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Salvatore
Di Giacomo

VIII

ARIETTE E SUNETTE
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SEGUITO



MARIA! MARIA!

– Oi buono giuvinotto,
ca state a’ st’ ata parte,
chest’ acqua ca ce sparte
vurria, vurria passà…

– E pecché no? Surtanto
s’ io mo, pe vuie, ce traso,
vurria… vurria nu vaso:
nu vaso, e niente cchiù…

– Vuie ve chiammate? – Affonzo.
E vuie, bellezza mia? –
Dice: – Maria… – Maria…
ll’ eco risponne e va…

E va p’ arbere e ffronne
currenno, eco ntricante,
a ll’ aria, a ll’ acqua, a ’e ppiante
stu nomme a cunfidà.

Passaie: mm’ ’a pigliaie mbraccio,
e, strente e ncruciate,
’e bbraccia soie sbracciate
se ncatenaino a me.

Fresca era ll’ acqua chiara,
e verde ’e ffrasche attuorno,
rossa Maria p’ ’o scuorno,
e io lento a cammenà…

Maria! Maria!… Surtanto
ll’ eco mo mme risponne:
trèmmeno ancora ’e ffronne
e ll’ aria attuorno a me.

E a mme me pare ancora,
dint’ a stu specchio ’e ll’ onne,
ll’ oro d’ ’e trezze ionne,
ll’ uocchie ’e Maria vedé…

VURRIA SCRIVERE NU LIBBRO

Vurria scrivere nu libbro
addó stessero stampate
quante nzirie aggio pigliate,
Carulina mia, pe tte!

E, liggennelo liggenno,
vurria di’: «Ma te n’ adduone
ca cchiù scemo ’e nu guaglione
tu si’ stato anfino a mo?

Vide ccà quanta suspire,
e che lacreme cucente,
che parole e giuramente
te si’ fatto scurchiglià!

Liégge! Mpàrate! E, si pienze
n’ ata vota a Carulina,
tiene a mmente ’a medicina,
vota fuoglio… e lassa ’a sta’!»

Vurria scrivere stu libbro!
Ll’ aggio pure accumminciato,
ma però mme so’ fermato,
e cchiù nnanze nun pozz’ i’!

Neh, dicite pe na cosa,
sotto ’a penna che mme vene?
«Carulì! Te voglio bene!
Mme vuo’ bene, Carulì?…»

Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Nota bio-bibliografica di Salvatore Di Giacomo
_________

a cura di
Annalisa Castellitti
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"Nel giornalismo io sono non uno scrittore, ma uno scrivano. La mia fissazione è questa, che Napoli è una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato ai peggiori". È lo stesso Salvatore Di Giacomo, nato a Napoli il 12 marzo 1860, a tracciare il suo profilo di poeta e giornalista in una Pagina autobiografica apparsa nel 1886 sulla rivista settimanale napoletana L'Occhialetto di Vincenzo Fornaio e Tommaso De Vivo. Egli racconta di aver abbandonato gli studi di medicina, quella "cantina dei cadaveri" destinati ad uno "spettacolo tristemente comico", in seguito ad una lezione di anatomia e ad un inquietante episodio che segnò definitivamente il suo allontanamento dall'Università:
Al meglio della lezione, uscii dalla sala. Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati. Il bidello scivolò, la tinozza - Dio mio! - la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a' miei piedi! […] Quell'inserviente, dalla faccia butterata e cinica, dall'aria insolente, dalla voce sempre rauca, com'egli era sempre oscenamente avvinazzato, si chiamava Ferdinando. Per la faccia sua, cincischiata a quel modo, i compagni lo chiamavano, napoletanamente, Setaccio. Io devo la mia salvazione a Setaccio, perché da quel giorno la cantina dei cadaveri non mi vide più e nemmeno l'Università, dove compivo il terzo anno di medicina.
Dopodiché iniziò una collaborazione giornalistica con il Corriere di Napoli, dove c'era allora Martin Cafiero mentre Federico Verdinois curava la famosa "parte letteraria": "Nel Corriere - continua - principai a scrivere alcune novelle di genere tedesco, che, se puzzavano di birra, non grondavano, però, dell'onor dei martiri e del sangue degli amanti. Quelle novelle piacquero, e l'aver creduto, tanto il Cafiero quanto il Verdinois, che io le copiassi da qualche libro tedesco, mi decise, anzi mi costrinse a scriverne molte altre. Dopo tre o quattro mesi, eccomi diventato ordinario collaboratore al Corriere, insieme con Roberto Bracco e Peppino Mezzanotte. In quel tempo tutti e tre scrivevano novelle, ci volevamo un gran bene e ci stimavamo assai".
La sua attività di CRONISTA continuò presso altri quotidiani e note riviste dell'epoca, tra cui il giornale Pro Patria, la Gazzetta letteraria di Vittorio Bersezio ed infine il Pungolo, dove capitò "fra ottimi amici, con un direttore che è la più franca e onesta e cordiale persona che abbia conosciuta". Negli anni della sua permanenza al Pungolo, la "città disgraziata" nella quale l'autore svolse il suo ruolo di giornalista fu segnata nel 1884 dal tragico evento del colera, al quale seguì la cosiddetta opera di "risanamento", il cui programma è riassumibile nella celebre frase del presidente del Consiglio di allora, Agostino Depretis: "Bisogna sventrare Napoli". In tale contesto, segnato dalla perdita del padre a causa dell'epidemia colerica, Di Giacomo, pur avendo sempre ignorato -  come egli stesso afferma nella citata pagina autobiografica - il "vocabolario politico", scrisse venti sonetti intitolati 'O funneco verde (Napoli, Pierro, 1886) sul fenomeno dello sventramento urbano che stava mutando l'aspetto della sua città. Significativo fu, però, il suo incontro con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, i quali lo legarono "con vantaggiosi contratti prima ai giornali romani Capitan Fracassa, Cronaca Bizantina e Corriere di Roma e poi al Corriere di Napoli, dove l'autore Di Giacomo si occupò prevalentemente di cronaca e cronaca giudiziaria con lo pseudonimo Il Paglietta, il quotidiano che i due fondarono nel 1888 e diressero fino al 1892, quando lo lasciarono per creare Il Mattino". Ma scrisse anche di arte, firmandosi col proprio nome o con lo pseudonimo di "Salvador", di eventi mondani, quando sostituì la Serao, siglandosi "Snob" e "Vice", di cronaca nera e di cronaca varia.
La quotidianità del lavoro giornalistico lo aveva portato a contatto con la NAPOLI dei vicoli, quella più tormentata e vera, in un ambiente che lui, piccolo borghese, non avrebbe mai frequentato così da vicino, registrandone giorno per giorno con la penna e con la macchina fotografica le vicende umane che lo impressionavano maggiormente. Oggetto della sua osservazione del reale, che si riflette in una vera e propria posizione "sociologica" rispetto alla cultura cittadina, è lo spaccato di vita della plebe, caro ai topoi della letteratura verista: "Quello di Di Giacomo con la sua città […] è un rapporto d'amore, languidamente problematico. Il giornalista si muove nelle strade, nelle piazze della sua città guardando, spesso non capendo profondamente, ma intuendo, con lo slancio umanitario ed ispirato che gli apparteneva, un mondo convulso ed infelice che si agita dietro il facile folklore additato dai viaggiatori del secolo precedente. […] Il suo modo di concepire la napoletaneità […] è un tentativo di modificare l'immagine superficiale e scontata di una Napoli che si moverebbe soltanto dietro un cliché consunto, un canovaccio che prevederebbe sempre gli stessi gesti e le stesse battute. Per Di Giacomo, giornalista con una sensibilità di poeta, Napoli è invece un calderone di vita, di sofferenze, di fatti a volte incomprensibili ma sempre profondamente autentici anche nella loro gestualità teatrale […]".
Successivamente Salvatore Di Giacomo abbandonò la vita di redazione, amata ed odiata allo stesso tempo, per passare alla carriera di BIBLIOTECARIO, che svolse per circa quarant'anni, prima alla Universitaria, dal biennio 1894-1896 in poi, e poi alla sezione Lucchesi-Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli, dove dal 1903 ottenne la responsabilità organizzativa e successivamente la nomina di direttore. Tuttavia "qualche cosa mancava sempre alla sua inquietudine spirituale", quella serenità dello spirito che nemmeno l'arrivo dell'amore per una donna molto più giovane di lui, che poi sposò nel febbraio del 1916 dopo un tormentato fidanzamento durato circa undici anni, riuscì ad appagare. Alla primogenita del magistrato Antonio Avigliano, ELISA, che Di Giacomo conobbe nell'estate del 1905 quando la ventiseienne si recò dal poeta quarantacinquenne per attingere notizie dirette per la sua tesi di laurea, incentrata proprio sulla poesia digiacomiana, furono scritte numerose lettere, dalle quali si evince la personalità intima del poeta, acceso da una folle passione ma, nel contempo, travagliato da una cupa gelosia. Queste lettere "mettono in chiara luce il profilo psicologico, estremamente "sensibile", per non dire neuropatico, dello scrittore e la sua dedizione assoluta all'arte e alla poesia", che sembrava amare più dell'amore stesso per la sua donna, quella donna che egli lascerà sola negli ultimi anni della propria vita, durante i quali fu colpito da una grave malattia che lo portò alla morte nell'aprile del 1934, cinque anni dopo la sua nomina come Accademico d'Italia.
Nel 1889 Di Giacomo, non ancora sposato, iniziò a frequentare la casa di BENEDETTO CROCE, con il quale ebbe "rapporti vari e variabili, secondo i rispettivi umori e le rispettive concezioni della vita, secondo la natura degli studi e delle attività pratiche connesse, a cui l'uno e l'altro si andavano via via dedicando: avvicinamento, per esempio, quando entrambi si muovevano sul terreno della minore storia napoletana, Croce attendendo ai Teatri di Napoli, Di Giacomo alla Cronaca del San Carlino, e i due prendendosi cura della nuova rivista Napoli mobilissima; distacchi più o meno prolungati quando il Croce si astraeva nei grossi problemi filosofici che si erano affacciati alla sua mente, o apriva la breve parentesi ministeriale, e Di Giacomo […] si buttava senza respiro nella produzione canzoniera".
Una parte della critica ha affermato che la vasta e varia opera digiacomiana "ha il suo segno unitario e il suo sigillo nella poesia", la quale si snoda tra "una fase più propriamente veristica e narrativa" ed "un'altra più intimamente fantastica e sentimentale". Nella veste di cantore e POETA di Napoli, Di Giacomo si è "immedesimato nella vita, nella storia, nella lingua e nel dialetto della sua città, fino a diventarne un simbolo e un emblema" universale. L'inizio della sua produzione in versi fu precoce (Sonetti, Tocco di Napoli, 1884) e risale all'inizio degli anni Ottanta dell'Ottocento, quando iniziarono ad apparire sui giornali e periodici napoletani delle sue liriche dialettali o canzoni, "con un'indistinzione sostanziale di cui occorre far gran conto", come annota Antonio Palermo nel saggio che ha dedicato all'autore nel suo volume Da Mastriani a Viviani. Tra i suoi celebri componimenti si ricordano il poemetto 'O munasterio (1887), Zi' munacella (1888), ed ancora Pianefforte 'e notte, Marzo e 'Na tavernella 'ngoppa Antignano. Oltre alla sua prima canzone di successo, Uocchie de suonno (1882), inizialmente con la musica di Francesco Andreatini e poi due anni dopo con quella di Mario Costa, nella cui versione il nome viene cambiato in Napulitanata, i suoi brani furono musicati da validi artisti, quali lo stesso Mario Costa per la celebre Era de maggio (1885), Enrico De Leva che rese famosa 'E spingole frangese (1888), Eduardo Di Capua per 'A retirata d' 'e marenare (1890), Francesco Paolo Tosti per la melodia Marechiare, che, scritta nel 1885, ebbe un successo internazionale e fu tradotta persino in latino. Non vanno dimenticati, poi, i libri di prose narrative Minuetto settecentesco (Napoli, Pierro, 1883), Nennella (Milano, Quadrio, 1884), Mattinate napoletane (Napoli, Casa Ed. Art. Let., 1886) e Rosa Bellavista ("Napoli letteraria", 1886).
Nella produzione digiacomiana, all'attività poetica (dal 1882 in poi) e novellistica (dal 1877 in poi) si affianca quella teatrale (iniziata nel 1888-89), che, pur essendo posteriore di circa un decennio rispetto alle prime due, è comunque strettamente legata ad entrambe da un rapporto di derivazione o di influenza tematico. A dimostrarlo sono i DRAMMI A "San Francisco" (1897), che è una riduzione teatrale dell'omonima collana di sette sonetti del 1895, 'O voto (1889), l'atto unico 'O mese mariano (1900) e i due atti Assunta Spina (che debuttò al Teatro Nuovo di Napoli, 27 marzo 1909), i quali sono la versione scenica delle novelle Il voto (1888), Senza vederlo (1884) e Assunta Spina (1888). L'interesse di Di Giacomo per i teatro si manifesta a priori nella sua revisione del linguaggio napoletano della commedia di Achille Torelli 'O buono marito fa 'a bona mugliera (Fenice di Napoli, 1886). Nel 1886-1887 si colloca la commedia lirica in tre atti La Fiera, con musica di Nicola D'Arienzo e versi digiacomiani derivati dal testo di Alberto Nota (Teatro Nuovo di Napoli, 1 marzo 1887), mentre al 1887-1888 risale la sua versione in dialetto dei drammi Santa Lucia e A bascio puorto di Goffredo Cognetti, il quale sceneggiò il dramma Mala vita (Teatro Nuovo di Napoli, 27 aprile 1889) ricavandolo a sua volta dalla novella digiacomiana Il voto.
Sull'importanza delle trasformazioni che subiscono i testi digiacomiani, nel passaggio dalle stesure narrative e liriche a quelle drammaturgiche, si è soffermato ancora una volta Antonio Palermo nel saggio sopraccitato, sostenendo che l'"esempio apparentemente più chiaro di una doppia partita con se stesso, Di Giacomo lo fornisce con il suo teatro", ma sarebbe "semplicistico e inesatto parlare di un compito puramente divulgativo" assolto dal teatro digiacomiano, poiché "facendo da tramite essenziale per il rapporto con il pubblico fu proprio il teatro a costringerlo all'invenzione, come prova l'assai tarda (1909) realizzazione scenica di Assunta Spina".
Di Giacomo dimostrò anche un interesse teorico per le vicende storiche dei teatri napoletani, che confluì nelle singolari CRONACHE raccolte nei volumi Napoli, figure e paesi (Napoli, Perrella, 1909) e Luci ed ombre napoletane (Napoli, Perrella, 1914). Ma il forte senso del teatro che l'autore possedeva si avverte, in particolare, nella monografia intitolata Storia del teatro San Carlino del 1918 e negli articoli Teatro dialettale ("Corriere di Napoli", 6 giugno 1898), Pel teatro dialettale ("Fortunio, 16 ottobre 1898") e Per un repertorio dialettale ("Il teatro moderno", n. 7, 5 luglio 1904), in cui, rispondendo all'articolo di Eduardo Scarpetta apparso nel numero precedente dello stesso giornale ("Il teatro moderno", n. 6, 19 giugno 1904), Di Giacomo sostenne l'impossibilità della formazione di un teatro popolare napoletano: "Voi dunque credete o volete far credere ch'io tenti appunto la composizione d'un teatro drammatico stabile napoletano? Siete in errore. Io desidero semplicemente scrivere - e incitare altri perchè pur le scriva - delle commedie napoletane: di sentimento, di ambiente, di dialetto napoletani. Non soltanto ma - delle commedie in cui non esclusivamente la tragicità ma si rattrovi pur tanta altra e svariata espressione della nostra fisionomia locale e teatrabile". Intervennero nella polemica, sviluppatasi sulle pagine del Teatro moderno, altri critici e letterati napoletani, tra cui Ferdinando Russo (numero del 25 agosto) e Roberto Bracco (numero del 10 ottobre). A questo gruppi di articoli digiacomiani, si accosta quello intitolato Il "San Ferdinando" (Napoli d'oggi, Pierro, 1900, pp. 419-438), riguardo al teatro popolare di Federico Stella. Salvatore Di Giacomo, che "rimane il più autorevole propulsore della nostra scena vernacolare",[18] attraverso i suoi "personaggi", "figure dalla doppia esistenza, quella di semplici persone, di napoletani immersi nella gran folla della grande metropoli, e quella di attori, che continuano ad essere altri da quello che sono, un poco confondendo di continuo le due esistenze che in fondo hanno confini in identificabili,  […] vive tutto l'universo napoletano nelle sue ascese e nelle sue decadenze".
L'elemento caratterizzante l'attività teatrale, che si apre quindi con 'O voto, e che distingue i drammi dalle novelle è senza dubbio l'uso DIALETTO, impiegato d'altronde nei testi lirici, "in cui la visione della realtà locale si combina con le tendenze della poesia europea contemporanea". Se nelle seconde Di Giacomo "utilizza la lingua letteraria, se pur avvicinata alla lingua parlata, che gli sembra lo strumento naturale per raccontare le storie dei suoi personaggi, nei drammi, come nelle poesie e nelle canzoni, ritiene necessario usare il dialetto, che è il linguaggio del teatro popolare napoletano, al quale egli si rifà, anche se avverte il bisogno di conferirgli una nuova dignità d'arte". Il suo teatro si ricollega, dunque, alla storia del teatro popolare napoletano, ma l'uso del dialetto, che apparentemente contraddice il suo ideale di "teatro d'arte" ispirato alla verità, al decoro, alla misura linguistica ed artistica, fu in un certo senso "una scelta obbligata, come era stata per le poesie e per le canzoni, perché era la lingua del popolo che Di Giacomo portava sulla scena e di cui rappresentava la vita. E se questo linguaggio non era il "dialetto letterario", al quale inclinava il Torelli, ma il "dialetto parlato", in realtà questo dialetto era regolarizzato nella grammatica e nella sintassi, scelto e sorvegliato nel lessico e in definitiva rimodellato sulla lingua letteraria". Sull'intera arte di Di Giacomo "si stende - ha dichiarato Toni Iermano - un velo di malinconia che la indirizza verso rotte artistiche non classificabili secondo definizioni rigide. D'altronde Di Giacomo non si era voluto ascrivere al mondo dei letterati napoletani bensì a quello pittorico e musicale".
Alla fine di questo excursus sulla poliedrica produzione artistica di Salvatore Di Giacomo, impegnato su diversi versanti in qualità di giornalista, bibliotecario, erudito, traduttore, fotografo, autore di racconti, poesie, canzoni nonché di drammi e copioni cinematografici, sembra interessante ricordare l'atteggiamento dell'autore nei confronti delle severe critiche lanciate contro il suo teatro da parte dell'ambiente teatrale sia napoletano che nazionale. La sua posizione è ben descritta nella parte conclusiva della Pagina autobiografica:
In quanto a quello che io scrivo "per me", voi potete trovarlo ne' miei libri. L' "io" ho cercato di sempre accamparvelo: esso vibra per nevrotica necessità in tutte le cose mie, e, per quanto io m'adoperi a tenerlo a bada, quello riesce in mezzo, come si dice, pel rotto della cuffia. Per un certo mio innato vizio di spiritualità è accaduto, qualche volta, che la critica materialistica m'abbia smembrato, ed i molti pezzi della mia forma sentimentale abbia appeso, palpitanti, alla sua beccheria forestiera. Io non m'irrito, né m'addoloro […]. Ogni critico sceglie le sue vittime; ognuna di coteste guardie di finanza dell'arte esige un dazio alla barriera. Si può perfino sopportarla questa vecchia signora petulante e zitellona. Ma, quando si parla di arte e di gioventù, io non so non amare i giovani che danno del loro cuore e della lor mente, coloro che hanno per innamorata l'arte e per grammatica una serenata!...
In tali parole si intravede chiaramente l'amore dell'autore verso la propria arte, quell'arte che trae dalla realtà la finzione scenica e fa della stessa scena il palcoscenico della vita, in cui ad indossare le maschere siamo tutti noi, personaggi di un teatro che, "disgraziatamente, non è mai la verità".
L'interesse per l'orizzonte digiacomiano si è risvegliato in occasione del cinquantenario della morte dello scrittore, nel 1984, e successivamente nel più recente centocinquantenario della sua nascita, celebrato a Napoli il 10 marzo 2010 durante il Convegno Ritorna Di Giacomo? Bilancio e prospettive di una storia a 150 anni dalla nascita (1860-2010), promosso dall'Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Dipartimento di Filologia Moderna della Federico II, diretto dal professore Pasquale Sabbatino. Tuttavia, queste celebrazioni non si sono concretizzate nella realizzazione di un'EDIZIONE CRITICA e integrale delle opere dello scrittore napoletano, la maggior parte delle quali sono conservate attualmente nella Raccolta Di Giacomo sita nella sezione napoletana Lucchesi-Palli della Nazionale e catalogate sul sito Archivi Teatro Napoli nella sezione Bibliografia digiacomiana (a cura di Antonio Laurino).
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CANZONA ’E MAGGIO

Si ’e maggio adduruso
murenno sta ’o mese,
pecché cchiù scurtese
te faie, neh Rusì?

Si sparpeta ’a gente,
si rideno ’e ccose,
si ’addore d’ ’e rrose
ce fa scevulì,

pecché tu surtanto
te miette ’a spartata,
cchiù amara, cchiù ngrata
facennote mo?

E tu si’ de carne?!…
Chi sa a che penzanno
tu faie tutto ll’ anno
schiattuso passà.

C’ ’o vierno si ffredda,
nun parle, nun ride:
ma mo? Mo nun vide
ca vene ll’ està?

Stu cielo celeste,
stu sciato d’ ’o viento,
sta luna d’ argiento
te parleno o no?

Si a primma matina
t’ affacce ’a fenesta,
nun siente ogni testa
cchiù forte addurà?

Si suonno nun piglie,
si smanie ’int’ ’o lietto,
si sbattere mpietto
na nziria te fa,

ricordete, Rosa,
ca tu pure ’o ttiene
stu sango ’int’ ’e vvene
ca tengo pur’ i’!

==>SEGUE
C’ ammore cchiù forte
mo stregne ’a catena,
ca è ll’ aria c’ ’o mena,
ca è ’o tiempo c’ ’o vo’!…



…E S’ ANNASCONNE

A ll’acqua chiara e ffresca,
a ll’ acqua ’e tre funtane
mme so’ lavato ’e mmane.
E mme l’ aggio asciuttate
’e n’ arbero a li fronne,
addó canta nu miérulo cianciuso
e s’ annasconne.

Miérulo affurtunato,
viato a chi te sente!
Sta voce, alleramente,
sceta ’o silenzio attuorno,
e tremmeno sti ffronne
addó canta l’ auciello apprettatore
e s’ annasconne.

Pur’ io cantavo: io pure.
cuntenta e affurtunata,
tutta ’a santa iurnata.
– St’ uocchie! Ah, quanto so’ belle!
E chesti trezze ionne!
– mme dicette uno. – E sta faccia che rire
e s’ annasconne! –

Mo chiagneno cu mmico
l’ arbere, l’ erba, ’e ffronne,
e ll’ eco me risponne.
Cchiù sta faccia nun rire,
ma ’e lacreme se nfonne:
dint a sti mmane meie rossa se nzerra
e s’ annasconne…




’O CACCIATORE

Stanno nu cacciatore
na vota ’int’ a nu bbosco,
’A miez’ ’e ffrasche Ammore
sentette suspirà.

– Oh caspeta! – dicette –
tu vi’ che bell’ auciello! –
Ngrillaie, sparaie, vedette
doie scelle sparpetà.

Cadette Ammore. E, stiso,
rummane muorto nterra…
Cuóveto mpietto, acciso,
è muorto Ammore, aiemmé!…

E a ll’ èvera se mmesca
sango, c’ a goccia a goccia,
I’ èvera verde e ffresca
fa rossa addeventà…

Se sente nu lamiento,
trèmmeno ’e ffronne secche,
e se dispera ’o viento
ca passa e se ne va.

Torna p’ ’a via siscanno
nfra tanto ’o cacciatore;
penza c’ ’a fine ’e ll’ anno
Rita s’ ha dda spusà.

Pe scrupolo ’e cuscienza
s’ ha dda spusà pe forza:
che s’ ha dda fa’? Pacienza:
so’ guaie! che s’ ha dda fa’?

…E si nun s’ ’a spusasse?
Uh, puverella!… More…
Che fa?… S’ ’a scorda, ’a lasse,
e nun ce penza cchiù…
VENTARIELLO

Aggarbato, frisco e ffino
d’ ’a matina ’o ventariello
fa, ogni ghiuorno, ’e stu ciardino
tutte ’e ffronne suspirà.

Chiacchiarea, quase annascosta
mmiez’ a ll’ ombra, na funtana,
ca, sapenno ’a storia nosta,
’A vo’ a ll’ arbere cuntà.

«Bene mio! – diceno ’e ffronne –
Nientemeno accussì è nfama?»
E cu ll’ acqua, ca risponne,
fanno nzieme uno ciu ciù…

Tanto ch’ io, ca guardo attuorno
e passeo mmiez’ a sti ffrasche,
mme murtifico p’ ’o scuorno,
e mme mbroglio a cammenà…

MARZO

Marzo: nu poco chiove
e n’ ato ppoco stracqua:
torna a chiovere, schiove,
ride ’o sole cu ll’acqua.

Mo nu cielo celeste,
mo n’ aria cupa e nera:
mo d’ ’o vierno ’e tempeste,
mo n’ aria ’e primmavera.

N’ auciello freddigliuso
aspetta ch’ esce ’o sole:
ncopp’ ’o tturreno nfuso
suspireno ’e vviole…

Catarì!… Che buo’ cchiù?
Ntiénneme, core mio!
Marzo, tu ’o ssaie, si’ tu,
e st’ auciello songo io.




DIMANNA E RISPOSTA

A stu core io dico: «Siente,
dimme, dimme ’a verità:
so’ felice overamente,
o aggia sempe dubbità?»

E risponne isso e mme dice:
«Tu ’a vuo’ bene? E si ’a vuo’ bene
si’ felice, si’ felice,
t’ ’o dico io, ce puo’ fidà.»

Ah, che barbara risposta,
core mio, mme daie tu stesso!
Pare quase fatta apposta
pe mme fa’ cchiù assaie paté!

Ma te pare c’ addimanno
si songo io c’ ’a voglio bene?
Nun ’o ssaie? Ma tutte ’o ssanno:
nun è cchiù na nuvità.

Quanno ncopp’ a sti ddenocchie
assettata e strenta ’a tengo,
quanno ’a guardo dint’ a ll’ uocchie,
quanno ’a sento suspirà,

tanno, tanno mme trattene
nu penziero ardente e amaro,
e si overo mme vo’ bene
io vurria, tanno, sapé!

E stu core mme risponne:
«Figlio mio, che t’ aggia di’?
’E ssaie ll’ onne? E comm’ a ll’ onne
songo ’e ffemmene purzì.

Ca te struie mmiez’ a sti ppéne
io t’ ’o pozzo assicurà;
ma ca chella te vo’ bene…
C’aggia di’?… Chi sa… Chi sa…»

PE SUPERBIA

Fora ’a fenesta aieressera stive,
e io pe superbia nun te salutaie…
Tu mme mannaste a ddi’ ca mme vulive,
e io pe ddispietto cchiù mme ricusaie…

Mme venettero a ddi’ ca tu chiagnive,
ma sti llacreme toie, va, ’e ssaccio assaie!
Statte cuntenta, ca cuntenta stive,
penza ca si cchiù ffaie cchiù peggio faie.

Campagna fresca, e verde muntagnella,
stelle lucente assaie cchiù d’ ’e cannele,
nzignàteme na femmena cchiù bella
e cchiù fedele! Sì: bella e fedele!

«Cchiù belle – ’a muntagnella mme risponne –
nun ce ne stanno ’e chesta ca tu saie:
p’ ’a mmidia ’a stessa luna s’ annasconne,
’o sole stesso se n’ annammuraie».

«Torna! – mme dice ll’ acqua che cammina
pe mmiez’ a ll’ erva e tene d’ oro ll’ onne –
Torna; ch’ è bella, è geniale, è ffina…
Torna» mme dice, e passa e ss’ annasconne…

Povero core mio, povero core,
comm’ ampresso te faie bell’ e capace!
Dopo c’ avesse avé n’ ato dulore
voglio fa’ pace! Sì: voglio fa’ pace!…
’E RIMPETTO

L’ ato iuorno c’ ’o sciato facette
d’ ’a fenesta na lastra appannà;
e c’ ’a ponta d’ ’o dito screvette:
«Ah, che bene ve voglio, ’onn’ Amà!»

Doppo scritto, ’onn’ Amà, v’ assicuro,
mme sentette ’int’ ’e gamme chïà,
e appuiato restaie nfaccia ’o muro,
senza manco curaggio ’e parlà…

Quanno maie mm’era tanto azzardato?
Quanno maie mm’ era ardito accussì?
Si cu vuie nu scurnuso c’ è stato,
mo nce vo’, stu scurnuso songo i’.

Tutto nzieme nu zumpo facette…
Me parette, v’ ’o giuro, ’e murì!…
Tu… screvive!… E tremmanno, io liggette
ncopp’ ’a lastra: «E pur’ io, donn’ Errì!…»
DA ’O QUARTO PIANO

Giacché te cucche ampresso
pe te scetà matina,
e st’ aria fresca e fina
t’ affacce a risciatà;

giacché chi sa che suonne
te suonne ancora, e, spierte,
tu gire st’ uocchie apierte
chi sa penzanno a che;

dimme, Adelà, mme vide,
a st’ aria fresca e fina,
passà quacche matina,
e ’a parta toia guardà?

C’ ’o càmmese celeste
ca te se sponta mpietto
e, quase pe dispietto,
nun se vo’ maie nzerrà:

c’ ’o pède piccerillo
ca, ’int’ ’a cazetta nera,
p’ ’e fierre d’ ’a ringhiera
mo dice sì mo no;

ca tu staie quase ncielo
ncopp’ a stu quarto piano,
che fa? Pure ’a luntano
te veco, e dico: «’a i’ llà!»

Ma mo (scuse, io so’ chiaro),
nu’ cchiù comm’ a na vota
sbatte stu core e avota
sta capa mia pe te!

Passo, chi ’o nnega? È overo;
ma si te tengo mente
so’ friddo e indifferente,
comme si’ fredda tu.

Chest’ è! Nziemme a sti fronne
ca fa cadé l’ autunno,
quant’ ate cose a o’ munno
pe forza hanna cadé!
==>SEGUE
Dunque? Giacché cchiù ampresso
te suse ogne matina,
e st’ aria fresca e fina
te miette a risciatà;

giacché tutto è fenuto,
giacché, si ce vedimmo,
nun ce sbullimmo e ardimmo
comm’ a na vota cchiù,

statte affacciata! E resta
cu st’ aria indifferente:
passeno tanta gente,
passo pur’ io. Che fa?



NUMMERO VINTUNO
Fa bene, avarraie bene!

I
– Suora ma’?… – Nu silenzio. – Suora ma’?… –
N’ ato silenzio. Nu lamiento. È ll’ una:
’A sala d’ ’o spitale ’a Trenità
dorme, e ce trase p’ ’e ffeneste ’a luna.

Sciúlia ncopp’ ’e ccuperte ’e lana bruna
e se ce stenne anfi’ addó pò arrivà:
ne rummane ’int’ a ll’ ombra quaccheduna,
spanne ’a malincunia doce ’e ll’ està…

Scappata a ssuonno ’a moneca francese
dorme e nun sente. E se lamenta, e ’a chiamma
nu povero surdato calavrese

cu n’ uperazzione ’int’ a na gamma.
Sona ll’ una e nu quarto… ’a voce, stracqua,
torna a ddì: – Suora ma’!… Nu surzo d’acqua!… –

II
N’ ata capa se sose a nu cuscino
e se vota pe sèntere e guardà:
Sponta na ponta ianca ’e barrettino,
cchiù ghianca ’a luna facce fronte ’a fa.

– Chi chiamma? – Io!… – Chi? – Cosenza
Birnardino…
– Vuo’ vèvere? – Sì, sì!… Ppi carità! –
Scenne ambéttola n’ ombra ’a nu lettino,
na tossa secca se sente tussà…

– Acqua!… – Mo!… Nu mumento… – E chiano chiano,
p’ ’o stanzone s’ abbìa st’ ato surdato,
cu nu bucale chino d’ acqua mmano.

Tosse e s’ accosta. ’O povero malato
fa nu sforzo, se ggira e finalmente
s’ assetta mmiez’ ’o lietto e ’o tene mente.
III
È nummero vintuno: è nu surdato
d’ ’o sesto riggimento ’artigliaria:
stette a ’e manovre, cadette malato
e a Napule turnaie c’ ’a purmunia.

Perdette ’a mamma ’a piccerillo; ’o pato,
nu cammurrista, ’a reto ’a Cunciaria
stutaie na guardia: ascette: fuie mbarcato,
se’ mise doppo, p’ ’a Pantellaria.

Na sora se spusaie n’ ato ammunito,
fenette mala femmena, e partette
ncopp’ a nu bastimento pe Marziglia;

murette dint’ ’e ccarcere ’o marito:
stu scasato ’e guaglione ’e leva ascette…
E chesta è ’a storia ’e tutta sta famiglia.




IV
Embè, quann’ uno è buono, è naturale,
buono rummane: ’o povero artigliere,
pe malato trasette ’int’ ’o spitale
e malato comm’ è vo’ fa’ ’o nfermiere.

Isso dice: – E che fa? Che ce sta ’e male
ca porto na stanfella o nu bicchiere?
Ccà simmo tutte amice e tutte eguale;
chello ca pozzo fa’, faccio: è dduvere. –

’O capitano medico ’o supporta:
ce l’ hanno ditto e ha ditto: – ’assate ’o fa’:
facitelo sfucà, che ve ne mporta?–

E pe tutto ’o spitale ’a Trenità
se dice ’e st’ ommo ca fa tanto bene:
– Aiuta a tutte: è malatia ca tene! –


V
Dint’ ’o vierno, nu sabbato matina,
na moneca ’e sti ffiglie ’a Carità,
purtannele a primm’ ora ’a medicina
’o truvaie muorto, ’o truvaie friddo già.

Finalmente accussì, stiso ’a supina,
s’ arrepusava ’int’ a ll’ eternità:
ma mmiez’ ’a faccia addelurata e fina
ll’ uocchie ancora cercaveno piatà…

’A moneca spiaie: – Ma com’ è stato?…
– Stanotte… suora ma’!… Cercava aíuto…
Ce chiammava… – dicette nu malato. –

Cu stu friddo’… E nisciuno s’ è susuto…
– Nessuno è accorso? – Suora ma’… nisciuno…
E chesta è ’a stotia ’e nummero vintuno.



VURRIA…

Vurria c’ uno, ’int’ ’o suonno, me pugnesse
cu n’ aco mmelenato:
doce doce accussì mme ne muresse,
senz’ essere scetato,
senza sentì e vedé…
Ma… nn’ ’o vurria sapé…

Nu miedeco vurria ca mme dicesse:
«Tu staie buono malato!»
E ca pe mmedicina acqua mme desse,
e sanato, e ngannato
io vurria rummané…
Ma… nn’ ’o vurria sapé.

Vurria c’a n’ ato mo tu te truvasse,
a n’ ato nnammurato:
ca felice e cuntenta tu campasse,
e d’ ’o tiempo passato
te scurdasse, e de me…
Ma… nn’ ’o vurria sapé!

AMMORE ABBASATO

Vuie comm’ a ll’ uva ’e contratiempo site,
nu poco poco appassuliatella:
embè, ve dico a buie, si mme credite,
nun ve cagnasse cu na figliulella.

Donna Carmè! Ve prego… nun redite,
nun ’a pigliate troppo a pazziella:
vuie facite abbedé ca nun capite,
e a mme me passa ’o friddo sott’ ’a pella…

Sentite: io mme so’ fatto, una vutata,
’e ciert’ antiche libbre sturiuso:
ce piglio gusto e… ce passo ’a nuttata.

E nun ve saccio di’ comm’ è senzuso
’o senzo ’e cierta carta staggiunata,
a chi d’ ’a carta nova ha perzo ll’ uso!

BUONO NATALE!

Teresì, buono Natale!
Penza, oi ne’, ca ’o Bammeniello
fattose ommo e tale e quale
comm’ a ll’ ate grussiciello,

ncopp’ ’o munno scellarato,
senza fa’ male a nisciuno,
secutato e maltrattato,
ncroce, oi ne’, iette a fenì!

E st’ asempio ca te porto,
Teresì, tienelo a mmente,
ca pur’ io, nnucentamente,
chi sa comme aggia murì!

Nun vuo’ sèntere sta voce
ca piatà, piatà te cerca:
e mme staie mettenno ncroce
comm’ ’o povero Giesù…

Ma io nun so’ fatto e mpastato
cu sta pasta, mo nce vo’:
Isso – sempe sia ludato –
Isso nasce ogn’ anno: io no!

POVERA ROSA!

Quanno pe ncopp’ a ll’ arbere
se fanno gialle ’e ffronne,
e c’ ’a primm’ acqua cadeno,
e ll’ acqua ’a terra nfonne;

quanno ’e campane soneno
pe ll’ aria d’ ’a matina,
e ’a voce lloro spanneno
cchiù chiara e cchiù argentina;

quanno, cu ll’ uva fravula,
veco trasì ll’ autunno,
e assaie cchiù malinconeco
mme pare, attuorno, ’o munno;

pecché, pecché doie lacreme
mme spónteno ’int’ a ll’ uocchie,
e trèmmeno ’e denocchie,
Rosa, si penzo a tte?

Dimme: addó staie? Mme diceno
ca tu, doppo traruta,
povera Rosa, súbbeto,
p’ ’o scuorno si’ fuiuta!…

E sta fenesta all’ úrdemo
piano, ’a dó t’ affacciave,
’A dó, schitto vedennome,
piglie e mme salutave,

aiemmé, quanno s’ aràpeno
ll’ati feneste attuorno,
nchiusa comm’ a nu carcere
rummane tutto ’o iuorno!

E i’ penzo a tte!… Mme sponteno
’e llacreme ’int’ a ll’ uocchie,
mme trèmmeno ’e denocchie,
e dico: Addó starrà?…

ARIETTA

Già cchiù chiara e cchiù lucente
sponta, ’a sera, ’a luna ncielo:
già pe ll’ aria, già se sente
maggio tiénnero passà.

C’ ’a ceròggena vicino,
c’ ’a fenesta aperta nfaccia,
io mme metto a tavulino,
comm’ a seie sett’ anne fa.

E, a quatt’ uocchie – comm’ a tanno –
cu stu core mme rummano:
me ce spieco e ll’ addimanno
si ce stanno nuvità.

– Iammo! – dico. – E parla! ’a siente
st’ aria fina? ’E bbide ’e stelle?
Parla meh!… Nun dice niente?
Te staie zitto? Ma pecché?… –

Che nuttata! A ciento a ciento,
comm’ a ttante lucernelle,
stanno ncielo ’e stelle ’argiento,
mmiez’ ’o cielo ’a luna sta…

E io rummano a tavulino
c’ ’a fenesta aperta nfaccia,
c’ ’a ceròggena vicino,
comm’ a seie sett’ anne fa.

Ll’ una sona. E i’ sto aspettanno
ca stu core, n’ ata vota,
mme parlasse comm’ a tanno:
ma parlà nn’ ’o sento cchiù…

Ncopp’ ’a carta, pe tramente,
veco lúcere quaccosa,
e doie lacreme cucente
sento ’a st’ uocchie mieie cadé…

Che nuttata! A ciento a ciento,
comm’ a ttante lucernelle,
stanno ncielo ’e stelle ’argiento,
mmiez’ ’o cielo ’a luna sta…
LL’ ORTENZIE

St’ ortenzie ca tenite ’int’ a sta testa,
chc ll’ adacquate a fa’? Nun l’ adacquate:
levatennélle ’a fora ’a sta fenesta,
nun ’o bedite ca se so’ seccate
st’ ortenzie ca tenite ’int’ a sta testa?…

È na malincunia: sta pianta è morta;
se ne cadeno ’e sciure a ffronne a ffronne,
e ’o viento, bella mia, piglia e ss’ ’e pporta,
e chi sa che ne fa… se ll’ annasconne…
È na malincunia: sta pianta è morta!

Morta nziemme cu nuie. Muorte nuie simmo:
nun ce penzammo cchiù, nun ce parlammo,
nun ce vedimmo cchiù, nun ce screvimmo…
E se pò chiammà vita? E nuie campammo?
Meglio, meglio accussì: muorte nuie simmo.

Viento, ca spierde ’e sciure spampanate,
spàrtece pure a nuie, spierde st’ ammore:
asciutta tanta lacreme spuntate
dint’ a chilli bell’ uocchie e ’int’ a stu core,
viento, ca spierde ’e sciure spampanate…

E comm’ accuminciaie, comm’ è fenuto
st’ ammore nuosto e tu fance scurdà:
ietta ’o tterreno ncopp’ a stu tavuto,
e fallo sottaterra cunzumà…
Ah, comm’ accuminciaie!… Comm’ è fenuto!

CAPILLO ’

Capillo’!… (Sissignore, è overo, è overo
c’ Angelarosa nun me pò vedé:
sarrà n’ antipatia pe stu mestiero,
o a n’ ato penzarrà, cchiù mmeglio ’e me!
N’ ato?! Ah, destino! Sti capille d’oro,
st’uocchie, sta vocca n’ ato ha dda vasà!
N’ ato! E io mme songo strutto, io me ne moro
e chisto scellarato ha dda campà!)
Capillo’!… Capillo’!… (Si è destinato,
core scuntento mio, che buo’, che buo’?…)
Capillooo’!…

(P’ ’o vico ’e Sant’ Arcangelo a Baiano
passo ogne ghiuorno pe vedé sta nfama:
appriesso ’a chiesiella, a ’o primmo piano,
Angelarosa sta: canta e ricama.
Passo, mme vede e addio: lle cade ll’ aco,
se ferma ’a voce… Ma pecché? Pecché?
E io rummano abbeluto e mme ne vaco…
Angelarosa nun me pò vedé!…)
Capillo’!… Capillo’!… (Si è destinato,
core scuntento mio, che buo’, che buo’?…
Capillooo ’!…

(Ma si mme vuo’ fa’ tanto sfurtunato,
sciorta, ammeno e tu famme vennecà!
Nun so’ cchiù chillo ’e primma, io mo so’ n’ato,
e capace ’e qualunqua nfamità!
Morta ’a vurria vedé! Morta o malata,
dint’ ’o tavuto, o ncopp’ a nu spitale,
e spià lle vurria cu na resata:
«Che se n’ è fatto ’e chillo tale e quale?
Mo nun rispunne? No? Nun me rispunne?
Nun me canusce cchiù? Nun saie chi so’?…»)
Capillooo‘!…
– Capillo’!… – Chi mme chiamma?… Essa!… Ah,
destino!

Ll’ hanno arrestato a Ppasca ’o nnammurato,
e s’ ha tagliate ’e trezze d’ oro fino
pe ne mannà denare a ’o carcerato.
È scesa anfino a mmiez’ ’e gradiate:
– Tengo sti ttrezze; oi ni’, t’ ’e buo’ accattà?… –
L’aggio mise tre lire e mme l’ ha date
(e nun me so’ fidato d’ ’a guardà…)
==>SEGUE
NONNA NONNA

Duorme: ’a cónnela è de raso,
’e vammace è stu cuscino:
te vulesse dà nu vaso,
figlio mio gentile e fino!…

Ma c’ ’o suonno sta parlanno
zitto zitto sta vucchella,
st’ uocchie tuoie già nchiuse stanno…
Nonna, nonna, nunnarella…
E… nonna nonna…

Scennìte, angiule, ’a cielo a tenì mente:
st’ angiulo suonne d’ angiule se sonna…
E duorme, figlio mio, nnucentamente…
Fa nonna nonna…

Duorme, duorme. A mano a mano
c’ ’o silenzio ’a notte scenne:
se fa scuro chiano chiano,
ll’ ombra nera esce e se stenne…

E chi vede ca, vucanno,
canta… e chiagne mammarella?…
St’ uocchie tuoie già nchiuse stanno…
Nonna, nonna, nunnarella…
E… nonna nonna…

Pecché chiagne? Fosse stato
ca, pe bia d’ ’o suonno nzisto,
chi t’ ha fatto… e… m’ ha lassato…
tu, durmenno… avisse visto?

Figlio mio! Figlio ’e stu core!
Levaténne da sti guaie!
Dint’ ’a cónnela si muore
mparaviso te ne vaie!…
E… nonna nonna…

Duorme… Mamma pazzea… St’ uocchie lucente
nchiudele… figlio… a nomme d’ ’a Madonna…
Mamma… nun… chiagne cchiù… Nnucentamente
fa… nonna… nonna… oi ni’… fa… nonna… nonna…




ASSUNTA

Io lle diceva: – Sienteme! –
Sienteme almeno!… I’ faccio
nu tentativo inutile:
si’ nfama, ’o ssaccio, o’ ssaccio!…

Fronna a nu ramo ’e n’ arbero
e’ visto maie tremmà,
si, tutto nzieme, sbollere
’o viento ’e terra ’a fa?

T’ ha fatto maie scetannete
nu suonno dint’ ’o lietto,
cchiù forte, cchiù sulleceto
sbattere ’o core mpietto?

È visto maie d’ ’a cennere
’o ffuoco vivo ascì?
E n’ ommo pe na femmena
e’ visto maie murì?

No, Assù!… Siente… nun ridere…
statte a sti paragone:
chi, cchiù de te, pò ntennere,
chi cchiù sta passione?

Aggio chiagnuto a lacreme
cucente, Assuntulé!
Comme a na fronna ’e n’ arbero
tremmato aggio pe tte!…

Ma vòtete! Ma guardame!
Rispunneme: – io diceva –
Damme sta mano… Accostete! –
E ’a mano me sfuieva!

Tutto na vota: – Làssame!
– me dicette essa. – ’O bbi’?!
Mo si’ seccante!… È inutele!…
Làssame, Federì!… –

E salutaie, vutannese,
quaccuno che passava…
E… ll’ uocchie… lle llucevano…
Dio! Dio! Comm’ ’o guardava!…

==>SEGUE


Giurice… cumpatiteme…
Perdette ’e lume!… – Embè,
– strellaie – tu si’ nzenzibbele?
Si ’ scellarata?… E teh!

NCOPP’ A NU MUNTONE ’E MUNNEZZA

Sta ccà sotto nu povero canillo
ch’ era figlio ’e nu cane ’e canteniere:
s’ ’o vennette ’o patrone ’a piccerillo,
pe doie lire, a nu giovene ’e barbiere.

’A chiste passaie mmano a nu signore
ca vuleva fa’ razza e c’ ’o lassaie,
pecché partette ’e pressa, a ’o servitore,
n’ ommo barbaro e nfamo quanto maie.

Nun ’o deva a mangià; spisso ’o vatteva,
e tanto ll’ abbelette e ’o custringette
ca, na matina ch’ isso nun ce steva,
’o canillo sferraie: piglie e fuiette.

Nu guaglione ’o truvaie, nfuso e affamato,
na sera ’e vierno ca chiuveva. ’O cane
sott’ a na banca s’ era arreparato,
e ll’ alleccaie, tremmanno ’e friddo, ’e mmane…

– Bonasera e salute, cacciuttié!…
Tu muzzecasse?… – dicette ’o guaglione. –
Nun muzzeche?… Teccà!… Statte cu mme…
Mo ce cuccammo. Viene ccà a ’o patrone!… –

Mangiaino nzieme: n’ uosso ’e na custata,
na scorza ’e caso e doie tozzole ’e pane.
S’ addurmettero nzieme: e ’int’ ’a nuttata
’o guagliuncello s’ abbracciaie c’ ’o cane.

E campanno accussì, mo ’a ccà mo ’a llà,
pe duie tre mise fecero stu stesso:
’o guaglione cercanno ’a carità,
e ’o canillo feréle appriesso appriesso!…

==>SEGUE
Che succedette? Ca na notta scura
’o cane se sperdette. ’O guagliunciello
ll’afferraie l’ ambulanza d’ ’a Quistura
e ’o tenette tre ghiuorne ’int’ ’o canciello.

Doppo tre ghiuorne, na bella matina,
pe nun avé cchiù incomode e penziere,
’o purtaino ’int’ ’o spizzio ’e Donnalbina
e ’o dettero a ruchessa ’e Ravaschiere.

E ’o canillo? Addio zumpe e cuntentezza!…
Ll’ aspettaie, puveriello! Aspetta, aspetta…
Che buo’ venì?… Mo sta sott’ ’a munnezza,
scamazzato ’a nu trammo d’ ’a Turretta…



ANGÈLECA

È ’a notte ’e Pasca. A ll’unnece –
nu poco fatto a vvino –
p’ ’o vico ’e Buoncammino
io mme retiro…
Uhi là!… La ra, la là!…
Nu poco fatto a vvino…

Nun passa manco n’ anema;
e ’o vico, cupo cupo,
pare na vocca ’e lupo.
Alo’! Cantammo!…
Uhi là! La ra, la là!…
(Pare na vocca ’e lupo!…)

Embè? Mo pecché, a ll’ úrdemo
piano ’e stu palazziello,
Il’ úrdemo barcunciello
è russo e lluce?…
Uhi là! La ra, la là!…
L’úrdemo barcunciello…

Sarrà spusata Angèleca,
e a tarallucce e vino
fenenno sta ’o festino,
’A faccia mia!
Uhi là! La ra, la làl ..
Fenenno sta ’o festino…

Vi’ che te fa na femmena!
Nun me pareva overo
ca steva accussì allero
a notte a notte!…
Uhi là! La ra, la là!…
Nun me pareva overo!

E mo? Tècchete Angèleca
ca mme fa chisto sfreggio!
(E chello ch’ è cchiù peggio
’A tengo ’e faccia!…)
Uhi là! La ra, la là!…
Ca mme fa chisto sfreggio!…
==>SEGUE
– Neh, guardapò, scusateme…
Angèleca… è spusata?
– Ched’ è? Meza nzerrata
nun vide ’a porta? –
(Uhi là! La… ra… la… là…)
– Ah!… già… meza… nzerrata…

Scusate… e che bo’ dicere
meza nzerrata… ’a porta?…
– Vo’ dicere ch’ è morta:
e bonanotte.
– (Uhi là! La… ra… la… là!…)
Vo’ dicere… ch’ è… morta…
E… bona… notte…



SUNETTO AMARO

’A tanto tiempo i’ penzo a nu sunetto
ca fosse proprio chillo tale e quale
ca a chest’ anema mia, nzerrata mpietto,
dicesse francamente ’o bene e ’o male.

Ma quanta vote a scrivere m’ o’ metto
io dico: E ca tu ’o scrive a che te vale?
Cchiù sincero ca si’ cchiù daie suspetto:
’o pane d’ ’a franchezza è senza sale.

L’èbbreca antica è morta ’e ietticia,
mo ce parlammo senza guardà nfaccia,
e chello ca tu pienze ’un ’o penzo io.

Miettele ’e parte sta filusufia,
fa comme fanno tante votafaccia,
ca si no schiatte, quanto è certo Dio!
BRÌGGETA

Se chiamma Brìggeta,
na purpaiola
ca vene a vénnere
purpe, ll’ està.

P’ ’o Muolo Piccolo,
bella e figliola,
n’ ha fatte chiagnere
figlie ’e mammà!

E io pure, cuóveto
mpietto ’a chill’uocchie,
fece ’o pussibbele
pe mme mmuccà…

E mme tremmaveno
sotto ’e denocchie,
vedenno Brìggeta
bella passà…

Brìggeta!… A cocere
tu mme mettiste,
pe nun me dicere
né sì, né no;

doppo ca vóllere
tu mme faciste,
diciste: «Màmmema,
signó… nun vo’.»

Tiennero tiennero
nu purpetiello
fuie – c’ aggia dicere? –
pur’ io pe tte…

E mo?… Mo taglieme
cu stu curtiello:
vinneme, cantame:
«Che purpo! Ohè!…»




VOCCA ADDUROSA

Vocca addurosa e fresca,
vocca azzeccosa e ddoce,
addó c’ ’o tuio se mmesca
stu sciato, addó la voce

è museca, è suspiro,
è suono cristallino
vocca ’e curallo fino
cchiù pura ’e nu zaffiro;

si’ perla preziosa,
si’ mmèle nzuccarato,
si’ na rusella nfosa,
si’ n’ aceno ’e granato…

Vocca ’e delizia e ammore,
dimme, Maria chi tene
stampato dint’ ’o core,
dimme si mme vo’ bene…



MBRIACO

Sì, mbriaco stonco io. Ma cchiù lucente
zennià veco ’e stelle a ciento a ciento
e veco ’a luna ca mme tene mente
’A miez’ a tutte sti munete ’argiento.

Ma mo pecché, pecché stu sciato ’e viento
passa e suspira? Calculatamente
mme va cuntanno ’e patimente e ’o stiento
’e tant’ affritta e disperata gente…

Che mme ne mporta? Nun songo io pur’ uno
ca campanno patesce? Io d’ ’a furtuna
mia sbenturata mai parlo a nisciuno…

Vevo… pe mme scurdà… Ma ’o vino niro
mme s’ è fatto p’ ’a via. Scumpare ’a luna:
suspira ’o viento. E mo pur’ io suspiro…


NUTTATA ’E NATALE

I
Dint’ a na grotta scura
dormeno ’e zampugnare:
dormeno, appesa a ’e mura,
e ronfeno, ’e zampogne
quase abbuffate ancora
’A ll’ úrdema nuvena;
e, ghianca, accumparesce e saglie ncielo,
dint’ ’a chiara nuttata, ’a luna chiena.

Dormeno: a mezanotte
cchiù de n’ ora ce manca;
e se sparano botte,
s’appicceno bengala,
e se canta e se sona
pe tutto ’o vicenato…
Ma ’o Bammeniello nun è nato ancora,
e nun s’ è apierto ancora ’o Viscuvato.

Fora, doppo magnato,
esce nfucata ’a gente:
ccà d’ ’o viento gelato,
p’ ’e fierre d’ ’a cancella,
trase ’a furia ogne tanto…
E c’ ’o viento, e c’ ’o friddo,
ncopp’ ’a paglia pugnente, a ppare a ppare,
dormeno, stracque e strutte, ’e zampugnare…


II
S’ è scetata mpunt’ ’e quatto
na zampogna, e sta parlanno.
– Bene mio! – dice. – E n’ at’ anno
ca turnammo a beni’ ccà!

E turnammo, n’ ata vota,
a fa’ ’o soleto lamiento:
viene, vaie, nun truove abbiento,
sona ccà; va a sunà llà!

==>SEGUE
E che suone? Ullèro, ullèro!
nasciuto il Re del Cielo,
che nel candido suo velo
sulla terra calerà!

Maie d’ ammore na canzona,
maie, maie n’ aria o allera o doce!
’E na femmena na voce
maie putimmo accumpagnà!

Mme credite? Sto speruta
’e sentì n’ aria curtese,
e chest’ aria d’ ’o pagghiese
cu stu suono accumpagnà! –


III
E rispunnette n’ ata zampogna:
– Cummà, sentite, ve voglio di’
ca senz’ offesa, si premmettete,
st’ aria curtese m’ ’allicordo i’.

È anticulella, ma nun fa niente,
ca se pò sempe bona cantà:
po’ addó sta scritto ca brutto è ’o bbiecchio?
Nun cagna ammore: nun pò cagnà.

E comm’ a chesta quant’ ate e quante
me n’ allicordo belle accussì!
Cierti canzone cu cierti stese
fatte p’ ’e core fa’ ntenerì!…


IV
– Embè… sunatene quaccuna… – E comme?
Si nun m’ abboffeno che buo’ sunà!?
– Zi’!… St’ amicizia surtanto ’o viento,
si ’o viento è amabbele, mo ce pò fa’…

– Viento! – dicettero tutte ’e zampogne –
nficchete, mpizzete, fance abbuffà!
Fance chest’ úrdema nuttata, st’ anno,
cuntenta, a Nnapule bella, passà… –

V
E tècchete trasette p’ ’e cancelle
nu sbruffo ’e viento e ll’ abbuffaie, sciuscianno
dint’ ’e zampogne e mpont’ ’e ciaramelle.

E ’a grotta se scetaie: liggiero e lento
nu mutivo ’e canzone ’e primmavera
accumminciaie cu n’ accumpagnamento

a tterza sotto. ’a luna, auta ca steva
e cammenanno, se fermaie: chiù tonna
’e nu mellone e cchiù ghianca d’ ’a neva.

Guardatele, guardatele… Sentenno
sta museca sunà, doce, ’int’ ’o scuro,
se torceno ’e cchiù giuvene, durmenno.
Se voteno, se gireno, c’ ’a faccia
ncopp’ ’e mantielle, e comm’ ’int’ a nu suonno,
muoveno ’e mmane e stenneno li braccia…

Ronfeno ’e viecchie: sprufunnate stanno,
surde, stracque, ’int’ ’o suonno e dint’ ’a paglia:
e a stu suono suttile ’o basso fanno…


VI
Zampogna sola e coro ’e zampogne.

Aiemmé! L’ ammore è comm’ a na muntagna
e ce sta, ncoppa, n’ arbero affatato:
rire chi saglie e chi scenne se lagna,
ca ’o frutto culurito è mmelenato!

Ah! Ullèro, ullèro, ullà!
È comm’ a na muntagna…
E nun canta sta voce, aiemmé, se lagna!…

Ricordete, Marì! L’ aria addurava,
ce ne ievemo sule a passe a passe;
e ce faceva luce e ce guardava
na luna che pareva ca penzasse…

==>SEGUE



L’ aggio sentuta chiagnere scennenno,
ma nteneruto no, no, nun me so’!
Sti ttrezze d’ oro mm’ ’e voglio i’ vennenno!
Capillo’!… Capillooo’!…



VIII
Ciaramella sola.

– Oi ma’, – dicette a màmmema na vota –
io mme vurria nzurà: che nne dicite?
vurria truvà na femmena e na dota:
cunzigliateme vuie ca vecchia site. –

Màmmema ’a capa aizaie: mpont’ a nu dito
teneva ’o ditaliello spertusato,
me metteva na pezza a nu vestito,
e ’int’ ’a pezza lassaie ll’ aco appezzato…

E dicette accussì:
Nda mbò! Ndì ndì!

«Oro t’ ha dda purtà, seta e velluto,
e pperne ’e qualità, sfuse e nfelate,
nu cummò ’e palisante auto e ghienguto
’e panne lisce e panne arricamate.

Si è d’ ’o pagghiese ’a massaria nzerrata
addó nisciuno maie nun c’ è trasuto:
si è de cità na bona annummenata,
n’ arte ’e mmane e nu patre canusciuto…

Canusciuto, guaglió!
Nda mbò! Nda mbò!»

– E quann’ è chesto, oi ma’, – lle rispunnette –
sta nenna tale e quale rifurmata
comm’ ’a vulie vuie, senza difette
e cu tanta virtù, I’aggio truvata

Rosa se chiamma. ’E pperne? ’E ttene mmocca
Ll’ oro? Songo ’e capille anella anella.
’O musso è comm’ a ddoie cerase a schiocca.
’E velluto so’ ll’ uocchie… È bella! È bella!

È bella, è bella, oi ma’!
Nda mbò! Nndì ndà!…

E pe riguardo ’a massaria… –



IX
Fenette
tutta na vota ’a museca. Sfiatate
zampogne e ciaramelle
fenettero ’e sunà. Pe nu mumento,
dint’ ’o silenzio, ’a grotta
rummanette accussì:
po’ luntano sparaie n’ úrdema botta,
e nu gallo cantaie: «Chicherichì!»

«Chicherichì!…» tante e tant’ ata galle
rispunnettero a ttuono.
L’ organo d’ ’a parrocchia ’e ffunzione
nfra tanto accumpagnava
spannenno ’o suono attuorno,
e già p’ ’a strata ’a gente cammenava.
Era Natale. E s’ era fatto iuorno.

– Scetateve, scetateve, picciuotte!
Mannaie! Parte ’o papore!
Susiteve ch’ è tarde: è fatto iuorno
e vuie durmite ancora!
Pigliateve ’e zampogne,
ncapputtateve buone ascenno fora,
ca fa nu friddo ca fa zumpà ll’ ogne! –

E, a ppoco a ppoco, ’a grotta vummecaie
(parlanno cu rispetto)
quase na sittantina ’e zampugnare.
Stunate ’e cchiù figliule
steveno tutte quante…
Camminaveno arreto sule sule:
ieveno ’e viecchie, accapputtate, nnante.

Mo s’ ’e pporta ’o cummoglio: e sesca, e corre:
e case, arbere e sciumme
fuieno comm’ ’o viento…
Nun parla cchiù nnisciuno
mmiez’ ’a fredda campagna;
ma pur ancora suspira quaccuno:
«Ammore, ca si’ comm’ a na muntagna…»




DINT’ ’O SUONNO

Tu duorme, io te guardo;
mo nzuonno suspire,
mo pare ca rire,
mo staie pe parlà.

Sta vocca ’e pupata,
sta schiocca ’e cerase,
fa ll’ atto d’ ’e vase…
Ma ’e cerca, o ’e vo’ da’?…

Che dice durmenno?
Che ffaie? Cu chi ride?
Chi chiamme? A chi vide?
Chi parla cu te?…

M’ acàlo: se mmesca
stu sciato a stu sciato,
e, murmuliato,
nu nomme sent’ i’…

Ma è overo? Ma è certo
ca a n’ ato vuo’ bene?
Ca nzuonno te vene?
Ca ncore te sta?…

Vatté! Nun ’o ccredo!
Durmenno o scetata,
tu maie nun si’ stata
sincera, Carmè!

E chisto ca nzuonno
mo chiamme int’ ’o scuro,
mme fa, t’ assicuro,
no’ mmidia, piatà!…
           



BONGIORNO, RO’!…

Rosa, si chiove ancora
nun t’ ammalincunì,
ca d’ ’o bontiempo ll’ ora
sta prossema a venì.

Nun vide? ’E luce ’e sole
luceno ’e st’ acqua ’e file;
è ’a morte d’ ’e vviole,
so’ ’e lacreme d’ abbrile.

Ma mo cchiù ffresca e ffina
ll’ aria se torna a fa’…
Meh!… A st’ aria d’ ’a matina,
Rosa, te puo’ affaccià.

Arape ’e llastre: arape
sta vocca piccerella
addó sulo ce cape
nu vaso o na resella,

canta: chist’ è ’o mumento;
tu cante e io, chiano chiano,
mme faccio ’a barba e sento,
cu nu rasulo mmano.

E penzo: «’a i’ ccà; s’ affaccia…
Mm’ ha visto… Mme saluta…»
E c’ ’o sapone nfaccia
dico: – Bongiorno, Ro’!…


FURTUNATA

E ce steva na guagliona
cu na faccia ’e na Madonna,
cu na capa ionna ionna,
c’ ’a salute assaie suttile,
e cu n’ anema gentile.

Puverella! A dudece anne
primma ’a mamma lle murette:
sola sola rummanette
cu nu pate scemunito
p’ ’a miseria e ll’ appetito.

– Moro – dicette ’a mamma – e nun me lagno:
ma chello ca mme coce è ca rummane
fìgliema abbandunata!… –
(Ah, povera, povera Furtunata!)

E teneva sidece anne
quanno ’o pate lle murette:
i’ chessà che lle venette
ca passaie, dopp’ ’o spitale,
a ngrassà Puggeriale.

Se vennette n’ anelluccio
pe doie cere e na curona,
chella povera guagliona…
Lle spiàino: – E mo addó ’e ppuorte? –
Rispunnette: – Ogge so’ ’e muorte… –

E ’a llà ncoppa turnaie cu ll’uocchie russe…
E nu giuvanuttiello ’e mala vita
piglie e ncuntraie p’ ’a strata…
(Ah, povera, povera Furtunata!)

E ched’ è sta vita nosta!
Quant’ è amara e quant’ è triste!
Furtunata!… Ah, che faciste!…
sta criatura ca t’ è nata
mo addó ’a lasse? ’a Nunziata…

(Penzatece a stu nomme ca teneva,
e a sta barbara sciorta. A sidece anne
è morta e s’ è atterrata…)
Ah, povera, povera Furtunata!…




POESIE DI SALVATORE DI GIACOMO  - Parte Quarta
Ah! Ullèro, ullèro, ullà!
Sta luna ce guardava…
Chi sa che lle pareva e a che penzava!

Torno p’ ’a stessa via: ce passo a ll’ ora
ca ce passaie cu tte ll’ úrdema vota:
mme pare ’a voce toia sentere ancora…
Ah! comm’ avota ’o munno, ah, comm’ avota!…

E ullèro, ullèro, ullà!
Te chiammo: e ’a miez’ ’e ffronne
ll’ eco, Il’ eco surtanto mme risponne…

D’ ’e pedezzulle tuoie, nterra, ccà nnante
veco e canosco ’o segno c’ aie lassato:
vicino a lloro, uh Dio, chiaro e lampante,
’o segno ’e n’ ati dduie ce sta stampato!…

Ah! Ullèro, ullèro, ullà!
Povero a me! So’ stato
pe n’ at’ ommo traduto e abbandunato!…

Tutto è fenuto! C’ ’a staggiona nova
làsseno ’a casa vecchia ll’ aucielle,
correno a n’ ata parte a fa’ la cova,
e tu pure, tu pure ’e mise ’e scelle!…

E ullèro, ullèro, ullà!…
L’ammore è na muntagna
rire chi saglie e chi scenne se lagna…


VII
E fenette ’a canzona…
(E pareva c’ ’o cielo, for’ ’a grotta,
se fosse fatto p’ ’a piatà cchiù niro,
dint’ ’a pace d’ ’a notta.)
E fenette accussì, cu nu suspiro…

– E ghiate, ia’!… – dicette
’A cchiù longa e cchiù allera ciaramella. –
E chesta è stata ’a canzona curtese?!
Ne saccio una cchiù bella…
Iammo! ’O viento ce sta. Se canta a stesa…
Cu sta malincunia
v’ ammusciate cchiù assaie, cummara mia! –

Una rara immagine di Salvatore Di Giacomo insieme agli amici fra cui spicca un giovanissimo Eduardo De Filippo. che nel 1948 sarà l'interprete principale (Michele Boccadifuoco) nella rappresentazione teatrale dell'opera "Assunta Spina" .