CULTURA
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GRANDI POETI
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Salvatore
Di Giacomo

IX

VIERZE NUOVE
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V
’O PRANZO A ’O NNAMMURATO

Ah, si ’o ssapesse Aniello «’o scarrecante»,
si ll’ appurasse chello ca è custato
sta mullica ’e furmaggio pizzicante
e stu pullo nfurnato e mbuttunato!

È custato nu sì, sceppato a fforza
a Nanninella «’a rossa» ’a nu studente…
E, doppo, s’ ha mangiate ’e mane a mmorza
sta femmena ’e chist’ ommo malamente!…

Sì: s’è vennuta!… Ce vo’ nu curaggio!…
Ma si no chi purtava a «San Francisco»
stu pullo mbuttunato e stu furmaggio,
e sta butteglia ’e vino e ’o ppane frisco?

Nu biglietto ’int’ ’o ppane essa ha mpezzato
(quanno Aniello s’ ’o mmangia ’o liggiarrà):
«Nega sempri, mi ha detti l’avucato!…
Sempre ferele Annina ti sarrà!…»


VI
LL’ACCISO

– Si ve cunviene nu dichiaramento,
tant’onore pe mme. – L’onore è mio…
Ccà stesso? – Pe dimane. Appuntamento
a mezanotte. – Resta fatto. – Addio. –

Quatto parole. E, doppo mezanotte,
’a sera appriesso, Carmine de Riso
pe mmano ’e Ciro Assante e cu tre botte,
nterra, ’int’ ’o vico, rummanette acciso.

Pe mbriaco ’o pigliaino albante iuorno:
lle s’ accustaie na femmena vicino,
e se mettette a ffa’: – Te miette scuorno?!…
Puorco! A primma matina vive vino!…–

Vino? Era sanco. Lle parette vino,
nterra, na macchia ’e sanco friddo e muollo…
– Sciùl Nnanz’ ’a cchiesia ’e Santo Severino!… –
E lle menaie nu cato d’acqua ncuollo…

CIMAROSA

C’ ’o cuoco, ’int’ ’a cucina,
va trova pe che cosa,
s’appicceca Bettina,
’a serva ’e Cimarosa.

Ma è giuvinotto ’o cuoco,
e ’a serva è figliulella:
chi è mo c’ attizza ’o ffuoco?
’A gelusia cert’ è…

Sentitele: – Ah, mpechèra!
– Va llà, scelleratone!
– Sbriffia! – Va llà! – Ndrammèra!
– Brutto! Sciò llà! Sciò llà! –

P’ ’a porta, a ll’ intrasatta,
caccia ’o patrone ’a capa:
ride na faccia chiatta,
e ’a spia, redenno, fa…

C’ ’a serva ’o giuvinotto
se nzorfa ancora. E intanto
se sente ’int’ ’o salotto
nu cembalo sunà.

Sona ’o maestro. E passa
p’ ’e cammere stu suono:
d’ ’o cuoco e d’ ’a vaiassa
l’ eco a sta nziria fa.

Ma è fuoco ’e paglia ’o fuoco
d’ ammore currevuso:
’a cammarera e ’o cuoco
pace hanno fatto già.

E ’o cembalo, ca sona
note cchiù allere e ddoce,
vo’ di’ ca se n’ addona:
cagna pur isso ’a voce.

Mo so ’suspire e squase,
so’ chiacchiere azzeccose,
so’ pizzeche, so’ vase,
pazzie, carezze so’…

==>SEGUE

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Nota bio-bibliografica di Salvatore Di Giacomo
_________

a cura di
Annalisa Castellitti
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"Nel giornalismo io sono non uno scrittore, ma uno scrivano. La mia fissazione è questa, che Napoli è una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato ai peggiori". È lo stesso Salvatore Di Giacomo, nato a Napoli il 12 marzo 1860, a tracciare il suo profilo di poeta e giornalista in una Pagina autobiografica apparsa nel 1886 sulla rivista settimanale napoletana L'Occhialetto di Vincenzo Fornaio e Tommaso De Vivo. Egli racconta di aver abbandonato gli studi di medicina, quella "cantina dei cadaveri" destinati ad uno "spettacolo tristemente comico", in seguito ad una lezione di anatomia e ad un inquietante episodio che segnò definitivamente il suo allontanamento dall'Università:
Al meglio della lezione, uscii dalla sala. Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati. Il bidello scivolò, la tinozza - Dio mio! - la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a' miei piedi! […] Quell'inserviente, dalla faccia butterata e cinica, dall'aria insolente, dalla voce sempre rauca, com'egli era sempre oscenamente avvinazzato, si chiamava Ferdinando. Per la faccia sua, cincischiata a quel modo, i compagni lo chiamavano, napoletanamente, Setaccio. Io devo la mia salvazione a Setaccio, perché da quel giorno la cantina dei cadaveri non mi vide più e nemmeno l'Università, dove compivo il terzo anno di medicina.
Dopodiché iniziò una collaborazione giornalistica con il Corriere di Napoli, dove c'era allora Martin Cafiero mentre Federico Verdinois curava la famosa "parte letteraria": "Nel Corriere - continua - principai a scrivere alcune novelle di genere tedesco, che, se puzzavano di birra, non grondavano, però, dell'onor dei martiri e del sangue degli amanti. Quelle novelle piacquero, e l'aver creduto, tanto il Cafiero quanto il Verdinois, che io le copiassi da qualche libro tedesco, mi decise, anzi mi costrinse a scriverne molte altre. Dopo tre o quattro mesi, eccomi diventato ordinario collaboratore al Corriere, insieme con Roberto Bracco e Peppino Mezzanotte. In quel tempo tutti e tre scrivevano novelle, ci volevamo un gran bene e ci stimavamo assai".
La sua attività di CRONISTA continuò presso altri quotidiani e note riviste dell'epoca, tra cui il giornale Pro Patria, la Gazzetta letteraria di Vittorio Bersezio ed infine il Pungolo, dove capitò "fra ottimi amici, con un direttore che è la più franca e onesta e cordiale persona che abbia conosciuta". Negli anni della sua permanenza al Pungolo, la "città disgraziata" nella quale l'autore svolse il suo ruolo di giornalista fu segnata nel 1884 dal tragico evento del colera, al quale seguì la cosiddetta opera di "risanamento", il cui programma è riassumibile nella celebre frase del presidente del Consiglio di allora, Agostino Depretis: "Bisogna sventrare Napoli". In tale contesto, segnato dalla perdita del padre a causa dell'epidemia colerica, Di Giacomo, pur avendo sempre ignorato -  come egli stesso afferma nella citata pagina autobiografica - il "vocabolario politico", scrisse venti sonetti intitolati 'O funneco verde (Napoli, Pierro, 1886) sul fenomeno dello sventramento urbano che stava mutando l'aspetto della sua città. Significativo fu, però, il suo incontro con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, i quali lo legarono "con vantaggiosi contratti prima ai giornali romani Capitan Fracassa, Cronaca Bizantina e Corriere di Roma e poi al Corriere di Napoli, dove l'autore Di Giacomo si occupò prevalentemente di cronaca e cronaca giudiziaria con lo pseudonimo Il Paglietta, il quotidiano che i due fondarono nel 1888 e diressero fino al 1892, quando lo lasciarono per creare Il Mattino". Ma scrisse anche di arte, firmandosi col proprio nome o con lo pseudonimo di "Salvador", di eventi mondani, quando sostituì la Serao, siglandosi "Snob" e "Vice", di cronaca nera e di cronaca varia.
La quotidianità del lavoro giornalistico lo aveva portato a contatto con la NAPOLI dei vicoli, quella più tormentata e vera, in un ambiente che lui, piccolo borghese, non avrebbe mai frequentato così da vicino, registrandone giorno per giorno con la penna e con la macchina fotografica le vicende umane che lo impressionavano maggiormente. Oggetto della sua osservazione del reale, che si riflette in una vera e propria posizione "sociologica" rispetto alla cultura cittadina, è lo spaccato di vita della plebe, caro ai topoi della letteratura verista: "Quello di Di Giacomo con la sua città […] è un rapporto d'amore, languidamente problematico. Il giornalista si muove nelle strade, nelle piazze della sua città guardando, spesso non capendo profondamente, ma intuendo, con lo slancio umanitario ed ispirato che gli apparteneva, un mondo convulso ed infelice che si agita dietro il facile folklore additato dai viaggiatori del secolo precedente. […] Il suo modo di concepire la napoletaneità […] è un tentativo di modificare l'immagine superficiale e scontata di una Napoli che si moverebbe soltanto dietro un cliché consunto, un canovaccio che prevederebbe sempre gli stessi gesti e le stesse battute. Per Di Giacomo, giornalista con una sensibilità di poeta, Napoli è invece un calderone di vita, di sofferenze, di fatti a volte incomprensibili ma sempre profondamente autentici anche nella loro gestualità teatrale […]".
Successivamente Salvatore Di Giacomo abbandonò la vita di redazione, amata ed odiata allo stesso tempo, per passare alla carriera di BIBLIOTECARIO, che svolse per circa quarant'anni, prima alla Universitaria, dal biennio 1894-1896 in poi, e poi alla sezione Lucchesi-Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli, dove dal 1903 ottenne la responsabilità organizzativa e successivamente la nomina di direttore. Tuttavia "qualche cosa mancava sempre alla sua inquietudine spirituale", quella serenità dello spirito che nemmeno l'arrivo dell'amore per una donna molto più giovane di lui, che poi sposò nel febbraio del 1916 dopo un tormentato fidanzamento durato circa undici anni, riuscì ad appagare. Alla primogenita del magistrato Antonio Avigliano, ELISA, che Di Giacomo conobbe nell'estate del 1905 quando la ventiseienne si recò dal poeta quarantacinquenne per attingere notizie dirette per la sua tesi di laurea, incentrata proprio sulla poesia digiacomiana, furono scritte numerose lettere, dalle quali si evince la personalità intima del poeta, acceso da una folle passione ma, nel contempo, travagliato da una cupa gelosia. Queste lettere "mettono in chiara luce il profilo psicologico, estremamente "sensibile", per non dire neuropatico, dello scrittore e la sua dedizione assoluta all'arte e alla poesia", che sembrava amare più dell'amore stesso per la sua donna, quella donna che egli lascerà sola negli ultimi anni della propria vita, durante i quali fu colpito da una grave malattia che lo portò alla morte nell'aprile del 1934, cinque anni dopo la sua nomina come Accademico d'Italia.
Nel 1889 Di Giacomo, non ancora sposato, iniziò a frequentare la casa di BENEDETTO CROCE, con il quale ebbe "rapporti vari e variabili, secondo i rispettivi umori e le rispettive concezioni della vita, secondo la natura degli studi e delle attività pratiche connesse, a cui l'uno e l'altro si andavano via via dedicando: avvicinamento, per esempio, quando entrambi si muovevano sul terreno della minore storia napoletana, Croce attendendo ai Teatri di Napoli, Di Giacomo alla Cronaca del San Carlino, e i due prendendosi cura della nuova rivista Napoli mobilissima; distacchi più o meno prolungati quando il Croce si astraeva nei grossi problemi filosofici che si erano affacciati alla sua mente, o apriva la breve parentesi ministeriale, e Di Giacomo […] si buttava senza respiro nella produzione canzoniera".
Una parte della critica ha affermato che la vasta e varia opera digiacomiana "ha il suo segno unitario e il suo sigillo nella poesia", la quale si snoda tra "una fase più propriamente veristica e narrativa" ed "un'altra più intimamente fantastica e sentimentale". Nella veste di cantore e POETA di Napoli, Di Giacomo si è "immedesimato nella vita, nella storia, nella lingua e nel dialetto della sua città, fino a diventarne un simbolo e un emblema" universale. L'inizio della sua produzione in versi fu precoce (Sonetti, Tocco di Napoli, 1884) e risale all'inizio degli anni Ottanta dell'Ottocento, quando iniziarono ad apparire sui giornali e periodici napoletani delle sue liriche dialettali o canzoni, "con un'indistinzione sostanziale di cui occorre far gran conto", come annota Antonio Palermo nel saggio che ha dedicato all'autore nel suo volume Da Mastriani a Viviani. Tra i suoi celebri componimenti si ricordano il poemetto 'O munasterio (1887), Zi' munacella (1888), ed ancora Pianefforte 'e notte, Marzo e 'Na tavernella 'ngoppa Antignano. Oltre alla sua prima canzone di successo, Uocchie de suonno (1882), inizialmente con la musica di Francesco Andreatini e poi due anni dopo con quella di Mario Costa, nella cui versione il nome viene cambiato in Napulitanata, i suoi brani furono musicati da validi artisti, quali lo stesso Mario Costa per la celebre Era de maggio (1885), Enrico De Leva che rese famosa 'E spingole frangese (1888), Eduardo Di Capua per 'A retirata d' 'e marenare (1890), Francesco Paolo Tosti per la melodia Marechiare, che, scritta nel 1885, ebbe un successo internazionale e fu tradotta persino in latino. Non vanno dimenticati, poi, i libri di prose narrative Minuetto settecentesco (Napoli, Pierro, 1883), Nennella (Milano, Quadrio, 1884), Mattinate napoletane (Napoli, Casa Ed. Art. Let., 1886) e Rosa Bellavista ("Napoli letteraria", 1886).
Nella produzione digiacomiana, all'attività poetica (dal 1882 in poi) e novellistica (dal 1877 in poi) si affianca quella teatrale (iniziata nel 1888-89), che, pur essendo posteriore di circa un decennio rispetto alle prime due, è comunque strettamente legata ad entrambe da un rapporto di derivazione o di influenza tematico. A dimostrarlo sono i DRAMMI A "San Francisco" (1897), che è una riduzione teatrale dell'omonima collana di sette sonetti del 1895, 'O voto (1889), l'atto unico 'O mese mariano (1900) e i due atti Assunta Spina (che debuttò al Teatro Nuovo di Napoli, 27 marzo 1909), i quali sono la versione scenica delle novelle Il voto (1888), Senza vederlo (1884) e Assunta Spina (1888). L'interesse di Di Giacomo per i teatro si manifesta a priori nella sua revisione del linguaggio napoletano della commedia di Achille Torelli 'O buono marito fa 'a bona mugliera (Fenice di Napoli, 1886). Nel 1886-1887 si colloca la commedia lirica in tre atti La Fiera, con musica di Nicola D'Arienzo e versi digiacomiani derivati dal testo di Alberto Nota (Teatro Nuovo di Napoli, 1 marzo 1887), mentre al 1887-1888 risale la sua versione in dialetto dei drammi Santa Lucia e A bascio puorto di Goffredo Cognetti, il quale sceneggiò il dramma Mala vita (Teatro Nuovo di Napoli, 27 aprile 1889) ricavandolo a sua volta dalla novella digiacomiana Il voto.
Sull'importanza delle trasformazioni che subiscono i testi digiacomiani, nel passaggio dalle stesure narrative e liriche a quelle drammaturgiche, si è soffermato ancora una volta Antonio Palermo nel saggio sopraccitato, sostenendo che l'"esempio apparentemente più chiaro di una doppia partita con se stesso, Di Giacomo lo fornisce con il suo teatro", ma sarebbe "semplicistico e inesatto parlare di un compito puramente divulgativo" assolto dal teatro digiacomiano, poiché "facendo da tramite essenziale per il rapporto con il pubblico fu proprio il teatro a costringerlo all'invenzione, come prova l'assai tarda (1909) realizzazione scenica di Assunta Spina".
Di Giacomo dimostrò anche un interesse teorico per le vicende storiche dei teatri napoletani, che confluì nelle singolari CRONACHE raccolte nei volumi Napoli, figure e paesi (Napoli, Perrella, 1909) e Luci ed ombre napoletane (Napoli, Perrella, 1914). Ma il forte senso del teatro che l'autore possedeva si avverte, in particolare, nella monografia intitolata Storia del teatro San Carlino del 1918 e negli articoli Teatro dialettale ("Corriere di Napoli", 6 giugno 1898), Pel teatro dialettale ("Fortunio, 16 ottobre 1898") e Per un repertorio dialettale ("Il teatro moderno", n. 7, 5 luglio 1904), in cui, rispondendo all'articolo di Eduardo Scarpetta apparso nel numero precedente dello stesso giornale ("Il teatro moderno", n. 6, 19 giugno 1904), Di Giacomo sostenne l'impossibilità della formazione di un teatro popolare napoletano: "Voi dunque credete o volete far credere ch'io tenti appunto la composizione d'un teatro drammatico stabile napoletano? Siete in errore. Io desidero semplicemente scrivere - e incitare altri perchè pur le scriva - delle commedie napoletane: di sentimento, di ambiente, di dialetto napoletani. Non soltanto ma - delle commedie in cui non esclusivamente la tragicità ma si rattrovi pur tanta altra e svariata espressione della nostra fisionomia locale e teatrabile". Intervennero nella polemica, sviluppatasi sulle pagine del Teatro moderno, altri critici e letterati napoletani, tra cui Ferdinando Russo (numero del 25 agosto) e Roberto Bracco (numero del 10 ottobre). A questo gruppi di articoli digiacomiani, si accosta quello intitolato Il "San Ferdinando" (Napoli d'oggi, Pierro, 1900, pp. 419-438), riguardo al teatro popolare di Federico Stella. Salvatore Di Giacomo, che "rimane il più autorevole propulsore della nostra scena vernacolare",[18] attraverso i suoi "personaggi", "figure dalla doppia esistenza, quella di semplici persone, di napoletani immersi nella gran folla della grande metropoli, e quella di attori, che continuano ad essere altri da quello che sono, un poco confondendo di continuo le due esistenze che in fondo hanno confini in identificabili,  […] vive tutto l'universo napoletano nelle sue ascese e nelle sue decadenze".
L'elemento caratterizzante l'attività teatrale, che si apre quindi con 'O voto, e che distingue i drammi dalle novelle è senza dubbio l'uso DIALETTO, impiegato d'altronde nei testi lirici, "in cui la visione della realtà locale si combina con le tendenze della poesia europea contemporanea". Se nelle seconde Di Giacomo "utilizza la lingua letteraria, se pur avvicinata alla lingua parlata, che gli sembra lo strumento naturale per raccontare le storie dei suoi personaggi, nei drammi, come nelle poesie e nelle canzoni, ritiene necessario usare il dialetto, che è il linguaggio del teatro popolare napoletano, al quale egli si rifà, anche se avverte il bisogno di conferirgli una nuova dignità d'arte". Il suo teatro si ricollega, dunque, alla storia del teatro popolare napoletano, ma l'uso del dialetto, che apparentemente contraddice il suo ideale di "teatro d'arte" ispirato alla verità, al decoro, alla misura linguistica ed artistica, fu in un certo senso "una scelta obbligata, come era stata per le poesie e per le canzoni, perché era la lingua del popolo che Di Giacomo portava sulla scena e di cui rappresentava la vita. E se questo linguaggio non era il "dialetto letterario", al quale inclinava il Torelli, ma il "dialetto parlato", in realtà questo dialetto era regolarizzato nella grammatica e nella sintassi, scelto e sorvegliato nel lessico e in definitiva rimodellato sulla lingua letteraria". Sull'intera arte di Di Giacomo "si stende - ha dichiarato Toni Iermano - un velo di malinconia che la indirizza verso rotte artistiche non classificabili secondo definizioni rigide. D'altronde Di Giacomo non si era voluto ascrivere al mondo dei letterati napoletani bensì a quello pittorico e musicale".
Alla fine di questo excursus sulla poliedrica produzione artistica di Salvatore Di Giacomo, impegnato su diversi versanti in qualità di giornalista, bibliotecario, erudito, traduttore, fotografo, autore di racconti, poesie, canzoni nonché di drammi e copioni cinematografici, sembra interessante ricordare l'atteggiamento dell'autore nei confronti delle severe critiche lanciate contro il suo teatro da parte dell'ambiente teatrale sia napoletano che nazionale. La sua posizione è ben descritta nella parte conclusiva della Pagina autobiografica:
In quanto a quello che io scrivo "per me", voi potete trovarlo ne' miei libri. L' "io" ho cercato di sempre accamparvelo: esso vibra per nevrotica necessità in tutte le cose mie, e, per quanto io m'adoperi a tenerlo a bada, quello riesce in mezzo, come si dice, pel rotto della cuffia. Per un certo mio innato vizio di spiritualità è accaduto, qualche volta, che la critica materialistica m'abbia smembrato, ed i molti pezzi della mia forma sentimentale abbia appeso, palpitanti, alla sua beccheria forestiera. Io non m'irrito, né m'addoloro […]. Ogni critico sceglie le sue vittime; ognuna di coteste guardie di finanza dell'arte esige un dazio alla barriera. Si può perfino sopportarla questa vecchia signora petulante e zitellona. Ma, quando si parla di arte e di gioventù, io non so non amare i giovani che danno del loro cuore e della lor mente, coloro che hanno per innamorata l'arte e per grammatica una serenata!...
In tali parole si intravede chiaramente l'amore dell'autore verso la propria arte, quell'arte che trae dalla realtà la finzione scenica e fa della stessa scena il palcoscenico della vita, in cui ad indossare le maschere siamo tutti noi, personaggi di un teatro che, "disgraziatamente, non è mai la verità".
L'interesse per l'orizzonte digiacomiano si è risvegliato in occasione del cinquantenario della morte dello scrittore, nel 1984, e successivamente nel più recente centocinquantenario della sua nascita, celebrato a Napoli il 10 marzo 2010 durante il Convegno Ritorna Di Giacomo? Bilancio e prospettive di una storia a 150 anni dalla nascita (1860-2010), promosso dall'Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Dipartimento di Filologia Moderna della Federico II, diretto dal professore Pasquale Sabbatino. Tuttavia, queste celebrazioni non si sono concretizzate nella realizzazione di un'EDIZIONE CRITICA e integrale delle opere dello scrittore napoletano, la maggior parte delle quali sono conservate attualmente nella Raccolta Di Giacomo sita nella sezione napoletana Lucchesi-Palli della Nazionale e catalogate sul sito Archivi Teatro Napoli nella sezione Bibliografia digiacomiana (a cura di Antonio Laurino).
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Sona ’o maestro. E passa
p’ ’e cammere stu suono…
D’ ’o cuoco e d’ ’a vaiassa
scritto è ’o duetto in la.


NU SBAGLIO

– Cche ffaie lloco, vicchiariello
sott’ a st’ arbero assettato?
E a chi aspiette, int’ ’o mantiello
tutto quanto arravugliato?

– Chi mm’ ha dato appuntamento
figlio mio, mo venarrà;
ccà ll’ aspetto, e so’ cuntento:
pe ccà nnanze ha dda passà.

Ma si siente a n’ ato ppoco
na ventata fredda e forte,
figlio mio, scostete ’a lloco:
nun guardà!… Chi passa è ’a, Morte. –

E ’a ventata fredda e forte
sciusciaie quase llà ppe llà:
e passaie, currenno, ’a Morte:
e afferraie, senza guardà.

Ah! Che strillo se sentette
sparpetà p’ ’o viento ’e marzo!
Sulo, ’o viecchio rummanette:
’o guaglione era scumparzo…


NA TAVERNELLA…

Maggio. Na tavernella
ncopp ’ ’antignano: ’addore
d’ ’anèpeta nuvella;
’o cane d’ ’o trattore

c’ abbaia: ’o fusto ’e vino
nnanz’ ’a porta: ’a gallina
ca strilla ’o pulicino:
e n’aria fresca e ffina

==>SEGUE

ca vene ’a copp’ ’e monte,
ca se mmesca c’ ’o viento,
e a sti capille nfronte
nun fa truvà cchiù abbiento…

Stammo a na tavulella
tutte e dduie. Chiano chiano
s’ allonga sta manella
e mm’accarezza ’a mano…

Ma ’o bbi’ ca dint’ ’o piatto
se fa fredda ’a frettata?…
Comme me so’ distratto!
Comme te si’ ncantata!…



PRINCIPIO D’ANNO

N’ ato anno! Pienzece. Stanotte fanno
pricise dudece mise, Adelà!
Comme fuiettero! Ma dint’ ’a n’ anno
nun te parettero n’ aternità?

Basta. Spartimmece. Scordete, spassete,
nun fa’ cchiù perdere sta giuventù:
stasera adduormete stracqua, e pe ll’ úrdema
vota, penzanneme, nun tremmà cchiù.

Vòtete, strignete dint’ ’e llenzola,
e ’o suonno scennere fa ncopp’ a te:
scuordete, scuordeme: staie sola sola,
nisciuno sèntere te pò, e vedé.

Nisciuno?… Ah, st’ anema mia, ca te sente,
dint’ a sta cammera tremmanno sta…
Tu tuorne a dicere: – Dio! Finalmente! –
E sbatte st’ anema, fuie, se nne va…

SI DUMMENECA E BON TIEMPO…

Si dummeneca è bon tiempo,
ce ne iammo a Marechiare:
llà mangiammo a llido ’e mare,
e parlammo io ’e te, tu ’e me.

T’ aggia di’ nu sacco ’e cose
ca mme passeno p’ ’a mente,
ca p’ ’a strata o ’a gente ’e ssente,
o nun so’ maie buono a di’.

Già ’e vedé quase mme pare
chella verde acqua addurosa,
chell’ arena ch’ essa ha nfosa
e ca liscia e asciutta è già…

Chelli rezze arravugliate,
chelli nnasse, ’e bbarchetelle
e, ’int’ ’o monte, ’e grutticelle
ca cchiù fresche so’ ll’ està…

T’ aggia di’, llà, tutte ’e ccose
ca mme passeno p’ ’a mente,
ca p’ ’a strata o ’a gente ’e ssente,
o nun so’ maie buono a di’.
==>SEGUE






T’ aggia fa’, llà, ’int’ ’a taverna
ca sta proprio a llido ’e mare,
d’ ’a canzona ’e Marechiare
tutte ’e vierze allicurdà…


PRIMMAVERA

Guarda: è celeste ’a chella parte ’o cielo,
ma scuro ’o fanno ’e nuvole ’a chest’ ata:
llà ’o sole s’arravoglia ’int’ a nu velo
niro – e ’a ccà pare na bella iurnata.

E chesta ’a chiamme primmavera? ’O munno,
Nina mia, nun è cchiù chillo ch’ è stato:
primmavera sarrà, ma pare autunno:
ll’ autunno malinconeco è turnato…

O pure simmo nuie, ca ce fingimmo
tutte ’e n’ ata manera sti staggione?
Si dint’ està ce raffreddammo, o ardimmo,
quanno ’o vierno è cchiù friddo, ’e passione?

Nuie simmo, sì: ricordete c’ aiere
fuste crudele, e mo te si’ pentuta…
Povera Nina mia! Quanta penziere
dint’ a st’ anema toia stracqua e sbattuta!

Mme turmiente – e te piente. E io te turmento,
e mme pento pur’ io. Nce appiccecammo:
facimme pace doppo a nu mumento:
e ’a capo, pe nu nniente, accumminciammo…

E nun sapimmo di’ ca nuie, nuie simmo
ca cagnammo stu cielo e sti ghiurnate:
e forse ’a primmavera ca vedimmo
nun è fatta pe nuie – forse pe ll’ ate…
ZINCARA NERA

Na zincara truvaie, vestuta nera,
p’ ’a strata sulitaria addó passavo:
scenneva quase già ll’ ombra d’ ’a sera,
e io cu ’e penziere mieie mm’ accumpagnavo.

Quanno mme s’ accustaie proprio vicino
accumpareva ’a luna chiano chiano…
– Oi ni’, damme nu soldo e io t’ anduvino… –
E io, senza di’ ca no, stennette ’a manco…

– Siente, – dicette – siente: ’a vita è amara,
ma cchiù amara è pe tte ca si’ sincero:
si ’o nomme nun ’o saccio ’e chi t’ è cara,
saccio ca ll’ uocchie suoie so’ belle overo.

Ncielo mo saglie ’a luna chiano chiano,
e damme n’ ato soldo, e io t’ anduvino…
Voglio leggere meglio ’int’ a sta mano…
Sienteme buono… Fatte cchiù vicino.

Vuo’ sapé ’a verità?… Pe quanto è amara,
t’ ’a voglio di’!… ’ru triemme? Ah! Tu mme ntienne!
Tu vurrisse sapé si chi t’è cara…
– No! – dicette io. – No!… No!… Basta…
Vatténne…




LL’ OMBRA

Facettemo stu patto: – Ogge nn’ avimmo trenta:
stammo a nuvembre, è overo? Be’… n’ati trenta
iuorne.
– E po’?… – Po ce lassammo. Va bene?… Si’
cuntenta? –
Penzaie nu poco, e doppo dice: – E va bene… Sì. –

Nu sì senza na lacrema, senza nu pentimento,
anze (ma che so’ ’e femmene!) cu na resella amara…
Io mme senteva sbollere!… Dice: – E… tu si’
cuntento?
– Sì! – rispunnette io subbeto. – Ma si t’ ’o prupongo
i’! –

E ce turnaimo, zitte… Ah, chella fredda mano
ca quase ancora strenta teneva dint’ ’a mia,
ah, chella mano, comme se ne sfuiette chiano,
cu tutto c’ ’a sentette quase ’int’ ’a mia tremmà!…

Scennettemo a Tuleto. Llà ’e lume, ’e vvoce, ’a gente,
comme si ce vulessero di’: «Ma ched’ è? Ch’ è
stato?…»
ce sullevaino. Emilia, llà, mme tenette mente
doie vote, mmiez’ ’a folla, ma senza maie parlà.

Io stevo pe lle dicere tutte ’e ddoie vote: «Siente…
Perdoneme!… Perdoneme!…» Ma po’, nun saccio
comme
restaie cchiù cupo e zitto: mme se nzerraino ’e diente,
e mme nchiudette io pure… Povero ammore!
Aiemmé!…

«Dicembre: vintiquatto… Quant’ ate iuorne?
Sette…»
penzavo a ’o pizzo soleto, tre settimane appriesso:
e a nu rilorgio ’e chiesia, lenta, sunà sentette
chell’ ora nosta soleta, luntana… Una… doie… tre…

==>SEGUE

Una… doie… tre… Cadevano ll’ ore ’int’ ’a notta
scura
quanno, cchiù ghianca ’e n’ostia, mm’accumparette
nnanze…
Mme s’ afferraie, guardanneme cu ll’uocchie d’ ’a
paura,
e, strinte, ce mettettemo ’a via sulagna a fa’.

Strinte, abbracciate, quase… Doie lacreme vedette
tutto na vota scorrere dint’ a chill’ uocchie spierze…

– Dicembre… vintiquatto.. Quant’ ate iuorne?…
Sette… –
E chesto, ’int’ ’o silenzio, chesto ’a sentette di’…

Saglieva ’a dinto Napule, nzieme cu tanta voce,
confusa ’int’ a na nebbia na luce ’e tanta lume:
sentevemo ’e zampogne, c’ ’o suono antico e ddoce,
ienghere ll’ aria, e tutte sti vvoce accumpagnà…

Ah, comme ce strignettemo cchiù forte!… «E overo,
è overo,
st’ ammore è nu pericolo pe tutt’ ’e dduie!… Ce
simmo
abbandunate a ll’ ombra! Sperdute ’int’ ’o mistero!…
Sì, cammenammo ’ascuro!… Sì, ’o ssaccio… Ma che
fa…?»

Mm’ ’a strascenavo appriesso… Currevemo,
abbracciate,
quase comme si spartere quaccuno ce vulesse…
Cu ll’ uocchie chine ’e lacreme, cu ’e mmane
ncatenate,
currevemo, currevemo dint’ a ll’ oscurità…

Ce stammo ancora. ’a n’ anno. E ’a morte sulamente,
’a morte ca chiammammo tutt’ ’e dduie tanta vote,
spezzà pò sta catena ca dura eternamente,
ca pesa e ca è liggiera, ca nun se vo’ spezzà…
SI È ROSA CA MME VO’…

Nzerràteme, nzerràteme addó stanno
tant’ ate, comm’ a me, guardate e nchiuse
addó passano ’a vita, sbarianno,
pazze cuiete e pazze furiuse.

Nchiuditeme pe sempe ’int’ a sti mmura,
e ’o mastugiorgio mettìteme allato
p’ ’o mmale ca tengo io ce vo’ cchiù cura:
io so’ stato traduto e abbandunato.

Si quacche amico mio, quacche parente,
nu iuorno, quann’ è viseta, venesse
dicìtele ca vene inutilmente,
e priatelo vuie ca se ne iesse.

Ma si mme vo’ na giovene, vestuta
cu na vesta granata, auta e brunetta,
si è Rosa ca mme vo’, si s’ è pentuta,
dicìtele accussì: – Trase. T’ aspetta.


DINT’ ’A VILLA

Mare, liscio e turchino,
addó pare nchiuvata
ncopp’ a ll’ acque na vela
ianca, ca s’ è fermata;

cielo, celeste cupo,
ca ’int’ a st’ acque te mmire;
e tu, viento liggiero,
ca mme puorte ’e suspire

’e st’ arbere d’ ’a Villa,
e sbatte cu sti scelle,
e curre, ncuitanno
’e ffuntane e ll’ aucielle;

sentitela! ’a sentite?
St’ anema ve risponne…

E s’ ’a pigliàino ’o viento,
’o cielo puro, e ll’ onne…
PAROLE D’AMMORE SCUNTENTO
«Nu’ scénnere p’ ’a Posta! Nun te fermà llà nnanze!
Essa p’ ’a Posta saglie: tu ’o ssaie: tu ’a puo’ ncuntrà!
E si accummience ’a capo? No, no! Meglio è c’ ’a
scanze!
Tu ’a tuorne a fa’ fa’ ianca: te tuorne a turmentà!…

Siente ll’ amice: spezza. Ce vo’ curaggio. E penza
ca ’o tiempo è cchiù d’ ’o miedeco e ca te pò sanà…
Nn’ ’o bbide ca tu stesso vuo’ fa’ sta sufferenza
cchiù longa, cchiù pugnente, cchiù amara a
suppurtà?…»

Parlavo sulo. E attuorno mme cammenava ’a gente
p’ ’e fatte suoie, mpurtannese certo assaie poco ’e me:
pure chi sa, quaccuno, ca mme tenette mente
– Che smanie! – avetta dicere. – Che smanie ha dda
tené! –

Schezzechiava. ’O tiempo pareva fatto apposta
pe mme fa’ tutto, attuorno, cchiù scuro accumparé…
Nu’ scennere p’ ’a Posta…» E io llà scennevo… ’a
Posta:
penzanno: Ah, sì ’a vedesse!… Dio, nun m’ ’a fa’
vedé!…»

Amice, perdunatenne! Sì, sì, ’a vedette! E ghianca,
cchiiù ghianca ’e ll’ati vote, sì, ll’aggio vista fa’!
E mo, mo ca nne parlo c’ ’o sciato ca me manca,
mo stesso, si putesse, llà, llà vurria turnà!

Vurria turnà pe sèntere, llà, dint’ ’a folla, ’a voce
ca mmiez’ a ciento e a mille so’ buono a nduvinà!
Vurria turnà p’ ’a sèntere, llà, quase sottavoce
murmulià: – Meh… vòtete! Anema mia, sto ccà!… –

Vurria turnà pe dicere tremmanno: – Ah, c’aggio
fatto
Giurato nun ce avévamo ’e nun ce vedé cchiù?…
Pecché, pecché mantènere cchiù nun te saccio ’o patto
ca manco tu mantènere, mo, nun saie manco tu?… –

Vurria turnà pe pognere e accarrezzà stu core:
p’ ’o fa’ affucà ’int’ ’e llacreme, e p’ ’o fa’ sullevà…
Core scuntento e sazio; core ca campa e more,
core ca maie cuitudine, maie pace truvarrà!…

’O TIEMPO

– Viene; assettete ccà. Doppo te dico
pecché faie buono ’e mme cercà cunziglio.
Cónteme, mo; cunfidete cu mmico…
Va, va dicenno, figlio. –

E io, tremmanno, dicevo: – Una sultanto,
mmiez’ a tant’ ate morte ’int’ a stu core,
una ca ’o stregne e ’o strazia tuttuquanto,
una sola nun more!

È abbrile: è primmavera… E io ’a sento… ’a sento
ca passa e parla mmiez’ a st’aria doce…
Mm’ ’a veco nnanz’ a st’ uocchie ogne mumento,
e nn’ anduvino ’a voce… –

– Sì, sì… – dicette ’o viecchio – io te capisco:
e ’o ssaccio tutto chello ca te pare
’e sèntere e vedé… Te cumpatisco…
Sì, sì: so’ ppene amare…

Quant’ anne tene? È bbona o è malamente?
Comme se chiamma? È bionda? È brunettella?
E te vo’ proprio bene overamente?
E comm’ è? Comm’ è? Bella?… –

Scennevano d’ ’a sera chiano chiano
ll’ombre e ’o silenzio, e fredda mme passava
Il’ aria pe faccia… ’O viecchio, cu na mano
ncopp’ ’a mia, mme parlava…

– Ma tu chi si’?… – lle dicette io – mme sento
già ’int’ a stu core mio tutto murì!…
Tutto, tutto mme scordo ’a stu mumento…
Ma chi si’?… Ma chi si’?… –

E ’o viecchio s’ avutaie: mme guardaie fitto…
na mano ncoppa ’a spalla mme mettette:
se fece na resella, e, zitto zitto:
– Songo ’o Tiempo… – dicette.



GELUSIA

–  Pozzo sèntere che scrive?… Pe chi scrive?… – Ah!
mamma, mamma!
Pecché trase chiano chiano dint’ ’a cammera addó
scrivo?
Pecché sento, tutto nzieme, chesta voce ca mme
chiamma?
E pecché, pecché t’ assiette, vecchia mia, vicino a
me?…

Sciúlia ncopp’ a sti capille, addó ’a neve s’ è fermata,
sciúlia friddo ’o sole ’e vierno ca mo trase p’ ’a
fenesta,
ca te trova tutta quanta dint’ ’o sciallo arravugliata,
ca se ferma, ca se stenne sulamente ncuoll’ a te…

E tu dint’ a sta pultrona t’abbandune, e chiude
st’uocchie
comme quase stisse, nzuonno, nu penziero
accumpagnanno:
chesti mmane tutte vene puose ncopp’ a sti
denocchie,
e suspire: e – Pe chi scrive?… – lentamente tuorne a
di’.

– Pe chi scrivo? Pe te scrivo… – Pe mme proprio?…
E che mme dice?
– Tanta cose… – Overamente?… – Tanta cose
affezziunate…
(M’ha creduto, puverella! Va, facimmela felice!)
Siente – dico – so’ sultanto quatto vierze… ’E buo’
sentì?

«Passarrà chist’ anno amaro, passarrà l’ anno che
vene,
ma tu, sempe, eternamente restarraie dint’ a stu core!
Che mme fa si ’o tiempo corre, si cchiù assaie te
voglio bene
quanto cchiù passeno ’e iuorne, ca io nun conto
manco cchiù?…»

==>SEGUE
Poso ’a carta, e guardo a mamma. N’ ata vota
ll’uocchie ha nchiuse,
comme quase stesse, nzuonno, nu penziero
accumpagnanno:
ma ’e doie lacreme chill’ uocchie poco primma se so’
nfuse,
e, mo, proprio nun me sanno, nun me vonno cchiù
guardà…

Se ne trase ’o sole ’e vierno ca veneva p’ ’a fenesta,
dint’ ’a cammera addó stammo n’ ombra passa. ’Int’
’a pultrona
senza sole, arravugliata dint’ ’o sciallo, ’a vecchia
resta:
e chi sa, chi sa che penza… Nun ’a sento cchiù parlà..




’E MATINA, PE TULETO

Sola mo te ne vaie, povera Rosa:
te firme nnanze a tutte ’e magazzine,
e, pe perdere tiempo e fa’ quaccosa,
guarde distrattamente ’int’ ’e bbetrine.

Ma sti llastre so’ specchio: e tu m’abbiste
p’ ’o marciapiede cammenà rimpetto:
na vota lloco dinto me vediste,
e n’ ata vota i’ mo mme ce rifletto.

Tanno, a maggio, p’ ’a via fresca adacquata,
curreva, fresca, ll’ aria ’e primmavera,
e ’a gente ca vedevemo p’ ’a strata
comm’ a mme, comm’ a te, pareva allera.

Tu penzave: «Sarrà, forze, dimane,
sarrà doppodimane, ma è destino
ca s’ avarranna stregnere sti mmane
e ca mme s’ ha dd’ accumpagnà vicino!»

E i’ penzavo: «M’ ha visto!… S’ è avutata…
Sì, sì, m’avarrà visto certamente…
Che resisto a fa’ cchiù? Ll’ ora è sunata
ca m’aggia nnammurà perdutamente…»

Quanto tiempo è passato? A mme me pare
comme fosse passato nu minuto:
che ghiuorne doce, e che nuttate amare!
Che passiona! E mo? Tutto è fernuto…

Sola mo te ne vaie, povera Rosa:
te firme nnanze a tutte ’e magazzine,
e, pe perdere tiempo e fa’ quaccosa,
guarde distrattamente ’int’ ’e bbetrine…

SUONNO ’E NA NOTTE ’E VIERNO

Guarda, guarda… Nunziatella,
si nu’ sbaglio, è chesta ccà!
Porta ’a soleta vunnella
lana e seta a petipuà…

Cu stu scialle ncopp’ ’e spalle,
cu sta rosa ’int’ ’e capille,
nn’ ha fatte arze, a mille a mille,
viecchie e giuvene restà!

E mmo passa e mme saluta…
Mlove ’a capa… mme fa segno…
– Nunziatè!… – (Se n’ è già iuta,
mmentre stevo p’ ’a chiammà…)

’A i’ccà n’ata! È n’ata cosa,
n’ ato tipo, n’ ata voce…
– Mme canusce? I’ songo Rosa…
Te ricuorde, o manco cchiù? –

Rosa! Rosa! Anema fina!
Faccia ’e cera, uocchie lucente!
E accussì barbaramente
t’ aggio avuta abbandunà!

– Siente – Addio… – Ma mme perduone?
Siente. E siente… – (Essa, ’a luntano,
mme saluta e stenne ’a mano,
vota ’e spalle e se ne va… )

E chest’ ata? Chi è chest’ ata?
(Vuo’ vedé ca è Teresina
ca s’ è pure mmaretata?)
– Bravo! Prósitte, Teré!

E… ’o guaglione? – È muorto. – È muorto?!…
Comme!… È muorto?… – Aiere … Addio…
Figlio! – chiagne – ah, figlio mio!… –
E po’ ’a veco scumparì…

==>SEGUE

Dormo o veglio?… È suonno, o pure
fosse ’a freva ca mm’ abbruscia?
St’ ombre chiare e st’ ombre scure
songo spirete, o che so’?…

Vurria moverme e nun pozzo…
Scotto nfronte… Mm’ arde mpietto:
e, assettato mmiez’ ’o lietto,
sento ’e ddoie, lente, sunà…

’E bbi’ ccà ll’ ate ombre!… Adela…
Margarita… Carulina…
Giulia… Brìggeta… Rafela…
Tutte quante attuorno a me!

E chi si’ tu, ca sta faccia
t’ annascunne ’int’ a stu velo?
Ca t’ accuoste e arape ’e braccia
facenno atto ’e mm’ abbraccià?

Nun te saccio!… – Te saccio io!
Fatte ccà!… Strigneme forte!…
Nnammurato bello mio!…
Viene!… Viene!… Io songo ’a Morte!…

LASSAMMO FA’ DIO…

’A dummeneca ’e Pasca
d’ ’o mille e noveciento, ’o Pateterno
(ca s’ è susuto sempe ’int’ ’e primm’ ore)
di buonissimo umore
se scetaie mmerz’ ’e sette,
fece chiammà san Pietro e lle dicette:

– Pie’, siente, stammatina
è na bella iurnata
e ll’ aria è fina fina:
vurria fa’ na scappata
‘n Terra. Che te ne pare?
– Mah! – dicette san Pietro –
(santo napulitano e, mparaviso,
capo guardapurtone)
mah… Lei siete il padrone!
Vulite vedé ’a Terra? E fate pure…
Però… vedete… francamente, ’a Terra
è nu poco afflittiva.
V’ avesse disgustà?…
– Ma che! Che dici!
Su, vèstiti! Scendiamo!…
Dove ci fermeremo? Dove andiamo?…
Napoli!… Che? Ti pare?
–Eh! Sissignore:
se dice: Vide Napule e po’ muore! –

E senza perder tempo, llà ppe llà,
san Pietro se vestette comilfò:
nu pantalone inglese a quadrigliè,
nu gilè (comm’ ’o pòrteno ’e cocò)
tutto piselli verdi in campo blu,
cappiello a tubbo, cravatta a rabà,
scicco stiffelio di color rapè,
e un piccolo bastone di bambù.

– Sto bene? – Elegantone!…
Andiamo dunque! – E ghiammo…
Quanto mme piglio ’e guante… –
Ed in un batterdocchio eccoli a Napoli,
in mezzo piazza Dante.

==>SEGUE

– Si, – rispunnette ’o viecchio – e opera vosta
è certamente tutta chesta ccà:
certo: chi ’o ppò negà?….
Però… Vi siete presa ’a limunata?…
– Sì, ho finito… – Embè, usciamo.
Signori, a tutti!… – Buona passeggiata!
– Dunque dicevi? – E c’ aggia di’?… Guardate!
Tenite mente attuorno!… Che bedite?
Che ve pare?… Dicite.
’A carità!…

Dio guardaie – spaventato. Mmiez’ ’a strata,
stuorte, struppie, cecate,
giuvene e bicchiarielle,
guagliune senza scarpe,
vicchiarelle appuiate a ’e bastuncielle,
scartellate, malate,
e ciert’ uocchie arrussute
chine ’e lacreme – e mane
secche, aperte, stennute…

– ’a carità!… –
Sta voce
’e voce a centenara
sentette, ’a tutte parte,
disperate, strellà:
e quase lle parette
dint’ a n’ eco e ’a luntano,
sentì ’o stesso lamiento:
– ’a carità… –
………
Cu na resella amara,
e allisciannose ’a barba ’a franciscana,
san Pietro suspiraie: – Nun c’è che fa’!…
Mo nu’ ve frasturnate,
sentite a me: mo iammuncenno ’a ccà:
piuttosto quando siamo in Paraviso
se ne riparlerà…
– Come?… Non ho capito… –
’O Padre Eterno
capuzziava, parlava isso sulo,
teneva mente in aria… Tutto nzieme
fece segno c’ ’a mano. E nu lenzulo
==>SEGUE
Mmiez’ a nu scampagnato, addó nasceva
vicino ’a viuletta ’a margarita,
ncopp’ a ll’ èvera corta, ca luceva
comm’ ’o velluto nfuso,
quatto tavule, pronte
e apparicchiate a ll’ uso
d’ ’e meglie risturà,
pareva ca dicessero: – Venite!
Favurite a mangià!… –
E che ce stava esposto! ’a meglia carne,
’o meglio pesce, ’e frutte cchiù assurtite,
cchiù gentile e cchiù ffine:
’a mela, ’a pera, ’o fenucchiello, ’a fava,
’a nanassa, ’o mellone,
ll’ uva, ’e nnoce, ’e bbanane, ’e mandarine,
e tutto ’o bbene ’e Dio fore staggione.
Vine paisane, e vine mbuttigliate
col sùvero d’ argento e l’ etichetta,
liquori delle fabbriche premiate,
curassò, strega, cúmmel e anisetta:
e in mezzo a questi (pe fa’ na surpresa
a quacche puveriello furastiero)
preffino il vischisodo a marca inglesa!…
…………..
Avite ntiso maie
Miseria e nubiltà?
Ve ricurdate quanno Sciosciammocca
e chill’ ati stracciune,
con l’ acquolina in bocca
guardano ncopp’ ’a tavola ’e mangiá
chella bella zuppiera ’e maccarune?

Non vi dico altro. Pe quase mez’ ora
ato nun se sentette
(mmiez’ a tutta sta gente
ca mangiava, bbeveva,
e sciglieva a piacere)
ca ’o rummore d’ ’e piatte e d’ ’e furchette
e ’o ndrì ndrì d’ ’e butteglie e d’ ’e bicchiere.
E all’ ùrdemo d’ ’o pranzo
(nu poco fatto a vino)
s’ aizaie nu cecato

==>SEGUE




’e na trentina d’ anne.
Doie tre vote tussette,
s’ adderezzaie, sputaie, fece n’ inchino,
e stu brìnnese, a voce auta, facette:

’O brìnnese.

– Cumpagne e care amice! Premmettete
c’ a stu bello signore,
ca nce ha fatto l’ onore
’e ce mmità ccà ncoppa
a bèvere e a mangià,
io gli rivolgio nella sua presenza,
come attestato di ricanoscenza,
quatto parole p’ ’o ringrazià!

Grazie, grazie, signo’!… Grazie! Vv’ ’o dico
a nomme ’e tutte chiste sfurtunate,
ca se so’ saziate,
e ca p’ ’a primma vota,
senza stennere ’a mano,
mmiez’ a ll’ aria addurosa ’e stu ciardino
hanno pruvato ’o broro, ’a carne, ’o vino!…
Ccellenza! E cumpatite sti pparole,
ca so’ napulitane
e nun so’ ttaliane
comme ve mmeretate!
Io nun aggio pututo sturià!

Nun me pozzo applicà!…
Guardate!… Io nun ve veco! ’a che so’ nnato
io nun beco a nnisciuno!…
So’ cecato, guardate… So’ cecato!…
Ccellenza, e che piatà!… –
’a voce lle mancaie. Chiagneva… ’a mano
ca teneva ’o bicchiere
s’ acalaie chiano chiano
e ’o pusaie ncopp’ ’a tavula. Isso stesso,
comme si ’o vino ’o fosse risturbato,
se chïaie lentamente int’ ’e ddenocchie,
e, cadenno assettato e abbandunato,
fissaie dint’ ’o bbaccante ’o gghianco ’e ll’ uocchie..

==>SEGUE


…………..

Nonnanonna.

………..
– Oi Suonno, Suonno!…

Suonno, ca te ne parte ’a ll’ uriente,
e nun t’ abbence prencepe o rignante,
oi Suonno, e vienetenne lentamente,
e, mpponta ’e pède, férmete ccà nnante…
E, si si’ piatuso e si’ putente,
stienne sta mano, e adduorme a tuttuquante…

Vienece, Suonno!…

Te manna san Giuseppe ’a Bettalemme,
e, sotto ’a porta, chi te mmosta ’a via
cu nu ramo ’e viole,
è ’a Vergene Maria…

(E chi te chiamma ccà, Suonno, tu ’o ssaie,
so’ chille ca cuntente
nun se scetano maie…)

Vienece, Suonno! .

(E tu nchiudele ll’ uocchie doce doce,
comm’ ’e nchiudiste a Giesù Cristo ncroce…) –
………..

’O Suonno s’ accustaie… Ma n’ ombra nera
lle cammenava appriesso,
n’ombra longa e liggiera,
c’ appena isso ’a vedette e se fermaie–
s’ acalaie, ll’ afferraie,
s’ ’o strignette ’int ’e bbracce forte forte,
e, cu nu filo ’e voce,
lle dicette: – Vatténne!
Famme passà. So’ ’a Morte…
………….

==>SEGUE
– E mo che dice?… – dicette a san Pietro
’o Patre Eterno – guarda!
Nun è meglio accussì? Tutta sta gente,
turmentata e nnucente,
mo ncopp’ ’a Terra che turnava a fa’?…
Doppo n’ ora felice c’ ha passata,
guarda, è passata ’int’ a l’ eternità…
…………..
– Là!… Guardate!… Là… là!… – c’ ’a mano stesa
e trattenenno ’o sciato,
san Pietro lle mmustaie ca quaccheduno
ch’ era rummaso aizato
mo se vutava attuorno – e se muveva…
– Là!… Na femmena!… –
E chella,
comme fosse mpazzuta,
cammenava, curreva,
nciampecava e cadeva,
e s’ aizava… E fuieva…

– Chiammàtela! Addó va?!…
– Zitto!… – dicette ’o Padre Eterno – zitto…
Lass’ ’a fa’… Iassa ’a fa’… –

Cade ’a cielo, ’a mammarella,
puverella, puverella…

Curreva, fuieva
pe nnanz’ ’e cumpagne passanno
(ca nun se muvevano cchiù),
sperduta, – abbeluta,
chiagnenno, tremmanno,
mpauruta, – sbattuta,
curreva, curreva ’int’ a ll’ ombre
e dint’ ’o silenzio d’ ’a sera,
Nannina ’a pezzente…
E, senza sapé cchiù addó ieva,
curreva, curreva…
uh Dio!… se sentette
mancà sott’ ’e piede ’o tterreno…
E ’a cielo cadette…
…………….

==>SEGUE



Scinne, scinne, puverella
ca – ’int’ ’a notte chiena ’e stelle–
na palomma ’e notte pare
cu nu trièmmolo ’int’ ’e scelle…

Scinne nterra, palummella,
passa ’e monte, passa ’o mare,
vola, sciúlia, scinne… Va,
ll’ aria è ’a toia. Te porta ’o viento
si te stracque e t’ abbandune…
Quanta miglie staie facenno?
Nu minuto e nne faie ciento –
e quant’ ate, p’ arrivà!…
Ma mo luceno, ’a luntano,
luceluce a mmeliune…
E so’ lume!… E ’a luna, ’a luna
già fa ’o mare nnargentà…
Scinne– scinne… Si’ arrivata…
Guarda… ’a i’ llà… Napule! ’a i’ llà!…
…………………….

Mammarè, ringrazia Dio…

Nanninella ’a pezzente
guardaie ccà, guardaie llà, s’ urizzuntaie,
e truvaie finalmente
’a via d’ ’a casa soia. Sunava ll’ una
a Sant’ Eliggio. E dint’ ’o vico scuro
sciuliava ncopp’ ’o muro
nu raggio ’e luna.
………

– Ninno!
Ninno!
Sto ccà!… Mamma è turnata!… –
E ’a porta, mez’ aperta e meza nchiusa,
’e nu vascio vuttaie cu na spallata.
Trasette ’e furia. Currette addó steva
nu piccerillo dint’ a nu spurtone…
S’ acalaie… Chillo povero guaglione,
c’ appena appena teneva nu mese,
sennuzziava, cu ’e manelle stese…

==>SEGUE
Lassammo fa‘ Dio…

Nanninella ’a pezzente
ll’ arravugliaie dint’ a nu sciallo viecchio,
s’ ’o pigliaie mbraccia – s’ ’o strignette mpietto,
e dint’ ’o chiaro ’e luna,
e asciuttannose ll’ uocchie a ’o mantesino,
lle dette latte – e s’ ’addurmette nzino…
X

ARIETTE E CANZONE NOVE
_______________________


VOCE D’AMMORE ANTICHE

            IL PEDANTE
È questo il xenodochio del Cerrglio?
           LARDONE, parasito
Domine, ita: non videbis quantum fegadellos, pullos,
picciones et salcicciones?
     G. B. DEL LA PORTA, La tabernaria - ATTO II.

Taverna d’ ’o Cerriglio, addó so’ stato
cchiù de na vota a bevere e a mangià,
giacché, ’int’ ’o suonno ca mme so’ sunnato,
mm’ e’ fatto cchiù ’e na femmena assaggià;

taverna antica, chiara e affummecata,
ianca e nera, addurosa e puzzulenta,
taverna allera, taverna accurzata,
nfruciuta ’e gente amabbele e cuntenta;

a te, ca mmiez’ a pròvole e presótte
e a nzerte d’ aglie, sott’ ’e ttrave appese,
a na tavola toia, nnanz’ a ddoie vótte,
mo vediste Basile e mo Curtese;

a te, c’ a Diana, a Crezia, a Carmusina
mpruvvisà mme faciste sti ccanzone
accumpagnate cu na rebecchina,
cu na chitarra e cu nu calascione;

a te sti smanie ’e nu perfetto amante,
st’ amaro chianto, sti suspire ardente,
sti resate e sti llacreme cucente…
A te, sti voce d’ ’o seciento e tante!…




I
Bonanotte, Viulà, mamma mm’ aspetta,
e cchiù mm’ aspetta, e cchiù va nfantasia;
tengo na mamma ch’ è troppo suspetta,
e pare ca mme tene ngelusia.

Te cerco scusa si te lasso in fretta,
manco pe n’ anno ’a ccà mme muvarria:
ma c’ aggia fa’ si màmmema mm’ appretta?
Teh, n’ ato vaso, Viulanta mia!…

II
Si ’e nuie dduie mo se parla malamente,
Carmusì, gioia, e nun te l’ avé a male;
tu pure ’o ssaie, ca ’o ddi’ male d’ ’a gente
a Nnapule è na cosa naturale.

Ardimmo, sì. Ma chesto ffuoco ardente
è ffuoco puro, e sempe è stato tale:
ca nfra nuie, nfino a mo, nun ce sta niente,
nemmeno nu peccato veniale…

III
Sine, bella patró, fora so’ stato,
ma nu secolo ogn’ ora mm’ è paruto;
ventitré ghiuorne mme so’ disperato,
ventitré notte nun aggio durmuto;

mangiavo quanto mangia nu malato,
quanto veve n’ auciello aggio vevuto;
ma ’o Signore – ca sempe sia ludato! –
sempe ’int’ ’e fforze meie m’ ha mantenuto.

Bella patrona, e nun ve scunzulate.
A stu cumanno vuosto. Cumannate.

IV
Dianora! Ah, si sta grazia mme facisse!
Cu nisciuno io vurria ca pratecasse;
ca dint’ ’a casa toia nzerrata stisse
e io sulo, io schittamente ce sagliesse.

Vurria ca manco a ssòreta sentisse,
e ca manco cu màmmeta parlasse…
Vuo’ sapé ’a verità? Vurria c’ ’a stessa
cammisa ca ncuoll’ haie nun te tuccasse!




V
Chi sa mo addó starraie, Chiarella mia!
Chi sa si staie durmenno, o staie scetata,
chi sa si staie susúta, o staie cuccata,
si sbarìe dint’ ’a casa, o vaie p’ ’a via;

si staie furiosa, o si te si’ accarmata,
si ’a passiona te pogne o ’a gelusia…
Viento, e pòrteme tu quacche mmasciata,
ca mme voglio accuità sta fantasia!

VI
E giacché vuo’ fa’ guerra, e guerra sia!
Gente, nun ce spartite! Guerra! Guerra!
Chest’ era, ’a bella nnammurata mia!
Nfama, ca t’ aggia stènnere ccà nterra!…

Iesce ccà nnante! Fatte ’a croce e gghiesce!
Teh, na botta de spata! Aparatèlla!…
Mo vedimmo chi coglie e chi feresce,
io cu sta mano, o tu cu sta manella…

Statte, ca si’ caduta priggiuniera!
Mo smanie e chiagne, e io mme cunzolo e rido.
Iètte sta spata! Posa sta bandiera!
E chiamme «Grazia!», ca si no t’ accido!…

VII
Quanno d’ ’o chianto amaro ca t’ e’ fatto
secretamente a me mme vene scritto,
dint’ ’o stesso mumento, ’int’ ’o stesso atto
a chiagnere pur io songo custretto.

Or dunque, e ch’ è servuto a fa’ stu ppatto
p’ ’a nera gelusia ca ce spartette?
Tu sustiene ca no; ma io t’ ’o dicette:
mantené nn’ ’o putimmo affatto affatto.

VIII
So’ pronto; ’o ssaccio; o barbaro destino
vo’ ca da st’ uocchie tuoie mme partesse io;
tu te sfastidie ’e mme tené vicino,
ma io tengo pure l’ amor proprio mio…

==>SEGUE
Pìgliate a n’ ato, cchiù bello, cchiù ffino,
e fattillo passà st’ ato gulìo.
Io mme ne spatrio e mme metto ncammino.
Aurora!… Amice!… Aurora, Aurora, addio!…

IX
Vienetenne cu mmico chiano chiano,
malincunia, ca maie nun m’ abbandune;
iammuncenno p’ ’a strata a mano a mano,
e nun guardammo maie nfaccia a nisciuno.

Ca si quaccuno vo’ sapé che ppene
mme porto appriesso a me sera e matina,
nun di’, nun di’ ca nun me vo’ cchiù bene…
E rispunne: Se sente poco buono…
Licenziata.

Figliulelle, ca state dint’ ’e ccase
guardanno ’o cielo e penzanno a quaccosa;
figliule scuitatiélle, arze e schiattuse,
ca ve lagnate c’ ’a fatica pesa,

ascite, ascite, ca d’ ’e rose è ’o mese,
e già se fanno ’e nnèspere senzose:
’e frutte culurite e sapuruse
càrreche stanno ll’ arbere ’e cerase.

Frutte e sciure è ’a campagna. Ascite, ascite!
E mmiez’ a st’ erba fresca, a st’ aria allera,
pazziate, vasàteve, redite!
E cantate, cantate: È primmavera!…

ZINCARESCA

E férmete, rilorgio, nu mumento,
quanto cu ninno mio parlo ccà nnante:
quanto sti ppene meie tutte lle conto:
quanto c’ ’o chianto a ll’ uocchie isso mme sente.
Quanto sti ppene meie tutte lle conto…

Ninno! Io t’ amaie pe chiste ricce nfronte!
Ninno, io t’ amaie pe st’ uocchie tuoie lucente!
Ninno, io nun dormo, e tu nun ne saie niente!
Io mme cunzumo – e tu nne si’ ngnurante!
Ninno, io t’ amaie pe chiste ricce nfronte…

E làssela a chest’ ata, ca s’ avanta
ca dint’ ’e mmane soie te tene strinto
e nun ce sta chi ’a mette pède nnante…
Oi ninno! E famme vencere stu punto!
E làssela a chest’ ata ca s’ avanta…

E sia ludato Dio! Ninno accunzente…
Sona, rilorgio, ca tu suone e io canto!
Sona vintiquatt’ore alleramente,
chesta è ll’ ora ca torna il caro amante!…
Ah, sia ludato Dio! Ninno accunzente!…

scendette sulla Terra lentamente
lo stendettero a terra in piazza Dante
nu centenaro d’ angele
tutte vestute ’e velo –
nce ammuntunaino, dinto, ’e puverielle,
e s’ ’e purtaino ncielo…

………
Figurateve nu poco
sta mappata ca pe ll’ aria
ogne tanto s’ abbuffava,
se sbuffava – e viaggiava
ncopp’ ’o viento – chiena ’e strille,
chiena ’e ggente. – Cchiù de mille!
Figurateve nu poco
che nzalata e c’ ammuina!
Chi chiagneva, chi rereva,
chi alluccava: – I’ mo mm’ affoco! –
Chi cantava – chi chiammava:
– Neh, Totò!… – Peppì’… – Giovà!…
Donn’ Anié! – Don Ferdinà!…
– Mo addó iammo?… – E ba’ nce ’o spia!…
– Chi s’ ’a fatta ’a pippa mia?…
– Prufessó!… – Pronto!… – Addó state?
– Sto cchiù ncoppa… – A voi! Sapete,
abbarate addó sputate!…
– Ma che ghiammo ’int’ ’o pallone?!…
– Pe’, tenisse nu muzzone?…
– Bu! bu! bu!… – Chi è?!… Passa llà!…
– Nun buttà!… – Sode cu ’e mmane!…
– Neh, chiammateve a stu cane!…» –
………
Appena miso pède mparaviso
ll’ angele mmiez’ a ll’ erba ’e na vallata
se fermaino mparanza
e pusaino ’a mappata,
ca pe dduie tre minute se muvette,
ruciuliaie pe terra e, tutto nzieme,
s’ arapette essa stessa. E se sentette
’a voce ’e n’ ommo ca diceva a ll’ ate:
– Uscite, miei signó, simmo arrivate!…

’A tavuliata.

==>SEGUE



MUTIVO ’E PRIMMAVERA

Cardillo,
ca strille,
si siente ca i’ canto
screvenno,
ched’ è, si’ geluso?
Ched’ è, tu sultanto
vuo’ sempe
cantà?

Che buo’? che pretienne?
Mm’ aggarbano
tanto
sti vierze ca scrivo,
ca ’i canto
cuntento,
felice…
– Ma i’ no!…

Ma i’ no! –
tu mme dice
chiagnenno –
Ma i’ no!…

Ma mo che vurrisse?
Vurrisse
– vulanno –
pe st’ aria d’ abbrile
addurosa
purtà pure st’ ata
canzona
amurosa?
Embè, già ch’ è chesto,
te faccio
cuntento…
T’ arapo a caiòla…
Fuiténne!
Va!
Vola!
Te do ’a libbertà!…



MPUNTO ’E CCINCHE D’ ’A MATINA

Mpunto ’e ccinche d’ ’a matina
nn’ ’a sentite – ’a campanella
d’ ’a cchiesiella
’e Donnalbina?
Fa – Ndin, ndon!…

Spanne ’o suono attuorno attuorno,
e a chi dorme va dicenno:
«Gué, scetateve, ca è ghiuorno!»
Ndon, ndin, nda!…

Suono ’e campane!…
Diceno ca tu faie
malincunia…
Ma nun è overo!
Pe chest’ anema mia
allero!

Mpunto ’e sseie passa ’o craparo.
E ll’ acàle ’o mateniero
nu bicchiero
’int’ ’o panaro…
Ndin, ndan, nda!…

Na campana scassatella –
mpunto ’e sette – ’int’ ’o purtone,
sona ncann’ ’a vaccarella…
Ndan, ndan, nda!…
Suono ’e campane!
Diceno ca tu faie
malincunia…

Ma nun è overo!
Pe chest’ anema mia
tu si’ nu suono
allero!

==>SEGUE




’A STRATA

I
’E RROBBE VECCHIE

Panne, purtate ’a tanta e tanta gente,
cammise ricamate e arrepezzate,
ca ncuollo a quacche povero pezzente,
o ncuollo a na cocotta site state;

fazzulette ’e battista, e muccature
viecchie, scuffie ’e nutricce, e barrettine,
giubbe ’e surdate, veste ’e criature,
giacchette, mantesine, e suttanine,

add’ ’o revennetore ’e panne usate
(sott’ a n’angolo ’e muro e mmiez’ ’a via)
ccà v’hanno strascenate e ammuntunate
’o vizio, ’a famma, ’a morte, ’a malatia.

Quanta rumanze ’e quanta e quanta gente!
Ma stu revennetore a stu puntone
nun ’e capisce. Ndifferentamente
scose na cifra, o azzecca nu bottone.


II
’A LEZZIONE

– «Ccellenza, dui centeseme!
Mme moro ’e famma!…» – Appriesso!
– «Mammélla è morta… teseca…
No… no… nfiglianza…» – È ’o stesso.
Iammo, Peppina! – «Pàtemo…» 5
– Iammo! – … «s’è fatto male…»
– Appriesso! – … «Era meccanico…
E mo sta ’int’ ’o spitale…»
– Be’, iate. Revulàteve…
– Viene, Erricù… – Peppina! 10
– Oi ma’?… – Tu e’ ntiso? Pàteto
v’ aspetta ’int’ ’a cantina.
           



III
IRMA
D’ ’a lucanna, aieressera,
mmiez’ ’a via nne fuie cacciata:
mmiez’ ’a via sulagna e nnera
tutt’ ’a notte Irma è restata.

Tutt’ ’a notte ha fatto ’a cana:
sotto e ncoppa ha cammenato
na serata sana sana.
E nisciuno s’è accustato…

Irma: nomme furastiero:
ma se chiamma Peppenella:
fuie ngannata ’a nu furiero,
e mo… campa… (puverella!)

Passa gente. E fatto iuorno.
«Psst! Siente!…» E rire… e chiamma..
C’ ha dda fa’ si ha perzo ’o scuorno?
C’ ha dda fa’? Se more ’e famma.

Mmerz’ ’e nnove s’ ha mangiata
na fresella nfosa a ll’ acqua.
E mo, comme a na mappata,
sta llà nterra. E dorme, stracqua.

IV
STASERA…
Peppe s’è mmiso cu na luciana:
(chi sa stu fatto comme fenarrà!)
’o tiempo passa, e mo già è na semmana…
Embè… Nunzia stasera ’a va a truvà!

Lle vo’ di’: – Me scusate e perdunate,
Peppe ’o ssapite c’ appartiene a mme?
Che se dice? ’O lassate? ’Un ’o lassate?… –
Dice chell’ata: – E tu ’a dó iesce, oi ne’?! –

Nunzia mette na mana dint’ ’a sacca,
lle corre ncuollo: – Ah, piezz’ ’e nfama, teh!… –
E c’ ’o rasulo ammanecato ’a ntacca…
E na folla ’a secùta: – Arresta!… Arrè!… –

A chesto sta penzanno. Int’ ’e ddenocchie
sente comm’ a nu triemmolo passà…
Ccà vede ’o sango… E, nere, nnanz’a ll’uocchie,
’e ccancelle d’ ’o carcere, cchiù llà…


’O Patre Eterno vutaie ll’ uocchie attuorno,
scanzaie nu tramme, se mettette ’a lente,
e proprio come un semprice murtale
(ma però con accèndo forastiero),
dice: – Sai, caro, ma l’ è mica male
questa vostra città! Mi fa piacere
assai di rivederla:
ci mancavo dal secolo passato…
Ma proprio ha molto, molto migliorato!

La statua qui davante
cosa l’ è? L’ Aligherio?…
– No, – dicette san Pietro – questo è Dante…
Grand’ uomo!… E questa sulla mano destra
è la famosa chiesa ’e San Michele:
quello è il Liceo Vittorio Emmanuele:
più sopra c’ è il Museo. Questo, rimpetto,
è il caffè di Diodati.
Ce vulimmo assettà diece minute?
– Entriamo pure. – E ’o Signore trasette
in quelle belle sale ornamentate,
e san Pietro dicette al cammariere:
– Favorite due mezze limonate. –

Erano ’e ddiece e mmeza
e ’a iurnata era bella. A mille a mille
passiàveno ’e ggente
pe mmiez’ ’a strata e ncopp’ ’e marciappiede;
e vedive mmiscate
femmene, uommene, gruosse e piccerille,
nutricce, serve, priévete e surdate…
– Oh, qual vista gentile!
(dicette ’o Pateterno
pusanno ’o cucchiarino
ma com’ è che si dice,
caro quel mio Pierino,
che la Terra è infelice?
Ma guarda, guarda un po’ che movimento,
che scena pittoresca e che allegria!
Via, son proprio contento!…
Be’?… Pietro?… E parla, vecchio brontolone!
Non sei della mia stessa opinione?

==>SEGUE




POESIE DI SALVATORE DI GIACOMO  - Parte Quinta
CALASCIUNATE

I
Quanto si’ bella, e Dio te benedica!
Mme pare ’a primmuggeneta ’e nu Duca!
Sfusata comm’ ’o fuso e comm’ ’a spica!
Tennera e ghianca comme a na lattuca!
Tiene ’a stessa vetella ’e na furmica!
E tiene ’a vocca comm’ ’a cruna ’e n’ aco!…


II
Crèzia, e nun me tuccà, ca io stongo ardenno!
Ferma, e nun t’ accustà si no t’ allummo!
E si puorte esca ncuollo fuïtenne!
E si mme vuo’ parlà, nfúnnete primma!
O accostete, sciusciannote sciuscianno,
cu chisto ventaglietto tutte penne…


III
’E tutto stu servì ca ll’ aggio fatto,
neh, vedite e che premio ca mme spetta!
M’ha mannato na lettera a ntrasatto,
cun dicenno: «È sepordo il nostro affetto
E cun dicenno: «Lettere e ritratte
’e bbòglio n’ ata vota, in tutta fretta!…»


IV
Dormo ’a notte, e durmenno io penzo tanto
ca mm’ addormo accussì, mpruvvisamente:
e si mme sonno ca te tengo accanto
faccio nu suonno felice e cuntento…
Po’, a poco a poco, mme sceto nfra tanto,
me voto attuorno – ma nun veco niente…
E ’int’ ’o silenzio me faccio nu chianto,
e cu stu stesso chianto mm’ addurmento…

Una rara immagine di Salvatore Di Giacomo insieme agli amici fra cui spicca un giovanissimo Eduardo De Filippo, che nel 1948 sarà l'interprete principale (Michele Boccadifuoco) nella rappresentazione teatrale di "Assunta Spina" .
Sona, sona a Donnalbina
campanella – d’ ’a cchiesiella!
Se mmarita
Carulina!
Ohè! Ndan, mbón!…

Parrucchià, si ’a benedice,
benedice pure a me!
Io mm’ ’a sposo! Io so’ felice!…
Ohè!
Ndan!…
Ndan!…
X - ARIETTE E CANZONE NOVE
Seguito    ==>