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NINO MARTOGLIO

CENTONA*
* Confusione di voci di più persone: chiucchiuriaja, badanai, centone.

RACCOLTA COMPLETA
DI POESIE SICILIANE
CON L'AGGIUNTA DI ALCUNI
COMPONIMENTI INEDITI
E DI UNA PREFAZIONE DI
LUIGI PIRANDELLO



Note.

I

– L'A. fondò e diresse, per ben 15 anni, in Catania, il giornale d'Artagnan, divenuto popolarissimo e oltremodo battagliero. Esso gli procurò molti processi e moltissimi duelli, nonchè molti nemici: ma gli diede, altresì, non poche soddisfazioni, fino al giorno in cui ne sospese la pubblicazione, per realizzare il suo vecchio sogno del Teatro Siciliano, al quale si è, da allora, completamente dedicato)
Sciatu (sospiro)
Arrinisciutu (riuscito, fatto grande, bello, robusto)
Agghiuttutu (inghiottito)
Straburutu (disperso).

II

Nn'haju (ne ho)
Tanticchia (tantino)
Cutulïata (abbacchiata, sveglia)
Cavarcu (cavalco)
Friscuni (forte fischio)
Jmenta (giumenta)
Strinciu (stringo)
Brigghia (briglia)
C'âti (che avete)
Graputu (aperto, nel senso di: guadagnati, espugnati)
Sbarriata (serrata con barre, non spranghe).

III

Mafiuseddu (maffiosètto)
'Nguanti (quanti)
Pircanti (spiriti, quindi trapassati)
Azziccanu li denti (addentano)
Salifiziu (specie di scorpione velenosissimo – dal francese écrevisse )
Non ti scanti (non hai paura, o timore)
Scagghiuni (denti incisivi)
Si l'accarpi (se li prendi fra l'unghie).
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
Nino Martoglio

PREFAZIONE
_________

di
Luigi Pirandello
__________________
Mentre egli vive qui, e vivrà ancora per tanto e tanto tempo, e canta e ride e piange e freme in tutta la sua opera arguta e schietta, così calde e sincere simpatie suscitando col suo canto in tutto il popolo della sua Sicilia, e tante risa e tanta commozione ogni sera, nei teatri d'Italia, negli innumerevoli spettatori delle sue commedie e dei suoi drammi, pensarlo morto (e d'una così inopinata orribile morte!), pensare che non potrò più rivederlo nella fraterna consuetudine che avevo con lui e nella quale di giorno in giorno mi si rivelavano tutti i moti della sua nobilissima anima e del suo cuore generoso, moti che, seppur talvolta violenti e inconsiderati, palesavano sempre in lui l'eterno fanciullo-poeta: tanto oscuro e freddo turbamento mi cagiona e tal dolore mi dà, che non m'è possibile mettermi a scrivere ora di lui, come vorrei.
Nino Martoglio è per la Sicilia quello ch'è il Di Giacomo e il Russo per Napoli; il Pascarella e Trilussa per Roma; il Fucini per la Toscana; il Selvatico e il Barbarani per il Veneto: voci native che dicono le cose della loro terra, come la loro terra vuole che siano dette per esser quelle e non altre, col sapore e il colore, l'aria, l'alito e l'odore con cui vivono veramente e si gustano e s'illuminano e respirano e palpitano lì soltanto e non altrove.

Nino Martoglio è tutta la sua Sicilia, che ama e che odia, che ride e giuoca e piange e si dispera, con gli accenti e coi modi che qui in Centona sono espressi per sempre, incomparabilmente. Giornalista per tanti anni nella sua nativa Catania, figlio di giornalista, fondò e diresse il d'Artagnan, la cui memoria è ancora vivissima nell'Isola: miniera inesauribile di spirito. Per la coraggiosa e audace satira della vita cittadina, per certi tipi colti dal vero, e certi epigrammi ad hominem e certi dialoghi di finissima arguzia paesana, parecchie volte dovette battersi in duello, e più d'una col rischio di perderci la vita.
Don Procopio Ballaccheri fu, in quel giornale, quel che poi Oranzo E. Marginati fu nel "Travaso delle idee"; e il Lucatelli lo riconosceva e lo dichiarava; e il Martoglio ne era orgoglioso. Morti tutti e due, adesso, e prima del tempo!

Famosissima rimase, dell'attività giornalistica e poetica di quegli anni, la satira politica in versi: La triplice alleanza; tanto che non fu possibile al Martoglio eliminarla, come forse avrebbe voluto, dalla raccolta dei suoi versi. E si trova ancora, difatti, e si legge con piacere, in fondo a questa Centona, che lo fa, dopo il Meli, il poeta dialettale più espressivo del popolo siciliano.

Tutti in Sicilia conoscono Centona. Le edizioni di essa si esauriscono e si rinnovano continuamente; questo è il segno che il popolo riconosce nel suo poeta la sua voce. Il che basta a perpetuare la fama del Martoglio anche se di queste liriche appassionate o giocose, di questi tanti sonetti, in cui un intero dramma, un'intera commedia, son racchiusi con potente efficacia nel giro di quattordici versi e tante volte in una sola parola o in un gesto espressivo, segnato con un'esclamazione, la critica ufficiale del Continente non ha mai mostrato di accorgersi bene. Sonetti come La cira sono autentici capolavori. E sono parecchi.

Ma Nino Martoglio non fu poeta lirico soltanto: fu anche commediografo acclamato, in lingua e in dialetto. Tutti immaginano facilmente le grandi soddisfazioni che l'esito trionfale d'alcune commedie gli procurò; ma nessuno forse immagina quanto gli costò d'amarezze, di cure, di fatiche e anche di denari il teatro siciliano che vive massimamente per lui e di lui e di cui egli fu il vero ed unico fondatore. Fondatore rivelatore, poichè fu lui a mettere per il primo in luce e in valore i suoi attori più grandi, ora giustamente famosi; il Musco e il Grasso; e poi gli Spadaro e il Lo Turco e l'altro Grasso, la Bragaglia, l'Aguglia, la Balistrieri, l'Anselmi, il Marcellini, il Pandolfini. Quante amarezze, povero Martoglio, per quel suo grande sogno, così ingiustamente e perfidamente avversato sino a farlo fallire, della Compagnia del Teatro Mediterraneo, con la quale, divenute già a mattatore quelle dapprima fondate col Grasso e col Musco, s'era proposto di mettere insieme, per spettacoli di pura arte, una numerosa Compagnia di "complesso", meravigliosamente affiatata; quella Compagnia che diede al pubblico di Roma, al Teatro Argentina, rappresentazioni d'insuperabile bellezza, come quelle del Ciclope di Euripide, del Rosario del De Roberto, del Dal tuo al mio e della Lupa del Verga.
Preparava il Martoglio un libro di Memorie su questo suo teatro siciliano, che non so se aveva già cominciato a scrivere. Non credo. Che un tal libro di memorie non si possa più avere è iattura grave per la storia del teatro ancora a noi contemporaneo, perchè il libro sarebbe stato pieno, certo, di notizie interessantissime, d'episodi caratteristici d'un sapore straordinario, per la vivacità impulsiva, le stranezze, i prodigi del meraviglioso intuito, che dovevano esservi narrati e rappresentati, dei comici siciliani.

Nino Martoglio fu un vittorioso. Vinse tutti gli ostacoli, tutte le diffidenze, tutte le gelosie. Il teatro siciliano difatti, vive: ha ormai un larghissimo repertorio e una fin troppo numerosa schiera di attori. E finchè vivrà, vivranno per la delizia dei pubblici d'Italia, Mastru Austinu Misciasciu del "S. Giovanni Decollato" e Don Cola Duscio del "L'aria del Continente" e 'U riffanti e i due ciechi di "Scuru" e il Capitan Turrisi di "Sua Eccellenza" e il povero Marchisi di Ruvolito e Taddarita e Nica e Capitan Seniu, tutte le creature del suo teatro, in cui quei magnifici attori si sentono vivi. Lui solo, povero Nino, non potrà più soffrirne o goderne. E che abbia lasciato sul meglio e innanzi tempo il suo lavoro, sul meglio e innanzi tempo i suoi adorati piccoli figliuoli, l'adorata Compagna, i fratelli, gli amici, così, per uno sciagurato incidente, aprendo per isbaglio una porta che dava in un baratro, è cosa di tale e tanta crudeltà, che veramente fa disperare e inorridire.

Roma, 18 Settembre 1921.
______________________
VARCA DI CRUCERA
A un deputatu catanisi

I.
Sacciu chi sunnu anìmmalu e bannera
e sacciu puru lu mulinu a ventu;
ma tu canci e firrii di 'na manera
ca mancu lu pinnettu a un bastimentu.

Tu si' un palluni 'ntra lu firmamentu,
si' 'na cumeta lasca di tistera...
Ma chi!... Di la cumeta nni vo' centu!...
si' 'na varca latina di crucera.

Siddu lu ventu veni di Sciroccu,
navighi largu e pri scarrucciari;
ammàini cicala e contrafioccu.

S'è di Libici addizzi lu timuni,
ti moddi 'n puppa e jsi scupamari,
minzana, cappillettu e billaccuni.

________________

Note.

Varca (barca – la barca di crociera orienta le vele secondo il vento o mette in panna, o molla il ferro, per tenersi sempre in vista della terra)
Anìmmalu (l'arcolaio)
Pinnettu (banderola conica che si mette sulla maestra del bastimento e gira attorno a una puleggia, secondo la direzione del vento)
Cumeta (il cervo volante. – Si sa che quando il cervo volante è largo di testiera, gira intorno a se stesso)
Siddu (se)
Navigare largo (con le vele al vento)
Scarrucciari (scarrocciare, accosciarsi al vento e far deriva).








II.

Si mina ventu di la Tramuntana,
navighi strittu e vai di bulina,
canci li murri ccu la buriana,
currennu ranti ranti a la marina:

siddu arrifrisca ti metti a l'annana,
jetti lu ferru e ci moddi catina;
e ccu la 'uriedda tirrazzana,
a mari chetu, nesci, a la matina.

Si vidi vela turca a la luntana,
jsi bannera ccu la Menza Luna,
o ccu li Chiavi, s'è vela Rumana;

e si pri casu ci nn'è quarcheduna,
ch'è menza turca e menza cristiana,
ci ammustri lu Curanu e la Curuna!



_________________________

Note.

Buriana (vento di borea, tempestoso)
Ranti ranti (proprio accanto)
A l'annana (in andana e cioè in fila con gli altri
                     bastimenti ancorati)
'Uriedda (sottil borea)
Nesci (esci, sorti fuori)
Jsi (alzi).

MARVI E MARVIZZI *
Poesie varie
(*) di ogni erba fascio.
'A CIRA
A me' frati Giuvanni
– Scusa, sta cca 'a bizzocca a' punta 'a sciara?...
– Ju sugnu, cu' ti manna? – Sò cummari...
– Cu' si'? – Cuncetta, 'a figghia 'i donna Mara...
– Ah, e chi voi? – Mi dissi, ci ha' a mannari

'n rotulu 'i cira virgini... – Pp' 'a vara?
– Non signura!... – Chi hai? Non ti stricari
l'occhiu, ca ti po' cògghiri!... Va, appara
'i manu... Quantu porti di dinari?

– Cca sunnu: se' tarì mancu sanari!
– Quattru cannili?... Allura 'a fazzu scarsa?
– No!... – Ma chi su, pp' 'a cona, o pri 'ncirari?...

– Pp' 'u lettu di me' frati... ppi cumparsa!...
– Morsi?!... Ca parra!... – Arsira... 'u 'sciaru 'mpisu!
– Requie materna!... Te', ch'è di bon pisu!
_______________________________________
Note.
'A cira (la cera, e precisamente: i ceri) – Sta cca (abita qui) – Bizzocca (pinzocchera) – 'A punta 'a sciara (in principio della lava spenta. – Catania fu quasi completamente ricostruita sulla lava spenta) – Cu' si'? (chi sei?) – Ci ha' a mannari (deve mandarle) – Vara (la barella sulla quale si portano in processione le statue dei santi) – Stricari (stropicciare) – Cògghiri (gonfiarsi, far piaga o supporazione) – Appara (apprestati a ricevere in mano o in grembo) – Cca sunnu (sono qua, eccoli) – Tarì (moneta borbonica, del valore di quarantadue centesimi) – Mancu sanari (nemmeno due centesimi) – Cannili (candele) – 'A fazzu (la faccio) – Cona (l'icona) – 'Ncirari (incerare) – Ppi cumparsa (per mostra, per appariscenza, per comparire) – Morsi? (è morto?) – Parra! (parla) – Arsira (iersera) – 'U 'scìaru (lo trovarono) – 'Mpisu (impiccato).

LU CUMMATTIMENTU
DI ORLANDU E RINARDU
(Parra lu cantastorii di la Marina)

A lu celebri atturi Giuvanni Grassu

Vidìti quantu po' 'n pilu di fimmina!
Dui palatini, ca su' du' pileri,
per causanza di la bella Angelica
su' addivintati du' nimici fêri.

Ecculi in campu, unu contra all'autru
ca cercanu mangiàrisi ppi lupi;
avi quasi tri jorna ca cummattunu...
– Oh, non è cosa d'òpira di pupi!

Chista ca vi raccuntu è vera storia
scritta sopra dei fatti naturali
da un cappuccinu ca campava all'epuca
e vitti unu di tuttu, tali e quali.

Orlando a 'n certu punto era stanchissimu,
mentri Rinardu ancora ci agguantava,
per la scacione ca sennu chiù sengulu
faceva menu sforzu e non sudava.

Ma chiddu, ccu 'dda lingua, era un santissimu
diavulu e circava d'avvilillu,
dicennuci: «Com'è ca mi giustifichi
'ssi beni? D'unni vinniru? Dimmillu!...

«Ti pari ca non sacciu, mulu fausu,
ca si' lu pataternu dei spatazza?
Ca ci vinnisti a tutti li tò fimmini
anchi la stuppa di li matarazza?

«Ti pari ca non sacciu, 'nta sittemmuru,
quannu passaru sutta li to' paesi,
che ci assurtasti, unu appressu all'autru,
a chiù di setticentu maganzesi?

«Ti pari ca non sacciu che coi pìcciuli
che ci truvasti dintra il saccappano
ti fabbricasti il tanto sbrendidissimo
castello anticu to' di Montarbano?»

==>SEGUE



E 'ntantu furriò la spada all'aria
e desi un corpo d'accussì trementi,
che se Rinardo non faceva un sàvoto
era pirdutu irremissibilmenti.

Questo però si piglia la rivincita
e ci dici: «Va beni; ma, ora va,
si m'ha' saputu fari tanti pìcciuli
signu ca tegnu morta abilità.

«Ma tu, ccu tuttu ca si' putintissimu,
parenti di lo stisso Imperaturi,
ecco ca si' arridduttu a peri scàusi,
comu si fussi un tinto muraturi.

«Talìiti allo specchio, gran riddicolo,
vìriti questo tuo nasoni storto
avi ragiuni la liggiatra Angelica
ca non senti ppi tia nuddu trasporto.

«Aspetta, aspetta, ca m'abbasta l'animo
ccu 'n corpu sulu della mia fusberta
di apparaggiarti questa tua probosciti!...
Così dicendo si 'nquartò alla sverta

fici girari l'arma comu anìmmolo
e quannu s'addunò che il sulo vento
che procedeva arrifiscava l'aria,
fici calari lesto il suo fendento!...

Orlando arriniscìu a parallo subito,
chè avendo 'ntiso pria la friscanzana,
s'aveva quartiato e in modo energeco
aveva arzata la sua trullintana.

E quannu s'addunò che nello scìnneri
la spata di Rinardo avìa azziccato
dintra il tirrenu e non puteva nésciri
dissi: «putenti Dio sacramintato!

Ecco arriva l'ora tua prenobisi,
Rinaldo, ti po' fari il tuo tabuto!»
E con un corpo di spatancia in súpira
lo buttò al suolo, quasi tramortuto.

==>SEGUE
«Ah, vili» dissi quello, nel sosìrisi
comu si fòra un jattu suriano »
questa è la tua omirtá, che voi ferìrimi
mentre che sono senza spata a mano?

«Ah, sì, t'arricanuscio, arrifardissimo,
potenti vile e figlio di... bagiana,
non fusti tu ca ci facisti il traino
ad Adalmonti, sutta la funtana?

«Prènditi la distanza e se sei abeli
vénicci facci a facci e pugno a pugno,
che t'ariddúcio questa facci giàlina
e tappïata peggio d'un cutugno!»

«Sì sbavaldoso che tu sei» ci arrébrica,
Orlando paladino «eccomi quane,
ti voglio far provare il mio terribeli
brando e la forza di codeste mane»

E nel contempo tutti e due s'arrassano,
pigliano ciato e con le quattro braccia
sollevano le spate sopra i cranii
e ognun si parti in atto di minaccia.

Succedi l'urto, i due spate s'incrociano,
sàtano l'elmi suoi ben presto rotti,
e cadono storditi ambo all'unisono,
per setti giorni intere e sette notti!

Note.

Vidìti (guardate) – 'N pilu (un pelo, un capello) – Pileri (colonne – dicesi per l'aitanza della persona) – Pri causanza (per causa) – Fêri (fieri) – Autru (altro) – Opira di pupi (teatrino da marionette) – Campava (viveva) – Vitti (vide) – Unu di tuttu (ogni cosa). – Scacione (cagione, causa) – Sengulu (magro, sfilato) – Chiddu (quegli) – Mulu fausu (tristanzuolo, furbacchiuolo) – Spatazza (ladro, borsajuolo) – Vinnìrici ad unu o ad una anchi la stuppa di li matarazza (ridurlo o ridurla al verde, spogliarlo) – Sacciu (so) – Sittemmuru (settembre) – Autru (altro). – Pìcciuli (spiccioli, bajocchi, quattrini) – Sbrendidissimo (idiotismo: splendidissimo) – Furriò (fe' girare) – Sàvoto (salto) – Ora va (modo di dire, come: andiamo, sentiamo un po') – Tegnu (tengo, possiedo) – A peri scàusi (a piè scalzi) – Tinto o tintu (miserabile). – Talìiti (guardati) – Viriti (mirati) – Ppi tia (per te) – Nuddu (nessun) – Apparaggiarti (livellarti) – Anìmmolo (arcolaio) – S'addunò (s'accorse) – Arriniscìu (riuscì) – Friscanzana (il vento fresco, il sibilo). – Scìnneri (scendere, calare) – Avìa azziccatu (si era conficcata) – Nèsciri (uscire, cavarsi) – Tabuto (cassa da morto) – Spatancia (lunga spada e larga) – Sùpira (sopra) – Nel sosìrisi (nel rialzarsi) – Come si fora (come fosse) – Omirtà o omertà (cavalleria, lealtá) – Fèrìrimi (ferirmi) – Arrifardissimo (piú che sleale, traditore) – Bagiana (qui vuol sostituire un sostantivo più... crudo e offensivo) – Facisti il tràino (tendesti l'agguato) – Vènicci (vieni a me) – Giàlina (gialla) – Tappïata (piena di chiazze e di lividure) – Cutugno (la melacotogna) – Sbavaldoso (idiotismo: spavaldo) – Ci arrebrica (id. id.: gli replica) – Quane (id. id. qui) – Si arrassono (si scostano) – Ciato (fiato, respiro) – Sàtano (saltano).
«PARABULA FURMICOLA»
pri lu matrimoniu di dui amici.
A la bon'anima di Cicciu Mignecu

Un re, ch'era pussenti
e cumannava a tanti e tanti genti,
e pussidìa dinari
pri quantu era la rina di lu mari,
stava di malumuri
pirchì 'ntra lu Palazzu
c'erano tanti peni,
e sparti lu so' amuri
non lu vuleva beni.

'N jornu niscìu pri pazzu
e supra 'na jmenta
sfirráu pri la campagna e la vuscagghia.

Stancu e avvilutu arripusò, a la fini,
'ntra 'na chianura, e c'eranu vicini
un urticeddu ccu la luppinata
e 'na casuzza menza sdirrupata,
fatta ccu quattru fasci di sarmenta
e lu lettu di pagghia;
dintra la quali un omu cucinava,
ccu quattru ligna sicchi e du' pignati,
'n pocu di ramurazzi e di patati;
mentri ca la muggheri, a lu so' ciancu,
spiddava pumadoro supra un vancu.

Sutta lu fumu ca l'accutturava,
'ddu viddanu cantava
ccu tanta cuntintizza
comu si 'ntra 'dda tana ci arrignassi
la Sorti e la Ricchizza.

Lu re s'avvicinau e listamenti
ci dissi; – E tu, pizzenti,
tu, poviru mischinu ca non passi,
com'è ca si' cuntenti,
non pussidennu ca 'sti quattru fogghi
e 'stu pagghiaru ca ti sta abbuccannu,
mentr'ju, ca si po' diri ca cumannu
'n populu sanu e sugnu straputenti,
campu 'ntra li duluri e 'ntra li dogghi?

==>SEGUE

Non mi la cunti giusta!... Aspetta, aspetta:
chi forsi tu canusci la rizzetta
pri campari filici?
Ti mannu a morti si non mi la dici!

– Signuri – ci rispusi lu viddanu –,
pri la furmiculidda,
'n sulu cocciu di granu,
'n cocciu, ca non si vidi e non si cunta,
è la ricchizza di la so' famigghia;
lu lustru ca po' fari 'na faidda,
pp'idda è 'na vamparigghia,
e di 'ssa nica erva ca Voscenza,
Sacra Maistà, carpista ccu li peri,
di 'ss'irvuzza 'na junta,
'pp'idda è 'na gran furesta,
è 'na furesta 'mmenza.

Lu muntarozzu di tirrudda unni
carria li so' pruvisti primurusa,
pri la furmiculidda currispunni
a 'na muntagna,
e la tana scurusa
unni si curca ccu la so' cumpagna,
pp' idda è un casteddu anticu,
un palazzu di fati...

Pri nui, Sacra Maistati,
ca nni vulemu beni e nni spartému
lu pani di la vucca
e lu sonnu a la notti,
o boni o tinti, comu jemu jemu,
'stu pagghiaru c'abbucca,
è chiù maggiuri d'un palazzu d'oru
ccu tappitu a la scala,
e 'sti patati cotti,
ccu quattru pumadoru,
nni sannu megghiu assai di 'na tummala.

'Ccillenza, lu sigretu ppri campari
filici, è tantu picca e tantu assai;
non sunnu li dinari
ca fannu li priizzi,

==>SEGUE
Note.

Sparti (inoltre, per soprappiù)  – Niscìu (uscì, sortì fuori)  – Jmenta (giumenta) – Sfirràu (si diede a correre) – Vuscagghia (boscaglia) – Urticeddu (orticello) – Luppinata (distesa di luppoli verdi) – Sdirrupata (dirupa) – Sarmenta (sermenti, tralci di vite secchi) – Pagghia (paglia) – Ramurazzi (rape) – Muggheri (moglie) – A lu so'ciancu (al suo fianco) – Spiddava (pelava) – Vancu (panca) – L'accutturava (li cuoceva, li affumicava) – Viddanu (contadino) – Arrignassi (regnasse) – Fogghi (foglie) – Abbuccannu (cadendo, rovesciandosi). – 'N populu sanu (un popolo intero) – Campu (vivo) – Dogghi (doglie) – Rizzetta (ricetta) – Furmiculidda (piccola formica) – Cocciu (granello, chicco) – Lu lustru (il lume, il chiarore) – Faidda (scintilla) – Pp'idda (per lei) – Vamparigghia (grande fiamma) – Nica (piccola) – Erva (erba) – Peri (piedi) – 'Na junta (una manata). – Muntarozzu (monticciuolo) – Tirrudda (terra) – Unni (dove) – Carrìa (trascina) – Scurusa (buia) – Si curca (si corica) – Nni vulemu (ci vogliamo) – Nni spartemu (ci dividiamo) – Vucca (bocca) – Tinti (cattivi, miseri) – Comu jemu jemu (comunque la vada) – Tummala (timbala). – Picca (Poco) – Priizzi (felicità, contento) – Travagghiu (lavoro) – Saputi (sapienti) – Puvireddu (povero). – Azziccò (conficcò) – Spirdu (ombra, fantasma) – Addizzáu (filò) – A lu 'rittu (in linea retta, fuori del sentiero) – Fattareddu (fattarello) – Parabula furmicula! (corruzione di “parabola significa") – Sculicenzia (perdono e licenza).

spissu su' megghiu assai quattru carizzi;
ci voli la saluti
e la cuscenza sempri bedda netta,
lu travagghiu c'aspetta,
e du' manu saputi
p'asciugari la frunti;
in summa, a boni cunti,
l'amuri e l'armunia
e la sincirità;
si chistu non l'aviti, Maistà,
siti chiù puvireddu assai di mia,
ed ju non cancirìa
'sti quattru ramurazzi
ccu li vostri palazzi.

– Veru è – dissi lu re murtificatu
è veru e nn'hai ragiuni! –
Muntò a cavaddu, ci azziccò li spruni
e a galoppu sfrinatu,
comu si fussi un spirdu malidittu,
addizzáu a lu 'rittu...

Giovini spusi,
si lu me' fattareddu v'ha nujatu,
ju v'addimannu milli e milli scusi.
Lu comu e lu pirchì vi l'ha' cuntatu,
eccu ca vi lu dicu pristamenti:
Parabula furmicula!
V'auguru 'ntra lu vostru matrimoniu
'ddu tantu assai ccu 'ddu tantu nenti
chi 'un pussidìa lu re, ma lu viddanu
doppu di chi mi chiamu sculicenzia...
e vi bacio li manu.



LA NOTTI DI MODICA
(episodiu cuntatu da un'urfanedda superstiti)
A me' frati Firdinannu

Fra timpa e timpa, 'ntra 'na cava funna,
Modica sedi, capricciusa e stramma,
parti s'acchiana, parti si sprufunna,
lu tuttu si pò diri 'na caramma.

Frisca lu ventu comu fa la ciunna,
currennu 'ntra 'dda gula, e scippa e stramma;
sdirrupa l'acqua, quannu chiovi, e l'unna
ci junci furiusa e si 'ncaramma.

Era di notti, 'na nuttata funna,
senza nuddu chiarìu, senza 'na ciamma,
quannu successi 'dda gran baraunna.

Ju 'ntisi un gridu: – Figghia!!... – Era me' mamma!...
E doppu mi spiriu, girannu tunna,
comu 'na puddiredda 'ntra la ciamma!...
__________________________

Note.

– Questo sonetto fu scritto appena dopo il raccapricciante disastro che colpì Modica con l'alluvione del 1902, la quale fece tante vittime e distrusse in gran parte la vecchia e ospitale città bassa.
Timpa (rupe)   – Funna (profonda)
Stramma (irregolare)
S'acchiana (si monta, si va su)
Caramma (insenatura, antro profondo)
Frisca (fischia)  – Ciunna (fionda)
Scippa (svelle, sbarbica, sradica)
Stramma (scombina, contorce)  – Sdirrupa
          (precipita) – Chiovi (piove)  – Unna (onda)
Junci (giunge, arriva, perviene)
Si 'ncaramma (s'insena, si infiltra)
Funna (profonda)  – Nuddu (nessun)
Chiarìu (chiarore)  – Ciamma (fiamma)
Baraunna (baraonda) – Doppu (dopo)
Spirìu (sparì)  – Tunna (tonda)
Puddiredda (farfallina, falena).
A me' frati Giuliu

LA TRIPLICI ALLIANZA
(Smàfiri di Mastru Cuncettu lu Tamburineri)

Polimetro Satirico Bernesco

DEDICA

Fici 'sti quattru chiacchiri,
– e sai comu li fici –
sulu pri fari ridiri
'na pennula d'amici.

Ju non nni sugnu tènniru
e dicu, beddu chiaru,
ca forsi pirchì 'un servunu
su' a trenta ed un migghiaru.

Lu pubblicu è 'na bestia
– parrannu ccu rispettu! –
ca non si fa curreggiri
di brigghia e suttapettu.

Ci piaci chiù la Triplici
di Tistimunianza;
c'è offisa? No. De gustibus!
Ognunu ha la so' panza.

Ed ju, si ti la dedicu,
è pri 'mparari comu
non è sempri lu meritu
ca ti cattigghia l'omu.

______________________

Note.

Pennula (penzolo  – più grappoli d'uva o più
                 frutta insieme legate ed appese)
Tènniru (tenero)
'Un servunu (non valgono nulla)
Brigghia (briglia)
Panza  (pancia – qui è detto nel senso di:
               gusto)
Cattigghia (solletica).
ca ammenzu di cinquanta curazzati
dui, tri duzzìni, si li fa di certu!

'Ddocu non c'è d'arrìdiri!...
pirchì su' cosi serii, e troppu serii!

Vui 'ssa palora la diciti spissu,
di triplici allianza, ma a la fini
chi vi criditi chi cosa cunsisti?
Sintemu: pirchì fu spirimintata?

Sintiti a mia, ca vi cuntu un fattu
d'unn'è ca mi furmai la 'pinioni
di 'ss'allianza, di com'è cumposta...

Pirchì, caru cumpari, distinguemu:
Nuâtri ora sapemu
ca, tantu lu tudiscu,
quantu l'astrecu,
sunnu alliati nostri a di tant'anni.
Ju 'ntra 'ssi cosi mancu mi ci 'mmiscu;
ma lu zu' Janu Grecu,
ca è chiù granni
e ha statu in Sittintrioni,
vi po' diri ca un tempu li tudischi,
spiciali la sbirra razza astreca,
s'avianu 'mpatrunitu di nuautri
e, pittinati e frischi,
nni facevunu tali mali abusi,
tali supirchiarei ca, beddamatri,
eranu digni di la picireca!
Ma un jornu re Vittoriu, bonarma,
si siddiò, scinnìu di tuttu abbrivu,
– ci vinni giustu giustu di calata! –
ccu fantaria e cavalli,
cci 'mmisca 'na pirata
e ci dici: – Nescite for dei balli!...
(Eh, re Vittoriu, siddu fussi vivu!)
Chiddi scappàru e arriturnò la carma...

Chista, signuri, è storia,
e siddu jti a Napoli,
truvati a re Vittoriu

==>SEGUE


si stira tuttu paru,
curri ddà banna, afferra
il campanellu (Umbertu, omu fermu!)
e chianta 'na sunata.
– Pronti, Maistati, all'ordini?...
– Curri a chiamari subitu
il mio ministro più guagliardo, olà! –

Doppu cincu minuti s'apprisenta
il ministro Depretico.
'Na varva, 'mpari, quantu di cca a ddà,
ccu certi ciuffi, oh, non dicu smàfira,
ca parevanu mazzi di sarmenta.
– Mio affabeli menistro, 'sta matina
m'hano sciosciato
dentro l'oricchia una palora, il quale,
che re Gugliermu forsi è 'ntinzionato
di fàrini una guerra, indi ho pinsato...
– Cosa ha pinsato, sacra Maistà?...
– Aggàttati!... Olà!
– Pronti, cumanna!...
– Cammareri, una simpreci belìci,
ccu tri mutanni, e aspèttami ddà banna!
– Ma, chi cosa faciti,
Sacra Maistà?... – dici allura Depretico. –
– Aggàttati, ti ho ditto, ora viditi, –
Allura chianta un corpu di tilefrico:
«Al cumannante del papure Umbertu,
mittiti a focu tutti centu machini!»

Depretico, ca era omu spertu,
la sappi sèntiri,
e s'aggattau, prontu alla partenza.
Re Umbertu si parti col suo simprici
cammareri, la simprici belìci
e il simprici menistru più guagliardo.
Arrìva supira il papuri, dici:
– Cumannanti, ci semu?
– Pronti, Maistà, ppi unn'ámu a addizzari?
Diritto per Birlinu!... –
Cumpari, non è cosa di sghirzari!...
Di Roma 'nsina ddani,
v'aviti a fiurari

==>SEGUE






arristau accussì, comu un minnali!
– Re Umbertu, tu cca?!... Cu' ti ci porta?!...
Chi forsi hai avutu un picculu sinturi,
forsi t'hano sciosciato una parola,
all'oricchia? Arrispunni!...
– E chi fu, ti cunfunni?
M'hano sciosciato una parola, il quali
ca dici c'hai 'ntinzioni
di farimi una guerra... Ti sdinei? –
– No, è veru, e tu chi forsi veni
p'arrinniriti? –
– Mio caru imperaturi,
Mi pari un pocu anticu;
chi forsi, caru amicu,
tu mi canusci c'haju suggizioni? –
– E allura pirchì veni
nelli cuntrati mei? –
– Vegnu pirchì comòra
non vogghiu fari sconzu, m'ha' capitu?
Pri fàriti cumprènniri,
mentri t'ammustri d'accussì attrivitu
ca è megghiu ca t'aggatti cu vintottu
vasinnò ti nn'acchiani;
e sugnu bonu a fariti di bottu
n'autri terzi Vespri siggiliani!...
– Ma... – Senza ma, va, chi ti senti forti?
– Furtissimu!
– E allura, senza fari tanti morti,
chi nn'hai cannuni boni?
– Spittaculusi.
– Andiamu, spara un corpu di cannuni
di chiddi furiusi,
ca doppu t'arrispunnu! –

Allura re Gugliermu si lu porta
supra l'àstricu...
Sidicesimu pianu...
– Vui, donna Mara, agghicàuru morta! –
Ah, vi parunu smàfiri?
Vui spiàticci a chiddi ca nni sanu
e mi sapiti a diri
chi cosa sunnu l'àstrichi a Birlinu!
Abbasta a diri

==>SEGUE
ca c'è tantu caminu...
Chi v'haju a diri, va, di ccà a Rannazzu,
in parauni, è nenti!...
Ma il papure, confenti
isàu tutti l'àncuri,
senza farici tantu pruulazzu,
arrivau a distinu
comu fussi 'na badda di bigliardu!...
Trasennu dintra il porto di Birlinu
jetta 'n friscu schigghienti
ca sturdìu un paisi,
e po' doppu si misi
ammenzu di lu portu e jttò l'àncuri,
quattru di prua, a pinneddu,
e quattru a puppa, beni urmiggiatu
e arriparatu di tutti du' banni.
– Pronti, una lancia a mari!
– Maistà, chi faciti?
– Vi dissi a tutti ca v'âti a aggattari!... –
Non ci fu 'na parola e mancu 'n ciatu,
s'avissi 'ntisu abbulari 'n'aceddu.

Re Umbertu scinni e si metti assittatu,
col simprici menistro,
la simprici belìci e il cammareri.
– Andiamo pronti in terra, timuneri!
Quannu scinnému supra la banchina,
jsa bannera all'arvulu maistru
e jetta fumu di li 'ncimineri!... –

Li todischi, scinnennu a la marina
e vidennu a Umbertu agghiri ddà,
'dda sorti di papuri,
'dda simprici belici, sbricia, sbricia,
si guardaru 'ntra l'occhi, dici: – Micia!
Chista daveru è parti di valuri,
varda chi sorti d'audacità!... –

Arrivannu al palazzu 'mpiriali:
– Tuppi, tuppi. – Cu' è? –
Quannu l'imperaturi
Gugliermu va pri gràpiri la porta
e vidi al nostro re,

==>SEGUE

ca di ddà supra, vaja, l'anibussi
parevanu carrozzi d' 'a Tanasia
e c'erunu liuni
ca parevanu quantu 'na furmicula!

Gugliermu fa purtari un sbilluncinu
e dici: – Umbertu, vedi quel castellu?
Addizza la binocula
a quella dirizioni. –

Re Umbertu guarda e si sturcìu li mussi...
Un casteddu, cumpari, chi v'ha' diri?...
Quantu menza Catania, va, mancu?
E misu supra un ciancu
si videva un cannuni,
ca 'ntra la sula vucca, sull'onuri,
ci capeva un papuri.

Spara, Gugliermu! – ci dici lli re.
– Aspetta: Cammareri, scinni jusu
e pòrtimi cca sùpira
dui canniletti di cuttuni sciusu.
– Pirchì – ci dici Umbertu – cosa c'è?
– Pirchì ccu tia ju non jocu a sgangu:
con il simprici sgrusciu
l'oricchi to' ponnu scattari 'nsangu...;
inveci con la mattula
il botto arriva musciu... –

Re Umbertu pigghiò 'ddi canniletti
– di prima l'asservò,
abbeniaggi c'era ocche tanticchia
di vitru avvilinatu, –
e doppu ca fu bonu assicuratu,
adàciu adàciu, si li cumminò
una p'aricchia,
simpatichi e perfetti.

– Spara, Gugliermu, sono pronto all'ordeni! –
Gugliermu chianta un corpu di tilefrico:
– Cumannanti del castellu,
spara un corpu di cannuni,
di tutta carica!... –

==>SEGUE




Cumpari, oh, 'i todischi non crirìti
ca sunnu debuli!...
Abbasta dìrisi
ca di lu sulu sgrusciu spavintusu
di 'ssu cannuni ca sparò, sapiti?
'Ntra tutta la citati
no ristò 'n vitru sanu;
e tubi e lumi, e cìchiri e cannati...
unu di tuttu, fôru liniati,
roba ca l'àppuru a ittari 'nchianu.

Re Umbertu chi fici?
Fa 'na risata, jetta 'ddu cuttuni,
si pigghia a re Gugliermu a sulu, dici:
– M'hai fattu arridiri,
re Gugliermu! Ci prummetti,
senza offisa, in amicizia,
ca sparu 'n corpu di li me' cannuni,
a dirizioni di 'ssa to' furtizza?
(E assistanti ci fici 'na carizza!...)

– Sì, re Umbertu, ci prummettu, subitu!
– E allura, re Gugliermu, leva 'ss'omini...
– Pirchì? – Ca annunca mòrunu...
– Mai, non ci cridu, sta' dicennu smàfira...
– Ti dicu lèvili!...
– No, non li levu, re Umbertu, spara!
– Lèvili, fammi questa carità!...
– Siddu ti dicu no,
fatti l'affari to!
– Basta, però, siddu ti costa cara,
non voggiu currispunsabilità. –
Va beni, avanti! –

Re Umbertu fa 'nsinga: – Cumannanti
in capu del vascellu,
sparati un corpu sulu, menza carrica,
a dirizioni di questu castellu! –

Spara 'ssu corpu di cannuni, pàrtisì
'ssa menza palla – senza sgrusciu, oh!...
Ca nuatri taliani, pri sapillu,
sgrusciu non semu fàcili di fàrini. –

==>SEGUE




Già ccu lu sulu ventu ca purtò
abbularu tri mila e chiù canali...
Mancu 'n cicruni, mancu 'n timpurali!

E non criditi ca 'ntra Birlinu
ci su' canali comu chisti cca?
Ogne canali, ddà, cumpari Tinu,
è di 'sta fatta, vah, senza cusà!
Chi fici 'ddu casteddu? Mancu a dillu!
Curpennulu 'ddà badda, si sbracò!...
Si sdirrubbò cannuni... e nni murènu
chiù di se' mila, tostu chiù ca menu!

N'asisteva chiù nenti,
comu siddu ci avissiru passatu
li bèstii ccu l'aratu...
Tirrenu rasu, va, arrutunnamenti!

Quannu lu re Gugliermu s'addunàu
di tutta 'ssa minnitta,
cridu ca dissi 'loria mmaliritta;
currìu nni Umbertu Primu, l'affirrau:
– Basta! – ci dissi – basta, re Umbertu,
t'ha' canusciutu! Abbasta, pri pruvalla,
la forza to', 'ssa sula menza palla! –
Doppu, di omu spertu,
di tuttu 'stu fragellu,
nni 'nfurmau l'astrecu 'mpiraturi:

«Caro colleca astreco,
«il taliano è malo canusciuto,
«oggi l'avemu avuto
«in Birlino, ccu un simprici vascellu,
«un simprici menistro, una belici
«e un simpreci criato,
«e 'ntantu nn'ha chiantato
«un corpu a menza carrica
«ca quasi ha distruggiuto
«una citati in menu ca si dici.

«Non è cosa di fàrici
«la guerra a tutta ortranza,
«chiuttostu ju pensu, caru imperaturi

==>SEGUE

«di farinnillu amicu,
«ccu tanticchia di 'ntricu,
«osia, megghiu mi spieco,
«di fàrici una triplici allianza.

«Per cui vi preco in seguito
«di vèniri cca subitu, pirchì
«è megghiu ca trattamu tutti tri».

L'astrecu vinni all'ordini, discussi,
a Umbertu s' 'u pigghiáru ccu li boni,
si ciáuraru li mussi,
e cumminàru 'sta pasta 'rattata:
l'astrecu si pigghiò menza Turchia,
il todisco sgangò a parti di China...
il talïanu la pinsó chiù fina:
ammurràu 'nta l'Africa...
e si puliziau l'Arritrè! ...




scurpitu ccu 'na sciabula
ca sta sfunnannu l'aria
'ccussì: – Viva l'Italia!

Pri mezzu di Vittoriu agghìri susu,
di Canibardi e Bissiu cca jusu,
basta, 'ntra 'n tempu di 'na para d'anni,
tutti 'sti tudiscazzi e 'sti borbonici,
cumprisi li parrini e li canonici,
èbbiru lu sciaòffu a tutti banni.

E ddocu ora accuminciunu
tutti li magisterii!
Pirchì, signuri cari, è tempu inutili:
quannu c'è unu ca si porta avanti
e l'autri s'addùnanu
chi, a picca a picca, a di chi è trabanti,
addiventa surdatu e capurali,
a locu d'ajutallu lu sutterrunu,
e si ci ponnu fari quarchi mali,
inveci d'unu ci nni fannu trenta...
e si non àvi ficatu n'abbenta!

Però nuâtri, canuscennu all'omini,
chi ficimu? Nni misimu 'ncarina
certi varcuzzi, chini
di citruledda, ognunu di li quali
jetta fora murata
certi cutugna e certi carraffini,
'nsemi ccu quarche mennula aghiazzata,
d'accussì fini
ca passa lu pitittu e... 'mpari Puddu,
vi l'assicuru, non nn'accatta nuddu!

Vegnu e mi speju supra lu discursu
di triplici allianza: – 'Na matina,
'ntra sonnu e viglia mentri era curcatu,
so' Maistà Umbertu, ci sciusciàru
'na parola all'oricchia:
– Abbada, re Umbertu; che Gugliermu
ti voli fari guerra!...
Si susi, 'nfuriatu comu 'n'ursu,
si strica l'occhi 'anticchia,

==>SEGUE







Nino Martoglio lesse questi quattro sonetti in onore di Giovanni Verga la sera del 9 luglio 1920 al teatro Valle di Roma, festeggiandosi l'80° compleanno del Maestro, nell'intervallo tra il 1°e 2° atto della commedia "Dal tuo al mio", recitata dalla Compagnia di Angelo Musco.
Alla memorabile serata intervennero, con l'allora ministro della P. I. Benedetto Croce, gli autori e la stampa italiana quasi al completo; oratore ufficiale fu il Presidente del Consiglio V. E. Orlando, e disse belle e commosse parole il commediografo Dario Niccodemi.


GIUVANNI VIRGA

Dissi: Chistu saria lu me' disiu:
pigghiari di sta terra 'nzoccu duna,
s'è spina è spina, sidd'è cruna è cruna,
senza juncirci nenti di lu miu.

Dissi, e chiddu ca dissi mantiniu,
non misi avanti mai la so' pirsuna,
non jiu circannu onuri non furtuna,
era un giganti e 'ntantu scumpariu.

Ma mentri scumpareva l'Auturi,
criscìanu comu chiuppira latina,
dritti e pussenti li so' criaturi:

Mastru Don Gesualdu, padron 'Ntoni,
cumpar'Alfiu, Santuzza, la gnà Pina,
Lollu, Rametta... li tristi e li boni.




L'e' 'ncuntratu, dda jusu, a tutti banni,
a munti, a la chianura, a li surfari,
dintra li casi, dintra li capanni,
'nta li so' tracchi a riba di lu mari...

l'e' vistu oggi e poi doppu tant'anni,
sempri li stissi, senza mai canciari,
non sunu nè chiù nichi nè chiù granni,
pirchì chiù granni 'un ponnu divintari.

Un jornu – un'avi assai – li vitti a crocchiu,
dicu: Parrati, non mi pari veru!
Dicitimi, com'è, fora malocchiu,

ca siti sempri forti e sempri vivi?
Ni vutaru li spaddi e si nni jeru,
ristai a guardalli un pocu e mi nni ivi...




A LU ME' GIURNALI

I.

Oh, giurnaleddu miu, ca t'ha' crisciutu,
comu si soli diri, ccu lu sciatu,
ora ti guardu beddu, arrinisciutu,
ccu l'occhi chini di lu 'nnamuratu...

Pri tia quantu vilenu haju agghiuttutu,
si tu sapissi quantu m'ha' custatu!
Lu stissu sangu miu l'ha' straburutu
pri fáriti di tutti arrispittatu.

Nun t'ha' jucatu mai, nun t'ha' vinnutu,
comu taluni fannu, a lu mircatu,
– e quantu tintazioni c'haju avutu!... –

Ju non cercu ricchizzi e m'ha bastatu
d'aviri sempri – forti o sia cadutu –
la genti onesta misa a lu me' latu.



II.

Ma piaciri quantu nn'haju avutu
ccu 'stu tanticchia di carta stampata!...
Nnimici tristi quantu nn'ha' vinciutu,
a quantu ha' datu la cutulïata!...

Ju lu cavarcu, e cu 'n friscuni acutu:
– Curri, jmenta! – E curri a la sfrinata!
Siddu la vogghiu a passu sustinutu,
strinciu la brigghia e allentu la truttata.

Ccu 'sta jmenta c'âti conusciutu,
mi sentu cavaleri di Granata;
e turrigghiuni assai nn'haju graputu!

Pri nui non c'è chiù porta sbarriata:
– Avanti, d'Artagnan, ca si' lu scutu!
Avanti, d'Artagnan, ca si' la spata!




III.

Nnimici, è veru, ca nn'avemu tanti,
o giurnaleddu miu, ma 'un ci fa nenti;
ci sunnu 'ntra lu munnu li birbanti,
li 'nvidiusi, ccu li mali genti.

Tu, sparti, ha' avutu la virtù custanti
di jri contru di lu priputenti,
di lu mafiuseddu ccu li 'nguanti,
di qualchi nubilottu e prisidenti;

E tutti chisti ccà, naturalmenti;
– chisti, ca nni vulissiru pircanti –
quannu ci ammatti azziccanu li denti.

Ma di sti salifizii non ti scanti,
ca li scagghiuni to' su' chiù putenti
e si l'accarpi chiamanu li santi!
NINO MARTOGLIO  - CENTONA - Parte quinta

FINE

L'AMICU FIDATU

I.

Un varvasapiu, un varvasapiuni,
ch'era riccu di vuci e chiù di nuci,
comu – vulennu fari un parauni –
lu varvasapiu Binirittu Cruci,

'n jornu, ca si truvò senza matruni,
si misi cu li gammi a cruci e nuci
e tinni a chiù di centu sapiintuni
'stu discurseddu, ccu la vucca duci:

Amici mei carissimi, filosufi
ca siti mastri a lu fari e a lu diri,
mi vinni nu sbaddu di sfirniciarivi...

Dicissi ognunu 'na cosa a piaciri
e a cu' avrà dittu la chiù grossa smàfira
iu ci rigalu centumila liri!



II.

A 'sti paroli – fattu curiusu –
'ntra 'ddu cunsessu ci fu un parapigghia...;
pirchì si lu filosufu è sdignusu,
pari ca li dinari... si li pigghia.

Unu, c'avia un vuciuni maistusu,
gridò: – Maestru haju 'na grarigghia
ca arrustennuci sùpira un tignusu
ci criscinu li pila... e non s'appigghia...

Ognunu cuntò fasti e mirabilia;
parìanu sculareddi sfacinnati,
'ntra li jurnati ca fannu Sicilia.

Nni smammaru 'na vertula e un cufinu
e tutti li chiù grossi papalati
fôru singati dintra un taccuinu.
III.

Quannu paria ca tuttu era finutu,
di 'nfunnu 'nfunnu, unn'era accuffulatu,
si susi un sapiintuni jmmirutu
e dici: – Ancora ju non haju parratu.

Si 'ntisi un murmurisimu smaccusu:
chi puteva cuntari, svinturatu,
doppu 'ddu gran diluviu prisicutu
di smàfiri c'avìanu sdivacatu?

Dici: Vi giuru, in fidi di filosufu,
ch'àju truvatu 'n'amicu fidatu. –
Non ridiu chiù nuddu, non ciatò.

Si susi lestu lu gran varvasapiu
e dici: – Basta lu giudiziu è datu;
è tantu grossa ca lu premiu è to'!

__________________________

Note.

Quannu (quando)
Parìa (pareva)
'Nfunnu 'nfunnu (in fondo in fondo)
Accuffulatu (accosciato, accovacciato)
Si susi (si alza)
Jmmirutu (gobbo)
Smaccusu (beffardo)
Svinturatu (nel senso figurato: povero
                    diavolaccio)
Prisicutu (continuo)
Sdivacatu (sinonimo di: scodellato)
Nuddu (nessuno)
Ciatò (fiatò)
Si susi (si alza).
MARI
A lu me' primu capitanu, Vicenzu Ajellu

Mari, ca pari chianu e po' t'affunni,
ccu vaddi e munti capricciusi e strammi;
ca teni l'angileddi supra l'unni
e li virdischi 'ntra li to' carammi...

Mari, ca ccu lu celu ti cunfunni,
ca fai tantu caminu e non hai gammi,
ca vesti nudu e di ricchizzi abbunni,
ca non si' focu e puru jetti ciammi.

Tu, ca tiatru si' di tanti drammi,
tu, ca dilitti nn'hai, tristi e prufunni,
tu, ca fa' lacrimari a tanti mammi;

Mi sai diri chi è, ca di 'sti spunni
sulu chi ti talìu stu cori 'nciammi?
Mi sai diri chi è? Mari, arrispunni!

__________________________

Note.

Pari (sembri)
Chianu (piano)
T'affunni (ti affondi)
Vaddi (valli)
Strammi (strambi, irregolari)
Angileddi (pesci volanti, graziosi e lucenti)
Unni (onde)
Virdischi (pescicani giovani)
Carammi (insenature profonde, antri del fondo del mare)
Gammi (gambe)
Abbunni (abbondi)
Jetti ciammi (getti fiamme)
Spunni (sponde)
Talìu (sguardo)
'Nciammi (infiammi)
Arrispunni (rispondi).



Jennuminni, accussi, supra pinseru,
menzu murtificatu e menzu afflittu,
dissi: Lu granni Diu, ma sidd'è veru,
chiddu ch'avianu a diri l'hannu dittu!

E appena l'hannu dittu si chiumperu
comu si po' chiumpìri l'oru fittu,
pigghiaru forma eterna e po' traseru
'mmenzu a li vivi, di pienu dirittu.

E attornu ad iddi si chiumpìu macari,
comu ppi 'ncantu, lu gran paisaggiu
unn'è ca li fa mòviri e parrari;

lu paisaggiu unni c'è lu mari,
la Chiana, la Muntagna e lu sarvaggiu
tirrenu nùgghiu accosta a li surfari.




Non hannu chiù chi diri e un'ha chi diri,
ppi cuntu d'iddu, lu stissu Auturi,
la critica chi voli interlòquiri,
chiddu ca leggi o fa di spettaturi...

Cioè... cioè... non nni po' pruibiri,
Giuvanni Virga, d'aviri l'onuri,
stasira, di putirlu applaudiri...
Ma aspittati un mumentu ppi favuri,

facitilu accussì, senza fracassu,
pirchì lu Mastru, ppi sapillu, è un omu
ca siddu appura ca facemu chiassu

dintra un tiatru, attornu a lu so' nomu,
vi l'assicuru ju, nni manna a spassu
di 'na manera... c' 'un sapiti comu!


Note.


I

Varvasapiu (uomo serio, saccente, sputa sentenze)
Nuci (nel senso figurato: quattrini)
Matruni (vento morboso; aviri lu matruni (avere il mal di fianco; figurativamente: il malessere)
Cruci e nuci (incrociate, alla turca)
Vucca duci (bocca dolce)
Sbaddu (piacere, divertimento e piú propriamente: ticchio)
Sfirniciarivi da sfirniciari (lambiccarsi il cervello)
Smàfira o smafara (bomba, bubbola).







II

'Ddu (abbr. di chiddu: quello, quel)
Pigghia (piglia)
Haju (ho)
Grarigghia (graticola)
Sùpira (sopra)
Tignusu (tignoso, calvo, zuccone)
Criscinu (crescono)
Pila (peli, capelli)
Appigghia: da appigghiari (attaccarsi, riardere)
Sicilia: fari Sicilia (marinare la scuola)
Smammaru: da smammari (spoppare, nel senso figurato: scodellare)
Vertula (bisaccia
Cufinu (corbello)
Papalati (sinonimo di bubbole, molto usato in prov. di Catania)
Fôru (furono)
Singati (segnati).


PARRA MASTRU CUNCETTU

– Bravu, cumpari, vui ccu 'na parola
vi nni nisciti!...
Ma siddu v'addimannu,
mintemu, peracasu,
chi nni pinsati ad attu di pulitica,
chi cosa arrispunniti?
Ristati mutu, ccu 'n parmu di nasu!

Carissimu cumpari Vinnirannu,
ci sunnu genti ca, non disprizzannu,
vi ponnu fari scola!...
ed ju, 'tra l'attu di la me' 'gnuranza,
di triplici allianza
nni sacciu, pirchì l'haju sturiatu,
ccu libra e ccu giurnali,
e a chiù di 'na pirsuna cca prisenti,
– parrannu bellu francu e ginirali –
ci dugnu vinti punti e ci traversu
supra qualunqui geniri diversu.

Chi è? sòliti smáfiri?...
Ju, ppi sapillu, parru francamenti,
e non cuntu nè smàfiri, nè favi,
L'autra vota ci fu don Ramunnu
– mi dispiaci ca non è prisenti –
ca cuntrastava supra Santu Munnu:
'o quali ca diceva ch'era farsa,
ca l'Italia picciuli non nn'avi
e agghiri 'ssi paisi di Livanti
fici lu Diu di la mala cumparsa!...

Doppu c'avia sfüatu
ci dissi 'na parola,
'na simprici parola 'ntra 'n'aricchia,
e m'arristò davanti pircantatu.

Chi era 'ssa parola ca ci dissi?
Ci dissi, 'mpari Santu, ca nuâtri
pri forza avemu a vinciri,
pirchì avemu 'na Squatra, sull'onuri,
ca è la chiù maggiuri di li Squatri.
Abbasta aviri la so' navi Umbertu,

==>SEGUE





Note.

– L'A. avverte, pei non siciliani, che il popolo di Sicilia è eminentemente iperbolico e possiede, in sommo grado, fervida immaginazione e spirito d'inventiva. Le invenzioni dell'immaginoso racconto di Mastru Cuncettu lu Tamburineri, non sono esagerate, nè uniche; chè l'A. ne ha intese d'altre, più marchiane ancora, dette con tanta enfasi e tal persuasione che c'era da scommettere che l'interlocutore stesso fosse convinto dell'autenticità... delle sue invenzioni! Questi casi di autosuggestione sono frequentissime, specialmente fra i popolani di Catania, quando sono dediti al vino  – Vi nni nisciti (ve ne uscite)  – Siddu (se) – Non disprizzannu (non disprezzando – non facendo offesa ad alcuno) – Ponnu (possono) – Ni sacciu (ne so, ne conosco) – L'haju sturiatu (l'ho studiato). – Smàfiri o smàfari (iperboli, palloni, gonfiature) – Favi (invenzioni) – Ramunnu (Raimondo) – Santu Munnu (San Mun – la famosa baja cinese che doveva occupare l'Italia e che abbandonò per la solita politica delle mani nette... e vuote) – Picciuli (quattrini) – Agghiri (verso) – Mala cumparsa (brutta figura) – Avìa sfüatu (s'era sfogato) – 'Ntra 'n'aricchia (in un orecchio) – Pircantatu (incantato, come uno scemo) – Nuâtri (nojaltri, noi) – Avèmu (dobbiamo) – Squatra (Squadra, Armata). – La chiù maggiuri (la migliore, la più possente) – Si la fa (se le mette sotto, le distrugge, le annienta) – Spirimintata (inventata, creata) – Tudiscu (tedesco) – Astrecu (idiotismo: austriaco) – Alliati (alleati). – Mi cci 'mmiscu (mi ci immischio) – S'avianu (s'erano) – Pittinati e frischi (lindi e pettinati – comodamente, senza contrasti) – Beddamatri (esclamazione comunissima, come Madonna mia) – Picireca (pece greca) – Bon'arma (buon'anima) – Si siddiò (si seccó, s'indispettì) – Scinnìu (scese) – Calata (discesa) – Cci 'mmisca (gli assesta, o: assesta loro) – Pirata (pedata) – Chiddi (queglino, coloro). – Suddu (se) – Sfunnannu (sfondando) – 'Ccussì (così – l'interlocutore allude alla statua di Vitt. Em. II, nel palazzo reale di Napoli) – Agghìri susu (lassù) – Canibardi (Garibaldi) – Cca jusu (quaggiù) – Parrini (preti) – Sciaóffu (sfratto, «licenza alla spagnuola») – Accumìnciunu (cominciano) – S'addùnanu (si accorgono). – A picca a picca (a poco a poco) – Trabanti (attendente) – Si non àvi ficatu (se non ha forza e resistenza) – N'abbenta (non trova requie) – Nni mìsimu 'ncarina (mettemmo in costruzione, in bacino) – Varcuzzi (barchette – l'interlocutore intende: corazzate) – Citruledda (cetrioli, leggi: cannoni) – Jetta (gitta) – Fora murata (fuori bordo) – Cutugna, carraffini, mennuli agghiazzati (melocotogne, anforette, confetti di mandorla: leggi: bombe e granate) – Pitittu (appetito) – 'Mpari (compare) – Non nn'accàtta (non ne compra) – Nuddu (nessuno). – Viglia (veglia) – Curcatu (coricato) – Ci sciusciàru (gli soffiarono, gli insinuarono) – Voli (vuole) – Si susi (si alza) – Ursu (orso) – Strica (stropiccia) – 'Anticchia
o tanticchia (un tantino) – Tuttu paru (per tutto il corpo) – Ddà banna (di là) – Chianta (mena, appioppa) – Maistati (idiotismo: Maestà) – Depretico (Depretis) – Varva (barba) – Di cca a ddà (da qui a lì – così lunga) – Mazzi di sarmenta (fasci di tralci di viti). – Fàrini (farci) – Aggàttiti (sta zitto, non dir verbo, non fiatare) – Belìci (valigia) – Mutanna (la camicia, le mutande e le calze) – Faciti (fate) – Tilefricu (telegrafo) – Papure (idiotismo: vapore, piroscafo) – Màchini (macchine) – Spertu (scaltro) – La sàppi sèntiri (comprese tutto). – Sùpira (sul) – Ci semu? (ci siamo) – Ppi unni ámu a addizzari (dove dobbiamo recarci, che rotta dobbiamo prendere) – Sghirzari (scherzare) – 'Nsina ddani (fin là) – V'aviti a fiurari (dovete immaginare) – Rannazzu (Randazzo il paese più alto e più distante sull'Etna) – Confenti o cunfenti (come, appena) – Jsáu (alzò, salpò) – Pruulazzu (polvere – fari pruulazzu: far fracasso, confusione). – Badda (palla) – Trasennu (entrando) – Schigìghienti (acuta, stridente) – Sturdìu (stordì) – A pinneddu (a pennello, verticalmente) – Di tutti du' banni (da ambo i lati) – V'âti (vi dovete) – Abbulari (volare) – Aceddu (uccello) – Scinni (scende) – Assittatu (a sedere). – Scinnèmu (scendiamo) – 'Ncimineri (camini) – Sbricia sbricia (semplice e nuda) – Micia! (esclamazione di stupore) – Audacità (idiotismo: audacia) – Tuppi tuppi (voce onomatopeica, da tup tup) – Cu è (chi è) – Gràpiri (aprire – I popolani di Catania non hanno altre cognizioni intorno al cerimoniale di Corte che quelle acquisite nei teatrini di marionette, dove i travicelli vestiti da re vanno ad aprire le porte ed introducono i visitatori, senza l'intervento di alcun domestico) – Accussì (così) – Minnali (minchione) – Cu' ti ci porta? (Chi ti conduce?). – Sinturi (sentore, avviso) – Cunfunni? (confondi?) – Ti sdinei? (ti ritratti?) – P'arrinniriti (per arrenderti) – Anticu (antico: essere o sembrare antico, in Sicilia, ha il significato di essere bagiano, allocco, ingenuo) – Suggizioni (soggezione – qui ha il significato di: paura) – Comòra (per ora) – Sconzu (disturbo, guerra, ruina). – T'ammustri (ti dimostri) – Attrivitu (audace, ardimentoso; dallo spagnuolo: atrevido) – Cu vintottu (nel famoso popolare gioco del trentuno, restare con ventotto vuol dire far gioco prudente) – Vasinnò (che se no) – Ti nn'acchiani (sballi e perdi la partita) – Vespri siggiliani (far Vespri siciliani, in Sicilia, ha il significato di: accoppare, conciare per le feste) – L'àstricu (la terrazza) – Agghicàuru (sareste giunta). – Vi parunu (vi sembrano) – Spiàticci (chiedetene) – A chiddi (a coloro) – Sanu (sanno) – L'anibussi (gli omnibus) – Tanasia (una famosa mercantina di giocattoli, in Catania) – Furmicula (formica) – Sbilluncinu (binoccolo, cannocchiale) – Sturcìu (contorse) – Li mussi (le labbra) – Menza (mezza, metà) – Misu (posto) – Ciancu (fianco) – Vucca (bocca) – Ci capeva (vi si conteneva). – Canniletti (cannelotti, qui vale: batuffoli) – Cuttuni sciusu (la bambagia) – Non jocu a sgangu (non tratto con slealtà) – Sgrusciu (rumore, botto) – Scattari (scoppiare) – Màttula (bambagia, ovatta) – Musciu (moscio, fievole) – Abbeniaggi (alcuni viaggi, talune volte) – Ocche tanticchia (qualche tantino) – Adaciu (adagio, con cautela) – Cumminò (combinò, situò). – Crìriti (credete) – Abbasta dirisi (basti dire) – Cìchiri (tazze) – Cannati (brocche, boccali) – Unu di tuttu (ogni cosa) – Fôru (furono) – Liniati (crinati) – L'àppuru (le ebbero, li dovettero) – 'Nchianu (fuori, all'aperto, sulla strada) – Cuttuni (cotone, bambagia). – Pigghia (prende) – Arridiri (ridere) – Assistanti (nel contempo) – Annunca (se no) – Mòrunu (muojono) – Siddu (se) – Currispunsabilità (idiotismo: responsabilità). – Fa 'nsinga (fa segno) – Pàrtisi (si parte) – Menza palla (mezza palla: nella immaginazione dell'interlocutore, un colpo a mezza carica è con mezza palla) – Sgrusciu (rumore) – Ppi sapillu (perchè si sappia) – Abbulàru (volarono) – Canali (tegole) – Di 'sta fatta (di questa dimensione: qui l'interlocutore fa il segno con le braccia) – Mancu a dillu (manco a dirlo) – Curpennulu (colpendolo) – Si sbracò (si rovesciò, precipitò con fracasso). – Si sdirrupò (precipitò fra i dirupi) – Nni murenu (ne morirono) – S'addunàu (s'accorse) – Minnitta (ruina) – 'Loria mmaliritta (gloria maledetta: imprecazione d'uso) – Currìu (corse) – T'ha' canusciutu (t'ho conosciuto). – Criatu (cameriere, domestico) – Nn'ha chiantatu (ci ha appiccicato) – Distruggiutu (distrutto) – Citati (città) – Fàrici (fargli) – Farinnillu (farcelo) – 'Ntricu (intrigo) – Vèniri (venire) – Trattamu (trattiamo) – Tri (tre). – S' u' (se lo) – Pigghiàru ccu li boni (presero con le buone) – Si ciáuraru li mussi (si intesero, come le bestie che si annusano scambievolmente) – Cumminaru (combinarono) – Pasta 'rattata (pasta grattata – ha il significato di: combinazione, intesa, impresa) – Pigghiò (prese) – Sgangò (acciuffò, rimediò) – Talïanu (italiano) – Chiù fina (con più intelligenza) – Ammuràu (arenò, diede in secco sulla sabbia) – Puliziau (pulì) – Arritrè (corruzione di Eritrea – dicesi arritrè o retrè, in Sicilia il gabinetto o stanzino del cesso, – dallo spagnuolo retrete).