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POEMETTI DRAMMATICI

parte I



LA TENTAZIONE DI GESÙ

Pianura alta e deserta, sparsa di sterpi, di sassi, di qualche breve specchio d’acqua lucida e morta. In mezzo a quella Gesù, chevestito di candida stola, diritto ed immobile, contempla la città di Gerusalemme, prostesa all’orizzonte, adombrata sui purpurei bagliori del tramonto. Nessun prossimo vestigio di vita umana e di umane opere: solitudine vacua, silenzio profondo. Repentinamente appare accanto a Gesù la torbida, obliqua, sgomentosa figura di Satana. Gesù lo fissa in volto, senza proferire parola.

SATANA
Si spegne il giorno: così solo in questa
Landa selvaggia tu dimori?

GESÙ
Solo
Non son.

SATANA
Deserto è il loco: altr’io non veggo
Fuor che sterpi e macigni, ove s’annida
Col ramarro la vipera. Non temi?

GESÙ
E che devo temer?

SATANA
Solo tu sei.

GESÙ
Solo non son.

SATANA
Teco chi è?

GESÙ
Lo spirto.

SATANA
Quale?

GESÙ
Lo spirto che increato vive
E dà vita al creato.
==>SEGUE


SATANA
Ei teco? — Dimmi:
Non t’incusse stupor la repentina
Mia comparsa al tuo fianco?

GESÙ
No.

SATANA
Qual io
Mi sia t’è noto?

GESÙ
Sì.

SATANA
Io l’esser tuo
Male accarno. — Chi sei?

GESÙ
Noi vedi? un uomo.

SATANA
Tale sembri all’aspetto: or come in questo
Deserto vivi senza prender cibo,
Né mai le membra ristorar col sonno?

GESÙ
Pochi i bisogni miei.

SATANA
— Molte fiate
Invisibil d’attorno io già ti venni.

GESÙ
Me n’accorsi.

SATANA
Davver?...

GESÙ
Che vuoi?

SATANA
— Salvarti.

GESÙ
Tu me?
==>SEGUE


SATANA
Fors’altri mal t’inspira. Incauto
Opri e favelli. Alla malnata plebe
Perché sempre ti mesci? a che l’aizzi
Con l’acceso tuo dir, coi nomi vani
Di giustizia e di pace, e con promesse
Che attener non potrai? Corrotto è il mondo
Sin nel midollo e la sciagura umana
Più riparo non ha.

GESÙ
Forse.

SATANA
Diffida
Della garrula plebe: è l’umor suo
Più mutabil che l’onda; incerto sempre
L’amor, l’odio, il consiglio. Oggi t’acclama;
Ti lapida doman.

GESÙ
Di chi fidarmi
Dunque dovrò?

SATANA
Sol di te stesso. Vivi
Per te solo.

GESÙ
Ed a che?

SATANA
Viver felice:
Tale e non altra è la ragion di tutta
La vita.

GESÙ
E chi farà ch’io sia felice?

SATANA
Tu stesso: — io; — se m’adori.

GESÙ
Io te?

SATANA
Son molti
Gli adoratori miei.
==>SEGUE



GESÙ
Tel credo. E come
Felice mi farai?

SATANA
Son molti i modi
Del mio poter: quello userò che meglio
Al genio tuo s’avvenga. Odi?

GESÙ
T’ascolto.

SATANA
Giovine sei, d’eletta forma e quale
La timidetta vergine talora
Vagheggia in sogno. Dell’amore il saggio
Perché non fai? Delizïoso frutto
Quel della donna! ed ogni voglia appaga.
Mira.
Nell’aria oscurata passano lentamente imagini lascive di bellissime
donne, ignude o mezzo discinte, coronate di fiori.

SATANA
Non ardi?

GESÙ
No. Penso che troppo
Fuggevol cosa e troppo vana è quella
Loro sembianza.

SATANA
E sia. Forse un ricordo
D’Eva madre t’agghiaccia:... antiche fole!...
Altro dunque t’alletti. — Oro ed argento
E vaghe gemme prezïose in copia
Nelle viscere sue chiude la terra.
Io qui gli offro al tuo sguardo. Un cenno e d’ogni
Cosa signor ti fo.
Subitamente tutt’all’intorno il terreno rifolgora d’oro, d’argento
e di gemme ammucchiate.

GESÙ
Signor di tanta
Ricchezza sei?
==>SEGUE






Arturo Graf - POEMETTI DRAMMATICI - parte I
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
__________________
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885.
Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».
Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza», Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.
SATANA
Ben d’altra.

GESÙ
E sei felice?

SATANA
A me non fa mestier; ma all’uom può molto
La ricchezza giovar. L’oro una grande
Virtù possiede, e non è cosa al mondo
Che al trïonfale suo poter non ceda.
Se tu l’hai, tutto avrai. Più d’ogni legge
La tua voglia varrà; più ’l tuo capriccio
D’ogni ragion. Ti sarà schiavo ognuno
E potrai far quanto t’aggrada.

GESÙ
Eppure
Con tutto l’oro ch’è sotto la luna
Far non potrò che chi m’aborre m’ami.

SATANA
Difficil sei da contentar. — Vaghezza
Hai tu forse di scettro e di corona?
Nobile brama veramente e degna
D’uom d’alti sensi. Ecco, a’ tuoi sguardi io scopro
Le metropoli e i regni.
Appajono tutt’intorno all'orizzonte città vaste e pompose, con
multiforme e lucida meraviglia di moli superbe, di lussurianti
giardini.

GESÙ
E le rovine?

SATANA
Floridi regni glorïosi. Eleggi
Quale trono è più alto, e pria che aggiorni
Io ti pongo su quello.

GESÙ
E tu su trono
Più alto assai di quanti sono in terra
Già non sedesti?

SATANA
È ver.
==>SEGUE


GESÙ
Sopra le stelle?

SATANA
Sopra le stelle.

GESÙ
E non precipitasti?

SATANA
Da quello, sì precipitai; ma un altro
N'ebbi qui sotto, e più di prima io regno.

GESÙ
E col tuo regno ti rimani; o meglio
Co’ tuoi regni

SATANA
Ricusi?

GESÙ
Ho detto.

SATANA
Or dunque,
Se non ti cal nemmen di ciò, che chiedi?

GESÙ
Nulla.

SATANA
Di quanto è in mio dominio?...

GESÙ
Nulla.

SATANA
Adorarmi non vuoi?

GESÙ
Satana, indietro!

SATANA
Bada: pentirsi nulla giova. In quali
Opre t’ostini?

GESÙ
L’opre mie palesi
Sono ad ognun.

==>SEGUE


SATANA
Non istigar la plebe:
Non tentar cose nuove; a redentore
Non t’atteggiar d’oppressi: il mondo è mio.

GESÙ
Ma mio sarà.

SATANA
Folle! dannata impresa
Quella in che ti consumi.

GESÙ
Io non ti chiedo
Consigli.

SATANA
Incauto!

GESÙ
Altri ammonisci.

SATANA
Bada:
Se amico non mi vuoi, m’avrai nemico.

GESÙ
Non ti temo.

SATANA
Nol dir.

GESÙ
Che mi farai?

SATANA
Di mala morte ti farò morire —
E obbrobrïosa. Mira.
In lontananza, entro un nimbo di luce funerea, appare il Calvario,
con la croce rizzata.

SATANA
Ecco la sorte
Che ti preparo.

GESÙ
Via, lenon!

SATANA
Mi sfidi?
==>SEGUE

GESÙ
O scelerato e vil! checché tu faccia,
Altro non puoi se non servirmi.

SATANA
Attendi:
Mi rivedrai colà, sopra quel monte:
Colà m’invocherai.

GESÙ
Satana, indietro!
Satana svanisce. La pura luce dell’alba si spande in oriente.
LA RESURREZIONE DI LAZARO

Campo in vicinanza di Betania. Lazzaro, parte ignudo, parte involto ancor nel sudario, siede sulla sponda del suo sepolcro, sentendo nelle proprie carni, commisto al torpor della morte, il brivido della vita. Guarda come abbagliato la luce, senza mover membro, senza proferire parola. A lui di fronte Gesù, eretta la persona, fisso lo sguardo in cielo. Alquanto più discosto Marta e Maria che, tra la gioja e il terrore, non ardiscono d’appressarsi. In. un gruppo, gli apostoli. All’intorno, grande moltitudine di popolo. È un dolce e sereno mattino di primavera

Cosa inaudita!
Lazaro ei cita
Da morte a vita.

MARTA
Fratello!

MARIA
Fratello!

GLI APOSTOLI
Dai lacci di morte
Si sciolgono a stento le membra risorte.

GIOVANNI
La carne s’affranca.

LUCA
Lo spirito è tardo.

MARCO
S’imporpora il volto.

MATTEO
S’accende lo sguardo.

UN UOMO DEL POPOLO
Non ode il suon turbato
Delle nostre parole.

UN ALTRO
Come un trasecolato
Guarda nell’alto il sole.
==>SEGUE




UNA DONNA
Ch gelo mi corse per l’ossa
Quand’ei nell’avel si rizzò!

UN’ALTRA
Quand’egli la carne riscossa
Dal bianco lenzuol sviluppò!

UN VECCHIO CADENTE
A te mi raccomando,
O buon Gesù, per quando
La giornata mia breve avrò fornita.
Anch'io, dolce Signore,
Potrei col tuo favore
Risuscitar da morte a nuova vita.

UN CENTURIONE
Vecchierello sparuto,
O non ti basta quanto sei vissuto?

UNA MADRE
Gesù, non farmi torto!
Risuscitami il figlio che m’è morto.

UN’ALTRA MADRE
(che ha tra le braccia un bambino malato).
Gesù, non altra gioja
Ti chiedo: fa’ che il mio figliuol non muoja.

MARTA
Fratello, riconosci la tua Marta.

MARIA
Fratello,
Vedi colui che amando ti trasse dall’avello.

LAZARO
(dopo avere alcuni istanti contemplato Gesù).
Maestro!

GRIDO DELLA MOLTITUDINE
O prodigio, il nodo è sciolto!
Il destino è sottovolto!
Parla l’uom ch’era sepolto!

LAZARO
Maestro, c’hai fatto?

==>SEGUE

GLI APOSTOLI
Non conosci il tuo riscatto?
Alla morte t’ha sottratto.

LAZARO
(parla con fatica, disordinatamente e quasi vaneggiando).
Maestro, a’ cenni tui,
Vedi, m’erigo.
Che m’imponi? che chiedi? —
Ah! se dal primo dì che ti conobbi,
A te mi diedi,
Mansueto a’ tuoi cenni;
Se devoto e fedel sempre ti fui;
Come ti venni in ira?
Come in odio ti venni?
Perché questo castigo?

GLI APOSTOLI
Oh, pietà! l’uom risorto delira!

LAZARO
Maestro, perché m’hai svegliato?
Era così dolce il mio sonno;
Oh, così dolce e oblivïoso!
Dacché schiusi gli occhi alla luce,
A quest’empio spettacolo truce
Del mondo,
Mai non avevo gustato
Più tranquillo riposo.
Oh, come dolce e oblivïoso!
Come profondo!
Maestro, perché m’hai svegliato?
A me d’intorno
Pareva dissolto il creato.
Non era notte; non era giorno;
Né tempo; né vicenda.
Non voce alcuna mi giugnea da questa
Valle funesta, orrenda.
Non ricordavo nulla;
Non agognavo nulla.
Non mi rodeva cura;
Non mi pungeva rimorso o paura.
Della mia pace

==>SEGUE
Perché mi privi?
Perché mi richiami a battaglia?
Maestro, m’abbarbaglia
Il fulgore del sole;
M’offendon le parole
Angosciose dei vivi.
Lascia, Maestro, che di novo
Io gusti la morte che allevia ed affranca;
Lascia ch’io mi richiuda
Nel mio sepolcro
Come una belva stanca nel suo covo.

GESÙ
(con accento severo, fissando Lazaro in volto).
Uomo di freddo core, uom di piccolo core,
Vilmente assai ti crucci, vilmente assai favelli.
Sei tu solo nel mondo? è solo il tuo dolore?
Non conosci sorelle? non conosci fratelli?
Hai tu già meritato il riposo e la pace?
Hai tu con ferma fede, con serena costanza,
Speso tutto l’amore onde un core è capace?
Hai oprato abbastanza? hai pensato abbastanza?
O sai tu perché sempre battan l’onde gli scogli?
Perché rotino i cieli e precipiti l’ora?
Perché d’erbe la terra si vesta e si dispogli?
Perché cadano i regni? perché l’uom nasca e mora?
Io venni per chiamarvi alla luce, alla vita;
All’opra che avvalora, al travaglio che affina.
Anima accidïosa, anima sbigottita,
Sorgi dal tuo sepolcro, cingi i lombi e cammina.


ATTOLLITE PORTAS

Rupi precipitose, squallide, scure, orlate, nell’alto, di funerea boscaglia. Dietro ad esse il sole è già sceso. Nubi torbide e grevi, in parte avvampate di sanguigni bagliori, per traverso panneggiano il cielo. Incastonata nel sasso, la porta dell’inferno grandeggia, tutta di ferro schietto, ponderosa, serrata. Gesù, vestito da capo a pie’ di una candida stola, coronato di spine, sta davanti ad essa in silenzio. Un ruscello scorre ivi accanto, lambe i piedi del Redentore e si perde fra i sassi e la sabbia.

VOCI DI SPIRITI ELEMENTARI
SPARSI NELL’ARIA, INVISIBILI
Perché la ferrea porta
Che mai non si serrò, dappoi che infusa
La luce fu nelle cose create,
Perché la porta maledetta è chiusa?

ALTRE VOCI
La selce ignuda e morta
Di crudeli parole era trafitta:
«Lasciate ogni speranza voi ch’entrate».
Chi dalla selce cancellò la scritta?

ALTRE VOCI
Dove fuggì la scorta
Che solea vigilar sul limitare?
Non una appar di quelle belve alate;
Dei cacciati dal ciel non uno appare.

LE PRIME VOCI
Mirate: uno straniero
È davanti alla porta. Egli ha la testa
Cinta d’un serto di pungenti spine;
Candida più che neve è la sua vesta.

LE SECONDE VOCI
Se pur vediamo il vero,
Sangue da tutta la persona ei gronda.
Quanto sangue! Le stille porporine
All’amaro ruscel tingono l’onda.


==>SEGUE
LE TERZE VOCI
Oh, come muto, austero,
La ferrea porta e il duro sasso ei guata!
Chi sa qual è di sua venuta il fine?
Chi sa perché quella porta è serrata?

UNA VOCE DOLENTE
Il ruscel tortuoso
Che la scura sua vena
Nutre d’umano pianto
E si smarrisce accanto
A quella porta, fra i sassi e la rena,
Com’è fatto copioso,
Com’è fatto pauroso!

UNA VOCE SGOMENTA
Non piega stelo,
Non fiata vento;
Tace ogni cosa.
Di portentosa
Luce cruento,
Folgora il cielo!
Quiete immota,
Solitudine vota,
Vicenda presente e remota:
Un senso di paura
Sembra occupar l’universa natura.

GESÙ
Principi dell’abisso,
Aprite.
(Silenzio attonito e profondo).
GESÙ
Principi dell’abisso,
È giunto il dì prefisso:
Aprite.
(Silenzio attonito e profondo).

MORMORIO DEGLI SPIRITI ELEMENTARI
Che voce è questa?
Così pura e soave!
Così severa e grave!
Passa il ferro e la pietra;
Squarcia le nubi e l’etra:
Nell’alto e nel profondo
Soggioga il mondo.
Che voce è questa?

==>SEGUE
GESÙ
Spiriti tracotanti,
Di rinnovar la lite
Che quaggiù vi piombò
Nullo di voi si vanti.
Aprite.

VOCE CUPA E SPAVENTOSA DELL’EREBO
No.

GESÙ
Mal tentate la prova:
Alla virtù che innova
Ricalcitrar non giova.

VOCE DELL’EREBO
E chi sei tu?
Che vuoi quaggiù?

GESÙ
Il mio nome è Gesù.

VOCE DELL’EREBO
Nell’aer fosco
Son tardo e losco:
Non ti conosco.

GESÙ
Io sono la bellezza.

VOCE DELL’EREBO
E nulla più?
Pàrtiti: non s’apprezza
Fra noi cotal virtù.

GESÙ
Io sono la bontà.

VOCE DELL’EREBO
Lèvati di costà.
Anima in cui
Bontà s’accoglia
Mai non varcò la soglia
Di questi regni bui.

GESÙ
Io son la verità.


==>SEGUE
VOCE DELL’EREBO
Lèvati di costà.
Non altra verità qui vige e dura
Che l’eterna sciagura.

GESÙ
Io son la vita.

VOCE DELL’EREBO
A tua posta. Più forte
Della vita è la morte:
Quaggiù la vita è morta e seppellita.

GESÙ
Non anco in voi la stolta
Rabbia s’ammorza?
Livida ciurma, ascolta:
Io son la forza.

Gesù scerpe dal margine del ruscello un umile giunco e con esso percote la porta. Subitamente questa si squarcia per traverso, si svelle dai cardini, e con immenso fragore precipita. Appare l’abisso vacuo, voraginoso. Gesù varca la soglia, e circonfuso di candida luce, s’innoltra lento fra le tenebre. Silenzio attonito e profondo.

DANTE
IN SANTA CROCE DEL CORVO6

Chiostro nel monastero di Santa Croce. In un angolo, in piena luce, Dante, addossato a un pilastro. Dalla parte opposta, ch’è immersa nell’ombra, Frate Ilario e Frate Eligio vengono innanzi, parlando tra loro sommessamente. Declina il giorno tra l’ora nona e il vespero.

FRATE ILARIO
Nulla ti disse?

FRATE ELIGIO
Nulla. In me lo sguardo
Fisse, tacendo. Ah, quello sguardo!... Io mai
Non sostenni l’egual!

FRATE ILARIO
Né lo chiedesti
Del nome?

FRATE ELIGIO
Non osai.

FRATE ILARIO
Giovine? vecchio?

FRATE ELIGIO
Non vecchio, no, ma quale un uom gravato
Dalla sventura e che di cure ingombra
Abbia la mente. Vedilo, che punto
Non s’è mosso e confitti ha gli occhi al suolo.

FRATE ILARIO
(soffermandosi).
Strano è l’aspetto suo!

FRATE ELIGIO
Tutto in mirarlo,
Né so perché, turbar mi sento.
_____________

6 La supposta e controversa epistola di Frate Ilario suggerì, non dettò, questi versi.
==>SEGUE
FRATE ILARIO
Vanne:
Seco mi lascia: interrogarlo io voglio.
Frate Eligio s’allontana. Frate Ilario s’appressa a Dante e gli si
ferma davanti, senza che questi paja avvedersene.

FRATE ILARIO
(dopo alcun silenzio).
Stranier!...
(Dante leva gli occhi e fissa Frate Ilario nel volto, senza proferire
parola).
Che cerchi in questo luogo?

DANTE
(con voce profonda).
Pace.

FRATE ILARIO
A quanti siamo la conceda Iddio. —
Il tuo nome?

DANTE
Non molto ancora suona,
E nuovo a te sarà: Dante Alighieri.

FRATE ILARIO
La patrïa?

DANTE
Fiorenza.

FRATE ILARIO
È nobil terra
Fiorenza.

DANTE
E sventurata. — Tu chi sei?

FRATE ILARIO
Frate Ilario è il mio nome e, benché indegno,
Prïor son io di questo monastero.
Quale la tua condizion?


==>SEGUE


DANTE
Poeta
E seguace del ver.

FRATE ILARIO
Dio solo è il vero.

DANTE
Così credo.

FRATE ILARIO
Perché ti dipartisti
E dalla tua città erri lontano?

DANTE
Non io la fuggo: ella da sé mi caccia.

FRATE ILARIO
Per quale offesa?

DANTE
Per nessuna mia:
Anzi per odio a chi v’è giusto e vuole
Esser riparo della sua rovina.

FRATE ILARIO
Così spesso intraviene, e fede acquista
La tua parola. Immeritato danno
Più duole, e desiderio avrai del nido.

DANTE
Splende per tutto il sol.

FRATE ILARIO
Certo; ma pure...

DANTE
L’esilio che m’è dato onor mi tegno.7

FRATE ILARIO
Uom tu mi sembri d’alto cor, di ferma
Credenza, e degno di men rea fortuna.
(Dopo breve silenzio):
In questa solitudine che cerchi?
_______________

7 Verso di Dante
==>SEGUE

DANTE
(assorto).
Pace.

FRATE ILARIO
E di pace è questo asilo.

DANTE
Padre!...
S’ode suono d’organo. Dante rimane sospeso, in ascolto.

FRATE ILARIO
Perché taci? a che pensi?

DANTE
E’ mi rimembra
Del mio bel San Giovanni.

FRATE ILARIO
Al suono, al canto
In quest’ora i più giovani fratelli
Si sogliono addestrar. Ma del cammino
La fatica tu senti ed hai bisogno
Di ristoro. Selvatica, malsana
È qua da tergo la contrada e vota
D’ogni gente. Di Luni le rovine
Hai tu vedute?

DANTE
Assai maggior rovina
Già vidi in Roma. Tutte hanno lor morte
Le cose di quaggiù.

FRATE ILARIO
Poiché ti scorse
A queste mura Iddio, qui, nel suo nome,
Come fratello insiem con noi dimora
Alcun dì.

DANTE
Padre mio, dal cor ti rendo
Grazie; ma la via lunga mi sospigne
E non posso indugiar.

FRATE ILARIO
Dove se’ volto?
==>SEGUE
DANTE
Inverso Francia.

FRATE ILARIO
Faticosa e lunga
Su pei monti è la via.

DANTE
Sollo.

FRATE ILARIO
Rimanti
Fino a domani.

DANTE
In Lerici m’è d’uopo
Esser pur oggi.

FRATE ILARIO
La ragion conosci
De’ tuoi passi tu soi; ma non poss’io
Giovarti in nulla?

DANTE
Forse...

FRATE ILARIO
Il tuo pensiero
Palesa.

DANTE
D’Uguccion della Faggiola
Sai la virtù?

FRATE ILARIO
Cui non è nota? Pisa
Loda il suo freno, ed in Italia tutta
Signor non è di lui più saggio e prode.

DANTE
Vorresti a lui recapitare un libro?
Di nuovo s’ode l’organo e di nuovo Dante rimane sospeso in
ascolto.

FRATE ILARIO
Un libro?...

==>SEGUE



DANTE
Un libro ch’io composi, o meglio,
Parte di quello, che al suo nome io volli
Intitolata.

FRATE ILARIO
Picciol cosa chiedi,
E lieve a farsi. A me lo affida.

DANTE
(traendosi di seno un piccolo volume).
Prendi.

CORO
(di dentro).
«Liber scriptus proferetur
In quo totum continetur
Unde mundus judicetur ».

DANTE
(trasfigurato in volto).
Ah!

FRATE ILARIO
(stupito e turbato, guardando Dante).
Questo libro!... quei divini accenti!...
(Dopo alcun po’ apre lentamente il volume o legge ad alta voce):
«Per me si va nella città dolente.
Per me si va nell’eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
Fecemi la divina potestate,
La somma sapïenza e il primo amore.
Dinanzi a me non fûr cose create
Se non eterne, ed io eterno duro:
Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!»
Rapido, burrascoso passaggio dell’organo.

CORO
«Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet apparebit,
Nil inultum remanebit».

Dante e Frate Ilario rimangono muti in cospetto l’uno dell’altro.


UNA SOSTA
DELL’EBREO ERRANTE

Officina di Fausto in Vittemberga. Tutto intorno alle pareti scaffali con libri, arnesi da alchimista, curiosità naturali, ecc. Molte di sì fatte cose sono anche sparse, o ammucchiate, qua e colà per l’ampio stanzone. Da una grande finestra, ch’è nel fondo, si scorgono tetti coperti di neve e un lembo di cielo sereno, rischiarato dalla luna. Poco discosto dalla finestra, pure nel fondo, è un uscio. Addossato alla parete, a sinistra, un focolare con larga cappa fuligginosa, e un fornello acceso, sul quale bolle un pajuolo di rame. Una grossa lucerna di ferro pende dal soffitto; un’altra, piccola, illumina un leggio, su cui è squadernato un gran libro. È la notte di Natale dell’anno 1525. Fausto ha presso a cinquant’anni.

FAUSTO
(leggendo nel libro).
«Quando sulla bollente onda vedrai
Raccorsi un nimbo di vermiglia luce,
Il licor fia perfetto».
(Chiude il libro e s’accosta al focolare).
Ecco s’adempie
La parola del savio, e alfin di tante
E sì scure fatiche il frutto io colgo.
(Con austero entusiasmo, dopo aver contemplato alcuni
istanti in silenzio il liquido che bolle):
Prezïoso licor, nobil composto
D’incorrotti elementi e di frenate
In breve cerchio spiritali essenze,
Molte già vigilando io consumai
Notti senza riposo, allor che solo
Un desio mi reggeva, e ancor quest’una
Consumerò, fin che la nova luce
La virtù che non mente in te suggelli.
Ah, si rinnova ogni mio senso, esulta
L’affamato mio core e di serena
Letizia il fosco mio pensier s’accende!
Novo tempo incomincia...
==>SEGUE
FAUSTO
E stanco.

ASSUERO
E stanco.

FAUSTO
Fatti cor: parla. Che vuol?

ASSUERO
Se’ tu colui che ha nome Fausto?

FAUSTO
Sono.

ASSUERO
Dottor di tutte arti e scïenze?

FAUSTO
Tale
M’estima il volgo.

ASSUERO
E tu di te che pensi?

FAUSTO
Qualcosa io so; ma troppo men di quanto
Vorrei saper. Strappai più d’un segreto
Alla Madre Natura...: è bujo il resto.

ASSUERO
Medico sei?

FAUSTO
T’apponi.

ASSUERO
Ed alchimista?

FAUSTO
Ed alchimista.

ASSUERO
Le virtù conosci
Dei minerali e delle piante?

FAUSTO
Assai
Ne conosco. Perché simil dimanda?
==>SEGUE


ASSUERO
Qual possa altrui ridar la vita, quale
Donar possa la morte?

FAUSTO
Appunto.

ASSUERO
E meglio
Ch’altri non sappia?

FAUSTO
Così credo.

ASSUERO
(esitante)
Ajuto
Puoi forse darmi...

FAUSTO
Ed in che modo?

ASSUERO
Vedi
La mia vecchiezza...

FAUSTO
Favolosa parmi;
Né mai vidi l’egual.

ASSUERO
Ma tu non sai
Di quanti mali s’accompagni e come
Sia grave a sopportar.

FAUSTO
Pur l’argomento.

ASSUERO
Ajutarmi non puoi?

FAUSTO
(dopo essere rimasto alcuni istanti sopra pensiero).
Forse... I tuoi passi
Guidò Colui che guida il tutto, ed io...
Mira!
(Gli addita il pajuolo sul fornello).
==>SEGUE
ASSUERO
(sovrapponendo agli occhi la palma della mano e guardando).
Ch’è ciò?

FAUSTO
Un magico elisire.

ASSUERO
Un elisire?

FAUSTO
Un elisir d’arcana
Forza dotato.

ASSUERO
E qual?

FAUSTO
(con enfasi).
Se tu ne bevi
Alcun piccolo sorso allor che spunta,
Vittorioso d’ogni nube, il sole,
Ringagliardir tutto ti senti, il core
Giubilando pulsar, fervido il sangue
Scorrer per ogni vena, ardere il senso,
Stenebrar l’intelletto, e tutta insomma
Nelle ringiovanite, agili membra
Gioir di nuovo e imbaldanzir la vita.

ASSUERO
(con amarezza, levandosi da sedere).
Ah!

FAUSTO
Che dici?

ASSUERO
Non questo io ti chiedevo.

FAUSTO
(stupito).
Non questo?

ASSUERO
No.

==>SEGUE
FAUSTO
Che dunque?

ASSUERO
(con voce cupa).
Un salutare
Farmaco che ogni rea fiamma di vita
Spenga dentro il mio petto e mi procuri
Il buon riposo che in eterno dura.

FAUSTO
(ironico).
Tu vorresti morir? Vivere sempre
Io per contro vorrei; viver per tutta
L’eternità!... Troppo la vita è breve
Che il ciel ne diè. — Morir vorresti ? Oh, quanto
Ciò più facil saria!...

ASSUERO
(come sopra).
T’inganni.

FAUSTO
Solo
Ch’io volessi...

ASSUERO
T’inganni.

FAUSTO
In pochi istanti...
Quasi nemmen te n’avvedresti. Guarda!
(Trae da uno stipo una piccola fiala e l’alza incontro al lume).
Limpido come l’acqua! Una o due gocce...
Basterebbe...

ASSUERO
T’inganni.

FAUSTO
(riponendo la fiala).
Oh, vecchio!...

==>SEGUE
ASSUERO
(concitato e solenne).
Quanti
I più sottili sono e più letali
Veleni; e quelli che natura chiude
Nel grembo oscuro della terra; e quelli
Che nei frutti, nei fior, nelle radici
Delle piante, distilla; e quel che nutre
Nelle perfide serpi, io già saggiai:
E son vivo!

FAUSTO
Farnetichi?

ASSUERO
(come sopra).
Dal sommo
Mi traboccai di rovinose rupi,
Mi sommersi nell’onde, entrai nel foco: —
E son vivo, e son vivo!

FAUSTO
(compassionevole).
Oh, sventurato!

ASSUERO
Mi rifiuta la morte, e più la vita
Non mi regge : — se puoi, fammi morire!

FAUSTO
(pensoso, quasi tra sé).
Quale nova pazzia?...

ASSUERO
(ricadendo sulla scranna).
Fammi morire!

FAUSTO
(come sopra).
O qual novo portento è a me dinanzi?
(Dopo una pausa, ad Assuero):
Se tu presumi dire il ver; s’io debbo
Creder ciò che tu di’; quale speranza
A me t’addusse?

==>SEGUE
ASSUERO
(esitante).
E’ mi fu detto...

FAUSTO
Segui.

ASSUERO
Che tu con buje spiritali posse
Hai secreto commercio...

FAUSTO
(chiuso, accigliato).
E’ ti fu detto?...
Scoppio improvviso di campane che da presso e da lunge annunziano
la messa di mezzanotte.

ASSUERO
(come trasognato, ascoltando).
Quando, son già mill’anni, io prima giunsi
All’inospite landa ov’ora siede
La regale città di Vittemberga,
Non questo suono, come or fa, destava
Gli alti silenzii. Era deserto il loco.
Orrendamente s’addensava intorno
L’antichissima selva, e tra quell’ombre
Solo s’udiva urlare il vento o il lupo...
Fausto, ritto, immobile, con le braccia conserte, osserva attentamente
Assuero, senza proferire parola. Giù nella via passano
cori che cantano.

CORO DI GIOVANI
«Gratuletur omnis mundus
Et festinet ut sit mundus
Ab immundo crimine.
Ecce mundi reparator,
Jesus Christus, rex salvator.
Natus est de virgine ».

==>SEGUE
ASSUERO
(che alle prime parole del canto s’è levato da sedere e s’è posto
faticosamente in ginocchio; con voce compunta).
Gesù, perdona!

FAUSTO
Al certo egli delira.

CORO DI VECCHI
«Pridem erat mundus coecus,
Sed nunc venit mundi decus
Rex incomparabilis:
Deus, judex, justus, fortis,
Ut sit comes nostrae sortis,
Homo fit passibilis».

FAUSTO
(ponendo ad Assuero una mano sulla spalla).
Vecchio, ritorna in te!

ASSUERO
(senza muoversi).
Gesù, perdona!
Anche una volta osò questo protervo
E indurato mio cor di ribellarsi
Al tuo giusto giudizio, e il reo s’illuse
Di sottrarsi al castigo.

FAUSTO
A che castigo?
E qual colpa è la tua?

ASSUERO
(sorgendo).
Di me pur devi
Qualche contezza aver.

FAUSTO
Non ti conosco.

ASSUERO
Tutti san la mia storia.

FAUSTO
Io no. Chi sei?

==>SEGUE


ASSUERO
(con passione).
Dinanzi all’uscio, della mia dimora,
In Sïonne, quel dì, Gesù passava,
Avviato al supplizio. Affranto egli era,
Molle tutto di sangue e di sudore,
E sotto il peso dell’orribil croce
Barcollando incedea. Quivi con altri
Scioperati miei pari io me ne stavo
Per veder l’Innocente. Ei fece l’atto
D’appoggiarsi al mio stipite; ma pronto
Io lo respinsi, e gli gridai sul viso:
Nazareno, cammina ! — Eresse il capo
Coronato di spine, e in me quei santi
Occhi figgendo: Io poserò, rispose;
Ma tu camminerai fin ch’io non torni.

FAUSTO
Credo d’avere tal novella udita
Sendo fanciul.

ASSUERO
Pensi che fola sia?

FAUSTO
E che altro esser può?

ASSUERO
Guardami! Forse
Mi somiglia alcun uom?

FAUSTO
Nessuno.

ASSUERO
Parti
Che mentir possa il mio sembiante?

FAUSTO
(meditabondo, incerto, con voce sommessa e quasi tra sé).
Pieno
Di strane cose e di prodigi è il mondo...
Quella presenza!... il suo parlar!... Se vero
Fosse...

==>SEGUE
ASSUERO
Così non fosse!

FAUSTO
(dopo lungo silenzio).
E tu ’l vedesti?

ASSUERO
Come te vedo.

FAUSTO
(esitante).
E fu davvero quale
Se ne ragiona?

ASSUERO
(con rattenuto fervore).
Non può dir di lui
Umana lingua.

FAUSTO
E di tornar promise?...

ASSUERO
E tornerà.

FAUSTO
Molto s’indugia...

ASSUERO
Attendi.

FAUSTO
(dopo un altro silenzio).
Ma tu, quel dì?...

ASSUERO
Quel dì !... Non prima intesi
La mia condanna, che fuggiasco, senza
Pur rientrar nella mia casa, senza
Far parola ad alcun, mi posi in via.
Fui sul Calvario; fui presente all’empio
Strazio del Giusto: indi voltai le spalle
All’iniqua città... Dopo molt’anni
Volli tornarvi... Era distrutta! —

==>SEGUE
FAUSTO
E sempre
Vagabondo dipoi?

ASSUERO
Sempre, per quante
Ha regioni la terra.

FAUSTO
E mai non posi?

ASSUERO
Solo di rado, e per brev’ora, come
Faccio al presente. Camminando mangio
Il mio pan.

FAUSTO
(con istanza, e con accento che manifesta l’avidità dell’animo).
Molte cose avrai vedute?...

ASSUERO
(negligentemente).
Sì; moltissime;... troppe...

FAUSTO
(con fervore).
Ah, saria questo
Il mio sogno!

ASSUERO
Nol dir.

FAUSTO
(come sopra).
Tutti co’ proprii
Occhi mirar dell’immortal natura
Gli aspetti e l’opre, e sulla faccia stessa
Della terra, durando ov’ogni cosa
Passa, coevo al tempo antico e al novo,
Tutte, siccome in un aperto libro,
Legger le istorie!... Qual più degno fato?




==>SEGUE
ASSUERO
Quale più reo? Per tutto ove tu vada,
Sempre la stessa, desolata, oscura,
Implacabil miseria. Antico è il novo.
Passa il tutto e non muta; e son le storie
Un’immensa ruina. Orribil vita
Quella che dura ov’ogni cosa muore!
E la terra è un sepolcro.

FAUSTO
(senza attendere alle sue parole).
Alle mie labbra
Le domande s’affollano; ribolle
L’insazïata anima mia... Rimanti
Almeno sino al novo dì.

ASSUERO
M’incalza
Il mio destin. Sento bruciar la terra
Sotto i miei piè.

FAUSTO
Lascia che teco almeno
Compagno io venga.

ASSUERO
(con agitazione crescente).
All’affannosa fuga
Non reggeresti un solo dì; né soffre
Compagni il mio castigo.

FAUSTO
Ah, tu non sai
Qual sete m’arda!

ASSUERO
Io sol di pace ho sete
E quel che solo alfin può darla attendo.
(S’ode cantare il gallo).
È scorsa l’ora. Addio!

FAUSTO
Fuori di questo
Carcere angusto e tedïoso il mondo
Con mille voci a sé m’invita. Ancora
Sulle sue vie c’incontreremo.

==>SEGUE
ASSUERO
(d’in sull’uscio).
Bada!
Quel tuo licor gitta sul foco. Addio!
(Sparisce).
(S’ode picchiare sommessamente).
Alcuno all’uscio!...
A sì tard’ora! Chi sarà?...

(S’ode picchiar di nuovo. Fausto va ad aprire. Nel vano dell’uscio appare la figura di Assuero, l’Ebreo Errante8, tutto bianco, prodigiosamente vecchio, con folte e ispide sopracciglia, con barba profusa che gli scende sino alla cintola; poveramente vestito, ma non lacero; appoggiato a un lungo bastone).

FAUSTO
(con istupore).
Chi sei?

ASSUERO
(con voce che sembra venir di lontano).
Mi concedi d’entrar?

FAUSTO
Entra. — Chi sei?

ASSUERO
(varcata la soglia e dato uno sguardo in giro).
Or tel dirò. Lascia che un poco adagi
Questo sfatto mio corpo.
(Fausto accosta una scranna; Assuero vi si abbandona).
Oh, gran mercede!

FAUSTO
(guardandolo con ammirazione).
Molto devi esser vecchio!

ASSUERO
Oh, molto!
______________

8 L’Ebreo Errante ebbe nella leggenda varii nomi: Assuero, Isacco Lachedem, Buttadeo. (Cartafilo è nome di un altro personaggio leggendario, a lui molto affine, ma che non dev’essere con lui confuso). Assuero è il più comune, sebbene non sia per nulla nome ebraico. L’Ebreo Errante non può, secondo la leggenda, far lunga dimora, in nessun luogo.
==>SEGUE