CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS













































Arturo Graf


LE RIME
DELLA SELVA

1



IL PROLOGO

I.
No, non è vero poeta
Chi abbia un’anima sola,
Che mutar senso o parola
A se medesima vieta.

Quegli è poeta che cento
Ne chiude ed agita in petto,
E ognuna ha vario l’affetto,
E ognuna ha proprio talento.



II.
Ho caro il verso minore
Che rechi in punta la rima.
Come lo stel sulla cima
Reca lo sboccio del fiore.

Ho caro il picciolo verso
Che guizzi come saetta,
E sia come lama schietta
Saldo, flessibile e terso.



III.
Se tu di ciò non ti pasci
Che sparve senza ritorno;
Se tu non muori ogni giorno,
Ed ogni giorno non nasci;

Se il rivo, la rupe, il fiore,
L’aria che odora d’assenzio,
La nube, l’ombra, il silenzio,
Non dicon nulla al tuo core;

Se ignori i fondi e le cime;
Se ignori il pianto od il riso;
Se porti maschera al viso; —
Non leggere queste rime.

==>SEGUE


IV.
Leggere vuoi? Non cercare
Nel disadorno volume
Il superesteticume,
Le preziosaggini rare,

I sensi astrusi e sconvolti,
Che per la gran meraviglia,
Fanno inarcare le ciglia
Alle bardasse, agli stolti.

Non vi cercare quell’arte
Che ornando svisa; non quella
Che fuca, minia ed orpella
Di parolette le carte.

Non l’armonia frodolenta
Che sembra dire e non dice;
Nenia di vecchia nutrice
Che vecchi bimbi addormenta.

Semplice, chiaro, preciso
È, pur nel verso, il mio dire:
Non so, non voglio mentire
Né la parola, né il viso.

Siccome sgorga nell’ime
Convalli un’acqua natia,
Così dall’anima mia
Sgorgarono queste rime.



V.
Se d’un mio querulo accento
Serbi il tuo cuore la traccia;
Se un mio pensiero ti faccia
Restar sospeso un momento;

Se di te stesso talvolta,
Scorrendo i bianchi quaderni,
Alcuna imagine scerni
Nel verso breve raccolta:


==>SEGUE


Se, mentre leggi, ti senti
Rigurgitare nel petto
L’onda d’un tenero affetto
E dei ricordi frementi;

Dopo aver letto brev’ora,
Il picciol libro riponi:
Forse nei giorni men buoni,
Lo vorrai leggere ancora.



PARTE PRIMA

C’ERA UNA VOLTA...

C’era una volta... che cosa?
Son come grullo stasera!
Non mi ricordo; ma c’era,
C’era una volta qualcosa.

Devi saperlo anche tu,
Povera foglia di rosa...
C’era una volta qualcosa,
Qualcosa che non c’è più.
DOPO VENTICINQUE ANNI

In questa selva folta,
Che al vento ondeggia e freme,
N’era dolce, una volta,
Di gir vagando insieme,

E di smarrirci, come
Gl’innamorati fanno: —
Del pentimento il nome
Ignoravamo e il danno. —

In quel tempo beato
Era nostra ogni cosa:
Per noi la selva e il prato
E la spiga e la rosa;

Per noi soli il giocondo
Verso degli usignoli;
Per noi la vita. Al mondo
C’eravam noi due soli.

Come fuggivan l’ore
In quell’incantamento!...
Adesso è lento il core,
E il tempo anche più lento. —

O solitario bosco,
Che sali agli erti gioghi,
Io tutti riconosco
Di mia ventura i luoghi.

Ogni tronco, ogni rivo,
E i sassi, e le sorgenti,
Pajono dir: Sei vivo?
Pajono dir: Rammenti?

Se rammento!? Sicura
E semplice è la storia:
E poi Madre Natura
Mi diè buona memoria.

Se son vivo!?... Mi sembra:
Ma forse un sogno plasma
Queste che pajon membra;
Forse io sono un fantasma.

==>SEGUE






Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Arturo Graf
(1848-1913) e
Giacomo Leopardi (1798-1837)
_________

di Ayleen Boon
__________________
Leopardi e Graf

In questo capitolo cerchero di spiegare quali sono le differenze tra Leopardi e Graf nelle loro correnti e nei pensieri filosofici, e nelle differenze e le analogie nell.uso de luoghi poetici da parte di Graf e da parte di Leopardi.

Differenze e analogie:
Le idee e il modo
di usare i topoi

Per capire le differenze e analogie nel modo di usare il topos, dobbiamo analizzare le idee e la filosofia di Graf. La concezione pessimistica del poeta ha una duplice origine; si e sviluppata da un.innata deviazione della mente (cioe proprio una malattia psicologica) e dall.influenza dei poeti Leopardi e Baudelaire; quest.ultimo poeta infatti e predominante e la maggior parte dei suoi lavori tristi sono stati composti mentre stava camminando metaforicamente nel suo giardino avvelenato e artificiale. In Leopardi prevale una perfezione classica, sfumata pero con un pathos romantico. Le poesie di Graf lasciano il disgusto nel cuore, e non con quel senso di un.enorme bellezza che, come in Leopardi, s.erge sopra la sua desolazione disperata. La differenza tra Graf e Leopardi si trova nella raffinatezza dei pensieri e nella melodia dell.anima della poesia. In Graf sta crescendo il pensiero malvagio nelle tenebre, silenzioso; lentamente riempie tutta l.anima smarrita. Ho visto che il poeta ha un gusto malato per la bruttezza e per il bizzarro e il macabro. A parte questo, alcune delle sue poesie sono poco realistiche e piene di fantasie. La sua mente e uno specchio, offuscato dalla nebbia del dubbio, dai pensieri scuri, dalle idee incongruenti, in base alla filosofia di Schopenhauer. Come esuli volontari, questi filosofi si ritirano dal mondo degli uomini, e mantengono fino all.ultimo sospiro la loro attitudine nemica contro la vita. Graf riconosce in se un fiero spirito ribelle, duro per se stesso, nato per essere la sua rovina e per causare disagio agli altri. E terrorizzato dal potere di forze inspiegabili, dall.immensita dello spazio dove ogni cosa vede la nascita e la morte di innumerevoli mondi, i quali vengono buttati nei .golfi inesplorati. delle .fontane inesauribili e ardenti. dell.abisso. Parla dell.orrore dell.oceano infinito e senza fondo nel quale, per sempre, le ore passano e spariscono e nel quale l.eta muore. Egli parla anche del cielo nero e profondo, in cui la vanita del mondo, clamorosa e variopinta, svanisce come la nebbia.
Nella sua concezione, l.universo diventa per lui un enigma odioso; nei suoi incubi lui si perde nei boschi, dove la morte lo aspetta; il poeta vaga sulle pianure desolate, lungo le paludi grigie; egli si eleva nello spazio senza limiti, dove le stelle si sono diffuse come la polvere dei fiori. Ed egli si paragona a una meteora ardente, che vola attraverso il buio pauroso della notte infinita. La poesia diventa per lui un tormento, un immenso dolore. Leopardi invece non ha una testa cosi ribelle e despotica come quella di Graf. Egli e in grado di vagheggiare le sue illusioni piacevoli, le segue e le ama ed e triste quando viene riportato alla realta che distrugge i suoi sogni perche in lui domina il sentimento. Leopardi sa distinguere la fantasia dalla ragione, ma quando vive la vita dove predomina la ragione, il suo cuore cerca di contraddirlo e lo conduce ai mondi diversi, nei suoi sogni. Il cuore o il sentimento di Graf non ardisce di contraddire la ragione. Ha soltanto il sentimento .della tristezza invincibile di chi sa di vivere senza utilita e senza scopo..78 Leopardi riesce a pensare che finche l.immaginazione e il sentimento sono vivi, nascono nel pensiero care illusioni che spingono alla vita, come nei popoli e negli uomini giovani. E quando c.e la forza di immaginare, di sentire o di amare, il male della scienza si puo signoreggiare ed egli puo scappare dal mondo intellettuale. E chiaro che per loro due rispettivamente la luna e il mare ricoprono un ruolo importante e li trovano il loro conforto per la mente triste. I due poeti fanno entrambi un viaggio mentale nel passato, si lasciano tutti e due portare in un altro mondo per cercare il .perche. della vita. Essi pensano che la vita terrena sia senza scopo, sia inutile e questo li fa sentire tristi. Per Graf questa tristezza e invincibile, non trova una soluzione per superarla. Ma, come accennato prima e chiaro nella poesia di Leopardi, egli si perde nel sentimento e nei suoi sogni: Anche se il poeta sa bene distinguere la fantasia dalla verita, in quel momento i sogni sembrano la verita ed egli vive dei momenti di felicita, pensando al passato. Il viaggio grafiano invece e una .simbolizzazione della morte, un.allegoria tragica della vita sospinta da una tenace e delusa speranza a schiantarsi contro il nulla finale..79 Questo l.abbiamo visto anche con l.uso del termine .naufragare nel mare. in Medusa e ne .L.Infinito.: mentre Leopardi gode il momento dei suoi pensieri infiniti che lo portano via, Graf conclude che la vita sulla terra e solo lo schantarsi contro il nulla. Non puo godere totalmente quel momento di ricordare momenti dal passato.
Se analizziamo la descrizione del mare .come abbiamo visto nel secondo capitolo- il mare di Graf non e un mare bellissimo, tranquillo e colorato. Esso viene sempre descritto in modo tragico e terribile; presenta sempre un viaggio pauroso e misterioso, che finisce con lo schiantarsi contro la morte. Dopo aver paragonato le differenze tra l.uso e la descrizione della luna di Leopardi (calma dolce e amorosa) e il mare di Graf (sinistro,oscuro e misterioso), potremmo dire con Anna Dolfi che il mare di Graf e .una luna sanguinolenta.80, invece della luna dolce di Leopardi.

Conclusione

In questa tesi ho provato a trovare una risposta alla domanda seguente:
Il ruolo del mare in Medusa di Graf ha la stessa funzione della luna ne I canti di Leopardi? Entrambi sono luoghi di conforto? Ci sono anche delle differenze tra i due poeti nel modo di esprimere questo concetto di conforto?
Per rispondere a questa domanda bisognava approfondire le differenze tra i due poeti, cresciuti in diverse fasi del periodo del Romanticismo in cui l.uomo riscopre quello che esiste fuori dalla capacita della gente: l.infinito. I filosofi hanno cercato di confrontarsi con quel fenomeno, sperando di trovare un significato alla realta. Come ho detto nell.introduzione e proprio di un romantico soffrire per l.esistenza umana vuota e senza senso e vedere la vita piena di infelicita e imperfezione, e per questi motivi andare a cercare altrove la propria felicita: nei sogni e ideali, nel passato e nella natura.
Il Romanticismo ha influenzato entrambi i poeti. Nel mondo stanno cercando la risposta alla questione: .qual e lo scopo della vita sulla terra?. Dal momento che nessuno e in grado di dar loro una risposta, vanno a cercarla altrove: come abbiamo visto Leopardi nella luna e Graf nel mare. Questi sono i loro topoi naturali, dai quali sperano di trovare una risposta. In realta questo e un viaggio mentale, che entrambi i poeti compiono. Visto che ne la luna ne il mare sono in grado di parlare con loro, il viaggio e un viaggio interiore: Graf e Leopardi ci riflettono e pensano in modo filosofico alla vita che vivono. Ma abbiamo anche visto che entrambi i poeti prendono gia un po.di distanza dal Romanticismo: cominciano a scollegare l.unita tra l.uomo e la natura. Non vedono piu la natura come un testimone per l.essere del poeta, ma una presenza indifferente. Graf e piu sperimentale di Leopardi. Leopardi osa distaccarsi un po. dal romanticismo, Graf prende elementi da altre correnti come il Simbolismo e La Scapigliatura.
Abbiamo visto nel primo capitolo che Leopardi e in grado di lasciar perdere i suoi pensieri razionali ed egli e in grado di vagheggiare le sue illusioni piacevoli, le segue e le ama ed e triste quando viene rigettato nella realta che distrugge i suoi sogni perche in lui predomina il sentimento. Condivide i suoi sogni con la sua amica luna, che ammira e ama con tutto il suo cuore, perche e la stessa luna con cui parlava anche quando era giovane; e stato l.astro che c.era gia nel passato con cui ha condiviso tutti i suoi segreti. Proprio questo sentirsi giovane e per Leopardi molto piacevole: il fatto che la luna riesce a portare i pensieri del poeta al passato, lo fa sognare di ritornare a quando era piu giovane, pieno di felicita e allegria. Si puo dire, come abbiamo visto, che la luna e un posto fuori dal mondo umano che e in grado di dare conforto a Leopardi e ai suoi lettori. Anche Graf ha la sua fonte d.ispirazione: il mare. Il riflesso nell'acqua del mare e riflesso dell'anima. Graf usa il mare per fare un tuffo nell.acqua infinita e fare un viaggio mentale, sperando di trovarci la verita della vita; riflettendosi nelle sue acque, pensando alla vita dell.uomo. Graf cerca di godere il momento di riflettere e tornare al passato, ma non ci riesce sempre; arriva sempre alla conclusione pessimista che la vita sulla terra e senza scopo ma e solamente un viaggio verso la morte.
Come abbiamo visto nel secondo capitolo, non si puo dire che il mare e come la luna di Leopardi. Nell.introduzione ho scritto che i poeti che sono nati dopo il disastro del Vesuvio nel 1826, non descrivono piu la natura come una fonte di bellezza ma questa diventa un tema lugubre e triste. Come ho descritto prima, entrambi i poeti mettono l.uomo opposto alla natura, ma Leopardi ci riesce ancora a valorizzare qualche elemento naturale. Pensiamo alla poesia .La Ginestra.(1836)81 nella quale dichiara che l.uomo e da sola; in generale non significa niente in paragone con la natura. Pero, in questa tristezza, Leopardi ci riesce a ammirare una pianta, la ginestra, che cresce sulla colle del Vesuvio: questa pianta riesce bene di mantenersi in vita. A parte questo, Graf aveva una grande affinita con gli scrittori del Decadentismo (come Baudelaire), i quali usavano un tono tetro. Come sappiamo dal capitolo 2, Graf si e fatto ispirare dal profondo pessimismo di Leopardi che appartiene al Romanticismo; egli canto gli aspetti piu tragici e angosciosi della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della morte e della natura. Ma possiamo dire che Leopardi e proprio un pessimista, se conosciamo anche il modo di scrivere di Graf? E quali sono le differenze nel loro pessimismo? Dopo aver analizzato le loro poesie, direi che le poesie di Graf sembrano piu apocallitiche e cupe in confronto con il pessimismo di Leopardi: dato che per Leopardi esistono momenti di gioia, di felicita, di piacere quando si abbondona alle illusioni, ai sogni e vola nei pensieri al passato, il che gli da un forte sentimento di conforto. Abbiamo osservato che Graf descrive il suo mare come un posto orribile; e scuro, ci sono gli abissi, c.e sempre una tempesta. Quindi per Graf l.intelletto domina sui sentimenti, non e in grado di trascinarsi nei sogni o nella fantasia. Questa differenza viene anche rinforzata dal fatto che Graf e stato influenzato dal Simbolismo. Come ho detto prima, i simbolisti avevano l.idea fondamentale che sotto la realta si nasconde una realta piu profonda e misteriosa quindi nella poesia usano oggetti simbolici che hanno tutto un significato magico, le descrizioni dei paesaggi sono piu scure, vaghe e indefinite. E spesso la natura viene descritta come una natura .matrigna. Come simbolo, Graf compara la vita dell.uomo con un battello sul mare, che alla fine ha un solo scopo: incontrare la morte.
Si potrebbe concludere dunque che il ruolo dei diversi topoi e paragonabile, che l.uso dei topoi avviene sia in Graf che in Leopardi con lo scopo di cercare un rifugio, un luogo che li metta al riparo dai loro tormenti e nei quali possano partorire riflessioni, ma e chiaro che lo esprimono in modo diverso appartenendo a correnti diverse.
Sia pure. O vivo o morto,
Che fa? Dura il tormento,
Se il piacere fu corto;
E troppo ben rammento.

All’ombra di quel pino,
Che s’innalza sublime,
Ella pianse un mattino
Al suon delle mie rime.

Pianse (la vedo ancora!)
Teneramente. Oh, lieti,
Oh, cari affanni! Allora
Ella amava i poeti.

Là, dove son le frante
Rupi al salire inciampo,
Ella con man tremante
Mi porse un fior di campo.

Un fior più che vermiglio,
Un fiore sanguinoso,
Ch’avea strappato al ciglio
D’un borratel sassoso.

Ed io tuttor conservo
Quel fiore inaridito
Tra i fogli d’un protervo
Libricciuol proibito.

Qui le sostenni il passo;
Qui le fui scudo al petto;
Ivi al bel corpo lasso
Feci tra l’erbe un letto.

Su quel masso travolto,
Sotto quel curvo ramo,
Trascolorata in volto,
Ella mi disse: T’amo!

Colà, dove quel fonte,
Sgorga chiaro e sonoro,
Chinò l’altera fronte,
E mormorò: T’adoro!

E qui, dove si perde
Nel querceto ogni via,
Su questo balzo verde,
Qui, sotto il sol, fu mia.

==>SEGUE


Fu mia!... Tempi lontani! —
Fu. — Troppe cose anch’esse
Furono. — Sogni vani!
Menzognere promesse!

Ora qua ’ntorno sperso
Vommi aggirando e solo,
E torturando il verso
Inganno il tempo e il duolo.

Questo d’amore il frutto!
Questo alla tarda e greve
Stagione il premio! — Tutto
Ciò che finisce è breve.

O caro bosco, addio!
All’ombre tue quassù
Altri verrà, non io:
Non mi vedrai mai più.

Rifrustare il passato
È un misero conforto:
Quello ch’è stato è stato;
Quello ch’è morto è morto.

UN ALTRO GIORNO...

Un altro giorno è finito,
Un altro giorno è passato...
Bene: giorno seppellito
Vuol dir giorno guadagnato.

Un giorno intero di meno
Da consumar senza scopo,
E pregustando il veleno
Del giorno che verrà dopo.

Altri giorni passeranno,
Tutti alla stessa maniera,
Pieni di tedio e d’affanno,
Quale il mattino la sera.

Alfine un giorno aspettato
Farà cessare il garrito...
E tutto sarà passato,
E tutto sarà finito.

TUTTO? NIENTE

Tutto? Nïente. Nel capo
Inchiodatelo, in buon’ora!
Quando s’è finito, allora
Si ricomincia daccapo.

Si ricomincia di nuovo,
Secondo porta la rima,
Forse un po’ peggio di prima,
La vecchia favola ab ovo.

La favola senza succo,
La favola dello stento,
Che a un uomo fa dire: E cento!
Ne sono stucco e ristucco.

Niente dura o soggiorna:
Tutto in brev’ora è distrutto;
Ma nulla s’annulla, e tutto,
O prima o dopo, ritorna.

Fitta a un immobile perno,
Gira mai sempre la ruota:
E scorri e trottola e rota:
Ciò che fu sarà in eterno.

SÌ, MI RICORDO...

Sì, mi ricordo. — Era...
(Oh, verde piaggia! oh, colle!...)
Era un giocondo e molle
Mattin di primavera.

E qua sull’erbe e i fiori
Noi sedevamo insieme:
Erbe di vario seme,
Fior di tutti i colori.

Dal salice piangente
Un uccelletto sperso
Cinguettava il suo verso
Assai teneramente:

E allora (ti sovviene?)
Doppiando il baciucchio,
Tu mormorasti: Dio!
Come ti voglio bene! —

==>SEGUE

Era un mattin di maggio
Molto sereno e puro:
E tu dicesti: Giuro!
Ed io ne feci il saggio.

Il saggio ed il rassaggio,
Come si fa del vino:
Era un lieto mattino
Della fine di maggio.

Ahi, vin soave e forte
Al core ed al palato;
Vino, che fai beato
L’uomo sino alla morte!

E l’uccelletto intanto,
Dal suo verde soggiorno
Empieva l’aria intorno
D’un troppo dolce canto.

Sì, mi ricordo... ossia...
Ecco, gli è un bel pezzetto
Che quel caro uccelletto
Se n’è volato via.

IDILLIO

Essi, là in alto, seduti
Dove la balza è più sgombra;
Io, rannicchiato nell’ombra,
Sotto questi alberi muti.

Erravan lievi, fugaci,
Pel ciel le nuvole, ed essi
Reiteravan gli amplessi,
Centuplicavano i baci.

Eva dicea: Mio tesoro! —
Mia vita! diceva Adamo; —
E questi a quella: Ti amo!
E quella a questo: T’adoro!

E confondendo l’alterno
Sospiro in voci supreme,
Talor dicevano insieme:
Oltre la vita! in eterno! —

Oh, numi! chi d’improvviso,
Quando più stavo in ascolto,
Chi d’improvviso, nel folto,
Rise d’un sì sconcio riso?

D’un riso sì sbardellato,
E insolito in queste bande,
Che il bosco, quant’egli è grande.
Ne parve scandolezzato?

Non io, non io, certamente;
Perché, se talvolta rido,
Ne attesto Giove e Cupido,
Io rido sommessamente.

Non io, non io, ve lo giuro,
Impenitente e digiuno
Sognatore: — ma qualcuno,
Oh, qualcuno di sicuro.




SCRITTO SOPRA UN SASSO

Felicità!... Malaccorta
E melanconica fola!...
Una sì lunga parola
Per una cosa sì corta!

Lunga parola, ma tronca,
Tronca nel punto migliore,
Come uno stel cui la ronca
Decapitò del suo fiore.

SERA

Dalla chiesetta alpestre
Giunge il clamor dell’ora:
Al ciel che si scolora
Olezzan le ginestre.

Una quïete stanca
Scende implorata ai vivi:
La luce ai campi, ai clivi
Gradatamente manca.

Un vertice selvaggio,
Scabra, sassosa mole,
Riceve ancor del sole
Il moribondo raggio;

E sul pendio, raccolti
Dentro un recinto breve,
Sotto la terra greve
Riposano i sepolti.

Un divino silenzio
Tutte le cose ammanta,
E l’anime rincanta
Beverate d’assenzio.

Solo, tra l’erbe, il grillo,
Salutando la sera,
Scande la tiritera
Del suo gracile trillo;

==>SEGUE

Mentre dall’erme lande
Il mite odor del fieno
Sotto il cielo sereno
Lento s’eleva e spande.

Immortale favilla,
Nitida gemma ardente,
Espero in occidente,
Là, sulla selva, brilla.

In quell’innamorato
Lume il mio sguardo mira;
L’anima mia delira
Risognando il passato.

RIME TRONCHE

Perché, mio core, perché,
Rimuginar quel che fu,
Se quel che fu più non è,
E non ritorna mai più?

Che giova piangere, di’,
E consumarsi per ciò?
Il mondo è fatto così.
Puoi tu rinascere? — No.

A MADRE NATURA

Su quest’orribil campo,
Ove non spunta un fiore,
Sfinito vïatore
A che più l’orme stampo?

Veloci a par del lampo,
Mute dileguan l’ore:
Il giorno nasce e muore...
Né posa mai, né scampo!

O gran Madre Natura,
Quest’angoscia è crudele,
Questa fatica è dura.

O Madre senza cura,
Odi tu le querele
Della tua creatura?
NEL FOLTO

Oh, come nudi e dritti
Salgono intorno i fusti
Degli abeti vetusti
Nella roccia confitti!

E in alto la gramaglia
Delle spioventi rame
Sul cinereo velame
Delle nubi s’intaglia!

Giù, per burroni e chine,
Su, d’una in altra cresta,
Sembra che la foresta
Non debba aver mai fine.

Ah, questa muta vita,
Che sempre nasce e muore,
Come m’affoga il core
Di tristezza infinita!

ALL’OSTERIA DELLA CORONA

Bella ragazza, un pane
E un po’ di vin vermiglio: —
Ma sincero! Stamane,
Giuraddio, gozzoviglio.

Non già ch’io sia nïente
Un beone, un ingordo:
No: voglio solamente
Festeggiare un ricordo.

Oggi è l’anniversario
Di certo avvenimento...
Anche senza lunario
Assai me ne rammento. —

Vengo, se vuoi saperlo,
Vengo, cara fanciulla,
Dall’Osteria del Merlo...
Ma non vi presi nulla.

==>SEGUE


Onde sono digiuno,
Affamato, assetato,
Peggio assai d’un tribuno
Non ancor pensionato.

— Questo fior me lo approprio. —
Buon dì, comare ostessa!
Voi mi parete proprio
Una madre badessa.

Cara comare Marta
Che Dio vi benedica!
Le femine di carta
Io non le stimo cica.

O che fa compar oste?
Non essendo rivali
V’amo come se foste
Miei parenti carnali.

Come sto io? D’incanto,
Non c’è male. Si campa,
Solo, di tanto in tanto
Un po’ d’olio alla lampa...

Voglio un panino fresco
E un pizzico di sale,
Di buon sale tedesco,
Augurale, morale.

Ah, senza sal le cose
Non mi son mai piaciute!
Il sal le fa gustose:
Sale vuol dir salute.

E senza la morale
Nulla quaggiù fa frutto;
Senza morale, tutto
Va male, male, male.

Cara ragazza, come
Ti chiami? Margherita?
Margherita è un bel nome. —
Fausto t’ha già servita?

Non sai chi fosse Fausto?
Fu un uomo singolare,
Indefesso, inesausto,
In amare, in bramare.

==>SEGUE
Un uomo audace e pio,
D’alta e superba fede,
Che per amor di Dio
Al diavolo si diede.

Visse due vite; fece
Ogni cosa a sua posta
Senza chieder se lece,
E nemmen quanto costa.

Amò la Ghita viva,
Tedesca malaccorta;
Amò l’esperta argiva
Elena, benché morta.

Insomma, o dolce viso,
Fece d’ogni erba fascio;
Poi volò ’n paradiso.
E in paradiso il lascio.

Ma quel baron coll’effe
Di Mefisto demonio
Ebbe il danno e le beffe
Del turpe mercimonio.

Giacché non è permesso
Far d’anime baratto,
Pegno, fedecommesso,
Né patto, né contratto.

Anche, quando non vale
Il becco d’un quattrino,
È l’anima immortale
Un alito divino.

Non s’ha a dare pel costo
Nemmen d’un milïone...
Il corpo sì, piuttosto,
Che non vale un bottone.

L’anima è quella cosa
Che se tu via la dai,
Abbi di tutto a josa
Nulla alla fine avrai.

E dire che ci sono
Di certe bestie umane
Che ne fanno abbandono
Per un pezzo di pane! —

==>SEGUE
Dimmi, viso sereno,
S’io avessi, poniamo,
Venti o trent’anni meno,
Mi vorresti per damo?

Per damo, certamente.
Amarsi è un gran bel fatto;
Tutto il resto è nïente,
Disse non so che matto.

Al tempo mio, ragazza,
Brutto non fui; ma dopo...
Si sa; la vita ammazza;
È la morte il suo scopo.

(Quale di là poi sia
Lo scopo della morte,
È un dubbio, anima mia,
Molto intricato e forte).

Voglio dirti una cosa
Già che nessun ci sente
(Non fo della mia prosa
Regalo a troppa gente);

Le donne italïane
Sono belle, non dico;
Ma un po’ finte, un po’ vane,
E la fanno all’amico.

Invece (Dio le assista!)
Le donne di quassù
Si vede a prima vista
Che han tutte le virtù.

Pacifiche, modeste,
Soffici, schiette, amene,
Servizievoli, oneste,
E cucinano bene.

Non rinnovano a ogn’ora
I dispetti e le liti;
Non mandano in malora
I poveri mariti.

Ma soprattutto poi
Son tenere e fedeli,
E credere lor puoi
Come ai santi Evangeli.

==>SEGUE
Senza dir ch’a ogni giuoco,
Se vogliono, son buone,
E che parlano poco,
Mancando l’occasione.

Solo, quand’io ci torno,
Solo (Dio le conservi!)
Quel mangiar tutto il giorno
M’urta un pochino i nervi. —

La non ti va, folletto?
La non ti va, colomba?
Sia dunque per non detto,
E ritorniamo a bomba. —

Dammi, se t’è in piacere,
Un po’ di vino buono,
E un piccolo bicchiere,
Perché beon non sono.

Credi ch’io sia già brillo?
Nemmen per sogno. A bere
Ci ho poco gusto. Dillo
A chi lo vuol sapere.

In vita mia, gli è vero,
Spesso m’ubbriacai;
Ma di vin bianco o nero,
No, te lo giuro, mai.

So di poeti i quali,
Cioncando a carratelli,
Si fecero immortali;
Ma io non son di quelli.

Qualchedun altro, invece,
Di fibra più scadente,
Troppo mortal si fece,
E morì d’accidente.

Di sete anch’io, sicuro,
Frequentemente assillo;
Ma non fui mai, ti giuro,
Né briaco, né brillo...

Solo una volta... forse...
Di certo vin vermiglio,
Ch’ella stessa mi porse
All’ombra d’un’gran tiglio.

==>SEGUE

(Dicono che nel vino
Ci sia la verità;
Non nego; ma in un tino
Altro ancor ci sarà.

La verità, Dio santo,
Tien così poco posto!
E si vendemmia tanto!
E si fa tanto mosto!)

Il vin mi porse; ed era
La sua man così bianca,
Così lieta la cera,
Così procace l’anca!

E quel tiglio spandeva
Un così grato olezzo!...
L’albero, Adamo ed Eva,
E il serpente nel mezzo. —

Non potresti, di grazia,
Azzittir la gallina?
Quel chiocciare mi strascia;
Quel chiocciar m’assassina.

Per aver fatto un uovo
Tanto schiamazzo? ed io
Che faccio un libro nuovo
Senza nemmen dir: pio!

Togli! adesso è la mucca
Che tromboneggia e stona!
Va’, falle una parrucca
A quella bietolona.

(Tutto mi dà nel naso!
Sono un po’ nevrastenico,
Come Andrea, Tonio, Maso.
Sandro, Pippetto e Menico).

Ben; tante grazie! Siedi
Un po’ qua... più vicino...
Stai tutto il giorno in piedi!
Vuoi un dito di vino?

==>SEGUE
Ridi? Non hai timore?
Ridi, la mia bisnonna,
Fa tanto bene al core
Un risetto di donna!

Ah, tu non sai che casta
Rimembranza giuliva...
Ma lo so io; mi basta:
Allegri, dunque, evviva!

Ah, tu non sai che bocca
E che capelli negri...
Ma lo sa ben cui tocca;
Evviva, dunque, allegri!

E non badar s’io piango:
Pel dolce e la carezza
Sempre un fanciul rimango:
Piango di tenerezza.

Anzi questa mattina
Sono d’ottimo umore...
Che poesia divina!
Che luce! che splendore!

Beviamo alla salute
Del tempo che passò;
Alle cose perdute;
Alle memorie... Ohibò!...

Che vino è questo? assaggia!
Poh, come lazzo e acerbo!
Proprio per me, mannaggia,
Lo tenevate in serbo?

E questo pan? Per Bacco!
Per Cerbero il gran vermo!
Come gli è sollo e stracco! —
Vin agro e pan raffermo!

E il sale, il sale? Amaro
Arrabbiato; un orrore!
Quel d’Italia è più caro
Senz’essere peggiore.

==>SEGUE


Donne, m’avete fatto
Davvero un bel servizio!
Il mio ricordo a un tratto
Mandaste in precipizio.

Parmi d’esser balordo;
Parmi d’aver sognato;
Il mio dolce ricordo
Lo avete avvelenato. —

A chi non vuol malanni
Miglior cosa l’oblio...
Tornerò fra cent’anni,
Avrò scordato. Addio.
DIMMI...

Dimmi... (ahimè, come il suono
Di questo flauto m’accora!...)
Dimmi, ricordi tu ancora
I giorni che più non sono?

Quei giorni tanto lontani,
Quel giorni tanto vicini,
Quei giorni troppo divini
A poveri sensi umani?

I giorni (del breve errore
Non io, non io mi vergogno!)
I giorni del nostro sogno,
I giorni del nostro amore?

Ah, la tua sterile e brulla
E gelid’anima d’ombra
Sempre più fitta s’ingombra
E non ricorda più nulla!

Ah, l’amoroso passato
Via dal tuo cor, dal macigno
Di quel tuo core ferrigno,
Per sempre fu cancellato!

Ed ecco, sei morta. Invano
Fingi ed ostenti la vita;
La vita tu l’hai tradita;
Uccisa l’hai di tua mano.

Ed ecco, stesa e ravvolta
Nel ben tessuto lenzuolo;
Delle tue frodi non solo
Sei morta, ma sei sepolta.

Sepolta dentro lo scoglio,
Sepolta dentro l’avello,
Sepolta sotto il castello
Del tuo scelerato orgoglio.
SOGNANDO AD OCCHI APERTI

Per i colli deserti,
Ove l’ombra è più nera,
Vago da mane a sera,
Sognando ad occhi aperti.

E sognando rivedo
La cara età dell’oro...
Tu dicevi: T’adoro!
Io dicevo: Lo credo!

Ero a quel tempo antico
Un buon credente. Adesso
Credo appena a me stesso,
Se pur qualcosa io dico.

Ma, consuetamente,
Per non andare errato,
Economizzo il fiato,
E non dico nïente. —

Rivedo i tuoi grand’occhi,
Che mi facean di netto
Balzare il cor nel petto
E piegare i ginocchi.

E rivedo la fronte,
La fronte alabastrina,
Beatamente china
Sullo specchio d’un fonte.

E i morbidi capelli,
Sciolti in balia del vento,
O intrecciati ad un lento
Serto di fior novelli.

E la purpurea bocca,
La bocca rugiadosa,
Simile a fresca rosa,
A rosa ancor non tocca.

Ah, la bocca spergiura;
Che baciandomi rise.
Che ridendo promise
L’amor ch’eterno dura!

==>SEGUE



La bocca, anime pie,
La bocca che mi disse,
E la man che mi scrisse,
Tante dolci bugie!

WILDSEE10

Solitario, perduto
Tra queste selve oscure,
Come sei cupo e muto,
O picciol lago! Eppure,

Chi ti miri dal lembo
Della scabrosa riva
Sogna che nel tuo grembo
Alcuna cosa viva. —

Che fa laggiù, nel fondo,
La favolosa ondina,
Segregata dal mondo,
Nel freddo umor supina,

Sciolte nel freddo umore
Le chiome lunghe e spesse,
Ove uno scialbo fiore
A un’aliga s’intesse?

Che fa, nuda e silente,
In quell’immobil gelo
Che specchia eternamente
La selva, i greppi, il cielo?

Vigila? dorme? sogna?
Sogna, scordando l’ore,
La tenera menzogna
D’un suo lontano amore?

E nel candido seno,
Contro le mamme intatte,
Disobbedendo al freno
Il picciol cor le batte?
______________________________

10 Laghetto alpestre, a circa tre ore di cammino da Rippolsdau.

==>SEGUE


Le batte di gioconda
Voglia, o d’oscura tema,
Sì che nell’alto l’onda
Se ne commove e trema?

Sogna le blande sere
E la falcata luna,
O le nubi leggiere
Che un fiato sperde e aduna?

Sogna le aurore bionde,
Sogna l’albe novelle,
Sogna le notti fonde,
Polverate di stelle?

O coi grandi occhi aperti
Dal cupo, immota, spia
Se mai dei gorghi inerti
Io ceda alla malia;

Pronta, con lieto volto,
A tendermi la mano,
E a trarmi capovolto
Nel suo recesso arcano?

Dolce, sebben mortale,
Dev’essere l’amplesso
Del corpo verginale,
Offerto e non concesso!

Dolce nella lucente
Fluidità turchina
Dormir placidamente
Colla vezzosa ondina!

Là, dov’ogni eco tace
Del mondo afflitto e rio,
Chiedere a lei la pace,
Chiedere a lei l’oblio!
Forse? Non altro? Dio,
Che soliloquio vano,
Che guazzabuglio strano!...
Sogni, ricordi, oblio!...

Qual è il nome ch’io porto.
Là tra gli umani greggi?
Terra che mi sorreggi,
Son io vivo o son morto?

Ah, che silenzio atroce!
Ah, che funerea pace!
Tace ogni cosa; tace
La stremata mia voce.

MAL V’APPONETE

Perché son triste credete
Ch’io non sia buono a godere?
Figliuoli, mal v’apponete,
E vel potrei far vedere.

Io, che qual belva ferita,
Fra queste selve m’ascondo,
Ho assai goduto la vita,
Ho assai gioito del mondo.

Ho goduto in larga dose,
Anzi, direi, con eccesso,
Di tutte quante le cose,
E, in ispecie, di me stesso.

Molto ho goduto del sole,
Molto dei fiori e dell’erbe,
Delle idee, delle parole,
Dell’opre forti e superbe.

Molto ho goduto del vero,
Molto ho goduto del sogno,
E dell’ombra del mistero,
Ah, troppo più del bisogno.

Ma soprattutto (la gente
N’ebbe pur qualche sentore)
Eccellentissimamente
Ho goduto dell’amore.

==>SEGUE


Or c’è una legge che dice
(E via di scampo non offre):
L’uomo non sarà felice;
Quei che più gode più soffre.

Per questo io che non molto
M’ho a lamentar della sorte,
Ho l’aria d’un dissepolto,
E son triste, triste a morte.

UN APPLAUSO

Questo brav’uomo mi dice:
Perché se’ tu così tristo?
La vita, per quel che ho visto,
Non è poi tanto infelice.

Ed io gli batto le mani.
Quest’uomo pratico e sodo,
Che oggi parla in tal modo,
Piangerà forse domani.

ALLA CARA ANIMA

Anima mia, gentile
E cara anima mia,
Quando volerai via
Da questa bolgia vile;

Da questa bassa valle
Di lacrime e di liti,
Addove i più puliti
Luoghi sono le stalle;

Anima santa, dove,
Soletta, te n’andrai,
In cerca d’altri guai
E di trappole nuove?

E che farai, disciolta
Da questa brava spoglia,
Che, senz’averne voglia,
T’obbedì qualche volta?

E forse anche ti diede
Qualche onesto piacere,
Di quei che fan godere
Un mondo, chi ci crede?

Da questa spoglia opima,
Formata con tant’arte,
Che ciascuna sua parte
Pretende esser la prima,

E con l’altre s’azzuffa,
E vuol cacciarle in basso,
Mentre l’anima, ahi lasso!
Inutilmente sbuffa,

Suda, e tanto per dire,
Raccomanda l’accordo?
Ah, non v’è peggio sordo
Di chi non vuole udire. —

Lo so; non eri fatta
Pel mondo ove nascesti,
Pei consorzii indigesti
Della prode tua schiatta.

==>SEGUE
Non eri fatta, no,
Per la vana fatica,
Per la voglia mendica
Che vorrebbe e non può.

Sempre ti dieder noja
L’afa, la mezza altezza,
E quella gran tristezza
Che s’intitola gioja.

Sempre ti furon tedio
Il peso, la misura,
Il numero, la dura
Legge, il termine medio,

Le maledette regole,
I sillogismi rigidi,
Gli entusïasmi frigidi.
Le teorie pettegole.

Non eri fatta punto
Per reggere il fardello
Della natura e quello
Che l’uomo poi v’ha giunto.

Lo so: ma dove andrai?
Per quel che dire ho inteso,
Lo spazio è tanto esteso
Che non finisce mai.

Se tu sapessi almeno
Donde ci sei venuta,
O piuttosto caduta,
In questo pianterreno!

Potresti far ritorno
Alla prima tua patria,
Com’uno che rimpatria,
Stufo d’andare attorno:

E, ravveduto, dice,
Dopo più d’un confronto:
Che, che! non mette conto
Di cercar la fenice;



==>SEGUE
D’ire accattando a prova,
Lontano, più lontano,
Quel che si spera invano,
Quello che non si trova. —

Il luogo ov’uno è nato
È pur quello sovente
Dove più facilmente
Si può riprender fiato.

E giova alla salute
Di chi troppo si rose
Rivedere le cose
Da ragazzo vedute.

Ma il guajo è che non sai
(E in vano te ne attristi),
Né donde qua venisti,
Né dove poscia andrai.

E temo, per finale,
Che dovunque tu vada,
Abbia a trovarti, bada!
Male, male e poi male.

NIENTE TRISTE

Chi dice ch’io sono triste?
Non sono triste nïente:
Qualche volta solamente
Ne faccio un poco le viste,

Per burla o per iscommessa;
Ed anche perché m’annoja
Certa gente in salamoja,
Che ognor somiglia a sé stessa;

Certa gente frolla e diaccia,
Che tutti i dì, senza meno,
Sia nuvolo o pur sereno,
Ha sempre la stessa faccia.

Ah, questo raggio di sole
Come mi esilara il core!
A te sien grazie, Signore;
E crepi chi mal mi vuole.

==>SEGUE
Crepi, veh, se ha da crepare!
In caso diverso, viva
Tutta la stagione estiva,
E ancor di più, se gli pare.

Eh, vivere e lasciar vivere!
Questa è la legge che a tutti,
Brav’uomini e farabutti,
Bisognerebbe prescrivere.

Io non vo’ male a nessuno.
No, davvero! Abbraccerei
Tutti i dissimili miei,
Femine, e maschi, un per uno.

Le femine, soprattutto;
Perché ad abbracciar i maschi,
Comunque la cosa accaschi,
Non se ne leva costrutto.

Ma con le femine invece
È tutt’altra ventura;
Benedetta la Natura,
Che sì gustose le fece!

Ah, sì gustose e leggiadre
Le bambolone amorose,
Le sdegnosette golose,
Le compiacevoli ladre!

Chi fu quel pocodibuono
Che osò chiamarle un flagello?
Nulla quaggiù di più bello:
Nulla quaggiù di più buono.

Quei che con lingua impudica
Presume di dirne male
È un tanghero senza sale
Che non sa quel che si dica.

Saranno a volte un po’ matte,
Ed anche un po’ birichine;
Ma nel far vezzi e moine,
Che impareggiabili gatte!

==>SEGUE
Ond’è che per mia salute,
Quand’ero giovine topo,
E, se non erro, anche dopo
Mi sono molto piaciute.

Ed esse, buon pro lor faccia,
Mi furon sempre benigne...
Non dite che nulla strigne
Chi molto, anzi troppo, abbraccia. —

Di grazia, per qual cagione
Avrei da esser triste,
Se tutto quello ch’esiste
Ha la sua brava ragione?

La sua ragion buona e bella,
La quale fa che ogni cosa,
O vuoi piacente o nojosa,
Sia, non un’altra, ma quella.

Ed ogni cosa che passa,
Passa per fare del posto,
E quanto passa più tosto,
Più si ravvia la matassa.

E ogni cosa che finisce,
Finisce perché l’affare
Non può più oltre durare;
Chi è che non lo capisce?

Torre il mondo come viene
Tra una celia e uno sbadiglio;
È questo il miglior consiglio
Da dare a un uomo dabbene.

Starsene contenti al quia;
Sebbene un po’ facilona,
È questa la sola buona
E vera filosofia.

E lasciar certe pretese
Di mettere bocca in tutto,
Senza poi altro costrutto
Che di pagare le spese.

==>SEGUE


Io, vedete, son contento;
E venga che ha da venire,
Il diluvio, il diesire,
Io, per me, non mi sgomento.

Che cosa sarà domani?
Che cosa sarà stasera?
Si grattin gli altri la pera;
Io me ne lavo le mani.

E terminata la festa
Dirò, giacendo supino,
Sia ringraziato il destino,
E buona notte a chi resta. —

Datemi, anime care,
Fiori selvatici a josa,
E datemi pur qualcosa,
Qualcosina da mangiare.

Quello che capita: un pollo;
Quattro salsicce di rito;
Un porcellino arrostito...
Son così presto satollo!

(Quei porcellini arrostiti,
Come mi fanno patire!
Mangiandoli, parmi udire
I lor pietosi grugniti.

Subito allor mi ricordo
Di qualche nostro poeta
E per l’affanno e la piéta
Vorrei poter esser, sordo).

Ho un povero stomachino
Pur troppo!... Infine, sapete,
Datemi quel che volete;
Ma non mi date del vino.

No, proprio; non ne ho bisogno;
Anzi, s’ho a dir, mi rivolta;
Il vin! mi fece una volta
Sognare un gran brutto sogno.

==>SEGUE
Era (l’ho bene in memoria)
Era...; ma lasciamo stare;
Non c’è sugo a raccontare
Una così vecchia storia.

La storia è già molto vecchia,
E non potrebb’esser breve;
Lasciamo star; non si deve
Svegliare il can che sonnecchia. —

E non mi date la birra,
Che forse è peggio del mosto;
Datemi invece piuttosto...
Che so?... oro, incenso e mirra.

Molto più incenso che oro:
Molta più mirra che incenso;
Se non inganna il buon senso
È questa il miglior tesoro.

Quando di mirra sii unto,
Puoi riposare tranquillo:
Più non ti punge l’assillo
Che insino ad oggi t’ha punto. —

Un po’ di canto non nuoce;
Ma e’ vuol esser garbato;
Attenti a riprender fiato.
A moderare la voce.

Da giovane anch’io cantavo...
Le ragazze da accasare
Mi stavano ad ascoltare.
E mi dicevano: Bravo!

Avevo una voce piena
E dolce che andava al cuore:
Così dicean le signore
Che m’invitavano a cena.

Ah, la musica, figliuoli,
La musica è una gran cosa!
Purga, solleva, riposa,
Dissipa fisime e duoli.

==>SEGUE
Con quanta discrezione
Tra’ rami il zeffiro freme!
Cantate, cantate insieme
Qualche leggiadra canzone.

Non c’è bisogno d’osanna,
E di penna neppure;
Cantatemi, creature,
Una dolce ninna-nanna,

Che senza romper la testa,
Né intorbidare la mente,
M’aiuti bonariamente;
A fare un po’ di siesta;

O, diciamo, a fare il chilo,
Com’è dover cristïano
Di chi parlando toscano
Vuol rimanere sul filo.

Amo la musica antica;
Amo la musica nuova;
Ma nulla il piacer mi giova
S’ha da costarmi fatica.

Ditemi la canzonetta
Dell’anitrina briaca;
O quella della lumaca
Che s’ammalò per la fretta;

O l’altra del re somaro;
O quell’ancora del santo
Che disse al diavolo: Intanto,
Pigliati questa, mio caro.

Suvvia! con ordine! ammodo!
C’era una volta... ma e poi?...
Così! benissimo! voi
Cantate ed io me la godo.

Daccapo! C’era una volta...
Che cosa c’era, buon Dio?
Ho da cantarvelo io?
Nebbia ce n’era di molta.

==>SEGUE
E dalli! Sembra, Dio buono,
La favola dello stento;
Un altro po’ m’addormento.
Andiamo! daccapo! a tono!

Ecco! nïente paura!
Un po’ più forte, contralto!
Vi guarda il sole dall’alto,
Ed io batto la misura.

E tu, Ghituccia, t’accosta! ,
Non rimaner sempre in piedi;
E se ti pizzico, credi
Che non l’avrò fatto apposta.


IL RISO

Saper desideri quale
Sia la parvenza più trista
Che possa offrirsi alla vista
D’un navigato mortale?

Pensandoci su m’è avviso
(Tu mo’ la dirai pazzia)
Che quella parvenza sia
Sul volto dell’uomo il riso.

ALLA MIA OMBRA

O tu, che segni con rara
Costanza il dubbio mio passo,
Ombra del corpo mio lasso,
Quanto me stesso io t’ho cara.

Il che vuol dire che molto
In questo mondo birbone
T’ho cara; e ciò con ragione,
Non per un ticchio da stolto.

O non facciam forse il pajo?
Non siamo nati ad un parto,
All’ore nove ed un quarto
D’un bel mattin di gennajo?

Nella città di Minerva,
Ch’è la più degna rovina
Che sia nel mondo, e chi opina
Diversamente, si serva?

In quella nobile Atene
Che insegna, in verso ed in prosa,
A dire e fare ogni cosa,
Ed ogni cosa assai bene?

Oh, gli è già tempo parecchio!
Ma (sia notato di volo),
Contro le regole, io solo
Son diventato poi vecchio.

Siam nati insieme, ed insieme
Siamo a bell’agio cresciuti,
Come rampolli venuti
Su da un medesimo seme.

Ma tu, tu fosti poi sempre
Di me più lieve e più scura,
Di più flessibil natura,
Di più cedevoli tempre.

Ora di me ben più corta,
Ora più lunga d’assai,
Quando davanti mi fai,
Quando di dietro, la scorta.

==>SEGUE
SILENZIO

Dio, che silenzio! Intorno,
Sull’arïose alture,
Selve d’abeti, scure
Entro il fulgor del giorno.

E qua, dove la piaggia
Digradando s’allenta,
Cespi di folle menta
E d’erica selvaggia.

Passa la nube estiva
Che nel seren si perde,
E vela il muto verde
D’un’ombra fuggitiva...

Dio, che silenzio! Il core
Par che mi svenga in petto
Mentre, sedendo, aspetto
Ciò che non giunge, e l’ore

Dileguan lente. — Ascolta!...
Che orribil pace è questa?
Non un sospiro desta
La solitudin folta...

È imagin vera o sogno
Ciò che apparisce in giro?
Questo che scerno e miro
È quel di là che agogno?

Com’ogni cosa è lieve,
Com’ogni cosa è muta,
Presso e lontan, perduta
In questa cerchia breve!

Che m’avvenne? Da quando,
Perché son qua? Salvato
Da un’insidia? Cacciato
Da qualche ignoto bando?

Che m’occorse? M’occorse
Veramente qualcosa? —
Una silenzïosa
Voce risponde: Forse!...

==>SEGUE
In mille gangheri e scorci,
Nulla curando gl’intoppi.
Distesa o ritta, ti sgroppi,
Pieghi, aggomitoli, torci;

E passi oltre bel bello.
Ed esci sempre d’impaccio,
Laddove io, poveraccio,
Incespico in un fuscello. —

Tu sei un’ombra; ma io
Che teco vivo e ragiono,
Io che dïavolo sono?
Chiedilo a Domeneddio.

Certo non sono nïente,
Guardato da capo a piè,
Di assai diverso da te,
Di molto più consistente. —

Ah, che sarebbe se tu
Mancassi un tratto alla coppia?
La brava gente che scoppia
Di saggezza e di virtù,

E per un nulla s’adombra,
Griderebbe con isdegno:
Guardate quell’uomo indegno
Che non ha più la sua ombra.

Dev’essere un farabutto
Che non si fa coscïenza
Di nulla; un bindolo senza
Fede, capace di tutto.

Dàlli al cattivo soggetto
Che più non ha alle calcagna
La legittima compagna
A cui si deve rispetto. —

Ma tu, mia povera amica,
Tu, più fedele e costante,
Quasi direi, d’un’amante.
Tu non m’abbandoni mica.

==>SEGUE
Anzi con me, come vuole
Amore e fede, ognor resti...
O almeno così faresti,
Se ognora splendesse il sole.

Ma, s’ei tramonti, o si veli
Di nebbie o di nubi oscure,
Ahimè, tu quoque, tu pure
Pianti l’amico e ti celi.

PAROLA D’ARTISTA

Il bruto ci vive e tace,
E si contenta del mondo:
Ma l’uom si leva dal fondo,
E grida: No, non mi piace!

Il mondo stupido e reo,
Ove il destin mi gittò,
No, non mi piace, e perciò
Io un altro me ne creo.

Un altro molto diverso,
E più felice e più bello:
Io me lo creo col pennello
E con la nota e col verso.

Però che, tristo o giocondo.
Io da me stesso fo parte.
E perché il fine dell’arte
Si è di rifare il mondo.
LA FATA

Un idillio che a Mosco
Non venne in mente mai11:
Stamattina trovai
Una fata nel bosco.

Laggiù, tra valle e monte,
Ove, da un antro scuro,
Si sprigiona il più puro,
Il più gelido fonte.

Proprio una fata. Oh, come
Bella, fresca e pulita!
Vestita, oh Dio, vestita
Solo delle sue chiome.

Di quelle chiome d’oro
Che ai venti ell’abbandona,
E non voglion corona
Né d’oro nè d’alloro.

Sull’orlo era seduta
Della fonte gioconda;
Si specchiava nell’onda
E sorrideva muta;

Intanto che, nascoso
Tra ’l verde, un usignuolo
Gorgheggiava un a solo
Molto melodïoso.

Quando le fui vicino,
Si volse all’improvviso
E mi guardò nel viso
Con un atto divino.

D’esser nuda parea
Non sapesse nemmeno,
Così schietto e sereno
Il bel volto ridea.
____________________________

11 E neanche a Bione, e neanche a Teocrito.

==>SEGUE
Io rimasi perplesso,
Non sapendo che dire,
Da tema e da desire
Punto in un tempo stesso.

Alfine, in un abete
Gli occhi tenendo fissi,
Mia signora, le dissi,
Ho tanta, tanta sete.

Questi sommessi e piani
Detti le porsi, ed ella
Fe’ delle man giumella
(Oh, quelle bianche mani,

Così sottili e lievi!
Oh, coppa monda e rara!),
Colse dell’acqua chiara,
E poi mi disse: Bevi.

Ed io, riconoscente
Pel ben che mi profferse,
Da quelle mani terse
Bevvi golosamente.

E adesso che la rima
Mi ci fa ripensare,
Adesso, anime care,
Ho più sete di prima.






               ALL’OMBRE

               AI SILENZI

               ALL’ANIMA OCCULTA

               DELLA SELVA NERA.