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Salvatore
Di Giacomo

X

ARIETTE E CANZONE NOVE
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SEGUITO


FRUNNELL ’ ’AMENTA…

Frunnell’ ’amenta!
E ’a ch’ ero durmiglione e sunnulento,
io mo mme songo fatto matenante.
Ma so’ cuntento!
(Pecché Ninetta scenne ’e ssette mpunto,
– ’e ssette mpunto – pe Taverna Penta.)

Fronn’ ’e granato!
’E ssette mpunto adacqueno Tuleto,
e già d’ ’a primmavera i’ sento ’o sciato.
Frunnell’ ’aruta!
(E cammenanno, cu Ninetta allato,
mme pare ca è dd’ ’a mia tutta sta strata! )

Fronn’ ’e murtella!
Una voce dicente: «’a coppia è bella!
Isso è muretto – e ’a nenna è biundulella…»
Fronne e frunnelle!
( Io sto cu nu barone a cucchieriello,
e Ninetta è morista di cappelli…)

NA PALUMMELLA IANCA
            Quanno so’ fatto cennere
            tanno mme chiagnarraie!.,.
            Te voglio bene assaie…
            Aria del ’48.

Na palummella ianca,
ca torna ogne matina,
mme nforma ’e Carulina,
mme fa sapé che fa.
«Dunque?… Che dice?…» aiere,
nfromme venette, ’a spiaie…

Te voglio bene assaie,
e tu nun pienze a me!

Dunque? Che dice? ’a n’ anno
tu maie nun te dicide…
Ma ’o bbide o nun ’o bbide
ca tu mme faie murì?
Ah! ca mannaggia quanno
sta storia accumminciaie!
==>SEGUE

Te voglio bene assaie,
e tu nun pienze a me!
……………….
’A lasso?… È na parola!
Nun ce so’ maie riusciuto,
nun aggio mai pututo
stu core persuadé!
Si dico: – Scordatella! –
isso risponne: – Maie!… –

Te voglio bene assaie,
e tu nun pienze a me!

MÀMMEMA DICE…
Màmmema dice ca
tu nun si’ bella…
Màmmema mme vo’ da’
n’ ata dunzella.
E io lle dico ca sì,
ca po’ mm’ ’a piglio…
(Pecché ll’ aggia ubberì,
ca lle so’ figlio! )

Suffrisce, core mio,
suffrisce tutto,
basta ca doppo
pe chello ch’ e’ fatto
tu rummane
cuntento
e surisfatto!

Màmmema dice ca
nun faccio overo,
e ca cu ttico, no,
nun so’ sincero…
E io lle vulesse di’:
– Mamma, e che dice!
Chesto te pare a te,
ma io so’ felice!… –

Suffrisce, core mio,
suffrisce tutto,
basta ca doppo
pe chello ch’ e’ fatto
tu rummane
cuntento
e surisfatto!


Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Nota bio-bibliografica di Salvatore Di Giacomo
_________

a cura di
Annalisa Castellitti
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"Nel giornalismo io sono non uno scrittore, ma uno scrivano. La mia fissazione è questa, che Napoli è una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato ai peggiori". È lo stesso Salvatore Di Giacomo, nato a Napoli il 12 marzo 1860, a tracciare il suo profilo di poeta e giornalista in una Pagina autobiografica apparsa nel 1886 sulla rivista settimanale napoletana L'Occhialetto di Vincenzo Fornaio e Tommaso De Vivo. Egli racconta di aver abbandonato gli studi di medicina, quella "cantina dei cadaveri" destinati ad uno "spettacolo tristemente comico", in seguito ad una lezione di anatomia e ad un inquietante episodio che segnò definitivamente il suo allontanamento dall'Università:
Al meglio della lezione, uscii dalla sala. Non ne potevo più; mi si rivoltava lo stomaco. Senza guardarmi attorno, senza salutare nessuno, infilai il corridoio e feci per ascendere, in fretta e furia, la scaletta. In cima il bidello si preparava a discendere, con in capo una tinozza di membra umane. I gradini della scaletta, su per i quali erano passate centinaia di scarpe gocciolanti, parevano insaponati. Il bidello scivolò, la tinozza - Dio mio! - la tinozza rovesciata sparse per la scala il suo contenuto e, in un attimo, tre o quattro teste mozze, inseguite da gambe sanguinanti, saltarono per la scala fino a' miei piedi! […] Quell'inserviente, dalla faccia butterata e cinica, dall'aria insolente, dalla voce sempre rauca, com'egli era sempre oscenamente avvinazzato, si chiamava Ferdinando. Per la faccia sua, cincischiata a quel modo, i compagni lo chiamavano, napoletanamente, Setaccio. Io devo la mia salvazione a Setaccio, perché da quel giorno la cantina dei cadaveri non mi vide più e nemmeno l'Università, dove compivo il terzo anno di medicina.
Dopodiché iniziò una collaborazione giornalistica con il Corriere di Napoli, dove c'era allora Martin Cafiero mentre Federico Verdinois curava la famosa "parte letteraria": "Nel Corriere - continua - principai a scrivere alcune novelle di genere tedesco, che, se puzzavano di birra, non grondavano, però, dell'onor dei martiri e del sangue degli amanti. Quelle novelle piacquero, e l'aver creduto, tanto il Cafiero quanto il Verdinois, che io le copiassi da qualche libro tedesco, mi decise, anzi mi costrinse a scriverne molte altre. Dopo tre o quattro mesi, eccomi diventato ordinario collaboratore al Corriere, insieme con Roberto Bracco e Peppino Mezzanotte. In quel tempo tutti e tre scrivevano novelle, ci volevamo un gran bene e ci stimavamo assai".
La sua attività di CRONISTA continuò presso altri quotidiani e note riviste dell'epoca, tra cui il giornale Pro Patria, la Gazzetta letteraria di Vittorio Bersezio ed infine il Pungolo, dove capitò "fra ottimi amici, con un direttore che è la più franca e onesta e cordiale persona che abbia conosciuta". Negli anni della sua permanenza al Pungolo, la "città disgraziata" nella quale l'autore svolse il suo ruolo di giornalista fu segnata nel 1884 dal tragico evento del colera, al quale seguì la cosiddetta opera di "risanamento", il cui programma è riassumibile nella celebre frase del presidente del Consiglio di allora, Agostino Depretis: "Bisogna sventrare Napoli". In tale contesto, segnato dalla perdita del padre a causa dell'epidemia colerica, Di Giacomo, pur avendo sempre ignorato -  come egli stesso afferma nella citata pagina autobiografica - il "vocabolario politico", scrisse venti sonetti intitolati 'O funneco verde (Napoli, Pierro, 1886) sul fenomeno dello sventramento urbano che stava mutando l'aspetto della sua città. Significativo fu, però, il suo incontro con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, i quali lo legarono "con vantaggiosi contratti prima ai giornali romani Capitan Fracassa, Cronaca Bizantina e Corriere di Roma e poi al Corriere di Napoli, dove l'autore Di Giacomo si occupò prevalentemente di cronaca e cronaca giudiziaria con lo pseudonimo Il Paglietta, il quotidiano che i due fondarono nel 1888 e diressero fino al 1892, quando lo lasciarono per creare Il Mattino". Ma scrisse anche di arte, firmandosi col proprio nome o con lo pseudonimo di "Salvador", di eventi mondani, quando sostituì la Serao, siglandosi "Snob" e "Vice", di cronaca nera e di cronaca varia.
La quotidianità del lavoro giornalistico lo aveva portato a contatto con la NAPOLI dei vicoli, quella più tormentata e vera, in un ambiente che lui, piccolo borghese, non avrebbe mai frequentato così da vicino, registrandone giorno per giorno con la penna e con la macchina fotografica le vicende umane che lo impressionavano maggiormente. Oggetto della sua osservazione del reale, che si riflette in una vera e propria posizione "sociologica" rispetto alla cultura cittadina, è lo spaccato di vita della plebe, caro ai topoi della letteratura verista: "Quello di Di Giacomo con la sua città […] è un rapporto d'amore, languidamente problematico. Il giornalista si muove nelle strade, nelle piazze della sua città guardando, spesso non capendo profondamente, ma intuendo, con lo slancio umanitario ed ispirato che gli apparteneva, un mondo convulso ed infelice che si agita dietro il facile folklore additato dai viaggiatori del secolo precedente. […] Il suo modo di concepire la napoletaneità […] è un tentativo di modificare l'immagine superficiale e scontata di una Napoli che si moverebbe soltanto dietro un cliché consunto, un canovaccio che prevederebbe sempre gli stessi gesti e le stesse battute. Per Di Giacomo, giornalista con una sensibilità di poeta, Napoli è invece un calderone di vita, di sofferenze, di fatti a volte incomprensibili ma sempre profondamente autentici anche nella loro gestualità teatrale […]".
Successivamente Salvatore Di Giacomo abbandonò la vita di redazione, amata ed odiata allo stesso tempo, per passare alla carriera di BIBLIOTECARIO, che svolse per circa quarant'anni, prima alla Universitaria, dal biennio 1894-1896 in poi, e poi alla sezione Lucchesi-Palli della Biblioteca Nazionale di Napoli, dove dal 1903 ottenne la responsabilità organizzativa e successivamente la nomina di direttore. Tuttavia "qualche cosa mancava sempre alla sua inquietudine spirituale", quella serenità dello spirito che nemmeno l'arrivo dell'amore per una donna molto più giovane di lui, che poi sposò nel febbraio del 1916 dopo un tormentato fidanzamento durato circa undici anni, riuscì ad appagare. Alla primogenita del magistrato Antonio Avigliano, ELISA, che Di Giacomo conobbe nell'estate del 1905 quando la ventiseienne si recò dal poeta quarantacinquenne per attingere notizie dirette per la sua tesi di laurea, incentrata proprio sulla poesia digiacomiana, furono scritte numerose lettere, dalle quali si evince la personalità intima del poeta, acceso da una folle passione ma, nel contempo, travagliato da una cupa gelosia. Queste lettere "mettono in chiara luce il profilo psicologico, estremamente "sensibile", per non dire neuropatico, dello scrittore e la sua dedizione assoluta all'arte e alla poesia", che sembrava amare più dell'amore stesso per la sua donna, quella donna che egli lascerà sola negli ultimi anni della propria vita, durante i quali fu colpito da una grave malattia che lo portò alla morte nell'aprile del 1934, cinque anni dopo la sua nomina come Accademico d'Italia.
Nel 1889 Di Giacomo, non ancora sposato, iniziò a frequentare la casa di BENEDETTO CROCE, con il quale ebbe "rapporti vari e variabili, secondo i rispettivi umori e le rispettive concezioni della vita, secondo la natura degli studi e delle attività pratiche connesse, a cui l'uno e l'altro si andavano via via dedicando: avvicinamento, per esempio, quando entrambi si muovevano sul terreno della minore storia napoletana, Croce attendendo ai Teatri di Napoli, Di Giacomo alla Cronaca del San Carlino, e i due prendendosi cura della nuova rivista Napoli mobilissima; distacchi più o meno prolungati quando il Croce si astraeva nei grossi problemi filosofici che si erano affacciati alla sua mente, o apriva la breve parentesi ministeriale, e Di Giacomo […] si buttava senza respiro nella produzione canzoniera".
Una parte della critica ha affermato che la vasta e varia opera digiacomiana "ha il suo segno unitario e il suo sigillo nella poesia", la quale si snoda tra "una fase più propriamente veristica e narrativa" ed "un'altra più intimamente fantastica e sentimentale". Nella veste di cantore e POETA di Napoli, Di Giacomo si è "immedesimato nella vita, nella storia, nella lingua e nel dialetto della sua città, fino a diventarne un simbolo e un emblema" universale. L'inizio della sua produzione in versi fu precoce (Sonetti, Tocco di Napoli, 1884) e risale all'inizio degli anni Ottanta dell'Ottocento, quando iniziarono ad apparire sui giornali e periodici napoletani delle sue liriche dialettali o canzoni, "con un'indistinzione sostanziale di cui occorre far gran conto", come annota Antonio Palermo nel saggio che ha dedicato all'autore nel suo volume Da Mastriani a Viviani. Tra i suoi celebri componimenti si ricordano il poemetto 'O munasterio (1887), Zi' munacella (1888), ed ancora Pianefforte 'e notte, Marzo e 'Na tavernella 'ngoppa Antignano. Oltre alla sua prima canzone di successo, Uocchie de suonno (1882), inizialmente con la musica di Francesco Andreatini e poi due anni dopo con quella di Mario Costa, nella cui versione il nome viene cambiato in Napulitanata, i suoi brani furono musicati da validi artisti, quali lo stesso Mario Costa per la celebre Era de maggio (1885), Enrico De Leva che rese famosa 'E spingole frangese (1888), Eduardo Di Capua per 'A retirata d' 'e marenare (1890), Francesco Paolo Tosti per la melodia Marechiare, che, scritta nel 1885, ebbe un successo internazionale e fu tradotta persino in latino. Non vanno dimenticati, poi, i libri di prose narrative Minuetto settecentesco (Napoli, Pierro, 1883), Nennella (Milano, Quadrio, 1884), Mattinate napoletane (Napoli, Casa Ed. Art. Let., 1886) e Rosa Bellavista ("Napoli letteraria", 1886).
Nella produzione digiacomiana, all'attività poetica (dal 1882 in poi) e novellistica (dal 1877 in poi) si affianca quella teatrale (iniziata nel 1888-89), che, pur essendo posteriore di circa un decennio rispetto alle prime due, è comunque strettamente legata ad entrambe da un rapporto di derivazione o di influenza tematico. A dimostrarlo sono i DRAMMI A "San Francisco" (1897), che è una riduzione teatrale dell'omonima collana di sette sonetti del 1895, 'O voto (1889), l'atto unico 'O mese mariano (1900) e i due atti Assunta Spina (che debuttò al Teatro Nuovo di Napoli, 27 marzo 1909), i quali sono la versione scenica delle novelle Il voto (1888), Senza vederlo (1884) e Assunta Spina (1888). L'interesse di Di Giacomo per i teatro si manifesta a priori nella sua revisione del linguaggio napoletano della commedia di Achille Torelli 'O buono marito fa 'a bona mugliera (Fenice di Napoli, 1886). Nel 1886-1887 si colloca la commedia lirica in tre atti La Fiera, con musica di Nicola D'Arienzo e versi digiacomiani derivati dal testo di Alberto Nota (Teatro Nuovo di Napoli, 1 marzo 1887), mentre al 1887-1888 risale la sua versione in dialetto dei drammi Santa Lucia e A bascio puorto di Goffredo Cognetti, il quale sceneggiò il dramma Mala vita (Teatro Nuovo di Napoli, 27 aprile 1889) ricavandolo a sua volta dalla novella digiacomiana Il voto.
Sull'importanza delle trasformazioni che subiscono i testi digiacomiani, nel passaggio dalle stesure narrative e liriche a quelle drammaturgiche, si è soffermato ancora una volta Antonio Palermo nel saggio sopraccitato, sostenendo che l'"esempio apparentemente più chiaro di una doppia partita con se stesso, Di Giacomo lo fornisce con il suo teatro", ma sarebbe "semplicistico e inesatto parlare di un compito puramente divulgativo" assolto dal teatro digiacomiano, poiché "facendo da tramite essenziale per il rapporto con il pubblico fu proprio il teatro a costringerlo all'invenzione, come prova l'assai tarda (1909) realizzazione scenica di Assunta Spina".
Di Giacomo dimostrò anche un interesse teorico per le vicende storiche dei teatri napoletani, che confluì nelle singolari CRONACHE raccolte nei volumi Napoli, figure e paesi (Napoli, Perrella, 1909) e Luci ed ombre napoletane (Napoli, Perrella, 1914). Ma il forte senso del teatro che l'autore possedeva si avverte, in particolare, nella monografia intitolata Storia del teatro San Carlino del 1918 e negli articoli Teatro dialettale ("Corriere di Napoli", 6 giugno 1898), Pel teatro dialettale ("Fortunio, 16 ottobre 1898") e Per un repertorio dialettale ("Il teatro moderno", n. 7, 5 luglio 1904), in cui, rispondendo all'articolo di Eduardo Scarpetta apparso nel numero precedente dello stesso giornale ("Il teatro moderno", n. 6, 19 giugno 1904), Di Giacomo sostenne l'impossibilità della formazione di un teatro popolare napoletano: "Voi dunque credete o volete far credere ch'io tenti appunto la composizione d'un teatro drammatico stabile napoletano? Siete in errore. Io desidero semplicemente scrivere - e incitare altri perchè pur le scriva - delle commedie napoletane: di sentimento, di ambiente, di dialetto napoletani. Non soltanto ma - delle commedie in cui non esclusivamente la tragicità ma si rattrovi pur tanta altra e svariata espressione della nostra fisionomia locale e teatrabile". Intervennero nella polemica, sviluppatasi sulle pagine del Teatro moderno, altri critici e letterati napoletani, tra cui Ferdinando Russo (numero del 25 agosto) e Roberto Bracco (numero del 10 ottobre). A questo gruppi di articoli digiacomiani, si accosta quello intitolato Il "San Ferdinando" (Napoli d'oggi, Pierro, 1900, pp. 419-438), riguardo al teatro popolare di Federico Stella. Salvatore Di Giacomo, che "rimane il più autorevole propulsore della nostra scena vernacolare",[18] attraverso i suoi "personaggi", "figure dalla doppia esistenza, quella di semplici persone, di napoletani immersi nella gran folla della grande metropoli, e quella di attori, che continuano ad essere altri da quello che sono, un poco confondendo di continuo le due esistenze che in fondo hanno confini in identificabili,  […] vive tutto l'universo napoletano nelle sue ascese e nelle sue decadenze".
L'elemento caratterizzante l'attività teatrale, che si apre quindi con 'O voto, e che distingue i drammi dalle novelle è senza dubbio l'uso DIALETTO, impiegato d'altronde nei testi lirici, "in cui la visione della realtà locale si combina con le tendenze della poesia europea contemporanea". Se nelle seconde Di Giacomo "utilizza la lingua letteraria, se pur avvicinata alla lingua parlata, che gli sembra lo strumento naturale per raccontare le storie dei suoi personaggi, nei drammi, come nelle poesie e nelle canzoni, ritiene necessario usare il dialetto, che è il linguaggio del teatro popolare napoletano, al quale egli si rifà, anche se avverte il bisogno di conferirgli una nuova dignità d'arte". Il suo teatro si ricollega, dunque, alla storia del teatro popolare napoletano, ma l'uso del dialetto, che apparentemente contraddice il suo ideale di "teatro d'arte" ispirato alla verità, al decoro, alla misura linguistica ed artistica, fu in un certo senso "una scelta obbligata, come era stata per le poesie e per le canzoni, perché era la lingua del popolo che Di Giacomo portava sulla scena e di cui rappresentava la vita. E se questo linguaggio non era il "dialetto letterario", al quale inclinava il Torelli, ma il "dialetto parlato", in realtà questo dialetto era regolarizzato nella grammatica e nella sintassi, scelto e sorvegliato nel lessico e in definitiva rimodellato sulla lingua letteraria". Sull'intera arte di Di Giacomo "si stende - ha dichiarato Toni Iermano - un velo di malinconia che la indirizza verso rotte artistiche non classificabili secondo definizioni rigide. D'altronde Di Giacomo non si era voluto ascrivere al mondo dei letterati napoletani bensì a quello pittorico e musicale".
Alla fine di questo excursus sulla poliedrica produzione artistica di Salvatore Di Giacomo, impegnato su diversi versanti in qualità di giornalista, bibliotecario, erudito, traduttore, fotografo, autore di racconti, poesie, canzoni nonché di drammi e copioni cinematografici, sembra interessante ricordare l'atteggiamento dell'autore nei confronti delle severe critiche lanciate contro il suo teatro da parte dell'ambiente teatrale sia napoletano che nazionale. La sua posizione è ben descritta nella parte conclusiva della Pagina autobiografica:
In quanto a quello che io scrivo "per me", voi potete trovarlo ne' miei libri. L' "io" ho cercato di sempre accamparvelo: esso vibra per nevrotica necessità in tutte le cose mie, e, per quanto io m'adoperi a tenerlo a bada, quello riesce in mezzo, come si dice, pel rotto della cuffia. Per un certo mio innato vizio di spiritualità è accaduto, qualche volta, che la critica materialistica m'abbia smembrato, ed i molti pezzi della mia forma sentimentale abbia appeso, palpitanti, alla sua beccheria forestiera. Io non m'irrito, né m'addoloro […]. Ogni critico sceglie le sue vittime; ognuna di coteste guardie di finanza dell'arte esige un dazio alla barriera. Si può perfino sopportarla questa vecchia signora petulante e zitellona. Ma, quando si parla di arte e di gioventù, io non so non amare i giovani che danno del loro cuore e della lor mente, coloro che hanno per innamorata l'arte e per grammatica una serenata!...
In tali parole si intravede chiaramente l'amore dell'autore verso la propria arte, quell'arte che trae dalla realtà la finzione scenica e fa della stessa scena il palcoscenico della vita, in cui ad indossare le maschere siamo tutti noi, personaggi di un teatro che, "disgraziatamente, non è mai la verità".
L'interesse per l'orizzonte digiacomiano si è risvegliato in occasione del cinquantenario della morte dello scrittore, nel 1984, e successivamente nel più recente centocinquantenario della sua nascita, celebrato a Napoli il 10 marzo 2010 durante il Convegno Ritorna Di Giacomo? Bilancio e prospettive di una storia a 150 anni dalla nascita (1860-2010), promosso dall'Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Dipartimento di Filologia Moderna della Federico II, diretto dal professore Pasquale Sabbatino. Tuttavia, queste celebrazioni non si sono concretizzate nella realizzazione di un'EDIZIONE CRITICA e integrale delle opere dello scrittore napoletano, la maggior parte delle quali sono conservate attualmente nella Raccolta Di Giacomo sita nella sezione napoletana Lucchesi-Palli della Nazionale e catalogate sul sito Archivi Teatro Napoli nella sezione Bibliografia digiacomiana (a cura di Antonio Laurino).
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FRONN’ ’E LIMONE!

Fronn’ ’e limone!…
Ma comme, nun ce sta n’ ato barcone?!…
Uno nn’ esiste – e st’ uno ’o tengo ’e faccia!
E Vostra Signuria piglie e ss’affaccia.
E Vostra Signuria vo’ cagnà casa…
Fronn’ ’e cerasa!
Pecché ca se risturba, oi, si mme vede…
(E seicento ducate a chi ce crede!)

E chi ce crede e ba!…
Ma i’ sa’ che ssaccio?
Ca Vostra Signuria piglie nu terno
quann’ ’i mm’ affaccio…

Fronn’ ’e giacinto!
E già ch’ è chesto, e trasetenne dinto…
Ma stu barcone tuio ncaglia e nun chiure –
e chi ’e rimpetto sta, ndrinche, e tt’ affiure.
T’ affiuteno st’ uocchie ammaistrate…
Fronne ’e granate!…
E mme fanno assapé cchiù chiaramente
ca ’o barcone ’o nchiurite, oi, nfintamente…

E nfintamente e ba’!…
(Vuie mme piacite!
Ma mme piacite assaie – si ’aret’ ’e llastre
v’ annascunnite…)

Fronn’ ’e viola!…
Figliole comm’ a me, sentite ’a scòla:
Vulite ntussecà nu nnammurato?
Facite nfenta ca guardate a n’ ato.
Nfenta facite, oi, comme nfenta io faccio…
Frunnella d’ accio!…

(Pecché si stu figliulo mme llassasse,
’a copp’ a na muntagna i’ mme menasse! )

ARIA D’ ’O SETTECIENTO

Na mulinarella
ca ’o ggrano sfrantuma,
sfarina e cunzuma
stu core purzì!
E quanno io lle porto
nu cuofeno chino,
vicino a ’o mulino
lle dico accussì:
Oi mulinarella,
si e’ perzo ’o patrone,
rummaso è ’o guarzone
ca more pe tte!
Tu mo nun puo’ certo
restà veduvella,
si’ bbona, si’ bella,
ricordate ’e me!

E si nun me cride,
stu core ’o vvi’ ccanno!
Tu ’o puo’, sfarenanno,
cu ll’ acqua mpastà!
E si nun te pare
ca ll’ acqua è cucente,
sti llacreme ardente
ce pozzo mmiscà!
Oi, mulinarella,
ca e’ perzo ’o patrone,
ce sta stu guarzone
ca more pe tte!
Che faie? Vuo’ pe forza
restà veduvella?…
Oi, mulinarella,
ricordate ’e me!



OI MA’; QUANNO…

Oi ma’, quanno mme dice
c’ a tiempo tuio filave,
facive ’a culatella,
cusive, arrepezzave,
e a ll’ ora d’ ’e galline
po’ te ive a cuccà –
che mme vuo’ da’ a rentennere?
Va, va, nun me fa’ rirere!

Va ’o cconta a n’ ata,
oi ma’!
Tanno!… Ma tanno quanno?
O tanno, o mo,
maie s’ è cagnato ’o munno!
E chello ca faccio i’
ll’ e’ fatto pure tu,
mamma,
a bint’ anne!…

Oi ma’, vide che luna,
che luna ianca e ddoce!…
Tu pienze ’o tiempo antico–
e i’ penzo ca na voce
«Meh, scinne!… – a n’ ato ppoco –
Meh, scinne!…» diciarrà…
E che vurrisse? Spieghete…
Ca i’ nun avesse scennere?

Va ’o cconta a n’ ata,
oi ma’!
Tanno… Ma tanno quanno?
O tanno, o mo,
maie s’ è cagnato ’o munno…
E chello che faccio i’,
ll’ e’ fatto pure tu,
gioia,
a bint’ anne…






CE STA NA COSA…

Ce sta na cosa
c’ abbruscia, ca coce,
ca quanno s’ appiccia
fa luce, fa luce…
E ’o masterascio,
ca nziemm’ a ’o ferraro,
ca nziemm’ a ’o furnaro,
ca nziemme c’ ’o cuoco,
ll’ annommena ’o ffuoco,
na cosa cchiù llustra,
cchiù ardita e cucente,
nun sape e nun sente…
Va trova pecché!…
Pecché – nun te sape!
Teresa!
Teré!…

Ce sta na vocca
ca pare na rosa,
ca è nata p’ ’e vase,
ca è ddoce e azzeccosa!
E se sta zitta
cu mme puveriello…
sta vocca ’e pupata
ca pare n’ aniello!
Teré! Si’ crudela!
Io so’ na palomma,
ma tu na cannela
mme pare cu mme!…
Mme chiamme – e mm’ abbrusce…
Teresa!
Teré!…
È STATA VIULANTE!…

Figliola, ca staie ncopp’ a stu barcone,
giacché mm’ e’ visto e famme na finezza:
mìneme stu carofeno schiavone,
ca io mme l’ appizzo mpietto pe bellezza.
E a chi mme dice: «Oi ni’, chi ve l’ ha dato?»
Dico: «E chi ’o ssape? E mme l’aggio abbuscato…»
E mme l’ aggio abbuscato – ’a na bella figliola
ca mm’ ha fatto fa’ ciento giuramente,
ca si mme scappa
na parola sola,
’a perdo
eternamente…

(Ma si tu mme tradisce,
’o dico a tuttuquante
stu nomme ca pe mo saccio sul’ io…
«È stata Viulante!…»)
Ah!
Viulante, Viulante!
Core ’e stu core mio!…

Anze mo abbàre a te, bella figliola,
c’ aggio saputo quanto si’ crudele!
Ca sincera nun si’ pe n’ ora sola!
Ca pe mez’ ora sola si’ fedele…
Mme l’ hanno ditto e mme l’ hanno avvisato
tutte ll’ amice e tutt’ ’o vicenato.
E a tutto ’o vicenato – aggio ditto ’a buscia…
E siente che buscia c’ aggio ammentata:
«Gnernonzignore!
’A nnammurata mia,
no, nun è chella,
è n’ ata…»

(Ma si tu mme tradisce
’o dico a tuttuquante
stu nomme ca pe mo saccio sul’ io…
«È stata Viulante!…»)
Ah!
Viulante, Viulante!
Core ’e stu core mio!…




NCOPP’ ’O PALCUSCENICO ’E L’ «EDEN»

– Si te vengo a sentì quacche sera,
quanno cante e tte sbatteno ’e mmane,
si addiviente cchiù ghianca d’ ’a cera
nun appena me vide spuntà,
che vo’ di’?… Ma tu ’o ssaie! Tu mm’ ’o ddice
cu sta voce ca tremma ogne tanto…
Ride! Abballa!… E pur io veco ’o chianto
dint’ a st’ uocchie lucente passà…
Ma comme, comme?! Ma dimme…
Nun t’ ’e ricuorde ’e serate
quanno – ’int’ a ll’ombra d’ ’e strate
sulagne –
tenennote ’a mano
nzerrata ’int’ ’a mia–
cantavemo nzieme p’ ’a via…

Vieni – e riposa
la fronte qui, sul mio cuore…
Cuor che non osa,
ma trema d’amore…

Te chiammave Assuntina «’a pupata».
Ire onesta… Ire sarta vitosa…
E mo, tutto na vota, sciantosa!
E te chiamme Floretta Bijou!…
…………………
…………………
– No, no!… Basta!… ’O bbi’ ccà… Mo mme vesto…
Mo mme metto nu sciallo e tt’ arrivo!…
Llà – ’o puntone d’ ’o vico ’e Baglivo…

Comme a primma!… Nu zumpo e sto llà!…
Ma pure mo… comm’ a primma…
Mm’ e’ ’a tené strenta… afferrata!
Mo… dint’ a ll’ ombra ’e na strata
sulagna,
mo scòrdete ’a mano
ca io nzerro ’int’ ’a mia!
E canta – e cantammo p’ ’a via…

Vieni – e riposa
la fronte qui, sul mio cuore…
Cuor che non osa,
ma trema d’amore…

FEMMENE, FEMMENE!…

I
– Femmene, femmene, femmene!…
– diceno tutte ll’ uommene –
vuie site ’a corpa e ’a causa
’e tutte ’e guaie ca passeno
chille ca nun suspetteno
vuie che sapite fa’!…
E lèvete,
arràssete!
E ndanderandà!…

Fronne ’e fenucchie!
(Oi sciorta, oi sciorta nfama
e traritora!
Ca primma ll’ alluntane–
e po’ ll’ accucchie!…)

– L’ uommene, ll’ uommene, ll’ uommene!
– diceno tutte ’e femmene –
nun s’ hanna maie cchiù sèntere!
Nun s’ hanna maie cchiù credere!
Chi è d’ ’a razzimma ’e ll’ uommene
ngalera ha dda fenì!… –
E scostete,
arràssete!
E ndanderandì!…

Fronne ’e fenucchie!
(Oi sciorta, oi sciorta nfama
e traritora!
Ca primma ll’ alluntane –
e po’ ll’ accucchie!…)

II
Femmene? Tutte pèsseme!
Femmene? Tutte nfame!
E chesta nun è chiacchiera
ma è pura verità.
E ’a quanto tiempo ll’ uommene
stanno dicenno chesto?

==>SEGUE
E ’a quanta, ’a quanta sècule
nun ponno maie lassà
sti femmene?…
(Sti femmene
ca ’e fanno disperà!)

Femmene? Cchiù terribbele
d’ ’e gatte traritore!
Vedite, a chi ll’ allisceno
che scippe sanno fa’!
Embè, quanto cchiù ’e scìppeno,
quanto cchiù ’e fanno male
cchiù chille se nce azzeccano,
cchiù nun ponno addumà
sti gatte… – (o sia,
sti femmene
ca ’e fanno disperà!…)
DUIE CARUOFENE SCARLATE…

Duie caruofene scarlate,
ca ’int’ a ll’ acqua ’e nu bicchiere
tengo nfrisco ’a doie tre sere,
nun se songo cchiù seccate.

Cchiù de primma, anze, e cchiù meglio
se so’ apierte e spampanate:
cchiù adduruse e cchiù priggiate
quase pareno accussì.

Sissignore…
Ma l’ ammore
(mo ca ’o bbeco e ca ’o ccapisco),
Sarrafì, si ’o tiene nfrisco,
perde forza,
perde addore…
E succede c’ alla fine
chillo ’e primma…
chillo ’e primma cchiù nun è.

Dimme, dimme– (ca sincera
si si’ tu pur’ io sarraggio)–
tu si’ ’a stessa ’e quanno t’ aggio
canusciuta a primmavera?

E tu rire, e dice: – E dimme:
si’ tu pure ’o stesso ’e tanno?
O tu pure staie penzanno
cierti ccose ca penzo i’?… –

Chillo pure!
Ah, ca l’ammore
(mo ca ’o bbeco e ca ’o ccapisco),
quanto cchiù ’o tenimmo nfrisco
perde forza,

perde addore…
E succede c’ alla fine
chillo ’e primma…
chillo ’e primma cchiù nun è!

SERENATA A NA VICINA

Viuline, accumpagnateme nzurdina,
e vuie, chitarre, nun ncasate ’a mano:
porto sta serenata a na vicina
ca lle piace d’ ’a sèntere ’a luntano.
Mm’ arraccumanno: ’a musichetta è fina
’O coro – zitto zitto e chiano chiano
’o coro ha dda di’: «Bella!
Cchiù bella ’e tant’ ate!
Scusate,
e cumpatite
chesta serenatella…»

E tu, luna sincera,
luna ianca e gentile,
tu falla ntenerì!
Stammo ’int’ abbrile…

Abbrile addora – e vuie site addurosa!
D’ ’e ruselle nuvelle abbrile è ’o mese,
e ’a vocca vosta è na rusella nfosa!
E ’o core vuosto è tiénnero e mullese!
Marzo v’ ha dipingiuta cuntignosa:
abbrile v’ ha dda fa’ doce e curtese!…
E ’o coro ha dda di’: «Bella!
Cchiù bella ’e tant’ ate!
Scusate,
e cumpatite
chesta serenatella…»

E tu, luna serena,
luna doce e gentile,
tu falla ntenerì…
Stammo ’int’ abbrile!…



LL’ORA ’E LL’APPUNTAMENTO

Miérolo, ntricariello e chiacchiarone,
ca t’ ’a faie ncimm’ a st’ arbere ’e ciardino,
e quanno passa Rosa te n’ adduone,
e si attocca fai pure ’o surdiglino,

sa’ che t’ aviso? Quanno passa Rosa
fa comme proprio nun te n’ accurgisse:
e si ’a vide cu mmico fa na cosa,
fa comme nun vedisse e nun sentisse…

Quanno ’a luna se sbroglia d’ ’o velo
d’ ’e nnuvole – e saglie,
cchiù ghianca
p’ ’o cielo…
Quanno siente nu suono ’e campana,
luntana luntana,
sunà
lento lento…
statte zitto… Ca è ll’ ora
’e ll’ appuntamento!

Miérolo, e si ce vide, a mmano a mmano,
scarpesà fronne secche apped’ ’o muro,
e scinne ’a miez’ e’ rame chiano chiano,
e alluonghe ’a capuzzella dint’ ’o scuro,

che vide? Vide ll’ ombre sulamente…
Che siente? Appena appena nu suspiro…
E che t’ affanne a fa’, pe tené mente
dint’ ’o ciardino sulitario e niro?…

Quanno ’a luna se sbroglia d’ ’o velo
d’ ’e nnuvole – e saglie,
cchiù ghianca
p’ ’o cielo.
Quanno siente nu suono ’e campana,
luntana luntana,
sunà
lento lento…
statte zitto… Ca è ll’ ora
’e ll’ appuntamento!

==>SEGUE
Miérolo, e si tu si’ nu frubbacchione,
nun te credere, no, ca simmo scieme!…
Nn’ ’o ssaie ca ’o pate ’e Rosa è mbriacone?
Ca simmo amice, e ca vevimmo nzieme?…

Stasera ha strutte tre carrafe ’e vino,
e ce simmo abbracciate alleramente!…
Mo… dorme, ’o gnore… E dorme a suonno chino
E tu chiàmmalo… E bbide si te sente…

Quanno ’a luna se sbroglia d’ ’o velo
d’ ’e nnuvole – e saglie,
chiù gghianca
p’ ’o cielo…
Quanno siente nu suono ’e campana,
luntana luntana,
sunà
lento lento…
statte zitto… Ca è ll’ ora
’e ll’ appuntamento!




NA CASA MM’ AGGIA FA’…

Na casa mm’ aggia fa’ ncopp’ ’a muntagna,
e nu ciardino c’ ’o milocutugno,
cu na spallera ’e giesummine ’e Spagna
tutta nzertata cu rose sanguegne!
E ce voglio iettà, p’ ’a fa’ cchiù degna,
’e dudece carrì senza sparagno!

Oi, llà llà!
E chi ’a ngegna
dint’ abbrile
chesta casa
signurile,
chesta casa accussì bella?
Catarenella!

Ce voglio fa’ na càmmera a levante
ca nce ha dda venì ’o sole appena sponta,
e nce s’ ha dd’ affaccià, ianca e lucente,
’a luna ’a miez’ ’o cielo e ’a copp’ ’e monte!
E nun ce ha dda mancà, tutta d’ argiento,
pure ll’ acquasantera ’e ll’ acqua santa!

Oi, llà llà!
E chi ’a ngegna
dint’ abbrile
chesta stanza
signurile,
chesta stanza accussì bella?
Catarenella!

Ce voglio situà nu lietto ’attone,
cu quatto matarazze a tutta lana,
c’ ’o lenzulo pe sotto, oie, de cuttone,
e c’ ’o lenzulo ’e coppa ’e tela ’e lino!
E che cuperta, neh, che seta fina!

E che burdura ricamata a mano!…

Oi, llà llà!
E chi ’o ngegna
dint’ abbrile
chistu lietto
signurile,
e sta stanza accussì bella?
Catarenella!…
guarde distrattamente ’int’ ’e bbetrine…

AURORA ’INT’ ’O SPECCHIO

Oi primmavera – fresca e gentile
ca puorte nzino – rose e cerase,
ca te ne trase – c’ ’o mese ’abbrile,
e a maggio ll’ aria – faie cchiù addurà;
tu, ca sta giovane – chiammata Aurora,
tu, ca canoscere – mo mme l’ e’ fatta,
tu, c’ ’a faie sósere – sempe a primm’ora,
tu vuo’ sta storia – favuriggià!…

Aurora!
Aurora!
Giacché te cride
ca sulamente
st’ aria te vede,
te sbaglie,
gioia,
bellezza mia!
Tu nun me vide…
Ma i’ faccio ’a spia!

Sbatte stu core – tremma e t’ aspetta:
e tu ’int’ ’o specchio – mm’accumparisce…
Meza spugliata– mo faie tuletta…
Miezo stunato – me faie restà!
Te veco stennere – stu vraccio ’e rosa…
Te veco sciogliere – sti trezze nere…
Veco, ncantànneme – quacc’ata cosa…
Ma… ’o ppozzo dicere? – No, ca nu’ sta!…

Aurora!
Aurora!
Giacché te cride
ca sulamente
st’ aria te vede,
te sbaglie,
gioia,
bellezza mia!
Tu nun me vide…
Ma i’ faccio ’a spia!


==>SEGUE

Oi primmavera – fresca e gentile,
ca tiesse tante – tele d’ammore,
stienne ’e sta tela – nuvella ’e file,
ma statt’ accorta – nn’ ’e ffa’ spezzà!
Smuove sta femmena – cianciosa e fine.
«Va! – dille – affàcciate fora ’a fenesta!…»
Scétela ’e genio – quacche matina,
e famme sèntere – che ntenne ’e fa’…

Aurora!
Aurora!
Giacché te cride
ca sulamente
st’ aria te vede,
te sbaglie,
gioia,
bellezza mia!
Tu nun me vide…
Ma i’ faccio ’a spia!
MUTIVE ’E CANZONE

Mutive ’e canzone ’e tant’anne,
e tant’ anne fa,
cchiù ddoce, cchiù lente
turnateme a mente…

Venite, venite… Io ve sento,
parole, ca mo, chiano chiano,
e ’a tanto luntano.
turnate a stu core scuntento,
turnate a parlà…

Parole d’ ammore,
parole ’e dulore,
ca quase ncantato
rummano a sentì…

Ma tu, tu ca dint’ a sti vvoce,
(‘e tant’ anne fa! )
te vaie nzinuanno,
e mmurmulianno,

nun essere n’ ombra ca passa,
ca stenne na mano ’a luntano…
Ma strigne sta mano
c’ ’a toia tene strenta e nn’ ’a lassa…
E tuorneme a di’

parole d’ ammore,
parole ’e dulore,
ca io quase ncantato
starraggio a sentì..
Dimme, dimme, – zitto, zitto –
mme vuo’ bene?… Mme vuo’ bene?…
Fino a mo nun me l’ e’ ditto!…
Mm’ ’o vuo’ di’? Mm’ ’o vuo’ di’ mo?…

Ma tu quase, ’int’ a sti bbraccia,
viene meno, t’ abbandune…
E ’int’ a st’ uocchie, ’int’ a sta faccia,
quanta sì, Dio!… Quanta sì!…

DOIE «PURTICESE»

I
            Uno t’ha ditto…

Uno t’ ha ditto: «E che bella figliola!
Che bello purtamento signurile!
Oi purticesa, e ve ne iate sola,
cu st’ uocchie doce e stu viso gentile?…»

E tu nun ll’ e’ risposto.
E nun te si’ ddignata
nemmeno d’ ’o guardà…
Luntanamente

luceva – aperta – ’a cchiesa
’e San Ciro putente…
povera purticesa…
addó facette voto ’e te spusà.

E, annascosto addereto a na culonna
llà t’ aggio vista nterra addenucchià:
llà t’ aggio vista nfaccia a na Madonna
st’ uocchie, lucente ’e lacreme, aizà…

E tu, forse, mm’ ’e visto.
Ma nun te si ’ddignata
nemmeno ’e t’ avutà.
Po’ – lentamente –

si’ asciuta ’a dint’ ’a cchiesa
’e San Ciro putente…
povera purticesa!
addó te fece ’o voto ’e te spusà…


SIENTE, SI VIDE…

Siente… Si vide a chillo
nfamone ’e Gennarino,
dille ca è n’ assassino!
No… Nun lle di’ accussì!

Dille… E sì, sì… Dincello
ca è tristo! È scellarato!
Ca sempe chesto è stato!…
No… Aspetta… Nun ce ’o ddi’…

E si lle dice: «Rosa
vurria sfucà pur essa,
simbè pur essa stessa
sta incerta si ’o po fa’…»?

No… Di’ ca i’ sto chiagnenno!
Dille ca io stongo ardenno!
Dille ca io sto murenno!
Ma portammillo ccà…

VIRGILIANA
Dal francese antico.

Amice, ’a funtanella addó Ninetta
se veneva a mmirà,
guardate, è chesta ccà
mmiez’ a ll’erbetta.

E chella è ’a muntagnella addó saglieva
cu mme quase abbracciata:
addó ’a mana p’ ’a strata
io lle strigneva.

Mo vutateve ’a ccà: st’ arbero ’e noce
’o vedite? Addereto
a st’ arbero annascosta
quanno mm’ ha fatto ’a posta,
sapeva c’ ’a vedeva
mentre s’ annascunneva…

………………….
Funtana, muntagnella, arbero ’e noce,
chi ve pò cchiù scurdà?
Ve vengo a ringrazià!
Ll’ ammore è doce…




PE CARMELA…

                    Pane amava Eco vicina
                    Eco Fauno saltellante..
                    Leopardi – Da Mosco.

Pe Carmela ’aitàno more –
e Carmela a me vo’ bene:
ma cchiù in odio a me mme vene
quanto bene mme vo’ cchiù.

Che farria pe Carulina,
che farria! Ma penza a n’ ato.
E chist’ ato scellarato
già – pe n’ ata – ’a vo’ lassà…

CATENA…

Catena, ca mme tiene ncatenato
e nun te spiezze maie, si’ lleggia, e ppise!
Ma chi se ncatenaie stess’ io so’ stato:
e mo te porto ’a vintiquatto mise…




E TU PLGLIATILLO

’O core d’ ’a femmena
è comme a na lettera nchiusa.
Chi maie ce pò leggere?
Chi ’o pò scanaglià?

Mo abbruscia – mo spanteca –
mo piglie e t’ ammenta na scusa,
pe nun te fa ntènnere
ca sta p’ avutà…

E tu
pigliatillo
accussì,
comm ’i ’
ll’ accetto e mm’ ’o piglio…
Vuo’ sèntere?
E siente
nu buono cunziglio.
Cuntèntete ’e nun sapé
niente.

’O core d’ ’a femmena
è comm’ ’o rilorgio guastato,
ca mo ’o siente sbattere,
mo ’o vide fermà.

Inzomma, ch’ è ’a femmena?
Ched’ è? Nu mastrillo aparato.
E ’o povere sórece
è ll’ommo, ecco qua.

E tu
pigliatella
accussì,
comm’ i’

ll’ accetto e mm’ ’a piglio…
Vuo’ sèntere?
E siente
nu buono cunziglio.
Cuntèntete ’e nun sapé
niente…

==>SEGUE
QUANNO STAMMO VICINE…

Quanno stammo vicine
’a cchiù piccula cosa
o ce fa troppo male
o troppo bene:
’o certo è ca cuiete,
comme stanno tant’ate
nnammurate,
nuie nun sapimmo sta’…
Ma pecché?…
Ma chi sa?

Quanno stammo luntane,
e ca proprio st’ ammore
ce pare ca vo’ fa’
cattiva fine,
nu ricordo, nu suono
nu mutivo ’e canzone
’a passione
fa cchiù ardente scetà…
Ma pecché?
Ma chi sa!…

O vicine o luntane
è sempe ’a stessa cosa,
e overo nun ce pò
niente e nisciuno!
Comm’ a me tu te struie,
ca so’ sempe scuntento…
e so’ cuntento…
Che vo’ di’? Che sarrà?
Ma pecché?
Ma… chi sa?…



CHE FA?…

Che fa – quann’ overo ’a vuo’ bene –
si chella ca tu t’ ’e truvata
nun è na pupata
e ll’ uocchie celeste nun tene?
Che fa?
Si ’a vuo’ bene?

Sarrà dispettosa o crudela,
gelosa,
scuntrosa…
Sarrà chi sa che, pe chi ’a guarda…
Ma che te riguarda,
si è tutto pe te?

Che fa, si stu core ca tiene
ncatena cu ciento catene?
Si ’o piglia, si ’o lassa,
si ’o vota e ’o revota e ’o ntrattene?
Che fa?
Si ’a vuo’ bene?

E mo, tuttucciò che bbulite
dicite!…
Dicite
ca è brutta – ca ’o core nn’ ’o tene…
E ’i ’a voglio cchiù bene!
Cchiù bene accussì!

SI STU MIÉROLO MME SESCA…

Si stu miérolo mme sesca
quann’ i’ traso ’int’ ’o purtone,
che vulite, ave raggione,
nun me pozzo ribbellà.

Core a ccore isso m’ ha visto
ciento vote cu Nannina,
core a ccore – ogne matina
e ogne sera – raggiunà…


==>SEGUE
Mo vede a me sultanto. E fa stu sisco
comme vulesse dicere: «Ch’ è stato?»
Comme vulesse dicere: «’O ccapisco:
Nannina t’ ha lassato…»

M’ ha lassato. E sì, va bene…
Mme disprezza – sta cu n’ ato –
mm’ ha traduto – mm’ ha cuffiato–
c’ aggia fa’? Mm’ aggia sparà?

Si mme sparo e po’ che dice
sta simpatica vicina
ca è antipatica a Nannina,
e già sta pe s’ abbuccà?…

Miérolo, ca mo tuorne e fa’ stu sisco,
si’ fino! Mme vuo’ di’: «Mo ll’ e’ ncarrata!
Nannina è nfama? E tu miettela ’o ffrisco.
Chesta è mmeglia ’e chell’ ata…»
’E LLACREME D’AMMORE…

’E llacreme d’ ammore
so’ ddoce pe chi ’e cchiagne.
Ammore è nu dulore
ca, quanto cchiù se lagne
chi ’o prova, cchiù è felice.

E ’o ssape – e nun ’o ddice.

Nun t’ avantà, si asciutte
tènere st’ uocchie saie!
D’ ’o ffuoco c’ arde a tutte
tu pure abbambarraie!
Tu, ca nun si’ felice.

E ’o ssaie – ma nun o’ ddice…

LL’ ATO IUORNO…

Ll’ ato iuorno, scennenno p’ ’a strata
ca se parte d’ ’o Vommero antico,
quanno fuie mmiez’ ’o llario ’a Nfrascata
Nunziatina vedette passà.

«Primmavera!… – penzaie – sì… tu sola,
cu st’ arietta ca scioscia ’a matina,
tu, tu sola puo’ fa’ Nunziatina
a stu core c’ aspetta turnà…

St’ aria, st’ aria addurosa e suttile,
nun è ’a stessa pricisa ’e ll’ ato anno,
quanno, proprio priciso ’int’ abbrile,
p’ ’a Nfrascata scennette cu me?…»
………

Mme fermaie. M’ avutaie chiano chiano,
e vedette ca s’ era avutata:
mme faceva nu segno c’ ’a mano,
mme diceva cu ll’ uocchie: «Bonnì!…»

E cu ’e sciure d’ ’o tiempo e cu ’e vvoce,
Primmavera, ’a vi’ ccanno, è trasuta!…
Songo asciute ’e llimone acradoce,
e mo stanno ’e ccerase p’ ascì…




STAMMO ’INT’ AÙSTO E CHIOVE…

Stammo ’int’ aùsto e chiove,
nun pare cchiù ’a staggione:
ma nun me fa mpressione,
anze mme piace.

Mme piace st’ aria fresca
ca p’ ’a fenesta trase,
e ca mme pare quase
aria ’e ll’ autunno.

Mme piace si p’ ’a strata,
addó nun passa gente,
io sento sulamente
parlà ddoie voce…

Malincunia, tu, forse
tu, mme l’ e’ fatta amà!…
E tu resuscità,
tu ’a faie, stasera…

ARILLO, ANIMALUCCIO CANTATORE…

Arillo, animaluccio cantatore,
zerri–zerre d’ ’a sera
ca nun te stracque maie,
addó te si’ annascosto?
’A dó cante? Addó staie?…
Passo – e te sento.
E me fermo a sentí…
Zicrì! zicrì!
Zicrì! zicrì!
Zicrì!…

E me pare ca staie
(mmiez’ a ll’ èvera nfosa)
sott’ a sta funtanella,
e ’int’ a stu ciardeniello
ummedo e scuro
d’ ’o llario d’ ’o Castiello…

==>SEGUE




II
            Tramonto a Puortece

D’ ’a cchiesia ’e San Pascale
’a campana, ca sona
– cu nu suono argentino –
a mmatutino,

a poppa e a prora
sceta chi dorme ancora
ncopp’ ’o vuzzo e ’o vasciello
d’ ’o Granatiello.

E, tutto nzieme, se sente na voce:
«Ccà sta Teresenella ’a purticesa!
Ddoie pe nu rano ’e purtualle doce!
E so’ meglio d’ ’e fravule ’e cerase!…»

’A campana d’ ’a cchiesa
mo sona – cu nu suono
ca fa malincunia –
l’avummaria.

Sciso è int’ a ll’ onne
’o sole – e s’ annasconne:
’a vela ’e nu vasciello
pare ca luce, ncopp’ ’o cielo d’ oro
d’ ’o Granatiello…

E, ’int’ ’o silenzio, se sente na voce:
«Ccà sta Teresenella ’a purticesa!
Ddoie pe nu rano ’e purtualle doce!
E so’ meglio d’ ’e fravule ’e cerase!…»



E cammino… E mme pare
ca no: ca stale ntanato
dint’ ’a nu pertusillo
’e nu spicolo ’e muro…
O, chi sa, si’ sagliuto
ncopp’ a na petturata ’e na fenesta,
e te si’ annascunnuto
mmiez’ a na testa ’aruta
e n’ ata testa…
……………………..
Sera ’e settembre – luna settembrina,
ca ’int’ ’e nnuvole nere
t’ arravuoglie e te sbruoglie,
e ’a parte d’ ’a marina
mo faie luce e mo no –
silenzio, nfuso
quase ’a ll’ ummedità –
strata addurmuta,
(ca cchiù scura e sulagna
quase s’ è fatta mo,
e ca sento addurà
comm’ addorano ’e sera
cierti strate ’e campagna) –
arillo,
ca stu strillo
mme faie dint’ ’o silenzio
n’ ata vota sentì…
Zicrì! Zicrì!
Zicrì!
accumpagnate ’a casa
stu pover’ ommo,
stu core cunfuso,
sti penziere scuntente,
e st’ anema ca sente
cadé ncopp’ a stu munno
n’ ata malincunia–
chesta ’e ll’ autunno…



ASPETTA ’A PRIMMAVERA…

Aspetta ’a primmavera.
Aspetta ca stu velo
scuro d’ ’o vierno nu’ se vede cchiù.
Aspetta. Aspetta
na iurnata sincera,
n’ at’ aria, n’ ata luce e n’ ato cielo…

(E ’a bella primmavera
addurosa, è bbenuta –
ma pe tant’ ata gente e no’ pe mme.
E, ’o ssoleto, è passata,
fresca, priata,
allera –
e fermata nun s’è: se n’è fuiuta…)

Està, c’ adduorme – afosa,
abbagliante, pesante,
che martirio che si’!
Venesse autunno!
E cadessero ’e ffronne,
lentamente,
nziemm’ ’o silenzio suio,
ncopp’ a stu munno…

(Ma che buo’? Ma che guarde,
tanto luntanamente,
anema mia scuieta?
Che desidere cchiù,
si è troppo tarde?…)




BELLA, CA PE PAURA…

Bella, ca pe paura mm’ e’ lassato,
cchiù curaggiosa ’e me si’ ciento vote:
ciento vote stu stesso aggio penzato,
e ciento vote me ne so’ pentuto…
E tu, femmena e bbona, mm’ e’ lassato!…

E mme ne so’ pentuto e addulurato,
ma cagnà, ntanto, nun me so’ saputo.
Ah, si me fosse meglio cumpurtato!…
Che carattere nfamo aggio tenuto!
Ma me ne so’ pentuto e addulurato…

E pe sta furia mia t’ aggio perduta!
E pe sta furia mia mm’ e’ abbandunato!
E sta sbentura mia ll’ aggio vuluta!
E mo resto abbeluto e risarmato!
E pe sta furia mia t’ aggio perduta!…

E fenarraie ca te ne truove a n’ ato,
simbè dice ca no, ma ’o munno avota…
Ma chi, chi puo’ truvà cchiù ndusiasmato,
e chi cchiù furiuso n’ ata vota?!…
Ah! Quanto e quanto e quanto t’ aggio amato!…

SUSPIRATA

Sciore ’e limone!
E sciurillo ’e granato!
Ve dico ’a verità, si mme credite:
’a tanto tiempo aggio desiderato
nu bello giuvinotto, oi, pe marito!
E pe marito e ba!
Ca mme dicesse
tanta parole doce,
a musso a musso…
Ah!…
Sciore ’e viola!
E sciore ’e rosa ’e maggio!…
Nu’ aggio visto uno scicco propet’ ogge!
E mme songo fatt’ anema e curaggio,
quanno mm’ ha pezzecata liegge liegge…

==>SEGUE

           



E liegge liegge e ba!
Pizzeche e vase,
neh, addo sta scritto ca
fanno pertose?!…
Ah!…
Fronn’ ’e lattuca!
E frunnella d’ aruta!
Tutta stanotte so’ stata scetata…
E ’int’ ’e llenzola, ca mm’ hanno pugnuta.
io mme songo vutata e revutata…
Ah, si cu mmico – e ba! –
stu ninno scicco
stesse ’int’ ’a sti llenzola
azzicco azzicco!…
Ah!…

’E SPEZZIALE CA…

’E spezziale ca–
vonno ’e malate,
neh!
’E bbònno pe fa’ bene ’a spezziaria!
Vonno ’e mercante ca –
vanno a ’e mercate,
ll’ accuppatura, e sì, d’ ’a mercanzia!
E io vulesse
n’ ata cosa
ca nun è – fàcele avé…
E ’a vulesse, oi Maria Rosa,
schittamente
pe mme e te…

Embè, vulesse ca –
quanno parlammo
neh!
perdesse ’e rrecchie chi – ce sta sentenno!
E a chillo punto ca –
nuie ce vasammo,
a chi tanno ce sta tenementenno
dint’ a ll’ uocchie
lle venesse
comme fosse ’abbagliamento –
e ca quanno ll’ arapesse
nun bedesse
niente cchiù…


NA VOCE LUNTANA…

Na voce, luntana luntana,
risponne a sta voce: «Sto ccà!»
E mo, ca i’ saluto c’ ’a mano,
nu segno na mano mme fa…

Addio bastimento ca parte,
e Nina te puorte cu te!
Si ’o mare pe sempe ce sparte,
cchiù ’o mare nun voglio vedé…

E tu ca mme dice partenno:
«Nun passa nu mese e sto ccà!»
tu ’o ssaie ca te saccio e te ntenno,
tu ’o ssaie ca nun puo’ cchiù turnà…

Vatténne, vatténne… È fenuta
sta smania cucente, ’int’ a te.
Si no nun sarrisse partuta!
Si no te starrisse cu me…

DAMME ’A MANO…

Damme ’a mano… Lentamente
nu viulino sta sunanno,
e io te tengo, finalmente,
core a core, strenta a me.

Sento ’a toia dint’ a sta mano,
sento ’o sciato ’e sta vucchella,
e chist’ uocchie, chiano chiano,
dint’ ’e mieie veco guardà…

Quanta vote aggio penzato,
pure nzuonno, a stu mumento,
e ’int’ ’o suonno mancà ’o sciato
mme so’ ntiso comm’ a mo!…

Sottavoce, lentamente,
core a core, uocchie ’int’ a ll’uocchie,
mo te pozzo – finalmente! –
doie parole suspirà…
==>SEGUE




POESIE DI SALVATORE DI GIACOMO  - Parte Sesta
Una rara immagine di Salvatore Di Giacomo insieme agli amici fra cui spicca un giovanissimo Eduardo De Filippo, che nel 1948 sarà l'interprete principale (Michele Boccadifuoco) nella rappresentazione teatrale di "Assunta Spina" .
AMICE, SI VE DICE…

Amice, si ve dice
ca è stata colpa mia,
ve dice na buscia:
nun ’a credite.

Si fa vedé ca chiagne,
ca strilla o se dispera,
sta nziria nun è overa:
è finta, è finta!

So’ nierve? Embè, sti nierve
ll’ hanna passà, mmalora!
’E nierve ogne mez’ ora?!
Essì! Tu vide!…

Basta, si vo’ fa’ pace…
Che v’ aggia di’?… Va bene…
Spiàtele a c’ ora vene –
i’ ccà ll’ aspetto.
E' consultabile on line il Carteggio di Salvatore Di Giacomo, autore di saggi , novelle e celebri poesie in lingua napoletana divenuti testi di indimenticabili canzoni .
La catalogazione del carteggio, in gran parte inedito, per il suo carattere prevalentemente privato, evidenzia gli aspetti più intimi della complessa personalità dell' uomo Salvatore Di Giacomo, e permette una conoscenza più profonda della sua sfera sentimentale ancora inesplorata , interessante è anche la sua corrispondenza pubblica con le  autorità istituzionali ed i protagonisti più illustri della cultura del tempo.
L'epistolario del poeta napoletano, fin dagli anni '60 è patrimonio della Biblioteca Nazionale di Napoli ed è collocato nella sezione teatrale Lucchesi Palli , che il bibliotecario Di Giacomo diresse per un trentennio, dal 1902 al 1932 -tranne un piccolo nucleo di autografi digiacomiani conservati presso la Sezione Manoscritti- .
Il nucleo storico di circa 400 epistole, si è arricchito, a seguito di un recente acquisto, di un ponderoso e significativo carteggio di 1600 lettere autografe, telegrammi, foto con dedica e cartoline illustrate della collezione privata del bibliofilo Costantino Del Franco, che ha consentito di meglio approfondire una figura artistica ed intellettuale che tanta parte ha avuto nella diffusione della cultura e della musica partenopea.
Si prevede a breve di completare la catalogazione con il riversamento online delle descrizioni e delle immagini digitali degli autografi delle poesie, delle opere teatrali letterarie e musicali, schizzi, disegni e fotografie con dedica, che rappresentano una fonte inesauribile di ricerca per gli studiosi della storia del teatro e della musica napoletana dei secoli XIX-XX.
Al carteggio si accede attraverso Manus online, il data-base di dati e di immagini per il censimento dei manoscritti in alfabeto latino conservati nelle biblioteche italiane, curato dell'Istituto Centrale del Catalogo Unico.
La catalogazione completa del carteggio di Salvatore Di Giacomo, è stata curata da Rosaria Savio della Biblioteca Lucchesi Palli, nell'ambito di un progetto di catalogazione e digitalizzazione della Biblioteca Digitale Italiana, con la collaborazione di Maria Rosaria Grizzuti, responsabile per la BNN della gestione del catalogo Manus, e del personale della sezione Mediateca (Luigi Mainini, Felicetta Velardo, Vanda Rosati).