CULTURA
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DOPO IL
TRAMONTO



DOPO IL TRAMONTO

Muore il giorno. In un gran ravvolgimento
D’incendïate nuvole profonde,
Il sol, come un perduto astro cruento,
Nell’alto abisso traboccò dell’onde.

Di caligini un vel tacito, lento,
Sale di plaga in plaga e si diffonde:
In un vortice d’ombra e di spavento
Si sommerge ogni aspetto e si confonde.

Ma per l’etra immortal, per le incorrotte
Solitudini tue, florido cielo,
Sboccian le stelle tremole e raggianti.

E dall’anima mia, cui già la notte
Ultima ingombra d’immutabil velo,
Salgon, vibrando, a te gli ultimi canti.







PARTE PRIMA

RESURREXIT

Sotto che cielo fosse, e in che remota
Parte del mondo, ignoro. Intorno intorno
Si stendea la pianura immensa e vota:
Svania la notte e ancor non era il giorno.

Quanto ciel si vedea, lugubremente
Una cinerea nuvola copriva;
Sol, radendo la terra, in oriente,
Una falda correa di fiamma viva.

Era nell’aria una frescura acerba
Di maggio boreal: mezzo consunta,
Vedovata di fior, vestiva un’erba
Fosca la zolla irrigidita e smunta.

E non altro apparia. Tacita e sgombra
Si spandea sino al ciel la gran pianura;
Men che da un lato, ove, sommersa d’ombra,
La visïon d’una rovina oscura,

Smisurata, saliva entro la grigia
Nube; e parevan di lontan trarupi
Di ciclopiche mura, erte fastigia
Di torri, e templi cavernosi e cupi.

Come avvenne non so; ma innanzi un bianco
Avel mi vidi. Era di saldo e terso
Marmo l’avello e rilucea; da fianco
Il gran coperchio si vedea riverso.

Di novi fiori intorno una gioconda
Primavera spuntava, e sur un lembo
Sedea dell’arca una fanciulla bionda,
Che piene avea di fior le mani e il grembo.

Oh, come bella e contegnosa, oh come
Era pura e gentil, cinta d’un lieve,
Immacolato lin, sparse le chiome
Di lucid’oro sopra il sen di neve!

Le sembianze le ombrava una serena
Melanconia che le facea più belle:
Non era il riso suo cosa terrena,
Brillavan gli occhi suoi come due stelle.

==>SEGUE
Di me s’avvide, e con benigno riso
Disse: Credevi tu ch’io fossi morta?
Onde tanto stupor? Guardami in viso:
Se morta fui, mira che son risorta.

E veggendomi star muto e sospeso
Com’uom cui falso immaginar disvia,
Soggiunse: Hai dunque l’intelletto offeso,
Che non conosci più la Poesia?

Guardami: io quella sono; io son colei
Che tu fanciullo amavi già d’amore:
Io quella sono, e tu pur quello sei,
Che per età non hai mutato core.

Io quella, io quella son, se a mente l’hai,
Unica amica tua salda e verace;
Io le lacrime tue vidi e asciugai;
Io sola diedi a quel tuo cor la pace.

E il dì ch’ultimo a te segni il destino,
E ponga fine al viver tuo dolente,
Io sola, io sola ti sarò vicino,
Io chiuderò le tue pupille spente.

Com’ebbe detto, un luminoso e blando
Fior mi donò, figlio d’ignoto suolo;
E l’ali candidissime spiegando,
Per l’aria immota si prosciolse a volo.

Io la vedea salir, cinta da un nembo
Di roseo lume, angelicata e pura;
E salendo lentissima, dal grembo
Versava fiori sulla terra oscura.

E com’eccelsa fu, sovra le terse
Ali ristette e salutarmi parve;
Poi nella tetra nuvola s’immerse
Folgoreggiando a guisa d’astro e sparve.

Pure in alto io mirava, e in suo vïaggio
Lei seguia col pensier: dall’orizzonte
Spuntava in quella il sole ed il suo raggio
Fervido e chiaro mi feriva in fronte.
POST MORTEM...

Di tristezza mortal que’ derelitti
Orti son pieni, che di riso un giorno
E di teneri amori eran soggiorno.
Corre un vïal di pioppi alti e diritti

Presso la ripa d’un lucente lago,
Che de’ pioppi e del ciel, dormendo al rezzo,
Accoglie in grembo la tranquilla immago.
Qua e colà, lungo il vïal, di mezzo

Ai cespugli cresciuti alla ventura,
Esce un sedil d’antica pietra, spunta
Una marmorea dea mezzo consunta.
Dall’un dei capi, ov’è più fredda e scura

L’ombra, una fonte di bizzarro stile
Piange sommessamente in tuon minore,
Vibrando all’aria un pispino sottile.
Una quïete stanca, uno stupore

Pien di muti ricordi e di sconforto
Antico, un non so che di rifinito,
Pende nell’aria e tutto ingombra il sito.
Par che dica il silenzio: Amore è morto.

* * *
Ma le notti d’estate, quando sembra che il mondo
S’addormenti in un sogno di quiete suprema;
E quando eccelsa splende nell’azzurro profondo
La tersa falce della luna scema;

Lungo il vïal deserto, pien d’un silenzio arcano,
Nel baglior della luna, sotto i pioppi dormenti,
Van camminando insieme, a passi muti e lenti,
Due ombre che si tengon per la mano.

L’ombre quasi svanite, più leggere che ’l vento,
Di due teneri amanti che quivi ebber dimora;
Di due teneri amanti, che già da più di cento
Anni son morti, eppur s’amano ancora.

S’amano ancora, - invano: ahi, che fiero dolore,
Che tortura il ricordo de’ bei corpi perduti!
Il ricordo pungente de’ bei corpi goduti
Nel fervor della vita e dell’amore!
==>SEGUE


S’amano ancora, - invano: ahi, le soavi ebbrezze,
Ahi, le febbri e i tumulti dell’amoroso gioco;
Ahi, gli amplessi voraci, ahi, le ardenti carezze,
Ahi, gli agognati ancor baci di foco!

Lungo il vïal deserto, pien d’un silenzio arcano,
Van camminando l’ombre addolorate e lente:
Si guardan sospirando, piangon sommessamente
E vanno e van tenendosi per mano.

Ombre senza conforto! ombre senza speranze!
Dunque invano la morte de’ bei corpi le ha prive?
Negli spiriti ignudi vive la rimembranza,
Tenace, acuto il desiderio vive.

Veggono i nomi loro, annodati in un laccio,
Mordere ancora i tronchi di quelle piante annose;
Veggon le logge opache, ove tra gigli e rose
Giacquer beati l’un dell’altro in braccio.

Veggono il cielo e il lago, veggono il colle e il prato,
Che gli aspetti d’un tempo serbano ancora, e assorti
Nella dolce e bugiarda visïon del passato,
Sognano un tratto di non esser morti.

E allor, come gli sforza l’insazïato ardore,
Anelanti ristanno e s’abbracciano stretti;
Ma li vince un terrore quando negli ansii petti
Non senton più batter convulso il core.

S’amano ancora, - sempre; s’amano ancora, - invano!
Sovra un sedil di pietra, che d’ellera s’abbruna
Seggon muti gli amanti, tenendosi per mano,
E sospirosi guardano la luna.

E la luna serena, sopra l’arbori nere,
Di quell’amore inconscia, e com’ei pianga e agogni,
Passa lenta nei cieli, cinta, come di sogni,
Da un vol di nubi candide e leggiere.

==>SEGUE



Arturo Graf - DOPO IL TRAMONTO - Parte I
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
__________________
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885. Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».

Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza», Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.
___________________
In quel grande silenzio, in quell’immensa pace,
Lieve come un sospiro un venticel si scioglie,
E cessa, e poi riprende, così lieve e fugace,
Che appena fa rabbrividir le foglie.

E di lontan con esso viene un fremito blando
Di spinette affiochite, di gementi lïuti;
Un fremito d’antichi canti d’amor perduti,
Che nella notte si van lamentando.

SPETTACOLO IN CIELO

Bieche nubi, dense e torbe,
Volano nell’aria;
Volan ratte innanzi all’orbe
Bella luna solitaria.

Come uccelli smisurati,
Come larve spente,
Per gli spazii sconfinati,
Volan via tacitamente.

Volan ratte, e mentre l’una
Passa, l’altra appare;
Volan via sotto la luna
E discendono nel mare.

E laggiù, nella profonda,
Nella vota scena,
Sopra il baratro dell’onda
Il ciel livido balena.
BEN SO

Ben so: menzogna è il tutto e fuggitivo
Sogno d’inani amor, di stolte cure,
E disperata vanità che il divo
Sol di sparenti iridi accende: eppure,

Insiem con l’altre vili creature,
E quale un bruto d’intelletto privo,
Noja e dolor, farnetichi e paure
Avvicendando, vergognoso io vivo.

E come pianta, cui di nova spoglia
Vesta l’aprile, il desiderio ancora
Nel profondo del cor mi rigermoglia.

E come lume d’innovata aurora
Una speranza che di sé m’invoglia
Dentro l’anima mia si rincolora.

RICORDO D’ISCHIA

Come un sogno d’amor, che dolcemente
Si rïaccenda al rinnovar dei fiori,
Tu nell’anima mia ti rincolori,
Meraviglia dell’acque, Ischia fiorente.

Tu sorrisa dal ciel, tu vezzeggiata
Dai sospirosi zeffiri, fra quante
Isole ha in grembo il vasto mar sonante
Tu dolce e cara e sotto al sol beata.

Ahi, che ridendo e lacrimando insieme,
L’invidïata giovinezza e l’ore
Fra tanta ebbrezza d’innocente amore
In te vissute io penso e tanta speme.

Era il maggio festoso, e tu dai cavi
Seni fioriti e dalle sponde ombrose,
Come un canestro di novelle rose
Al piissimo ciel tutta olezzavi.

Era la notte, una quïeta, pura,
Blanda notte di maggio, e sotto al vivo
Frondeggiar degli aranci, a mezzo il clivo,
Noi sedevamo insiem sulla verzura.

==>SEGUE
Muta, profonda, e come affascinata,
La marina dormiva: all’orizzonte
Il focoso Vesuvio ergea la fronte
Di sanguigni bagliori incoronata.

E di là ‘ve la doppia erta s’incuna
Precipitando, nell’azzurro spazio,
Come un globo di nitido topazio,
Lentamente sorgea l’antica luna.

A irradïar sorgea, mite e serena,
La fragorosa Napoli, lo spento
Baratro di Pompei, Cuma, Sorrento,
E il favoloso mar della sirena.

E di lontan, dagli orti, e dalle prore
Lievi per la supina onda vaganti,
Venia soave un fremito di canti
Ebbri d’amore, sospiranti amore.

FUOCHI FATUI

Com’anime ignude,
Che un soffio ne porta,
Guizzano, vagano
I fochi fatui
Sull’onda morta
Della palude.
Pallidi fochi
Rapiti in lenta
Lenta vertigine,
Sull’acqua immobile,
Nell’aria spenta,
Tremoli e fiochi.
E in lor compagnia,
Nel bujo sospesa,
Io veggo splendere,
Di scialbo e fievole
Bagliore accesa,
L’anima mia:
Luce smarrita
E moribonda,
Che già si stempera,
Che già dileguasi
Nella profonda
Notte infinita.
VECCHI ONTANI

Ai vecchi ontani il vento,
Ghignando, urlando, narra
Non so che storia lugubre e bizzarra,
Non so che storia d’ira e di spavento.

Tremanti di paura,
Sotto il gel che li allaccia,
I vecchi ontani al cielo ergon le braccia
Gemendo a gara nella notte oscura.


LA MARTIRE

I.
La vergine è morta: que’ torvi scherani
La gittâr, già spirata, nell’onda,
E d’empii motteggi, d’insulti villani,
Lei travolta coprîr dalla sponda.

La vergine è morta: sorretta da un lembo
della veste, sornuota la salma,
Ed ha tra le mani, legate sul grembo,
Per ischerno una vetta di palma.

La vergine è morta. Oh, come gentile,
Come pura in quell’acqua che aggela!
Nel molle candore del panno sottile
Che il candore delle membra le vela!

Sen va la fanciulla, siccome chi dorme,
Resupina nel letto dell’onde:
Carezzano l’onde le gracili forme
E le chiome lunghissime e bionde.

Il fiume è turchino, il fiume è lucente;
Verdi ripe ne stringono il corso:
Con tacita lena, dolcissimamente,
Va traendo la morta sul dorso.

Il fiume turchino vien giù da levante,
Serpeggiando pel fertile piano;
Tra campi fioriti, tra viridi piante
Si dilunga lontano lontano.

==>SEGUE
Esulta l’aprile: nell’aria che freme
È un olezzo di rose e vïole;
Sull’acque, sui campi che ridono insieme,
Nell’azzurro rifolgora il sole.

La vergine spenta con l’onde s’aggira,
Come fiore strappato allo stelo:
Aperti i grand’occhi, intenta ella mira
La distesa azzurrina del cielo.

Con gli occhi pur fissa quel vasto nitore,
Quasi cerchi lassù ’l paradiso,
E a poco per volta un vago stupore
Si dipinge sul pallido viso.


II.
Passano ad una ad una
L’ore e declina il giorno;
Il chiaro ciel s’imbruna,
Si fa silenzio intorno;
E lenta, a fior dell’onde,
Sempre la vergine passa,
Sciolte le trecce bionde,
Abbandonata e lassa.

Ogni fior si commove
Sul lido al suo passaggio,
E le dimanda dove
Tenda il lungo vïaggio;
Le mute arbori antiche,
Fatte per lei pietose,
Tendon dall’alto amiche
Le gran braccia ramose.

La rondine che stanca
Rade, volando, il suolo,
A quella forma bianca
Spinge sull’acqua il volo;
Sul viso afflitto e spento
Batte, rotando, l’ala,
E un flebile lamento
Dal picciol petto esala.

==>SEGUE
Annotta a poco a poco,
Cresce con l’ombre il gelo;
Là, da levante, un fioco
Bagliore inalba il cielo;
Spunta la luna scema
Dal tenebroso monte;
Sull’acque un raggio trema,
Bacia la morta in fronte.

Luna gentil, non sente
Il bacio tuo la morta,
E passa dolcemente
Con l’onda che la porta:
Sempre all’immensa e vana
Etra il suo sguardo è volto,
E una gran doglia arcana
Le copre d’ombra il volto.

Passa la notte intera,
Torna a brillar l’aurora,
E nuovo giorno e sera
Nuova succede ancora:
Quando del sole il lume
Piega sull’onde amare,
Fuori del corso fiume
Esce la morta al mare.


III.
Arde il tramonto: taciturne e sole,
Quanto il ciel gira si dilatan l’onde:
In un gorgo di nubi alte e profonde
Brucia e sfavilla arroventato il sole.

Come ruine d’altri mondi, accese,
Si disfascian le nubi a poco a poco:
Gran lembi d’ombra e di sanguigno foco
Vagan sulle dormenti acque distese.

Lì di contro è la morta. Immobil guata
In quell’ardor di sfigurati cieli,
Ed appar ne’ suoi stanchi occhi fedeli
Una tragica angoscia e disperata.

==>SEGUE
E le palpebre alfin, qual per seconda
Morte ella chiude; e poi ch’è spenta in tutto
L’ultima luce nell’amaro flutto
Voraginoso, sepolcral, sprofonda.

Il silenzio, e l’obblio stanno su quelle
Povere membra benedette in cuna:
Sul mar fiato non corre; ad una ad una
Nell’alto ciel s’accendono le stelle.

LA FELUCA

Nubi accese, color di rubino,
Passan lente nel cielo turchino;
Sopra l’onda, che d’ostro si fuca,
Passa lenta una negra feluca.

Una voce soave e sonora,
Che minaccia, che piange, che implora
Penetrata d’un intimo ardor,

Al singulto di mesta chitarra
Sale, scende, s’infrange, — rinarra
Una storia bizzarra d’amor.

Via pel ciel che s’infosca più lente
Van vogando le nuvole spente;
Sovra il mar, che di bujo s’ingombra,
La feluca dilegua nell’ombra.

DETTO ANTICO

Per la mente mi va quel detto antico,
Che a me par dolce e a’ miei colleghi amaro:
Quello (non so se ben io lo ridico):
Muor giovane colui che ai numi è caro.

Detto pien di gajezza e di speranza!
E più sensato com’io più lo spremo!
Detto d’amore!... Ahimè, che ai numi io temo
Di non essere ormai caro abbastanza.
IL CIMITERO ABBANDONATO

Più solitaria valle e più remota
Non vidi mai. Giù per la verde china
D’un poggio volto al sol, presso l’immota
D’uno specchiante lago onda azzurrina,

L’abbandonato cimitero scende.
Su per le balze dirupate, in alto,
Pei cadenti pendii, sale d’orrende,
Scure foreste un taciturno assalto;

E più su, come attoniti giganti
Che si guatin fra lor, sdegnando il mondo,
Bianchi di neve i culmini raggianti
Nella serenità del ciel profondo.

Giace l’antico cimitero al rezzo
Delle candide vette irte di gelo:
Una gran croce logora nel mezzo
Leva le braccia disperate al cielo,

E d’altre croci ha intorno un fitto stuolo.
Di cespugli e di fiori una vivace
Mescolata famiglia ingombra il suolo,
Ove dormono i morti in santa pace.

Quivi l’erica mite e della lenta
Ginestra i cespi, e quivi la silvana
Felce e il ginepro e l’odorata menta
E il fior turchino della genzïana.

Un silenzio di sogno, una suprema
Quïete il loco di lontan circonda:
Non canta in ramo augel, non acqua trema
Corsa dal vento, né si move fronda.

L’aerea nube sol che trasvolando
Passa nell’alto e pel seren si perde,
Sol l’aerea nube a quando a quando
Getta una fuggitiva ombra sul verde.

Sopra un ruvido sasso, in mezzo ai folti
Virgulti io seggo, e una pietà mi serra
Il core, una pietà di quei sepolti,
Dimenticati nella buja terra.

==>SEGUE
Ma un subitaneo fremito le croci
Commuove e il grembo della madre antica,
E un lieve e blando mormorio di voci
Sale su dal profondo e par mi dica:

A che ne turbi tu col tuo compianto?
Non sai? tanto è maggior la nostra pace
Quanto di noi men altri cura, quanto
Il vano mondo sopra noi più tace.

Vivi fummo, or siam morti; e non ricorda
Nessun tra’ vivi i nomi nostri e l’opre:
Morti noi siamo, e smemorata e sorda
È questa immobil terra che ne copre.

Tempo fu che gli amici ed i congiunti,
Con cui speranze dividemmo e amori,
Venian, di duolo e di pietà compunti,
A sparger su di noi lacrime e fiori;

E dei vivi era il duolo angoscia ai morti.
Ora non più: cheti dormiam dappoi
Ch’ei ne lasciâr. Tu che pietà ci porti,
Se triste hai ’l cor vieni a dormir con noi.

FIOR DI POESIA

O fior caro e gentile,
O fior di poesia,
Com’è pura e sottile,
Com’è soave e pia
La tua fragranza!

Tu volentier fra ’l duolo,
Nella cenere nasci,
Ed ignorato e solo
Di lacrime ti pasci
Senza speranza.

Chi di sua sorte pago
Altra sognar non osa;
Chi d’oro e d’onor vago
Un solo dì non posa,
Mal ti conosce.

Ma quei che derelitto
Visse i dì nel dolore;
==>SEGUE
Ma quei ch’ebbe trafitto
L’intelletto ed il core
Di mille angosce;

Quegli che titubante
Un mattino ti colse,
E disïoso amante
Al suo crine t’avvolse
Con man commossa;

Quei ti conosce e t’ama,
Né cura altra lusinga,
E l’ultima sua brama
È che tu gli dipinga
L’umile fossa.

ADAMANTINA LUNA

Adamantina luna, a che dall’erto
Colmo de’ cieli ove solinga giri,
Questo d’acque dormenti sconfinato deserto
A che sì attenta e curiosa miri?

Come un liquido vetro a tondo a tondo
Lo sconfinato pelago si spiana,
Immobil come il cielo, e, come il ciel, profondo,
E spaventoso in sua quïete arcana.

Pari a nitida lampa onde s’inalba
Nel silenzio la sacra ombra de’ templi,
Tu negli spazii, o luna, ardi tranquilla e scialba,
E la deserta immensità contempli.

E i vagabondi nugoli non curi,
Che lievi, a guisa di volanti prore,
Corron dinanzi al vento, silenzïosi e scuri,
E via dileguan pel sereno albore.

Speri tu riveder, lieto portento,
Frammezzo a cori di Nereidi bionde,
Galatea viva e nuda, nella conca d’argento,
Su pel lucido errar specchio dell’onde?

O spii tu forse con geloso affetto,
Luna, gli amori di vezzosa ondina,
Che con ignoto amante, sovra purpureo letto,
Giace, fra’ gorghi di cristal, supina?
UCCELLI TETRI.

Empie la cupola de’ cieli un greve
Vapor cinereo;
Copre gl’intermini campi un funereo
Lenzuol di neve.

Per l’aria gelida, sui bianchi e morbidi
Deserti immensi,
Trasvolan nugoli profondi e densi
D’uccelli torbidi.

Vulturi ed aquile, nibbii e sparvieri
Sinistri e torvi;
Innumerabili turbe di corvi
Lugubri e neri.

I vicendevoli odii si scordano
Volando forte,
E di fameliche strida di morte
Lo spazio assordano.

Con ali volano sicure e pronte,
Qual da presaga
Forza travolti verso una plaga
Dell’orizzonte.

— O lupi aerei, epe affamate,
Gole stridenti,
Per l’aria gelida, sfidando i venti,
Ove ne andate? —

— Noi lupi aerei, ventri affamati,
Stridenti gole,
Verso la plaga voliam del sole,
Dove su lati

Campi altri lupi che la natura
Perfezionarono,
Che han nome d’uomini, ci prepararono
Larga pastura.
SOTTO IL SALICE

Sovra la cristallina
Spera d’acqua lucente
Un salice piangente
Le verdi chiome inclina
Melanconicamente.

E baciata dall’onde,
Tra quelle verdi chiome,
Una croce, siccome
Vergognosa, s’asconde,
Logora e senza nome.

La croce ignuda e brulla,
Senza un ricordo, un fiore,
La croce, o mie signore,
D’una bella fanciulla
Morta pazza d’amore.

Morta in quell’acqua cheta
Un mattino d’aprile,
Un mattin che lo stile
Di sua doglia secreta
Passolle il cor gentile.

Più di lei non favella
Anima nata: è corta
La sua storia: che importa
S’ella amò, se fu bella?
Son tant’anni ch’è morta!

Non è chi pianga e l’ami;
Solo di quando in quando
Il zeffiro passando
Fra que’ pallidi rami
Scioglie un gemito blando.

Cinta di pruni in giro,
L’acqua chiara e tranquilla,
Come una gran pupilla
Guarda il ciel di zaffiro
E sotto al ciel sfavilla.

Passa nell’alto il sole,
Passa la bianca luna:
Cadono ad una ad una
L’aride fronde sole
Sovra la croce bruna.
RICORDO DI BORDIGHERA

Sul curvo lido, ove placato e lento
Il mar si frange in latteggianti spume,
Nel vibrante del sol dorato lume
Sorgon tre palme flessuose al vento.

D’un azzurro baglior di gemma viva
Ride il sereno immacolato; e solo
Passa talor, lieve nell’alto a volo,
Una nuvola bianca e fuggitiva.

D’un nitore di gemma, azzurro e blando
Ride quel mar, che nel lontan s’inciela;
E sol lieve sopr’esso, a quando a quando,
Passa una bianca e vagabonda vela.

Vien con libero soffio e fremebonde
Ali dal largo la diurna brezza,
Pregna del fresco e dell’odor dell’onde,
Morbida e viva come una carezza.

Dalle palme ondeggianti in nimbi d’oro
Piove di susurrati aerei canti
E di sospiri un murmure sonoro,
Come di spiritali arpe sonanti.

Guardo quel puro ciel, guardo l’estrema
Cerchia dell’acque e l’arbori canore,
E non so perché l’anima mi frema,
Non so perché così mi batta il core.

Veggo nell’aria vaporose e chiare
Forme librarsi in mobili volute;
Odo voci sonar tenere e care,
Da sì gran tempo dileguate e mute.

Provo dentro, nel cor stretto e conquiso,
Un’amara letizia, un dolce schianto:
Mi vien tremando sulle labbra il riso,
Mi scende in copia giù dagli occhi il pianto.
LA NAVE TRA’ GHIACCI

Là, nell’artico mar, sotto la grave
Cappa del freddo e scolorato cielo,
Stretta fra scogli d’impietrato gelo,
Erta la prua, giace un’antica nave.

Per ogni plaga che lo sguardo abbracci
Stendonsi in equi e desolati piani,
S’ergono in aspre rupi, in balze immani,
Senza confin, senza intervallo, i ghiacci.

Dell’orizzonte sull’estrema sponda,
Che d’eterne caligini s’imbruna;
Torbido appare il sol, fosca la luna
Appare, e tosto di bel nuovo affonda.

D’ogni forma vital sterile e voto
È quel deserto, e mai non muta sorte,
E non perturba quella dura morte,
Quell’attonito orror, voce né moto.

Sol, crocidando in lamentosi metri,
Sotto il livido ciel, tagliando il vento,
Passan talora, a volo sbieco e lento,
Nembi d’uccelli tenebrosi e tetri.

Pria d’investir nella gelata mora,
Squarciato il fianco di stridenti piaghe,
Tutte del roteante orbe le plaghe
Corse volando la robusta prora.

In compagnia della volubil prole
De’ venti errò sotto i giocondi e chiari
Cieli dell’equator, solcò de’ mari
L’onda ove nasce, ove si spegne il sole.

Vide la foce del divino Gange,
E le floride Antille, e il caligante
Capo della Speranza, e il mar sonante
Che i suoi gorghi fra mille isole frange.

Era AVANTI il suo nome, era la sua
Vita il libero mar: ora di tempre
Ferree la stringe il ghiaccio; ora per sempre
È immobil fatta la volante prua.

==>SEGUE
Dileguan gli anni, e in quell’eterna bruma
La mira il sol trascolorato e fioco,
L’atra luna la mira, e a poco a poco
Si disfascia la nave e si consuma.

Cadder gli alberi eccelsi, e rovesciata,
Simile a un vinto, la polena giace;
Giace il timone; l’ancora tenace
È nel fondo del mar precipitata.

In alto il ciel fra grige ombre perduto;
All’intorno il deserto orrido e muto.

BREVE LA VITA?

Breve la vita? a me talvolta sembra
Esser già mille e mille anni vissuto,
E m’avvinghia un terror gelido e muto
Quando del tempo andato mi rimembra.

E il cor mi trema, e d’un ignoto inferno
Sento l’angoscia cercarmi ogni vena,
Quando il pensier in mente mi balena
Di dover forse vivere in eterno.
VENERE DEMONIO

Di che sparso fragor, come d’un fosco
Turbine che le salse onde sovverta,
Sotto il limpido cielo e la deserta
Luna, d’intorno si riempie il bosco?

Le antichissime querce e gli aspri e folti
Abeti e i faggi ond’è la valle ingombra,
S’ergono muti e immobili nell’ombra,
E tutta par che la gran selva ascolti.

Ed ecco di lontan, sereno e blando
Come rosata aurora in oriente,
Fra tronco e tronco appar subitamente
Un lume che si viene approssimando.

Ed ecco, da quel lume accompagnata,
Vien oltre di lontan, per la radura,
Con lunghe volte e placida andatura
Un’infinita e nobil cavalcata.

Vien da prima, con bell’ordinamento,
Un bianco stuol di giovinetti araldi,
Che una dolce armonia, festosi e baldi,
Spiran da trombe di forbito argento.

Simile a rosa poi che intatto schiuda
Al sol di maggio l’incarnato seno,
Seduta appar su bujo palafreno
Una donna, anzi dea, tenera e nuda.

Sola precede alla maggior caterva,
Su tenebroso palafren seduta,
E guarda innanzi a sé ridendo muta,
Soavemente candida e proterva.

Sembrano gli occhi suoi due vive faci
Alle fiammanti accese are di Gnido;
Sembra la bocca piccioletta un nido,
Un caro nido d’amorosi baci.

Spiove ondeggiando, luminosa, opima,
Giù per le spalle la sfrenata chioma;
Treman sul petto le ingigliate poma
che due bocciuoli hanno di rosa in cima.

==>SEGUE
Arde sul fronte grazïoso e bianco
Di sfavillanti gemme una corona;
Di sfavillanti gemme arde una zona
Intorno al colmo e delicato fianco.

Nuda e ridente le superbe terga
Preme la bella donna al palafreno:
Con l’una man regge il dorato freno;
Stringe con l’altra una dorata verga.

Pien di fervida ebbrezza e di languore
Per l’aria al suo passar vola uno spiro;
Fremono le vetuste arbori in giro,
Scuote la terra un tremito d’amore.

Dietro a colei che a guisa di regina
Movendo, l’ombre di suo spirto avviva,
La sterminata e nobil comitiva
Con lunga pompa trionfal cammina.

Coppie e brigate di gentili amanti
Su balïosi corridor montati;
Gale di vesti e crini inghirlandati,
Labbra ridenti, pupille raggianti.

Lustrano nel diffuso, arcano lume,
Varii di fogge, d’usi e di colori,
Gli ondanti veli, i grevi drappi, gli ori,
Le gemme accese, le dipinte piume.

Dove più densa, avviluppata e nera
La selva esclude dal suo grembo il giorno,
È un picciol prato senza fior, che intorno
Ha di molti sentieri una raggiera.

Quivi, tra pruni, nella terra infisso,
Cinto dall’ombra taciturna e tetra,
Sorge di fosca e logorata pietra,
Di funerea vista, un crocefisso.

Quivi la bella donna il caval gira,
Quivi la bella donna il caval ferma,
E quel dolente simulacro e l’erma.
Selvaggia sede baldanzosa mira.


==>SEGUE
Poi con florido riso e amabil voce
Parla: O dio della croce e del vangelo,
O Cristo, io son colei che tu dal cielo
Col tuo vangel cacciasti e la tua croce.

Io son colei cui generâr nel cronio
Mare in antico le vitali spume;
Quella Venere io son che tu di nume
Presumesti cangiar, Cristo, in demonio.

E dea rimasi, e della mia rovina
Né duol mi vinse, né mi vinse tema;
E quel che in me scagliasti aspro anatema
Non iscemò la mia beltà divina.

Dea rimasi, dea sono, e con giocondo
Culto l’uom, che tu strazii, ancor m’adora;
E del mio nume invulnerato ancora
Vive, s’impregna, si rinnova il mondo.

Me le belve, e le piante, e la nutrice
Terra, e l’Oceano d’infinita prole
Fecondo, e l’etra, e il radïante sole
Chiaman propizia dea, dea genitrice.

Vedi qual io mi son, qual tu ti sei:
Tu di gelide angosce e di terrori
Sazii i tuoi servi; io di beati ardori
Colmo e di grazie invidïate i miei.

Tu, dalla croce sanguinosa, austero,
Sulle pavide regni alme dolenti:
Vedi il popolo mio, vedi le genti
A me devote ed al mio santo impero.

Tace, e scherzosa, con leggiadro piglio
Alza la verga d’oro e il caval tocca,
Che dalle nari sbuffa e dalla bocca
Globi di foco e di vapor vermiglio.

Davanti al crocifisso ella cavalca
Nuda e proterva, e, sì come a lei piace,
Tutto l’immenso popolo seguace
Con lunga pompa trionfal travalca.


==>SEGUE
Così sen vanno giubilando a gloria
Per l’alta notte, per la gran foresta;
Suonan gli araldi, camminando in testa,
Un inno di letizia e di vittoria.

E come avvien che il primo albor si scerna
Nunzio del novo giorno all’orizzonte,
Giungono appiè d’un rovinoso monte,
Cui squarcia il fianco un’orrida caverna.

Fra sghembe rupi, accatervate e rotte
La tenebrosa grotta si spalanca,
E quivi, mentre il ciel lento s’imbianca,
Entran sotterra, nella densa notte.

Scendon nel cupo, ove di luce pregno,
E di soavi fior sempre beato,
Cui de’ zeffiri educa il vivo fiato,
E della dea d’amore il dolce regno.

CIME DI MONTI

Invitte, auguste cime,
A voi la stanca e frale
Anima mia dal curvo mar, dall’ime
Valli, sognando e dolorando sale.

Voi, sui piani odoranti,
E le selve sonore;
Voi sull’urlo profondo ed il furore
Delle sfrenate acque precipitanti;

Sovra la scena oscura
Delle vicende umane,
Ove una stirpe scelerata e dura
Morendo pugna per lo scarso pane;

Bianche d’intatto gelo,
O fosche in nuda pietra,
Voi nell’azzurro nitidor dell’etra,
Voi nella immensità sacra del cielo,

V’innalzate solenni,
Inviolate, eterne,
Mirando in alto i fulvi astri perenni,
E in fondo il mar che senza fin si sterne.

==>SEGUE
Voi la fulgente aurora
Che la vita radduce,
Voi prime attinge e di rosata luce
Tra le fuggenti tenebre colora:

E voi, poiché sommerso
È il sole a ogni altro loco,
Tra le accorrenti tenebre, nel terso
Aere, splendete di sanguigno foco.

Ne’ vostri scogli algenti,
Del vasto etra per l’onde,
Corrono a naufragar le vagabonde
Nubi e ruggendo a sgominarsi i venti.

Nelle salde cervici
La folgore si schianta;
Corre pe’ fianchi vostri e le pendici
L’onda del tempo debellata e franta.

E che pace sovrana,
Che silenzio profondo,
Tra voi ch’estrane a questo bieco mondo
Quasi sembrate e alla progenie umana!

Invitte, eterne cime,
A voi la stanca e frale
Anima mia dal curvo mar, dall’ime
Valli, sognando e dolorando sale.
LA TELA DI PENELOPE

Convien pur ch’io lo dica e lo ripeta,
Benché poco oramai giovar mi possa:
È un brutto guajo, una disgrazia grossa,
Essere a un tempo e critico e poeta.

Avere in casa, e in guerra fra di loro,
Monna Ragione e monna Fantasia,
Che si sparton, rignando tuttavia,
Dell’antica Penelope il lavoro.

Voi sapete, signori e buona gente,
Che Penelope, a lume di candela,
Senza stancarsi distessea la tela
Ch’avea tessuta il di sì vagamente.

E ciò facea per ingannar quei proci
Che volevan, briachi, entrarle in letto,
Mentre l’accorto Ulisse, poveretto,
Correva i mari con gli smunti soci.

E ciò facea per far intender loro
Che obbedir dee ’l talento alla ragione:
Ah, signori, ben disse Salomone:
Una femmina casta è un gran tesoro.

Vogliono alcuni che Lucrezio Caro
Sia stato il primo a dir tal cosa: basta:
Sia chi si voglia: una femmina casta
È un gran tesoro, — ed è un tesoro raro.

Ora dunque, tornando al fatto mio,
Queste due buone femmine ch’io dico,
Per farmi più dolente e più mendico
Si spartiscon fra loro il lavorio.

Così la Fantasia scherzando intesse
Di liete fole e di bei sogni un velo,
Da far invidia, colassù nel cielo,
Alle vergini sante e all’angiolesse.

Ma la Ragion che le fole non ama,
E non concede a’ vani sogni asilo,
Sopraggiunge garrendo, e a filo a filo
Tutta scompone la dipinta trama.

==>SEGUE
Ond’io, c’ho per grandissimo peccato
Lo stare ignudo, e notte e giorno anelo
A potermi vestir del caro velo,
Rimango, in fin dei conti, ignudo nato.

L’IDOLO

Nel granitico monte a cui s’imperna
L’ignea ruota de’ cieli, entro la rupe.
Imperitura, con segrete e cupe
Ambagi il vecchio tempo s’incaverna.

Tutt’ intorno, nell’ombra ove la tetra
Luce di poche lampe erra furtiva,
Di figurati simboli la pietra,
E di sognate deità s’avviva.

Quivi, il maggiore iddio, idolo informe,
Sovra un altar di porfido è seduto;
Strano mostro, mezz’uomo e mezzo bruto,
Sconcio, massiccio, impastojato, enorme.

Con due grand’occhi che non vedon lume,
E un volto fra lo stupido e il feroce,
Guarda nell’ombra a sé dinanzi il nume,
E si lamenta con un fil di voce:

«Io son la luce, io son la verità,
La fonte d’ogni vita e d’ogni gioja;
Ciò nondimeno, ahimè, come s’annoja,
La santissima mia divinità!

Io la terra creai, la luna, i cieli,
L’uomo e la tigre, la balena e il tordo:
Così dicono almen questi fedeli,
Perch’io, davvero, non me ne ricordo.

Gli è gran tempo del resto, o parmi sia,
Ch’io non creo più niente, e la divina
Mia persona in quest’orrida cantina
Crepa di noja e di melanconia.

Potessi almeno uscirmene talora
Un pochino a diporto, a prender fiato,
E contemplar liberamente un’ora
Quel benedetto sole c’ho creato.

==>SEGUE
E dir che debbo, per maggior molestia,
Esser così mezz’uomo e mezzo bruto!
Ah, se l’avessi in tempo preveduto,
Come mi sarei fatto tutto bestia!

Ed ecco che per giunta si bisbiglia
Di non so che novello e ignoto dio,
Il qual di far s’arroga, o meraviglia!
Quei miracoli stessi che fec’io.

E che sia cosa seria, e non da riso,
Parmi che il far pur troppo lo denoti
Di questa ciurma qua di sacerdoti,
Che più che mai mi ghignano sul viso.

Anzi il maggior di questa santa sede,
Uno che sempre brontola e borbotta,
Squadratomi l’altr’ier da capo a piede,
Sotto il naso m’urlò: ‘Vecchia marmotta!’»

LA SPINETTA

Nel castello d’Igor, là sull’aprica
Balza che al mar precipitando cala,
Nella più ricca e spazïosa sala
Giace in un canto una spinetta antica.

Spaziosa è la sala: alte finestre
Lasciano a fiotti penetrarvi il giorno:
Di fregi e d’opre di pennel maestro
Splendon le volte e le pareti intorno.

Simile a fresca e dilicata rosa
Che al bacio ardente del mattin si schiuda,
Quivi la dea d’amor tenera e nuda
Sovra le rugiadose erbe riposa.

Quivi, al nascente sol, lungo le rive
Di fugaci torrenti, agili schiere
Danzan di ninfe candide e lascive,
Co’ crini sciolti e sovra i piè leggiere.

E quivi, all’ombra di segreto bosco,
Erran con bianchi volti estasïati
Le dolci coppie degli innamorati,
Che favellan d’amor nell’aer fosco.

==>SEGUE

È la spinetta opra d’antico ingegno,
Che amor servendo e le propizie Muse,
Sotto italico ciel, nel cavo legno
Una pura e vocale anima infuse.

Anzi nel legno, con sottile incanto,
Chiuse di spirti armonïosi un coro,
Che, se li desti, limpido e sonoro
Levan per l’aria fremebonda il canto.

* * *
È deserto il castel, né voce alcuna
Dall’alte mura esala:
È deserto il castel: nell’ampia sala
Penetra obliquo il raggio della cadente luna.

Avviva il raggio curïoso e lento
Di spiritali albori
Le dipinte figure, i fregi, gli ori,
E lambe la tastiera al musico strumento.

Ed ecco sgorga dal vibrante fianco
Un tenero susurro,
Quasi gorgheggio appassionato e stanco
Di smarriti usignuoli volanti nell’azzurro.

Sembran voci d’un’anima che invano
Pianga, ricordi, agogni:
Ahi, come par che vengan di lontano,
Dalla terra dei morti, dal fluido ciel dei sogni!

Sale tremando il canto, e a poco a poco
L’aria intorno s’impregna
D’un trasparente e diluito foco,
Quale di mite aurora che tra nebbie si spegna.

E in quella luce immobile e serena
Come un’onda che dorme,
Vagano in giro, colorite appena,
Aeree sembianze, evanescenti forme.

Son fantasmi di dame e cavalieri,
Che con bella eleganza,
Con nobil cortesia, muti e leggieri,
Vanno traendo i passi in lenta contraddanza.

==>SEGUE
Son disïose, pallide, discrete
Larve d’innamorati,
Che, passeggiando lungo la parete,
Chinan l’un verso l’altro i volti estasiati.

Vanno le forme a guisa di faville
Entro quel lume in giro:
Sorridon labbra, splendono pupille,
Ma non suona parola, ma non s’ode un sospiro.

Sol nel silenzio la spinetta intanto
Singhiozza in tuon minore
Un così dolce e doloroso canto
Che l’anima rapisce, schianta a chi l’ode il core.

Ma la luna fantastica e sgomenta
È giù nel mar caduta;
Subitamente la spinetta ammuta,
Dileguano i fantasmi, ed ogni luce è spenta.

E il vento che dal mare urge con bieco
Impetuoso assalto,
Urla fra i tetti acuminati, in alto,
E con turbine vasto vola superbo e cieco.

LO SPECCHIO

Nel castello d’Igor, nel fosco e vecchio
Manier famoso in più d’una romanza,
Dalla parete di segreta stanza,
Son tre secoli già, pende uno specchio.

D’una mite azzurrina alba di gelo
Splende il cristal sovra il camino spento;
Splende come un forbito astro d’argento
Fra l’ombre acceso di remoto cielo.

A chi da presso con immote ciglia,
Con intento pensier miri e si taccia,
Novo prodigio nel cristal s’affaccia,
Che gli riempie il cor di meraviglia.

Quale fra nebbie stemperate e chiare,
Ovver sott’onda di quïeto lago,
Una diffusa e radïante immago
A poco a poco nello specchio appare.

==>SEGUE
Sembra uscir dal profondo, e per sottile
Opera di magia si circonscrive,
E si colora, e in una forma vive
Di donna, oltre ogni dir pura e gentile.

Rosate guance e biondo crin disciolto
Su bianco sen: sfavillan gli occhi, ride
La porporina bocca: uomo non vide,
Né mai sognò, più seducente volto.

Porporina la bocca ed i capelli
Ha d’oro; e come donna innamorata
Ride a un suo dolce sogno, e immobil guata
Lontan con gli occhi desïosi e belli.

Ma di mestizia un velo ecco la mite
Fronte ingombra e le tenere pupille;
Più la bocca non ride; amare stille
Piovon giù per le guance impallidite.

Ma un tragico terror subitamente
Tutto stravolge quel leggiadro aspetto:
Fuori dal bïanco e delicato petto
Sgorga di sangue un tepido torrente.

Come reciso fior la testa bionda
Cade all’indietro, in una gran vertigine
Di buja, densa, fumosa caligine
La parvenza gentil nuota, sprofonda.
SOGNO D’UNA NOTTE D’ESTATE

Si distende la notte alta e tranquilla
Sovra i liguri poggi e sul tirreno
Addormentato mar: vibra e sfavilla
D’infinite fiammelle il ciel sereno.

Io dormo, e sogno, e veggo a poco a poco
Schiudere il grembo e coronar lo stelo,
Accesa in dolce ed amoroso foco,
Una gran rosa nel profondo cielo.

Il suo lume le quete ombre dirada,
E sulle foglie tenere e novelle,
Come gocce di limpida rugiada
Per l’azzurro seren piovon le stelle.

E pel seren, dall’inesausto grembo
Del mar fremente di secreti amori,
Tumultuando, turbinando, un nembo
Sale di vaghi e coloriti fiori.

Sale dall’onde a mo’ di fluttuosa
Nube che pel diffuso etra si spanda,
E ruota, e intorno a quell’eccelsa rosa
Forma di vive gemme una ghirlanda.

E nel cor della rosa, ove più chiare
Ridon le grazie del vermiglio riso,
Simile a un astro sfolgorante appare,
Cara adorata, il tuo giocondo viso.

L’ORIUOLO

Da secent’anni la marmorea chiesa,
Irta di guglie, smisurata e scura,
Sale con prodigiosa architettura,
Come un sogno nel lieve aere sospesa.

Dalla guglia maggior, che a mo’ di stelo
Regge in alto l’immagin di Maria,
Un antico oriuol vigila e spia
La gran città, gli aperti campi, il cielo.

==>SEGUE
Giù l’artefice suo dorme ed aspetta,
Sepolto, il suon della tromba divina:
L’orïuol nulla aspetta, anzi cammina,
E notte e dì, senza posar s’affretta.

Cammina sempre, e sempre a un modo, e l’ore,
E i brevi dì con gl’indici misura
Alla progenie sciagurata e dura
Che nasce invan, che invan patisce e muore.

Cammina senza fin, la notte e il giorno,
E dall’alto, ogni po’, con bronzea voce,
Grida l’ora che in ciel passa veloce,
L’ora che fugge e mai non fa ritorno.

Quanto pupille, ahimè, velate e spente
Dalla morte per sempre, entro quel noto
Circolo dei fatali indici il moto
Ansïose spiâr, liete o sgomente!

Quanti poveri cor che più non sono,
Di cui né polve, né memoria avanza,
Palpitaron d’orrore o di speranza
Di quella voce inesorata al suono!

Anch’io, vecchio orïuol, soglio mirarti:
Non che tema o speranza in cor m’annidi;
Ma la tua voce aspetto che mi gridi:
È giunta l’ora tua, lèvati, parti.

NELLA SELVA

S’apre la selva: nel gelato e greve
Aere si drizzan l’arbori stecchite;
Copre l’arbori e il suol, candida e mite,
La fioritura della sparsa neve.

Uno spicchio sottil di luna stanca
Alto risplende nel forbito cielo;
Una luce dïafana di gelo
Empie la scena assiderata e bianca.

È la notte in cui nacque il redentore,
La santa notte di Natale è questa:
Oh, che letizia in terra! oh, che tempesta,
Dio redentor, nel mio povero core!

==>SEGUE
Sotto l’alba lunar pallida e muta
Non suona voce, né fuscel si move:
Io vado e vado senza saper dove,
Io vado come una bestia perduta.

Ed ecco, a un tratto, in mezzo alla radaja,
Mi si discopre un povero abituro:
Splende nella discreta ombra del muro
Una finestra piccioletta e gaja.

Splende la finestretta solitaria
D’una tranquilla chiarità gioconda;
Lenta di fumo cinericcio un’onda
Sale dal negro fumajol nell’aria.

Ahimè, d’invidia e di dolor nel petto
Pungermi il core a quella vista io sento;
E penso: oh, che quiete, oh, che contento
Si deve accôr sotto quell’umil tetto!

Come la punta d’un acuto dardo
Sento che il cor mi lacera e trapassa:
Alla finestra piccioletta e bassa
M’accosto, salgo sur un ceppo e guardo.

Una stanzuccia imbiancata di corto,
Con un largo camino e un desco a fianco;
E lì nel mezzo, entro un lettuccio bianco,
Fra quattro ceri, un bambinello morto.

Siede il padre, e con volto allucinato,
Con un par d’occhi invetrïati e spenti,
Guarda nel focolare i tizzi ardenti,
Guarda il fumo che s’alza avviluppato.

Presso il lettuccio, con la voce mozza,
Col viso tra le palme e il crin disciolto,
Stracca, buttata giù come un involto,
La madre geme, la madre singhiozza.
IMMAGINE

S’entro l’anima mia guardo talora,
Gli antichi dì, l’antico amor sognando,
Veggo l’immagin tua che tremolando
Fra quei gorghi s’accende e s’incolora.

Veggo l’immagin tua che dolcemente,
In un raggio di sol, come specchiata
Da una falda di cheta acqua lucente,
Parla con gli occhi e ride innamorata.



ONDA TURCHINA

Onda turchina che dal largo arrivi,
E sull’arena ti rincrespi e frangi,
Onda azzurra del mar, tu fremi e vivi,
Onda azzurra del mar, tu canti e piangi.

L’anima mia, di trasparenti fole
Sempre dipinta, nel tuo grembo scende,
E confusa con te palpita e splende
Alla candida luna, al fulvo sole.

Onda azzurra del mar, volgimi teco
Sotto il concavo ciel, di piaggia in piaggia,
Fin sotto il polo assiderato e cieco,
Fin dove il sol che nasce il mondo irraggia.

Onda azzurra del mar, tu m’accomuna
Alla vita immortal: tu fa ch’io beva
De’ zeffiri il sospir; tu mi solleva
Al lungo bacio dell’amante luna.

Onda azzurra del mar, dammi l’eterno
Tuo spiro, dammi l’immensa tua voce,
Ond’io sciolga un sonante inno fraterno
Alla pendula terra, al ciel veloce.

LA VENERE DI MILO

La Venere di Milo
Ha in Parigi, nel Louvre,
Se non un tempio, almeno
Un riparo, un asilo.
Quivi ogni giorno, quanto è lungo l’anno,
Oziosi, pedanti ed annojati
D’attorno le si fanno
A contemplar con volti trasognati,
E con occhi sgranati,
La sua bellezza ignuda e desïosa.
Di questa e d’altre noje l’amorosa
Dea non si cura, o forse non s’avvede;
E solamente par che le dispiaccia
D’aver perduto le sue bianche braccia,
Le sue candide braccia, ond’ella tanti
Si strinse al petto venturosi amanti.

LO GNOMO

Giù per la valle un tragico, sinistro
Scoscendimento di scogliere enormi,
Di squarciati macigni, aspri ed informi,
Tinti di fosca ruggine e di bistro.

Un’orrenda quïete, un bieco e morto
Silenzio ingombra quella gran ruina:
Solo, scrosciando giù per l’alta china,
Sfolgora un torrentel gelido e torto.

Entro un borro di nubi il sol discende
Fuligginose, insanguinate, accese;
In un ciel d’ametista e di turchese
Il bell’astro d’amor, Vespero, splende.

Attraverso il sentier, sovra una scheggia
Di granito che al poggio erto s’indenta,
Siede uno gnomo, e con pupilla intenta
Il solingo e raggiante astro vagheggia.

Lunga ha la barba, e picciola e rubesta
La persona, e incallite in ruvid’opre
Le man: di panni torbidi si copre,
Ma un bel cappuccio di scarlatto ha in testa.

==>SEGUE
Sedendo appoggia l’una e l’altra mano
A un bastoncello di nocciuol curvato,
E contempla con volto estasïato
L’astro ch’arde lassù tanto lontano.

E giù pel rovinoso, aspro sentiero
Scende cantando una fanciulla bruna,
Con un far da Brunilde, o da Gudruna,
Ritta sui fianchi e con il piè leggiero.

Bella e selvaggia come un fior de’ campi!
Ha il sen protervo, ha la bocca vermiglia;
Sotto le nere ed aggrottate ciglia
I superbi occhi suoi gettano lampi.

La sogguarda lo gnomo, e chetamente
Dice: Bella ragazza, una parola!
Io non ho compagnia, voi siete sola:
Mi vorreste per ganzo o per servente?

Soffocando di rabbia e di vergogna
Quella si ferma con le man sull’anche,
E lo rimbecca con le labbra bianche:
Vatti a riporre, mascheron da fogna.

Ride lo gnomo, e gonfiando le gote
Dice: L’uom si conosce al paragone:
Tu non sai ciò ch’io vaglio: e col bastone
La salda rupe accanto a sé percote.

E la rupe, o stupor! s’apre, e nel fondo,
In una luce abbarbagliata d’oro,
Scopre un inestimabile tesoro,
Quale giammai non fu veduto al mondo.

Gemme d’ogni color ch’alle più liete
Stelle del ciel torrian del lume il pregio;
Mille gingilli di lavoro egregio,
Mucchi di tonde e lucide monete.

La fanciulla riman come intontita,
E guata con gli ardenti occhi sgranati:
Lascia lo gnomo che a sua posta guati,
E si ravvii la barba con le dita.

A tarda notte la calante luna,
Quando dietro a una cresta il corno innalza,
Scorge fra l’ombre, sulla nuda balza,
Lo gnomo in grembo alla fanciulla bruna.