?…Nun c’è chefa’!…
Marsce an avà!… Larà!…
Brebbetebbré! Brebbetebbrà!…

’ON ACENO ’E FUOCO

– E ce steva nu scartellatiello…

            CORO
Nu scartellatiello!

– C’ a trent’ anne era sguattero ’e cuoco.

            CORO
Era sguattero ’e cuoco.

– Nun sapeva né mamma e né patre…
           
            CORO
Stu scurfaniello!

– E ’o chiammaveno ’On Aceno ’e fuoco

            CORO
Don Aceno ’e fuoco!

– Povero Aceno ’e fuoco!
Ollaò! Lairà!
Se vuleva nzurà!
Se vuleva nzurà!

            CORO
Povero Aceno ’e fuoco!…
Ollaò! Lairà!
Se vuleva nzurà!
Se vuleva nzurà!

– ’O munzù c’ ’o teneva a guarzone…

           ==>SEGUE
CORO
’O teneva a guarzone…

– Era ’o patre d’ ’a nenna cchiù bella…

            CORO
D’ ’a nenna cchiù bella…

– Cucenanno e allummanno ’o guaglione…

            CORO
Na furnacella…

– Suspirava p’ ’a figlia d’ ’o cuoco…

            CORO
Don Aceno ’e fuoco!

– Tutto ’o iuorno cantava:
Ollaò! Lairà!
M’ ’a vulesse spusà!
M’ ’a vulesse spusà!

            CORO
Tutto ’o iuorno cantava:
Ollaò! Lairà!
M’ ’a vulesse spusà!
M’ ’a vulesse spusà!

– «Ah, munzù! me scusate ll’ardire.

            CORO
Scusate ll’ ardire!

Nnammurato mme songo ’e Rusella…»

            CORO
Munzù, datencella!

– Ma vedite stu nudeco ’e fune!…

            CORO
Stu pizzo ’e percuoco!

So’ pruposte? E se fanno a nu cuoco?

          ==>SEGUE



CORO
Neh, ’On Aceno ’e fuoco?!...

Sabato se mmarita
Ollaò! Lairà!…
Se piglia ’o masto ’e casa,
s’ è cumbinato già…

            CORO
Sabato se mmarita
Ollaò! Lairà!…
Se piglia ’o masto ’e casa,
s’ è cumbinato già…

– E ’a matina c’ ’a figlia d’ ’o cuoco…

            CORO
C’ ’a figlia d’ ’o cuoco…

– Mmaretata d’ ’a chiesia sagliette…

            CORO
D’ ’a chiesia sagliette…

– P’ ’o dulore, p’ ’o schianto c’ avette!

            CORO
P’ ’o schianto c’ avette!

– Se stutaie, pover’ Aceno ’e fuoco!

            CORO
Don Aceno ’e fuoco!

– E ncopp’ ’o fucularo…
Ollaò! Lairà!
’E cennere nu pizzeco
ce steva… e niente cchiù!

            CORO
E ncopp’ ’o fucularo…
Ollaò! Lairà!
’E cennere nu pizzeco
ce steva… e niente cchiù!
’A TESTA D’ARUTA

– Mamma, mamma, sentite ’a campana
c’ a San Giorgio la messa mo sona…
– Figlia, figlia, ’amme ’o scialle e ’a curona,
nzerra ’o stipo, arricetta ’o cummò:
fatte ’a capa, dà ’o grano a ’e galline,
miette ll’ acqua ’int’ ’a testa d’ aruta…
Io c’ ’o sciato me l’ aggio crisciuta,
statt’ attienta… s’avesse seccà!

– E mamma, iate,
sentiteve ’’a messa:
l’aruta adacquata ve faccio truvà. –

Rataplan, rataplan, rataplera!
Arrivaie nu squatrone ’e surdate!
E a cavallo a ’e cavalle sudate
se mettettero attuorno a guardà.
– Capurà, che facite a cavallo?
Si scennite… ve dongo na cosa… –
E na fronna d’aruta addirosa.
Carulina lle iette a piglià.

– E ssì… tenite!
Pigliateve ’aruta!
(Ca ’o bene voluto nun fa cchiu scurdà.)

– Bella gio’, ca st’ aruta tenite.
premmettete ca ’o dico a ’o sargente? –
’O sargente ’o dicette a ’o tenente
e se iettero ’aruta a piglià.
Rataplan! Sona ’a tromba ’a partenza…
Tutte e tre salutaino d’ ’a sella,
cu na fronna d’ aruta nuvella
appezzata vicino ’o sciaccò…

E Carulina,
cu ’e llacreme a ll’ uocchie,
luntano luntano ’e vedette sparì!

Figliulé, quanno ’a gnora se nn’ esce
rebazzata tenite ’a fenesta,
ca si no de l’ aruta ’int’ ’a testa
ogneduno na fronna ne vo’…

==>SEGUE


Torna, va, palomma ’e notte – dint’ a ll’ ombra addó
si nata,
torna a st’ aria mbarzamata – ca te sape cunzulà!…
Dint’ ascuro e pe mme sulo – sta cannela arde e se
struie:
ma c’ ardesse a tutte e dduie – no, nn’ ’o pozzo tullerà!

Vattenne ’a lloco!
Vattenne, pazzarella!
Va, palummella!
E torna a ll’ aria fresca…
’O bbi’ ca i’ pure
mm’abbaglio chiano chiano,
e, pe te ne caccià,
mm’ abbruscio ’a mano?…
Ma… te n’ aggia caccià!…
Vola, vola, palomma! E vola! Va!…

Tu certo ’o nomme mio ll’ e’ cunfidato,
e tutta ’a Speranzella ’o ssape già:
e io mo aggio voglia ’e di’ c’ hanno sbagliato,
aggio voglia ’e di no, nun c’ è che fa’!…

– Chi sarrà?…
– Chi sarrà?… –
cchiù nun diceno ll’ uno cu ll’ ato…
Mo sanno, oi ne’,
ca io te saccio
e ca moro
pe te!




TARANTELLA SCURA

Tu mme vuo’ troppo bene e si’ geluso,
e i’ nun so’ degna ’e te, ma so’ sincera;
tu te si fatto amaro e capricciuso,
mme lasse ’o vierno e tuorne a primmavera.

E a primmavera vuo’ truvà custante
chi nun ardette maie, manco ll’ està:
no, fedele io nun so’, nun songo amante,
ma nun me dice ’o core ’e te ngannà…

Abballammo! (’O bbi’ c’ ’a gente
rire, sente e tene mente?…)
Tarantella e iariulì!
Tarantella e lariulà!…
(E sta storia malamente
chi sa comme fenarrà!…)

A tte te nfoca ammore e gelusia,
e ’a nera gelusia maie nun se stracqua:
coce sta mana toia; fredda è sta mia,
e simme tale e quale ’o ffuoco e ll’ acqua.

Chi sa qua’ vota lúcere antrasatto
nu curtiello appuntuto aggia vedé!…
Chi sa qua’ vota fenarrà stu fatto
ca i’ cado nsanguinata nnanz’ a te!…

Abballammo!… E nnanz’ ’a gente,
ca ce sente e tene mente,
nuie cantammo: E lariulì!
nuie cantammo: E lariulà!
(Ma sta storia malamente
chi sa comme fenarrà!…)


LL’ APPUNTAMENTO

– Dimane a ssera aspettame! – ll’ atriere mme diciste –
Sotto a chillo tal’ arbero ca saie fatte truvà. –
Io t’ aspettaie, credennete, ma tu nun ce veniste,
e io, scema, anfino all’ úrdemo nun me muvette ’a llà.

Vedevo ’o sole scénnere d’ ’a parte d’ ’a marina,
e comm’ a ll’ oro lucere ’o cielo nnanze a me:
doce comm’ a nu bàrzamo ll’ aria gentile e ffina
passava e, ntrattenènnese, m’ addimannava ’e te…

Ndin–don! Ndin–don!… L’ avummaria sunava
a stu core scuntento
ll’ ora ’e ll’ appuntamento, e io t’ aspettava…
Vatténne!… Si sapisse
chello ch’ è succeduto!…
Pecché nun si’ venuto?
Pecché nun si’ venuto?

«Starrà cu n’ ata femmena!» stu core mme diceva.
«Scusate, aucié, sapisseve pecché tarda a venì?»
E ’a miez’ ’e ffrasche ’e ll’ arbere ll’ eco mme rispunneva:
«Starrà cu n’ ata femmena… zi zì!… zi zì!… zi zì!…»

E io mme mettette a chiagnere, abbandunata e sola,
nfi’ a tanto ca nu giovene passaie pe nnanze a mme…
«Embè, che so’ sti lacreme? Uh, povera figliola!
St’ uocchie lucente aizàtele, faciteve vedé…»

Ndin–don! Ndin–don! L’ avummaria sunava
a stu core scuntento
ll’ ora ’e ll’ appuntamento, e io t’ aspettava…
Vatténne!… Si sapisse
chello ch’ è succeduto!
Pecché nun si’ venuto?
Pecché nun si’ venuto?

C’ aveva fa’? Rispunneme. Tu c’ avarrisse fatto?
P’ ’a gelusia, p’ ’a collera, e pe nun resta llà,
facetteme amicizia, ma i’ ce mettette ’o patto
ca senza di’ nu tècchete m’ aveva accumpagnà.
==>SEGUE

Tiritàppete e pane grattato,
isso stesso me l’ha cunzigliato!
– Premmettete? – Patrone, cumpà!… –
E tiritì, tiritommolà!

E pur’ io, ch’era cchiù sicco
d’ ’o llignammo ’e nu palicco,
mo… mme pozzo cuntentà…
E tiritì, tiritommolà!

Spanneva ll’ aria tennera n’ addore ’e primmavera,
ncantate suspiraveno ll’ arbere, e… nuie purzì;
ll’ aucielle se chiammaveno dint’ a ll’ ombre d’ ’a sera,
e ’a luna sulitaria vedevo accumparì…

Ndin–don! Ndin–don! L’ avummaria sunata
era ’a cchiù de mez’ ora…
e che bulive c’ aspettasse ancora?…
Oi ni’, tu ll’ e’ vuluto
chello ch’ è succeduto!…
Pecché nun si’ venuto?
Pecché nun si’ venuto?



VII

A SAN FRANCISCO
_______________________

A San Francisco
mo sona ’o risveglio,
chi dorme e chi veglia,
chi fa nfamità…
Canzone ’e carcerate.
________________

I
_ Vuie ccà!… Vuie, don Giuvà!… Ccà dinto?!… – E’
visto?!
So’ benuto ’int’ ’a cummertazione.
_ …Sango?… – Embè… sango. Mme so’ fatto nzisto…
E tu? – Cuntrammenzione ’ammunizione. –

Sunàino ’e nnove. Na lanterna a scisto
sagliette ncielo, mmiez’ ’o cammarone:
lucette nfaccia ’o muro ’o Giesucristo
ncroce, pittato pe devuzione.

S’ aizàino ’a quatto o cinche carcerate…
– E cchesta è n’ ata notte – uno dicette –
Mannaggia chillo Dio ca nce ha criate! –

E ghiastemmanno se spugliaie. Trasette
nu secundino. Nfaccia ’e fferriate
sunaie: sbattette ’a porta e se ne iette.
II
– E mo?… – Mo? Nn’ ’o bberite? Ce cuccammo.
Tenite suonno? – Poco, ’a verità…
– Nun ve cuccate?… – No. Veglio. – E vigliammo…
Ve faccio cumpagnia, mastu Giuvà.

– E ’o carceriero? – È amico. – E… si parlammo?
– Si ce sente? E che fa? Che ce pò fa’?
Basta, p’ ogni chi sa, mo nce ’o chiammammo,
’o mmuccammo na lira e se ne va.

– Questa è ’a muneta. – Senza cumprimente
’A cacciasse semp’ io… Ma ccà, ’o ssapite,
parlanno cu rispetto ’e chi mme sente,

so’ zuzzuse, ’e renare so’ puibbrite,
e fossero ’e renare sulamente…
Zi’… Sta passanno ’on Peppe… ’On Pè!… Sentite!…

III
Ce sta st’ amico mio… – Be’?… – Mo è trasuto…
– Be’?… – Suonno nun ne tene… – E c’ aggia fa’?
– Si premmettete… rummane vestuto…
veglia… – C’ ha dda viglià! S’ ha dda cuccà!

«L’amico… mo è trasuto… mo è benuto…»
Ma che m’ ammacche? A chi vuo’ fa’ ncuità?
Addó se crere ’e sta’? Ccà è dditinuto:
nun pozzo fa’ particularità…

– Ce steva na liretta… – Comm’ e’ ditto?
– Aggio ditto ce steva na liretta…
V’ ’a proio?… – Fatte cchiù ccà… Parla cchiù zitto.

È de carta?… – Gnernò, so’ sòrde… – E aspetta…
Pàssele chiano chiano… aspè… che faie?
Va quacche sòrdo nterra e tu mme nguaie!… –
IV
Pe nu minuto, dint’ ’o cammarone,
nun se pepetiaie. Stracque, menate,
chisto ’a ccà, chillo ’a llà, ncopp’ ’o paglione
steveno ’a na dicina ’e carcerate.

Duie runfaveno già, vestute e bbuone,
e, mmiez’ a ll’ ate addurmute o scetate,
mariuolo a dudece anne, ’o cchiù guaglione
vutava attuorno ll’ uocchie afflussiunate.

E ’o cammarone se nfucava. ’O scisto
feteva: ’a cazettella ca felava
affummecava ’e ttrave rusecate.

Ll’ ombra d’ ’a funa nfaccia ’o Giesucristo
tremmava, lenta: e ll’ aria s’ abbambava
’e ll’ afa ’e tutte st’ uommene e sti sciate…



V
– Dunque – dicette ’o si’ Giuvanno Accietto,
assettato cu Tore «Nfamità»
ncopp’ a nu scannetiello appede ’o lietto –
dunque, aggio fatto ’o guaio: nun c’ è che fa’!…

’A n’ anno nun truvavo cchiù arricietto!
Patevo ’a n’ anno! E… ’o bbi’… Mo stonco ccà…
Se fotte! ’O core mm’ ’o diceva mpietto
ca nu iuorno perdevo ’a libbertà!…

Fa’ o ualantomo, tratta buono ’a gente…
Quante cchiù meglio ’’a tratte e cchiù lle faie,
cchiù nn’ aie cate ’e veleno e trarimente!

Riébbete, figlie, malatie: so’ guaie,
ma nun pogneno… ’’E ccorna so’ pugnente!…
To’!… Curtellate sì, ma corna maie!…




VI
– Ma… che bulite di’?… – dicette Tore –
Io… nn’ arrivo a capì… Ronna Ndriana?!…
– Leve stu ddonna, famme stu favore!
Chiammela a nomme… Schifosa, puttana!…

…Ll’ aggio accisa! – ’On Giuvà! – Sì!… Pe ll’ onore.
– Ndriana!… Accisa!… E… quanno?… – ’a na
semmana.
Mme scurnacchiava cu nu mio signore,
e io ll’ aggio accisa! Sì! Comm’ a na cana!…

…Siente… E pecché te scuoste? – Io?… Nun… me
scosto…
– E pecché te si’ fatto mpont’ ’o scanno?…
– Io?… No… – Fatte cchiù ccà… – Sto ccà… Mm’
accosto…

– Tu siente?… Siente… Mme ngannava!… ’a n’
anno!…
E… saie cu chi? – Cu… chi?… – Mo nn’ ’o ssaie
cchiù?…
St’ amico… nun ’o saie?… – Chi?… – Chi?…
Si’ tu! –

VII
Lucette ’acciaro ’e nu curtiello. ’O scanno
s’ avutaie, s’ abbucaie. Tore cadette
e chill’ato ’o fuie ncuollo. – È n’ anno, è n’ anno
ca te ievo truvanno! – lle dicette.

– Mamma r’ ’a Sanità!… Chiste che fanno!… –
strellaie nu carcerato. E se susette
mmiez’ ’o lietto, e guardaie… Nterra, ’on Giuvanno
ncasava a «Nfamità»… Tre botte ’o dette,

tutte e tre mpietto… E s’aizàie. Pareva
nu cadavere. ’O sango ll’ era sciso
p’ ’a mano dint’ ’a maneca e scurreva…

– Chiammate ’on Peppe!… Ccà ce sta n’ amico
ca… mme vuleva bene!… E io ll’ aggio acciso!
Mm’ è ccustato na lira… ’a benerico!


VIII

ARIETTE E SUNETTE
_______________________

COMME VA?…

Comme va, comme va
ca doppo tant’ ammore
ce putimmo lassà?

Ah, che core, che core
ca tenimmo, Marì!
E c’ ’o tenimmo a ffa’?
Comme va?… Comme va?…

E comme, comme va
ca sta vocca, sta voce
nun me pozzo scurdà?

E st’ uocchie? Accussì ddoce!…
Dimme, dimme, Marì,
sta smania che sarrà?..
Comme va?… Comme va?…

Ah, Maria! Comme va
ca ’e ffemmene, ca ’o ssanno,
ce vonno afforza fa’

’o mmale ca ce fanno?
e pecché nuie, pecché
ce ’o vulimmo fa’ fa’?…
Comme va?… Comme va?…
PIANEFFORTE ’E NOTTE

Nu pianefforte ’e notte
sona luntanamente,
e ’a museca se sente
pe ll’ aria suspirà.

E ll’ una: dorme ’o vico
ncopp’ a sta nonna nonna
’e nu mutivo antico
’e tanto tiempo fa.

Dio, quanta stelle ncielo!
Che luna! E c’ aria doce!
Quanto na bella voce
vurria sentì cantà!

Ma sulitario e lento
more ’o mutivo antico;
se fa cchiù cupo ’o vico
dint’ a ll’ oscurità.

Ll’ anema mia surtanto
rummane a sta fenesta.
Aspetta ancora. E resta,
ncantannose, a penzà.

DOPPO N’ANNO

’O nniro ’e ll’ uocchie mieie, bella, vuie site,
ma site amara e nun ve n’ addunate,
e spicialmente quanno mme vedite
tanno mme pare ca v’ amariggiate:
e pure ’o nniro e st’ uocchie mieie vuie site!

Sì! Dint’ o core mio ll’ anno passato
io ve purtava scritta e siggellata;
mo avimmo tutte e duie fatto ’o peccato,
mo vuie penzate a n’ ato… e io penzo a n’ ata…
E ve purtava scritta e siggellata!

Ma lassammo sti chiacchiere ’a spartata;
chello ch’ è succeduto è succeduto;
io so’ nu nfamo e vuie na scellarata:
che ne parlammo a fa’? Tutto è fenuto…
E lassammo sti chiacchiere ’a spartata.

==>SEGUE

Meza parola, e doppo ve saluto:
pecché, ll’ atriere, avite addimmannato
a n’ amico d’ ’o mio cchiù canusciuto
io che facevo, e si mm’ era nzurato?…
Dicitemmello… E doppo, ve saluto.

MARIA RO’!…
Chi dorme a suonno chino se scetasse,
la luna è ghianca e la nuttata è doce;
chi vo’ sentì cantà ca s’ affacciasse,
chi vo’ sapé comme l’ ammore coce!

’O cielo pare na vesta de sposa,
tutta de diamante arricamata;
chesta è la vesta de Maria Rosa
cusuta cu li mmane de na fata!

Oi Maria Rosa, Maria Rosa mia,
de te m’ annammuraie pe na parola:
mo te faccio la posta pe la via,
t’ aspetto sempe e maie tu passe sola…

Sola nun passe, no, sola nun passe,
ca ’e fatte nuoste tu vuo’ fa’ sapé,
e chi li vo’ sapé, ca se scetasse!…
Maria Ro’! Maria Ro’! Moro pe tte!…

’A CHITARRA
’E sta vecchia chitarra frangese
sotto ’a mano mme trèmmano ’e ccorde,
comme tremma stu core mullese,
comme sbatte, oi Rusina, pe tte!

Te vulesse! ma dint’ ’e ddenocchie
io mme sento nu triemmolo fitto:
’A na parte te magno cu ll’ uocchie
e da n’ ata… nun saccio che fa’!

A sta spalla rutonna e purposa
tuppetéa, pezzecanno, ’a chitarra;
tene mente a sti ffronne de rosa
ca s’ affacciano ’a dint’ ’o curzè…

Uocchie doce, lucente ’e velluto,
uocchie nire cchiù assaie d’ ’o ggravone!…
Fronne ’e rosa, che bello barcone
che v’avite saputo truvà!



BELLA, CA ’E TUTTE ’E BELLE…

Bella, ca ’e tutte ’e belle si’ ’a cchiù bella,
e si’ benuta ’e casa ’int’ a sta strata,
te puo’ avantà, ca tutta ’a Speranzella
quanno t’ ha vista a te s’ è revutata!

Ha rutto tre perette ’o canteniere
tre vvote ca t’ ha visto accumparé;
passà tre vvote t’ ha visto ’o barbiere
e ha sfriggiate tre accunte, tutte e tre!…

– Chi sarrà?…
– Chi sarrà?… –
s’ addimanneno ll’ uno cu ll’ ato…
(Senza sapé
ca io te saccio e ca moro
pe te!)

Rosa, ca dint’ abbrile si’ schiuppata,
stu barcunciello tuio pare ’o ciardino:
spanne st’ addore tuio pe tutt’ ’a strata,
e ’a gente se mbriaca senza vino.

Accussì sta zeccanno ’o farmacista,
e ’o nzagnatore sotto e ncoppa va:
chi t’ ha ntesa na vota e chi t’ ha vista
o piglie bobbe o se vo’ fa nzagnà…

– Chi sarrà?…
– Chi sarrà?… –
s’ addimanneno ll’ uno cu ll’ ato…
(Senza sapé
ca io te saccio e ca moro
pe te!…)

Simbè mmiez’ a sta via puorte ’a bbannera
ma nun se pò appurrà chi è ’a bella mia,
oi Rosa, statt’ attienta a sta capera
ca te pettena ’a capa a ffantasia!

==>SEGUE



’E TTREZZE ’E CARULINA

Oi pètteno, che piéttene
’e ttrezze ’e Carulina,
damme nu sfizio, scippela,
scippela na matina!

E tu, specchio addó luceno
chill’ uocchie, addó, cantanno,
ride e se mmira, appànnete
mentre se sta mmiranno.

Lenzola, addó se stenneno
’e ccarne soie gentile,
nfucateve, pugnitela,
tutto stu mese ’abbrile!

E vuie, teste d’ anèpeta,
d’ aruta e resedà,
seccate ncopp’ a ll’ asteco
faciteve truvà!

Ma ’o pètteno che pettena
’e ttrezze ’e Carulina,
è sempe ’o stesso pètteno
’e tartaruca fina:

’o specchio è de Venezia
e nun ha fatto mossa:
’e lenzulelle smoveno
n’ addore ’e spicaddossa:

e manco nun me senteno
ll’ aruta e ’a resedà
cchiù ampresso ncopp’ a ll’ asteco
abbrile ’e ffa schiuppà!…

ARIETTA A LL’ANTICA

Cànneta va truvanno
Taniello, e nun ’o trova
se nforma, ’o va chiammanno:
– Tanié! – Ma chi t’ ’o dà?

Mo a chillo spia, mo a chisto,
senz’ appurà maie niente:
sì, ll’ avarranno visto,
ma nun ce ’o vonno di’.

Sanno c’ a ll’ erba secca
nun ce se mette fuoco,
e Cannetella e Cecca
sanno che sbriffie so’.

Pe ll’ uocchie ’e Cannetella
pazzo Taniello ascette,
ma Cecca, assaie cchiù bella,
Canneta ’o fa scurdà;

Cecca, ca sente ’a voce
’e Canneta, e risponne
cu n’ aria doce doce:
– Bella figliò, sta ccà…



TUTTO SE SCORDA

Tutto, tutto se scorda,
tutto o se cagna o more;
e na chitarra è ammore,
ca nun tene una corda.

Ogge si’ tu: dimane
forze, n’ ata sarrà:
e po’ n’ ata, chi sa,
Si tiempe ce rummane.

Uocchie celeste o nire,
culure ’e giglio o ’e rosa,
sempe, sempe una cosa
sempe ’e stesse suspire!

Si, suspiranno, io dico:
«Quanto mme si’ custata!»
tale e quale a quacc’ata
tu suspire cu mmico…

Tutto, tutto se scorda,
tutto o se cagna o more,
e na chitarra è ammore
ca nun tene una corda.

Ma, tremmanno, sta mano
cierte vote se scorda:
e torna ’a primma corda
a tentà, chiano chiano.

E nu suono ca sceta
tanta cose, o addurmute,
o luntane, o fenute,
esce ’a sotto a sti ddeta…



DINT’ ’O CIARDINO

’A vi’ llà; vestuta rosa
e assettata a nu sedile,
risciatanno st’ addurosa
e liggiera aria d’ abbrile,

cu nu libbro apierto nzino,
cu nu vraccio abbandunato,
sott’ ’o pède ’e mandarino,
sola sola Emilia sta.

C’ aggia fa’? M’ accosto? (E quase
arrivato lle so’ ncuollo…)
Core mio! Cu quanta vase
te vulesse salutà!

Nun me vede, nun me sente,
legge, legge, e nun se move:
e io ncantato ’a tengo mente
cammenanno ncopp’ a ll’ ove…

Ah!… s’ avota!… – Emì… che liegge?
– Tu ccà stive?… E ’a dó si’ asciuto?
– M’ accustavo liegge liegge…
– Pe fa’ che?… – Pe t’ abbraccià!

– Statte!… – Siente… – (E ’o libbro nterra
cade apierto…) Essa se scanza,
se vo’ sósere, mm’ afferra,
rire e strilla: – Uh! no! no! no!… –

Na lacerta s’ è fermata
e ce guarda a tutte e dduie…
Se sarrà scandalizzata,
sbatte ’a coda e se ne fuie…
_________________________
SEGUE  

VIII
ARIETTE E SUNETTE

PARTE QUARTA
MA CHI SA?

Ncopp’ a ll’ uocchie…
ncopp’ a ll’ uocchie nire e doce,
ncopp’ a ll’ uocchie ’e Catarina
nn’ aggio fatto cantà voce,
ogne sera e ogne matina!

P’ avantà sti duie brillante
mm’accattaie na penna ’argiento,
e ncantate a tuttuquante
fece overo rummané!…

            CORO
Fece overo rummané!…

Catarì!
Catarì!
Mme diceveno ca sì
sti duie bell’ uocchie ’e velluto,
ca sincere aggio creduto!…
Ma chi sa – diceva ’a gente –
si st’ ammore se mantene!
Ma chi sa si te vo’ bene!…

Dio, che vase!
Dio, che vase nzuccarate,
c’ aggio date a sta vucchella!
E che vase ca mm’ e’ date
cu sta vocca piccerella!

Ncopp’ ’a carta tuttuquante
s’ ’e nutava ’a penna ’argiento,
e canzone a ciento a ciento
se cantaveno pe te!…
              



==>SEGUE





CORO
Se cantaveno pe te!…

Catarì!
Catarì!
Mme diceveno ca sì
(e maie cchiù mm’ ’o scurdarraggio,
sti ddoie fronne ’e rosa ’e maggio…
Ma chi sa – diceva ’a gente –
si st’ ammore se mantene!
Ma chi sa si te vo’ bene!

Comm’ infatte!…
Comm’ infatte, e appena quanno
chisto core scanusciuto
p’ ’o vantà so’ ghiuto ascianno,
maie truvà l’ aggio pututo!

E ’a canzona appassiunata,
ca t’ avevo scritto apposta,
mm’ è rummasa accuminciata,
meza fatta e meza no…

            CORO
Meza fatta e meza no…

Catarì!…
Catarì!…
Mme diceveno ca sì
st’ uocchie belle, e sta vucchella 100
piccerella piccerella!…
Ma chi sa – diceva ’a gente –
chella llà che core tene!
Ma chi sa si te vo’ bene!…


E l’ aruta, si è còveta fresca
o se secca, o si no s’ ammalesce,
o abbeluta rummane e nun cresce,
o addurosa nun torna maie cchiù…

E ’a canzuncella
d’ ’aruta nuvella
guardate, vedite… fenesce accussì.

PALOMMA ’E NOTTE

Tiene mente sta palomma – comme gira, comm’ avota,
comme torna n’ ata vota – sta ceroggena a tentà!
Palummè, chisto è nu lume – nun è rosa o è giesummino,
e tu a fforza ccà vicino – te vuo’ mettere a vulà!…

Vattenne ’a lloco!
Vattenne, pazzarella!
Va, palummella!
E torna a ll’ aria fresca…
’O bbi’ ca i’ pure
mm’ abbaglio chiano chiano,
e, pe te ne caccià,
mm’ abbruscio ’a mano?!…
Ma… te n’ aggia caccià!
Vola, vola, palomma! E vola! Va!…

Vola a ll’ aria. T’ aggio aperta – tutta quanta ’a fenestella:
vola, vola palummella – volatenne a libbertà!
Ncopp’ ’e frasche d’ ’o ciardino – ncopp’ ’e sciure mo
schiuppate,
ncopp’ ’e rose ncappucciate – ianca ianca ’a luna
sta…

Vattenne ’a lloco!
Vattenne, pazzarella!
Va, palummella!
E torna a ll’ aria fresca…
’O bbi’ ca i’ pure
mm’ abbaglio chiano chiano
e, pe te ne caccià,
mm’ abbruscio ’a mano?…
Ma… te n’ aggia caccià!
Vola, vola, palomma! E vola! Va!…
==>SEGUE





POESIE DI SALVATORE DI GIACOMO  - Parte Terza
NOTTE ’E LUNA

Ncopp’ a n’ asteculillo
luce nu piezz’ ’argiento,
e nu suspiro ’e viento
passa pe ffronte a mme.

Dimme, viento, chi luce
llà ncoppa e s’ annasconne?
E ’o viento mme risponne:
«Nun vide? È ’a luna, oi ni’!

’A luna, c’ ogne notte,
dint’ a sta cammarella
(addó dorme ’a cchiù bella
femmena ’e sta cità)

se mpizza p’ ’a fenesta,
lle porta na mmasciata,
e ncopp’ ’a petturata
po’ sciúlia e se ne va.»

Chi sa – penz’ io – si ’a luna,
mmiez’ a tanta mmasciate,
stanotte ll’ ha cuntate
’e ppene meie! Chi sa!…

E ’o viento n’ ata vota
io chiammo, ’o viento amico.
– Dimme, dimme, – lle dico –
dimme, Sufia che fa? –

Ma che silenzio!… ’O viento
mme lassa, e nun me sente…
’A luna, lentamente,
turnata ncielo è già…