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MORGANA







LIBRO PRIMO

MORGANA

Su verdi campi ed arenosi lidi,
O fata dai sereni occhi, Morgana,
Alto volar pel queto aer ti vidi;

Del bel colore della melagrana
Tutta vestita o con le chiome sciolte,
Ondeggianti in balìa dell’aura vana.

E dietro a volo ti venivan molte
(Che più care tu hai) compagne e ancelle,
Scinte e leggiere e in vago stuolo accolte.

Era l’ora che il sol rutilo nelle
Onde azzurre s’attuffa e che taluna
S’accende già delle maggiori stelle;

E in quella parte ove più tardo imbruna
Il ciel, sverza parea di chiaro argento
Un sottil arco di recente luna.

Fiatava appena tra’ cipressi il vento.
E ’l piano e ’l colle e ’l gran bosco selvaggio
Sembravan presi d’un incantamento.

Per l’alto ciel, dietro al fuggente raggio,
Tu con l’avventurosa compagnia
Givi placida e lenta a tuo vïaggio.

E a te di sotto l’aria si fioria
Di visïon dipinte e fuggitive,
Siccome d’uom che allucinato sia.

Eran le fole onde le muse argive
Innamorâr sì fattamente i cori
Che sempre al mondo ridiventan vive.

Erano fantasie multicolori,
Quai l’etade sognò cui fecer bella
Le donne e i cavalier, l’arme e gli amori.

Eran borghi e città, templi e castella,
E alcuna larva di cosa non nata,
Cui vedrà forse la stagion novella.

==>SEGUE
Tu, ritornando all’isola beata,
Dileguavi laggiù per l’occidente;
Ed io le apparse visïoni, o fata,

Guardando il ciel mi riponeva in mente.




IL VERSO

Quale una lama trionfal di terso
Norico acciar, che in acre foco e in pura
Onda gelata alternamente immerso
Tempra contrasse flessuosa e dura;

Tale, schietto metal, prode fattura
Del concitato affetto e dell’avverso
Pensier, che in suo rigor più s’assicura,
Tal sia, maestro, il tuo sudato verso.

Pur come lama al sol guizzi e sfavilli;
E quand’anche ne’ cieli il sol s’abbui,
Sibili al vento e ripercosso squilli.

E come lama al giusto odio e all’amore
Serva fedele, e, saettando, altrui
S’avventi dritto e repentino al core.

IL CANTO DELLA VECCHIA CATTEDRALE

Florida, rigida selva marmorea,
Sfidando gl’impeti ciechi di borea,
Sfidando i secoli, la cattedrale
Nell’ombra vacua grandeggia e sale.

Irta di cuspidi, folta di statue,
Sui tetti labili, sull’opre fatue
In che l’efimero volgo fatica,
Oh come immobile, oh come antica!

Nel ciel dïafano la luna pende,
L’aria d’un mistico bagliore accende,
Sfiora pinacoli, lambe rosoni,
Brilla e riverbera sui finestroni.

Passa un anelito..... Qual lento e mite
Di voci e fremiti susurro? Udite:
Al ciel che nitido s’indïamanta
La chiesa gotica sospira e canta.

VOCI DEGLI ARCHITETTI
SEPOLTI NELLA CRIPTA.

Benedetto il Signore, che vede il giusto e l’empio.
Noi gli artefici fummo di questo sacro tempio;
Uomini pii, laborïosi e destri.

Salgono le colonne, s’ammassiccian le mura,
Affrontansi le volte con salda architettura: —
Noi gli artefici fummo ed i maestri.

Fummo; è gran tempo. Quale secol volge? Qual anno?
L’ossa nostre in quest’arche nel bujo si disfanno,
E breve come un dì fu nostra vita.

Noi qui giacciam, nel bujo sepolti; ma di sopra,
Dove risplende il sole, vittorïosa l’opra
Sorge, nel marmo candido fiorita.



LE CENTO COLONNE.

Dalle cave alpestri ed erme
Questo popolo è disceso.
Lungo il tempo e greve il peso;
Ma noi stiam diritte e ferme.

Fischia in aria un ferro adunco,
Treman pianti e voci afflitte:
Piega l’uom siccome un giunco;
Ma noi stiam ferme e diritte.

MOLTE LAPIDI SEPOLCRALI.

Ov’ora è pietra brulla
Furon nomi segnati:
Qualcun li ha cancellati...
Non ricordiam più nulla.

CORO D’ANGELI
DIPINTI INTORNO AD UN’IMMAGINE DELL’ASSUNTA.

O Vergine Madre, o mistico fiore.
O speranza di cuori fedeli!
Fontana di grazie, suggello d’amore.
Gloria a te nel più alto de’ cieli!

Tu tronchi l’attorta radice alla pianta
Onde il frutto malvagio si scerpe:
Col tenere piede, tu pura, tu santa,
Schiacci il capo esecrato del serpe.

UN DEMONIO SCOLPITO IN UN CAPITELLO.

Bugiardi, felici!
Ha troppe radici
Quell’albero fatale;
E ancora del pomo
È cùpido l’uomo,
Seguane bene o male.
Di femmina scalza
Il serpe non teme:
Sotto il piede che lo preme,
Ecco il serpe la testa rialza.




Arturo Graf - MORGANA - Libro I
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
__________________
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885.
Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».
Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza», Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.
GLI ANGELI.

O segno di pace, o candida stella,
Che sfavilli sul mondo risorto,
Tu scorgi fra l’ombre di fosca procella
I raminghi ed i naufraghi al porto.

Assorgi, incorrotta, sollèvati, o degna,
Nel fulgor della luce increata;
Di serto immortale coronati e regna
Sui beati in eterno beata.

IL DEMONIO.

Felici, bugiardi!
Son troppo gagliardi
I venti e il mar profondo.
Cantate a vostr’agio:
È tutto un naufragio
Senza speranza il mondo.
Sia lieto in eterno
Il ciel che vi serra:
Sotto il cielo v’è la terra
E alla terra sta dentro l’inferno.

GLI ANGELI.
Innàlzati, o santa!
IL DEMONIO
Badate alla pianta

GLI ANGELI
Corònati, o degna!
IL DEMONIO
E in terra chi regna?

GLI ANGELI
Osanna! Alleluja!
IL DEMONIO
Splende il cielo, la terra s’abbuja!

L’ORGANO
Nelle mie gole il vento
Spirito diviene e parola;
Sgorga da mille bocche e s’alza e vola,
Soave e lento,
Fragoroso, vïolento,
In suono di preghiera o di lamento.

==>SEGUE

Queste mie voci sono
Voci di defunti e di vivi.
Canti d’amore, gemiti furtivi.
Fuggevol suono
Di letizia, schianto e tuono
D’angoscia e d’ira, accenti di perdono.

O Signore, Signore!
Il suon di tante voci ascolta.
In troppo lutto la terra è sepolta.
O Redentore,
Spargi un balsamo d’amore
Sovra le piaghe dell’uman dolore.

UNA LAMPADA ACCESA.

La mia fiammella splende
Fioca nell’ombra;
Pure il buio disgombra
E in alto tende.

L’anima che s’accende
Di santo amore,
Sgombra da sé l’errore
E a Dio trascende.

STATUE DI PROFETI.

Al mondo afflitto e tristo
Predicammo il Messia;
Alla progenie ria
Profetizzammo il Cristo.

STATUE DI APOSTOLI

Le divine parole,
Come vive sementi,
Spargemmo fra le genti
Ovunque splende il sole.

STATUE DI MARTIRI

Per lui, che santo e mite
Ci riscattò dall’angue,
Demmo giojosi il sangue
E le innocenti vite.


STATUE DI ANACORETI.

Per amor suo, per farne
Della sua grazia degni,
Rinunzïammo i pegni
Del mondo e della carne.

STATUE DI RE SANTI.

Rado avvien che si fregi
Di scettro e di corona
Nel mondo anima buona;
Giusti noi fummo e regi.

ALCUNI MOSTRI DI PIETRA LUNGO LE GRONDAIE.

Forme noi siam mostruose, deformi:
Schiene crestate,
Branche uncinate,
Occhi sbiechi, gole enormi:
Gorgoni fiere,
Idre e chimere,
Contorte e nere.

Secoli sono che noi dalla sponda
Di questo tetto
Miriam quel ghetto
Che laggiù marcisce e affonda:
Squallide mura,
Fame e sozzura,
Miseria oscura.

Or nuove cose vediamo avvenire:
Udiam fragori,
Scorgiam bagliori.
Non sappiam che voglia dire.
Nell’ombra stanca
Qualcosa manca,
Qualcuno arranca.

LE CAMPANE DELLA TORRE

Squillanti,
Clamanti,
Tonanti,
Salutan le campane il nuovo albore,
Piangono le campane il dì che muore.

UNA CAMPANA

Alle fatiche usate
I dormienti io chiamo.

ALTRE DUE

Agli stanchi diciamo:
In pace riposate.

TUTTE LE CAMPANE

Celebrïam nei cieli
I giorni santi e fausti;
Gl’incruenti olocausti
Annunciamo ai fedeli.

LA CAMPANA MAGGIORE

Gola di bronzo, lingua di ferro
Le tenebrose nubi disserro,
Soggiogo i turbini,
Frango le folgori,
Flagello i dèmoni: —
Da firmamenti d’affocato vetro
La pioggia impetro.

UN’ALTRA

O cielo, spalanca
Le lucide porte:
Io l’uomo che manca
Guido al passo della morte.

LA CROCE IN CIMA ALLA PIÙ ALTA CUSPIDE

Sopra la morte io regno,
Sopra la vita.
Nel tempo e nello spazio fuor di me null’aita:
Io son de’ segni il segno.

Sulla ruina delle umane cose
Io sola duro:
Quegli che forma e sforma in me compose
Il presente, il passato ed il futuro.

O miseri che andate
Pellegrini pel mondo,

==>SEGUE
Vostra salute è il sangue di ch’io grondo:
Prostratevi, adorate.

D’eterna sapienza
Simbolo sono eterno:
Non prevarran contro la mia potenza
Le porte dell’inferno.

L’OROLOGIO

Ora ed ognora,
Fugge sonora
Col vento l’ora.
Non riposo, non dimora:
Un’altr’ora, — un’altra ancora.
S’inalba il giorno,
Sfolgora il sole;
Poi, come suole,
Ecco l’ombra fa ritorno.
Dopo la state il verno,
Dopo il verno la state:
Vicende innumerate,
Ricorso eterno.

Spuntano i fiori, cadon le fronde,
Passan le nubi, scorrono l’onde.
Quanto ha vita o figura
Tutto dilegua; solo
L’immensurabil volo
Del tempo dura.
Luci svanite,
Voci fuggenti,
Forme sparenti
Nelle tenebre infinite.
Ora ed ognora
Fugge sonora
Col vento l’ora.
Non riposo, non dimora:
Un’altr’ora, — un’altra ancora..

LA RIMA

Come del verde stelo in sulla cima
Sboccia al sole il garofano vermiglio,
O il ranuncolo d’oro, o il niveo giglio,
Che in suo mite candor più si sublima;

Così del verso in sull’estremo artiglio
Tu vaga sbocci e dilettosa, o rima,
E di ridente fioritura opima
Spargi alla strofe sinuosa il ciglio.

O fior del suono! la verde stagione
Di nostra vita tu benigna allieti,
E il mesto autunno e il fosco verno ancora.

Tu d’innocenti e nitide corone
Redimisci le pie fronti ai poeti,
E non le fura il tempo e non le sfiora.

LA PORTA DI BRONZO

Simile a muro di color ferrigno,
Di qua, di là, senza confin si stende
E al cielo poggia l’antico macigno.

Non vena d’acqua per quell’erto scende.
Non pruno incespa la petraja morta:
Fosco e sinistro il ciel nell’alto pende.

Una superba e smisurata porta,
Tutta di bronzo lucido formata.
Corrusca di lontan per l’aria smorta.

Con ascosi serrami entro è serrata:
L’arco di sopra è pietra scura e spessa;
È ferro il limitar che il passo guata.

Senza intermissïon davanti ad essa.
Per brama c’ha d’uscir di quel deserto,
Un infinito popolo fa ressa.

Ciascun, dolente, e di sua vita incerto,
Le salde imposte con le man percote,
E grida e prega perché siagli aperto.

==>SEGUE

Cupo romba il metal, come per vote
Nuvole il tuon; rimormoran le nude
Rupi; la terra sotto ai pie’ si scote;

Ma la porta fatal mai non si schiude.

LA FUCINA

Nella caverna oscura guizza un baglior sanguigno,
Sprazzan faville. In giro lo scheggiato macigno,
che ferro par, si leva nella caligin folta
E pontando s’inarca. Nel sommo della volta
Una squarciata bocca, irta di qualche stelo,
Beve la pioggia e l’aria, lascia vedere il cielo.
Come lucida fiera in bujo nascondiglio,
Dentro la cava rupe rugghia il foco vermiglio,
Il foco che giammai non si spegne. Nell’ombra,
Solcata di baleni, di lento fumo ingombra,
Con frenato tumulto movonsi fabbri adusti,
Arruffate le chiome, nudi le braccia e i busti.
Senza mai sonar verbo di duolo o di rampogna,
Attendon giorno e notte a lor aspra bisogna.
Con le tenaglie adunche mordono il ferro acceso;
Rotan per l’aria fosca de’ grevi magli il peso:
Sbuffan gli enfiati mantici, squillan le salde incudi;
Il sudor piove in copia dai gran lacerti ignudi.
— O martellanti fabbri, se tempo al dir vi sopra,
Dite; chi siete? e quale di vostre mani è l’opra? —

Fabbri siamo d’antico lignaggio,
Quai nell’ombra la terra produsse:
Cuori audaci e membra scusse:
Non abbiamo altro retaggio.

Noi del ferro i catolli affocati
Sulle incudini a gara battiamo:
Quei che nacquero d’Adamo
Di nostr’opra ei son grati.

Zappe e vanghe formiamo la mane,
Buone a romper le zolle nemiche;
Onde poi crescon le spiche,
E di quelle fassi il pane.

==>SEGUE
Lungo il giorno stromenti ed ingegni
Lavoriam di men rozza fattura,
Perché il re della natura
Con minor travaglio regni.

Quando poscia la notte succede,
Asce e scuri ognun tempra e rinferra,
Da buttar con gaudio a terra
Quel che mal si regge in piede.



LO SQUILLO

Notte buja, silenzio di tomba,
Quale ancora non fu. Di repente,
Sotto il ciel, da levante a ponente,
Squarcia l’ombre uno squillo di tromba.

Sulla terra, sul mar, come un vento
Procelloso trasvola quel suono,
Empie il cielo d’orrendo frastuono,
Soffia in terra novello spavento.

Dall’infido letargo, dai vani
Sogni antichi onde furono illusi,
A quel suono, atterriti, confusi,
D’ogni patria si destan gli umani.

Balzan fuori dall’umili case,
Si riversan per campi e costiere,
Levan gli occhi cercando le sfere,
Cui l’orror delle tenebre invase.

— Chi ei chiama? qual suono è mai questo?
E che nuncia all’attonito mondo?
Novo dì più sereno e giocondo?
Novo dì più d’ogni altro funesto? —

Bujo cielo coperchia ed intomba
Terra e mar. Da levante a ponente,
Fragoroso, incalzante, furente.
Squarcia l’ombre uno squillo di tromba.
IL BAGLIORE

Era la notte. I popoli raccolti
Gremiano i campi innumerabilmente:
Tutti gli sguardi e i cuori erano volti
All’oriente.

E in orïente il ciel s’arroventava
D’un diffuso baglior torbido e cupo:
Così rosseggia la sanguigna lava
Giù pel dirupo.

Incessante giugnea dal curvo e prono
Orizzonte un fragor per l’aer voto,
Come di greve irrefrenabil tuono
In ciel remoto.

Lenti, solenni trascorrevan l’ore
Sugli aspettanti insiem confusi e stretti;
A quando a quando un immenso clamore
Dagli ansii petti

Rompea nell’ombra sconvolta e disgiunta,
E un procelloso vento di parole
Chiedea: S’incendia il vecchio mondo? o spunta
Un novo sole?

LA VOCE FRA L’OMBRE

Era spenta la luce, era morto l’amore,
E con l’amore eran morte le muse:
Via pei deserti cieli, con tacito furore,
Tumultuavano l’ombre confuse.

L’ombre, quali un immenso oceàno che tutti
Abbia i ripari ed i lidi sommersi,
E cieco, impetuoso, gli sgominati flutti
Per quattro plaghe stravolga e riversi.

Quant’evo allor si volse? Mai nessuno il mistero
Dirà dell’ombre. Nell’imo travolte
Orbe erravan le stelle: l’Ore dal piè leggiero
Giaceano immote nel bujo sepolte.

Ma ecco (oh sacro spirto, con eterna vicenda
Operatore di sorti incomprese!)
Ma ecco, d’improvviso, dentro la notte orrenda,
Simile a un faro una voce s’accese.

==>SEGUE
E quella voce crebbe, modulata in un canto
Oltr’ogni possa magnifico e forte:
E un verbo intorno corse, vittorïoso e santo,
Che debellava la notte e la morte.

E quella voce crebbe. Nell’alto, nel profondo,
Tutt’all’ingiro volò, si diffuse,
Aprendo, sconvolgendo, spiro vivo e fecondo.
Il muto orrore dell’ombre confuse.

Placida, imperïosa voce. Di rota in rota
L’udì fremendo l’intermine cielo:
L’udirono fremendo la terra esausta e vota,
E il mare e i fonti allacciati dal gelo.

Le città rovinate sussultarono e l’urne
Vetuste, consce di novo avvenire: —
Allora, come nembi di ree larve notturne,
Incominciarono l’ombre a fuggire.

Giù, giù, verso l’abisso cupo, voraginoso,
Verso l’abisso che inghiotte e trafuga,
Continuò per lunghi giorni, senza riposo,
Senza ritegno, l’orribile fuga.

E novamente quella che della vita è duce,
E ond’han le cose bellezza e risalto,
La vereconda luce, la glorïosa luce,
Rifolgorò trionfando nell’alto.

Novamente le stelle, docili al freno e lente,
All’etra vasto ingemmarono il seno;
L’Ore dal piè leggiero trassero novamente
Ritmiche danze per l’etra sereno.

E amor rinacque, amore ch’agita invitto e preme,
Allor che ogni altra virtù langue o dorme;
Amor che i germi avviva, stringe i contrarii insieme,
Suscita e mesce le instabili forme.

E rinacquer le muse, che il principio e la fine
San delle cose e lor anima arcana;
Le pie muse, che al suono delle cetre divine
Cantan ne’ cieli di fiamma il peana.
L’ALE

Chi disse al rejetto: Poltrisci nell’imo!
Al tuo spirto disdiconsi l’ale:
Formato di limo, rimanti nel limo;
L’etra sacro si vieta al mortale?

Chi diè tal sentenza? tu, Giove? tu Momo?
Sperda il vento l’iniqua parola.
Strisciare è del serpe; lo spirto dell’uomo
Nacque alato e com’aquila vola.

O terra, che d’ignei metalli congeste
Chiudi in grembo le viscere ansanti,
E d’erbe, di fiori, di glauche foreste,
Che susurrano all’aure, t’ammanti;

O mare, che insonne gli scogli percoti,
E ti sfaldi sui greti deserti;
Che ridi nel sole; che all’urto de’ noti
Fragoroso ti gonfii e sovverti;

O nitida zona dell’aria che innostri
Mane e sera gli azzurri tuoi lembi;
Ov’Iri s’ingemma, e torbidi mostri
Ululando si volvono i nembi;

O candida luce, che penetri e innondi
Inesausta gli spazii sereni;
O sciami di stelle, o cori di mondi,
Retti in giro da mistici freni;

O scena e sostanza di forme e di pompe.
Mente ed atto, natura infinita,
Per quanto ti spandi, fin dove prorompe
Dalle occulte sue fonti la vita;

Per lungo e per largo, di sotto e di sopra,
A ritroso del tempo rapace;
Dai cieli ove tuona la forza che adopra
Agli abissi del vuoto che tace;

Lo spirito alato, ribelle alla mano
Che presume configgerlo al suolo,
Spïando l’eterno, scrutando l’arcano,
Sfrena e trae l’indomabile volo.

==>SEGUE
Oh prode, superba letizia! Che importa
Se dubbioso, se fiero il cimento?
In esso la stanca virtù si conforta,
Quasi fiamma agitata dal vento.

Chi parla di morte? chi oppone la scura
Larva al genio che vive ed agogna?
O miseri! un’ombra v’offende e spaura: —
È la morte un’antica menzogna.

Deposta l’argilla che il grava e che il lega,
Fatto in morte più vivo e vitale,
Pei cieli infiniti lo spirito piega
Ai gran voli più libere l’ale.

L’AMAZONE

A vïolar la prigioniera Amazone
L’imberbe eroe, che la comprò, s’accinge:
Sull’erba molle la rovescia, incalzala,
E a tutto suo poter la preme e stringe.

Non contrasta all’eroe la nuda vergine,
Non si lamenta di sua mala sorte;
Anzi ridendo incitalo: Bel giovine,
Stringi tu quanto puoi ch’io stringo forte.

Ella gli avvinghia con le bronzee, turgide
Braccia il dorso e lo affoga e lo dinocca:
Egli smania, si torce, e il fiato e l’anima
Esala insiem sulla baciata bocca.

TANTALO

Per brev’ora tacea nel dirupato
Erebo il duol ch’eterno affanna e cuoce:
Tantalo nel silenzio disperato,
Maledicendo il ciel levò la voce.

— Oh frode! sempre il colorato frutto
S’offre, adescando, alla bramosa mano;
Sempre alle labbra inaridite il flutto
Gelido s’avvicina, e sempre invano!

Oh reo tormento e di viltà ripieno,
Onde più lieto in ciel, Giove, tu vai!
Sempre nutrir l’avida brama in seno,
E non poterla sazïar giammai! —

Allor dal fondo che più cupo giace
Un lamento salì per l’aer fosco.
Simile al mormorar d’euro fugace
Per mezzo l’ombre di chiomato bosco:

O tu che a Giove imprechi e di querele
Senza speranza il cieco orror riempi,
Bene è il castigo tuo scuro e crudele;
Ma ’l vincon altri, assai più vili ed empi.

Assai di te più miseri ed abietti,
E ignudi più di te d’ogni conforto,
Quaggiù siam noi, cui negli stanchi petti
Spenta ogni brama, ogni volere è morto.
SISIFO

Aspra, Sisifo, l’erta, greve e duro il macigno;
E son mill’anni e mille che la polvere antica
Il tuo sudor si beve, ed erra entro al maligno
Aere il suono della tua fatica.

Ansando, vacillando, tu l’instabile sasso
Già reggi al colle in vetta, già ti credi aver pace;
Ma quel ti sfugge e balza e precipita al basso,
E là donde il levasti immobil giace.

Non però tu disperi, né ’l tuo labbro si move
A maledire il sole, poi che nascer ti vide:
Scendi, l’inerte mole scuoti, sospigni... Giove
Dall’alto guarda al tuo cimento e ride.

Rida, Sisifo, rida l’Egioco. Eterno il riso
Degli eterni non è. — S’appressa il giorno omai
Che sul fermato sasso, volgendo agli astri il viso.
Placido vincitor t’assiderai.

COLOSSEO

Del Colosseo la mole
Imperïosa, truce
Splende di cuprea luce
Sotto il cadente sole.

Splende come un dirupo
Squallido, cavernoso,
Di metallo focoso
Nel ciel livido e cupo.

Tra mozzi fusti e dadi
Franti di marmo io seggo,
E in su slargarsi io veggo
Di cerchio in cerchio i gradi.

Dalle spelonche ingombre
Di rottami caduti,
Dagli anditi involuti,
Dense straboccan l’ombre.

È sogno? od inaudita
D’incantator fatica?
Torna l’etade antica,
Torna l’antica vita.     ==>SEGUE


Si rinnova il vetusto
Sasso da cima a fondo:
Roma regna sul mondo,
Regna in Roma un augusto.

Sotto il bianco velario,
Che i raggi al sol diffalca,
Un immenso s’accalca
Popolo tumultuario.

Popolo che di sangue
E di lascivie asseta,
E in cui mai l’inquïeta
Libidine non langue.

Ecco, in mezzo all’arena
Pugnano i gladiatori;
D’applausi e di clamori
Alto un fragor si sfrena.

Cade di sangue asperso
Un vinto nell’agone:
Insurgon le matrone
Col pollice riverso.

Ecco, sciolta le chiome,
Una fanciulla bianca,
Che trema e il cor rinfranca
Gesù chiamando a nome.

Fuor del cupo serraglio
Una tigre s’avventa
E s’arresta, sgomenta
Del rombo e del barbaglio.

— Muori, rea cristïana! —
Ma sull’urlo feroce
L’impetuosa voce
Piomba d’una campana.

Qual nebbia si sgomina
La visïon nell’aria;
Rifatta è solitaria
La terribil ruina.

==>SEGUE
Tutto tace nel lento
Vespro. Solo, dall’erto,
Un uccellin diserto
Sparge tre note al vento.

A UN ARBUSTO ALPINO

O solitario arbusto,
Che tra l’orror di questi ferrei scogli,
Onde l’eccelso giogo s’incorona,
Drizzi l’esile fusto
E i rami spandi e i teneri germogli,
Chi possa e ardir ti dona,
Tu cui neglesse il fato ed uom non stima.
Di sollevarti a così ardua cima?

Qui, senza posa o schermo,
Da quante ha plaghe costellate il cielo,
Superbo fiede e impetuoso il vento:
E non lascia per l’ermo
Dirupo verdeggiar fronda né stelo;
E par che ammonimento
Faccia, rugghiando, ad ogni cosa viva
Che quinci parta e sia dell’alto schiva.

Il mostruoso nembo,
Che la gioconda luce avido beve,
Qui con cieco furor cozza tonando:
Dallo squarciato grembo
Piova balestra e rea gragnuola e neve:
Urlan precipitando
Per gli erti balzi l’acque e la ruina
Quanto rintoppa in suo cammin trascina.

Ma qui stesso talora
Divina pace e, qual non ha confronto,
Immacolata chiarità serena,
Cui la rosata aurora,
Dal mar sorgendo, e il rutilo tramonto
Pel vasto etra balena:
Quinci, se l’occhio nella valle posa, .
Quanto sotto gli vien par vile cosa.

Tu, gracile virgulto,
Col poco nerbo delle tue radici
==>SEGUE
Quanto più puoi la dura selce annodi:
E sostener l’insulto
Degli elementi a tua virtù nemici
Osi, soletto, e godi:
In ogni fronda abbrividisci e tremi;
Ma pure al ciel ti drizzi e il ciel non temi.



CIÒ CHE GORGHEGGIA
LA FONTE

Gelida, cristallina,
Dalla rupe zampilla
L’onda; giù per la china
Fugge guizzando, brilla
Del sole al lume, e franta
Ride fra i sassi, in mezzo all’erbe, e canta. —

Io son la dolce e pura
Acqua che vien dal cielo,
Onda che in nube e in gelo
Si muta e transfigura:
La lucida e gioconda
Acqua son io che sterge e che feconda.

Venite a quest’aprica
Piaggia quanti voi siete,
Cui vince la fatica,
Cui travaglia la sete:
Tutti io ristoro: assai
Dolce è quest’onda e non s’asciuga mai.

Venga, vada, o si stia,
Biondo abbia il crine o bruno,
Io non chiedo a nessuno
Come viva, chi sia.
Splende per tutti il sole:
Alla pura onda mia beve chi vuole.



IL MOLINO

Queta è la notte, o come borchie d’oro
Brillan le stelle nel ciel cristallino:
Sulla sponda del rio tace il molino,
Che tutto il dì fu nell’opra sonoro.

Dormono per le balze, entro le forre,
Gli alberi, come per riprender lena;
L’acqua del rivo, mormorando appena,
Liscia tra l’erbe e lucida trascorre.

Vagano pel seren tepidi fiati
Dal prato al bosco, dalla valle al colle,
E, meschiato con essi, un odor molle,
Un odor vivo di fieni falciati.

E col vagante soffio or cresce or scema
Un canto mite di garrule rane,
Vasto gorgoglio di voci lontane
Che nel silenzio si propaga e trema.

Sotto la doccia ove l’acqua s’invena,
Grande in mezzo dell’ombre appar la ruota:
Asciutta è quella e stassi questa immota,
E il rio trascorre, mormorando appena.

Tace il molin; ma innanzi alla dimane
A sonar tornerà voglioso e fresco;
E la mensa opulente e l’umil desco,
Se al cielo piace, avranno ancor del pane.


A SOFIA

Ancora versi? — L’hai detto. Dal suolo
Non sempre forse rispuntano i fiori?
Non tornan forse, non tornan gli amori,
Come di marzo le rondini, a volo?

Così, di novo, da un petto che solo
Veraci numi, non idoli, adori,
Prorompe l’onda de’ versi sonori
Che tempran l’ire, che ammansano il duolo.

Ancora versi. Più certo rimedio
Non ebbe mai l’incresciosa vecchiezza,
Non ebber mai la bolsaggine e il tedio.

Ancora versi. Se poveri e’ sono,
Tu con l’affetto che scusa ed apprezza,
Tu fa che paja men povero il dono.
IRIDE

Diva dall’agil piè, dalle grand’ali
Di gemmata farfalla, Iride, allora
Che veloce pel vasto etra tu cali,

La procellosa nuvola sonora
Al lieve tocco del tuo piè balena
E di nitide luci arde e s’infiora.

Puro sfolgora il sol, ride l’amena
Valle e l’arida piaggia e ridon l’onde,
E a gara terra e ciel si rinserena.

Ecco guizzar fra le stillanti fronde
L’irrequïeto passero ed i fiori
Lor corolle drizzar molli e feconde.

Fassi dall’uscio dell’albergo fuori
L’incerto vïator, mira la negra
Nube fasciata de’ tuoi bei colori,

E per nova speranza il cor s’allegra.
FLORA NIVALIS

Bianco di neve, lucido di gelo,
Grandeggia il bosco in cupo sonno immerso:
Scintillante di stelle, algido, terso,
Traspar fra i rami irrigiditi il cielo.

E la crescente luna di gennajo,
Che nel sommo del ciel splende falcata,
Sembra una squamma d’oro intarsïata
In uno specchio di brunito acciajo.

Trema per l’alta notte e pei divini
Soporati silenzii a quando a quando
Teneramente doloroso e blando
Un gorgheggio di flauti e di clarini.

Chi è costei che così sola e franca
Per la foresta, in mezzo all’ombre, incede,
E segna appena con lo scarso piede
In suo cammin la intatta neve e bianca?

Chi è costei che in verde gonna, cinta
L’aureo capo di sì pia corona,
Raggia da tutta la gentil persona
Il dolce lume onde l’aurora è tinta?

Di quanti fior la primavera i piani
Allieta e i clivi ed ogni erboso lembo,
Tu fiorite hai le trecce e pieno il grembo,
E piene, o cara, ambe le bianche mani.

O donzelletta, cui benigno elesse
A così nova meraviglia il cielo,
Stringe ogni gleba aspro e tenace il gelo:
Tu dov’hai colta sì gioconda messe?

O cara e pia! se amor non anche è morto,
Spargi lungo la via; spargi i tuoi fiori:
Troppo è la via selvaggia ed aspra, e i cuori
Vengon men per l’angoscia e lo sconforto.
IL CAVALIERE FERITO

Sulla cima dell’erto dirupo
S’incastella il manier bieco e fosco:
Oh l’orrore del tacito bosco!
Oh l’orrore dell’ombra nel cupo!

Tratto tratto le nubi sbrancate
Che trasvolan fuggendo pe’ cieli
Fascian come di funebri veli
L’alte mura, le torri merlate.

Custodito da spaldi e da porte,
Adagiato in un candido letto,
Un garzone piagato nel petto
Giace lì tra la vita e la morte.

Una fata più bella che ’l sole
Giorno e notte, vegliandolo, canta,
E la piaga mortifera incanta
Col tenor d’amorose parole.

Oh dolcezza di tenere note,
Non sai dir se più vive o più blande!
Come puro lor suono si spande
Per le stanze recondite e vote!

Il ferito, con muto sorriso,
Sì lo ascolta e riceve nel seno;
Ma se quello un istante vien meno,
Ei pur manca e scolorasi in viso.

E la fata che ’l vede mancare,
Senza fine il suo canto riprende,
E finché, trasognato, lo intende,
Il ferito non può trapassare.
IL LAGO DELLE ONDINE

Ov’è più cupo smago
Di rupi infrante e brulle,
Un bosco di betulle
Muto circonda il lago.

Come un grand’occhio aperto
Il lago è translucente,
E guata immobilmente
Stupito il ciel deserto.

Ala giammai non fende
L’aria che stagna in giro;
Non voce, non sospiro
In quell’orror s’intende.

Ma con ludibrii vani
Sull’acque, chete e sgombre
Corron bagliori ed ombre
E raccapricci strani.

E se tu, vagabondo
Vïator, dalla spiaggia
Desolata e selvaggia
Ficchi lo sguardo al fondo;

Scernere credi un molle
Sfoggio d’enormi fiori,
Ch’entro i gelati umori
Spandon scialbe corolle;

E mutevol menzogna
Di lucori fluenti,
Quasi vaneggiamenti
D’uom che invaghito sogna.

Bianche femmine ignude
Van supine per quelli,
Sciolti i flavi capelli,
Lascive a mo’ di drude.

Ridon le rosee bocche,
Splendon gli occhi stellanti,
S’offrono, provocanti,
Le membra non mai tocche...

==>SEGUE
O vïator, sta’ forte
Contro la rea lusinga:
Mal desio non ti spinga
Ad abbracciar la morte.



IL BACIO

Egli parlò con voce supplichevole, a stento:
— Madonna Beatrice, dopoché sarò morto,
Per pietà d’un afflitto, per l’amor che vi porto,
D’una suprema grazia fate ch’io sia contento.

Lasso! da voi fu sempre vilipeso e deriso
L’amor che alfin m’uccide. O superba signora,
Dopoché sarò morto, pur oggi tra brev’ora,
Una fïata almeno, deh, mi baciate in viso. —

Ella udì quella voce, quella stanca preghiera,
E impietosita un tratto, sì rispose: — Mi piace.
Cavalier prode e saggio, morite in santa pace:
E’ sarà fatto come da voi si chiede e spera. —

Sul cadere del giorno ei passò, con devote
Parole, e alfin con gli occhi, rendendo a lei mercede:
Ella, con un sospiro, ligia alla data fede,
Baciò lo spento amico sulle pallide gote.

Oh nova meraviglia! quando l’egual si vide?
Al tocco delle labbra soavissime e accorte,
Il dabben cavaliere risuscita da morte,
Apre gli occhi alla luce e di letizia ride.

E la dama anche ride d’un suo riso giulivo.
Ed un poco arrossendo, sclama: — Bel cavaliere,
Dappoiché t’ho baciato morto, se t’è in piacere,
Da questo giorno innanzi voglio baciarti vivo.
IL DEMONE

Obbedïente il demone al comando,
S’affacciò dell’inferno al limitar,
E discinse le negre ali, volando
La bellissima impura ad uncinar.

Come fosca meteora egli il deserto
Ciel, che albeggiava, rapido solcò;
Alla città fu sopra e per l’aperto
Balcon guizzando nella stanza entrò.

Sulle odorate coltrici stravolta,
Immerso il capo nel molle origlier,
Ella dormia, da’ caldi amplessi sciolta,
Ebbra ancor di stanchezza e di piacer.

Inconscia ella dormia di suo destino
E di sua colpa. Con l’adunca man
Ghermì lo scuro angiol d’abisso il lino
Che nascondea l’eletta forma invan.

Ed ella apparve tutta bianca e pura
In sua balda e marmorea nudità,
Ostia d’amor, miracol di natura,
Vivo fior di vaghezza e di beltà.

Guatolla e disse il maledetto: A tanta
Bellezza altri, non io, sarà crudel.
Vinto è l’inferno e la bellezza è santa.
Io mi ricordo d’esser stato in ciel.
CANTO NOTTURNO DI MARINAI

Come profugo uccel che non dimora,
Vago del Sole o di remota arena,
Vola per l’alto mar l’agile prora

Vola per l’alto mar, nella serena
Notte, dinanzi all’inesausto spiro,
Che tutte quante le sue vele allena.

Nitido più ch’orïental zaffiro,
Tutto di luci tremola e traspare
L’arcato ciel, sino al più basso, giro.

Adunati sul ponte a riposare,
Poiché non è mestier dell’opra loro,
I marinai, guardando il cielo e il mare,
Guardando il mare e il ciel, cantano in coro:

Più baldanzoso e vivo
Gonfia le vele il vento:
Animo, prua! l’abbrivo
Al desiderio è lento.

Simile al ciel si spande
L’oceano a tondo a tondo;
Eppur non è sì grande
Come apparisce il mondo.

Già molte e molte noi
Spiagge vedemmo e prode;
Ma poco, in qual tu vuoi,
L’uom di sua vita gode.

E forse noi che ai flutti
Fidiam la vita e ai venti,
Noi degli umani tutti
Siam forse i più contenti.

La scia s’affalda e broglia,
Gonfia di bianca spuma:
La spuma un po’ gorgoglia,
Poi si dilegua e sfuma.

==>SEGUE
Il ciel par tutto ch’arda
Di tante stelle chiare:
L’occhio di qua le guarda
E non le può contare.

O stelle scintillanti:
Sui pelaghi deserti!
Mirando, i naviganti
Sognano ad occhi aperti.

Tardi dall’onda muta.
Si leverà la luna,
Che gira e si rimuta
Come fa la fortuna.

Doman fia novo giorno,
Poi sera e notte ancora:
Mostra di far ritorno
E sempre fugge l’ora.

Mutevole parvenza!
Giorni fugaci e vani!...,;
Noi navighiamo senza
Indagare il domani.

Come son cupe l’onde
Lungo il cammin prefisso!
Chi sa che mai nasconde
Nel vitreo sen l’abisso?

Come la notte è pura,
Come ogni cosa tace!
L’anima, si spaura
Quasi di tanta pace.

Forse tra breve, forse
Prima che il sol rinasca,
Dall’Iadi, ovver dall’Orse,
Piomberà la burrasca.
IL REQUIEM DI MOZART

Già l’ultimo dilegua mese dell’anno: il breve
Giorno declina. Bianchi d’immacolata neve,
Rigidi, nell’azzurro sorgon gli sghembi tetti,
E la purpurea luce che tu sbieco saetti,
O fuggitivo sole, posa su quelli.
In pace,
La sua fine aspettando, il buon Maestro giace,
Poi che, simile a pianta primaveril, fiorita
Contemplò la sua gloria. Breve, innocente vita
Egli condusse, e tutta nella soave intesa
Arte de’ suoni; ed ora, nell’anima sospesa.
Va ritentando i casti ritmi d’una immortale
Melodia della morte, canto supremo, al quale
D’esser perfetto il sordo destin più non concede.
Oh, sacro amor dell’arte! oh, vereconda fede!
Prima che da’ suoi lacci l’anima sia disciolta,
Vaghezza ebbe il Maestro d’udire anche una volta
(E di candidi amici, che assai l’amâr, fia cura)
Quei divini concenti.
L’igneo ciel s’oscura.
Una quïeta lampa serenamente il fioco
Lume diffonde, e intanto si spegne a poco a poco
L’ultima bragia in fondo al camino. Sonora
Da un antico oriuolo scocca tremando l’ora.
Come per lieve soffio l’uscio si schiude. Lenti
In silenzio recando i vocali strumenti,
Entran gli attesi, pochi vecchi amici devoti,
Cui tutti da gran tempo i suoi pensier son noti,
E noto ogni secreto di sua arte. Le fide
Sembianze egli ravvisa e a ciascuno sorride.
In un canto, nell’ombra, si raccolgono quelli,
E tentan leggiermente, se acconcio ognun favelli,
I palpitanti ordigni. Un mormorio confuso
Ecco si desta, quale, tra rami e fronde, chiuso
D’usignuoli gorgheggio, nella stagion che i fiori
Sbocciano al caldo sole e rinverdon gli amori.
Indugiano esitando in cotal modo alquanto
Le voci; poi, d’un tratto, il funereo canto,
Pari ad acqua che sgorghi d’inesauribil vena,
Puro, copioso, largo, nel queto albor si sfrena.

==>SEGUE
Melodïoso un flauto sospira e si lamenta;
Un oboè singhiozza con voce semispenta;
Fondono i violini pianto e parole insieme;
Il violoncello cupo e doloroso freme.
Come soave e mesto, come sereno e forte
Suona quell’inno! Oh, cieli! Non mai, non mai la morte
Fece udire agli umani più divino linguaggio;
Non mai, non mai solcata da più fulgido raggio
Fu la notte che greve sul limitar s’affolta
Onde nessuno riede. Estasïato ascolta
Il moribondo, e sembra che novo riso miri
Di primavera e lume di sempiterni giri.
Così s’addorme e passa, mentre gli ultimi accenti
Dileguano tremando.
In silenzio, piangenti,
Rimangono gli amici, e par ch’abbian timore
Di turbar quel riposo. Passan così molt’ore;
Poi ciascuno (già l’alba imperla l’orizzonte)
Al capezzal s’accosta, bacia il Maestro in fronte.


LE DUE CORONE

IL RE
La mia corona è lavorata d’oro,
Tutta sparsa di gemme e sfavillante.
IL POETA
La mia corona è di minor lavoro,
Intessuta di fior tutta e fragrante.
IL RE
La mia corona è molto antica e bella;
Ma di lacrime gronda e sangue stilla.
IL POETA
Vaga è pure la mia, benché novella,
E sol di gocce di rugiada brilla.
IL RE
La mia corona è da molti agognata;
E però la difende un grande stuolo.
IL POETA
Anche la mia da molti è invidïata;
Ma contro tutti la difendo io solo.

==>SEGUE
IL RE
La mia corona è un fregio signorile:
Ma pesa in capo maledettamente.
IL POETA
Fregio è pure la mia, ma più gentile,
E chi l’ha in capo appena se la sente.
IL RE
Orsù, poeta, vogliam far baratto?
Prendi la mia, dammi la tua corona.
IL POETA
O re! prender la tua?... se fossi matto!...
E la mia si guadagna e non si dona.

COSÌ PARLÒ LA MUSA

Era il novembre, un giorno fosco. Sulla stanchezza
Dei vendemmiati colli, sullo squallor dei prati,
Languia la luce. Sotto l’algido ciel la brezza
Mugolava e gemeva tra gli alberi sfrondati.

Oh, quell’affanno greve, quell’ambascia del vento,
Quando il verde è svanito, quando la luce manca!
Sembra voce d’angoscia sovrumana, lamento
Della vita che muore, della natura stanca.

Il mio core era triste, triste siccome pianta
Vedeva e nuda, triste come sera d’inverno.
Morti amori, speranze deluse, fede infranta!...
Io ripensavo i giorni dileguati in eterno.

Il mio core era triste, triste siccome fonte
Inaridita, triste come antica ruina.
Acri vigilie, indugio vano, dubbio bifronte!...
Io pensavo al domani, alla morte vicina.

Allor dissi alla Musa: O mia Musa, tu taci?
Taci e piangi nell’ombra? perché piangi? che hai?
La tua mano è di gelo; sono amari i tuoi baci!...
Musa, povera Musa, dunque tu pur morrai?

Tutto passa e finisce. Gli eroi, chi più li noma?
E gli Dei? non son morti? Giove, Osiri, Adonai?
Non giace Atene? e Roma?... ti ricordi di Roma?
Tutto passa e finisce: Musa, tu pur morrai.

==>SEGUE
In dir ciò la mia voce rantolava, confusa
Coi singhiozzi del vento, nella notte crescente:
— Parla, parla! tu pure morrai dunque? — La Musa
Guardò fisso, lontano, e parlò lentamente.

— Tutto passa e finisce. Negli abissi fatali
Piomba degli anni il negro fiume silenzïoso.
Antico è il sole, antica la madre terra, e l’ali
Vincitrici di Morte non conoscon riposo.

Sì, morrò. Quando invano si vestirà di fiori
La primavera; quando lo spumante oceàno,
I cieli augusti e i fonti dell’aureo lume ai cori
Indurati e deserti favelleranno invano;

Quando le umane lingue non avran più parole,
Né più lacrime gli occhi, né le labbra sorrisi,
E agli accenti divini d’Armonia, come suole,
L’anima estasïata più non s’imparadisi:

Quando ogni antica o nova fede s’involi; quando
Si serri de’ pietosi sogni l’eburnea porta;
Quando da’ freddi petti fugga l’amore in bando,
E la speranza insieme con la pietà sia morta;

Quando del tempo andato sia negletta e perduta
Ogni memoria; quando giunga ogni storia al fine;
Quando la terra vota, quando la terra muta
Non chiuda più sepolcri, non regga più ruine;

Quando l’ultimo, affranto core avrà palpitato
L’ultima volta; quando, procellosa, confusa,
L’antichissima notte risommerga il creato; —
Quando tutto sia morto; allor morrà la Musa.