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LE DANAIDI







LIBRO PRIMO

LE DANAIDI

Pallide, disperate, taciturne,
Vanno per l’ombra, tra la morta gente,
E reggon l’urne, faticosamente,
Con l’erte fronti e con le braccia eburne.

Giunte al doglio fatal, versan dall’urne
Capovolte la fredda onda lucente,
Maledicendo nella chiusa mente
Le inesorate deità notturne.

Romba nel doglio e in vorticose gare
Cresce l’onda e al vietato orlo s’appressa;
Poi scema e fugge e in un balen dispare.

E mai non cessa dall’equabil moto
Il tempo, e mai la vana opra non cessa,
E sempre il doglio frodolente è voto.

LE DANZANTI

Sul prato verde, cui di fosche e tinte
Ombre circonda il bosco alto e sonoro,
Traendo rami di lucente alloro
Danzano al sol le vergini succinte.

Danzano, e appena, volteggiando in coro,
Premon co’ molli piè l’erbe dipinte,
Nude le braccia, nudo il sen, discinte
E intrecciate di fior le chiome d’oro.

Dolce letizia dagli intatti seni
Trabocca e ride sulle rosee fronti,
Splende ne’ vagheggianti occhi sereni;

Mentre nel lume sacro, al largo spiro
Che dal mar sconfinato alita ai monti,
Canta la selva tenebrosa in giro.
LA CITTÀ DOV’IO NACQUI

[Dei cinque sonetti raccolti sotto questo titolo — avvertiva in una nota il Graf — il primo e il secondo si trovano già compresi nella 3a edizione di Medusa: «ma prendono qui il luogo che più ad essi conviene». Nella presente edizione, abbiamo preferito ripeterli, perché anche in Medusa appartengono ad una serie di sonetti, Dal libro dei ricordi (pagg. 214 e 217), da cui non era opportune strapparli].

I.
La città dov’io nacqui è in Orïente,
Tra un gran monte di marmo e la marina,
E mira di lontan, vasta, fulgente,
Spandersi dell’Egeo l’onda turchina.

Ebra d’aria e di sol, tacitamente
Sogna un’antica visïon divina,
E fra le rose, e fra gli ulivi sente
Fremer non morta la sua gran rovina.

La città dov’io nacqui ebbe più lieti.
Giorni, e invitta regnò sul mar profondo,
E di sé popolò remote arene;

E fu d’eroi, di saggi e di poeti
Madre feconda, e fu maestra al mondo:
La città dov’io nacqui ha nome Atene.

II.
Sorgea la dolce casa, ove il primiero
Vagito io diedi e apersi gli occhi al sole,
Del clivo al piè, sulla cui cima altero
Il Partenon drizza la sacra mole.

Avea presso un giardin, triste e severo,
Benché di rose pieno e di vïole,
E un gran cipresso, avviluppato e nero.
Aduggiava di fredda ombra le ajuole.

V'era, pien d’acqua, e di figure adorno,
Un sarcofago antico, alla cui sponda
Veniano a ber le rondini dal cielo.

Alto silenzio empieva l’aria intorno,
E nella pace estatica e profonda
Non si vedea crollar foglia né stelo.
III.
Placide veglie e di dolcezza piene,
Protratte al lume delle amiche stelle,
Oltre il costume sfavillanti e belle
Nel puro ciel che ti ricopre, Atene!...

Oh, dalle labbra di canute ancelle
Udir ricordi di gioje e di pene,
E ritornelli blandi e cantilene,
E d’orchi e di malie lunghe novelle!

E udir Demetrio, il vecchio montanaro,
Che ancor mostrava sulla fronte bruna
Profondo un solco d’ottoman cangiaro,

Narrar Lerna e Corinto e il fato atroce
Di Missolungi e, sulla mezza luna,
Vittorïosa la risorta croce!

IV.
O in dïafani cieli adamantini
Albe serene e radiose aurore;
O nell’orïental vasto nitore
Marmoree balze e culmini turchini;

Mar di vïola che nel ciel sconfini;
Mar sulle cui lucenti onde sonore
Saettan via le rondini in amore
E mansueti scherzano i delfini;

Valli d’ulivi e di cipressi ombrate,
Ov’io fanciul le tenere querele
Degli usignuoli innamorati appresi;

Care memorie, imagini beate,
Vi serberò nel cor puro e fedele
Fin ch’avrò vita e viver più mi pesi.


V.
Fioriva il mese tenero e giulivo
Ch’empie di canti le foreste ombrose,
E d’un ardore incognito e furtivo
Scalda il petto alle vergini ritrose.

Tutto di bianche e di vermiglie rose
Ridea nel lume mattinale il clivo,
A fresca neve sulle zolle erbose
Simili quelle, e queste a sangue vivo.

Era tutta una luce e una fragranza
L’aria e tra i densi allori una canora
Esultanza di zefiri errabondi.

Oh dolcissimo sogno! oh rimembranza!
Come, degli anni trïonfando, ancora
Di letizia e d’amore il cor m’inondi.


Arturo Graf - LE DANAIDI - Libro I
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
__________________
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885.

==>SEGUE
FONTE CLASSICO

Nel queto orror della silvestre scena,
Ove non fronda nel meriggio oscilla,
Con dolce suono ed inesausta vena
Il fonte dalla selce aspra zampilla.

D’alto un raggio di sol nella serena
Onda saetta e guizza e riscintilla,
E di perplessi folgorii balena
Tutto intorno la mite ombra tranquilla.

Balza l’onda sul greppo e il sonnolento
Aer flagella, e in lucide cascate
Fugge e s’avvolge pei recessi arcani.

E par che suoni ancor dolce lamento
D’occulte ninfe e nenie innamorate,
E riso arguto di spianti Pani.

PANATENAICA

Sul colle sacro, all’orïente sole,
L’invïolato Partenon s’accende,
E nell’azzurro signoreggia e splende
Candido e saldo in sua marmorea mole.

Oh visïone! al nobil tempio ascende
Un popolo che alterna inni e carole;
Spiccano i sacerdoti in bianche stole,
Splendono in armi le falangi orrende.

Sulla città, pel queto etra un divino
Spirito vola, e nell’immenso lume
Tutto palpita e ride il mar turchino.

Ed alto, vasto, irrefrenabil suona
Il plauso: Gloria al trïonfal tuo nume!
Gloria, Atene, a colei che t’incorona!

TEMPIO DISTRUTTO

Questa di magri citisi, di lente
Ginestre e d’orni screzïata altura
Sacra a un nume già fu, quando Natura
I voti udiva della umana gente.

Allora intorno al dittero nitente
Frondeggiando crescea la selva oscura,
E da quel greppo scaturia di pura
E tersa onda lustrale una sorgente.

E qui traeano al novo sole i cori
Delle danzanti la gioconda offerta
Di bianchi pani e d’odoranti fiori.

Squallido e sgombro giogo or la deserta
Luna contempla, e tra le balze e i fori
Le sacre pietre sparse giù per l’erta.
LA CITTÀ DEI TITANI

Sotto la piaga ove s’accende il giorno
Sorge in mezzo a una landa isterilita,
Tutta da monti asserragliata intorno,
Una città deserta e non finita.

Dacché dell’uom l’aspro lignaggio dura,
Non vider mai d’Asia o d’Egitto i soli
Più smisurate e più superbe moli
Rivaleggiar col tempo e la natura.

Palazzi son di prodigioso stile,
D’augusta pompa e di sottil lavoro,
A paragon di cui parrebbe vile
Qual reggia splende più di marmi e d’oro.

Son piramidi eccelse e propilei
D’erte colonne e di profondi varchi;
Son torri e logge, son teatri ed archi
Sculti di arcani emblemi e di trofei.

Da ogni parte ponderoso ed aspro
S’erge il granito, colorata ride
Copia di marmi, sfolgora il dïaspro,
Vittorïoso il porfido s’asside.

E in infiniti modi, in ogni parte,
Nell’opra ingente e nel maggior disegno,
A sovrumana possa, a divo ingegno
Appar congiunta inimitabil arte.

Ma tra le moli erette al ciel, di cui
Sublime e densa è la città, non tempio
Sorge, non sorge altar, che porga altrui
Di devoto e servile animo esempio.

E fra le incise pietre e i simulacri,
Onde s’avviva la città deserta,
Di nume effigie non appar, che offerta
O prece chiegga e servitù consacri.

Le invitte mura, cui né sol né gelo
Offender può, sono immortal fatica
Di quei titani ch’ebber padre il Cielo
E uscîr dal grembo della Terra antica.

==>SEGUE

Ei lasciâr l’opra, a più solenni prove
Accinti e stretti, allor che, pieni il core
Dell’odio antico e di novo furore,
Mossero guerra al saettante Giove.

Furon vinti; ma ancor treman le invase
Sfere e dei numi la fulgente stanza;
E ad attestar l’orba città rimase
L’alto senno dei vinti e la possanza.—

Eran già molti secoli passati
Da quella gran vittoria degli dei,
Quando un errante popol di pigmei
Giunse a caso in quei luoghi abbandonati.

Un popol dico di pigmei, né buoni
Né cattivi, e non brutti e nemmen belli;
Sì bene un po’ bugiardi, un po’ ghiottoni,
Superbiosetti molto e saputelli.

Ei tutto un dì, con baldanzoso ciglio,
Andâr squadrando quelle antiche mura,
Poi tutti s’adunâr sopra un’altura,
E bravamente tennero consiglio.

E parlarono a lungo, e da dottori,
D’arte, di gloria, di virtù, d’eroi;
E finalmente dissero: Signori,
Questa città la finiremo noi.

E si poser co’ piedi e con le mani
A lavorar, da senno, e non per fola;
Ma non ci fu mai verso che una sola
Pietra all’opra aggiungesser dei titani.

Di nuovo allor s’accolsero a un supremo
Congresso, e gonfii d’ira, con feroce
Animo urlaron tutti ad una voce:
Questa città noi la distruggeremo.

E sudarono assai, però che al suolo
Di spianarla intendeano ad ogni costo;
Ma non ci fu verso giammai che un solo
Di quei massi movessero dal posto.

Stanchi alfine, e di noja e maltalento
Pieni, sbrattaron dal paese i nani;
E aspetta la città che i suoi titani
Tornino a darle vita e compimento.
IL TITANO SEPOLTO

Tale del bieco iddio sonò la cruda
Sentenza: Empio titan, sotto l’incarco
Tu languirai del monte, infin che un varco
All’aurea luce, di tua man, ti schiuda. —

Tonò dall’alto il nume e le parole
Avvelenò d’amaro scherno. Tacque
Fremendo il vinto, e sotto l’alta mole
Curvato sì, ma non prosteso, giacque.

Giacque sepolto nell’orrende, cupe,
Infernali latèbre, avvolto e stretto
Ai fianchi, al dorso, alla cervice, al petto,
Fin sopra il cor, dalla ferrigna rupe.

Ma quel cor non tremò, né l’ima ambascia
Spremer poté da quelle labbra un guajo.
Nella man destra egli stringeva un’ascia,
Una grand’ascia d’incorrotto acciajo.

E dal carco mortal quella immortale
Man gravata non era. Ei con un ghigno
Muto, con una forza equa e fatale,
A ferir cominciò l’aspro macigno.

Di qua, di là, di su, di giù l’invitta
Scure a guisa di folgore feriva:
Ad ogni colpo la rupe sconfitta
Stridea, volava in ischegge, s’apriva.

E notte e dì mai non cessava l’opra,
E cupamente ne muggiva il tuono
Giù nel profondo: il dio, nel ciel di sopra,
Sedea quïeto e glorïoso in trono.

Siccome il tarlo roditor pel duro
Legno si trae con sinuose impronte,
Similmente il titan, lento e sicuro,
Per le tenaci viscere del monte.

E sulla terra maledetta a volo
Passan l’età, come le incalza il fato:
In cielo il dio vittorioso e solo
S’è del vinto titan dimenticato.

==>SEGUE
Ma un dì con formidabile ruina
Si squarcia il fianco dell’eccelsa mole,
E roteando l’ascia adamantina
Il risorto titan s’affaccia al sole.

Biondi i campi di spiche ei mira e denso
D’arbori il giogo e il mar senza alcun velo,
E con un grido di letizia immenso
Sveglia la terra e fa tremare il cielo.

L’ULTIMO VIAGGIO DI ULISSE

Di un viaggio oceanico di Ulisse fanno variamente ricordo Plinio, Solino, Claudiano. È a tutti noto il meraviglioso racconto di Dante, Inf. XXVI, intorno al quale v. Scueck, Dante’s classische Studien, nei Neue Jahrbücher für Philologie, vol. XCII, e Moore, Studies in Dante, serie 3a, Oxford, 1903, pp. 118-9. Si discusse circa il sentimento di Dante in narrare il folle volo e farne giudizio. V. Finali, Cristoforo Colombo e il viaggio di Ulisse nel poema di Dante, Collezione di opuscoli danteschi inediti o rari, N. 23, Città di Castello, 1895. In un breve componimento intitolato Ulysses, il Tennison fa che l’eroe si lagni della inerte sua vita ed esprima il proposito d’imprendere nuovo viaggio, avventurandosi nell’estremo occidente. Un Ultimo Viaggio di Ulisse inserì il Pascoli nei Poemi conviviali, Bologna, 1904.

I.
Già quattr’anni passâr dappoi che Ulisse
In Itaca tornò. Quattr’anni ei visse
In compagnia della fedel consorte
E del caro figliuol: grato alla sorte
Che dall’ira de’ venti e del vorace
Mar scampato l’avea; godendo in pace
De’ sudati riposi e del sonoro
Applauso della Fama, e in coppe d’oro
Bevendo il vin de’ floridi vigneti
Che dal padre eredò. Spesso co’ lieti
Compagni antichi delle sue fortune,
Sedendo a mensa, o al foco, ei la comune

==>SEGUE
Vita di riandar si dilettava
Col pensier vigilante: e memorava
D’Ilio le pugne, e dell’invitto Achille
Il magnanimo sdegno, e di ben mille
Eroi le gesta invidïate e chiare;
E memorava dell’incerto mare
I portenti e i perigli, e il covo atroce
Di Polifemo, e la bugiarda voce
Delle vaghe sirene, e a parte a parte,
Di Calipso e di Circe i vezzi e l’arte.
Note cose ei narrava, e già da molti
E molt’anni trascorse; eppur con volti
Pallidi d’ansia, e con immote ciglia,
Come fanciulli a cui di meraviglia
Nova sieno cagion le antiche fole,
Bevevan l’onda delle sue parole
Quei prodi: e in cotal guisa a lui d’intorno
Spesso li colse, rinascendo, il giorno.

Ma tranquilli, uniformi, in pace e in gioco
Passâr altri quattr’anni: e a poco a poco
D’Ulisse il labbro ammutolì, l’arguto
Riso, onde gli atrii già sonâr, fu muto,
E una torbida nube il guardo acceso,
L’ampia fronte oscurò. Non già che il peso
Ei dell’età sentisse, o di celato
Morbo l’insidia, o di nemico fato
L’ira funesta paventasse e i danni.
Non così salde mai come in quegli anni
Le membra egli ebbe, né sì pronto e forte
Mai l’intelletto, né fu mai la sorte
Alle sue case più benigna e al regno;
Ma sottil come tossico un disdegno
Di sé stesse e d’altrui lento serpeva
Nelle vene d’Ulisse; e qual si leva
Da ree paludi accidïosa e tetra
Nebbia che infosca il sole, occupa l’etra,
Tale in Ulisse si levava il tedio
E al cor poneagli ed alla mente assedio.

Spesso, quando stridea più crudo il verno,
E i dì volgean più torbi, egli al paterno
Pio focolare, ove di quercia o d’olmo
Annoso tronco inceneria, nel colmo

==>SEGUE
Della notte, sedea tacito e solo,
Guatando come trasognato il volo
Delle fulve scintille in fosca avvolte
E densa onda di fumo. Oh, quante volte,
Fuggendo ogni uom, veduto fu, nell’ora
Che il giorno manca, e il ciel si trascolora,
Mirar dal ciglio di scoscesa rupe
L’arroventato sol che nelle cupe
Voragini del mar lento scendea!
O fantasma d’incognita galea
Fremebondo spiar, là, dell’acceso
Orizzonte sul curvo orlo sospeso!
Ovver d’uccelli peregrini un denso
Stuolo, di là dal mar, per l’etra immenso,
A recondite plaghe alto volanti!
E il cor nel petto gli bolliva! Oh quanti
Vide egli pur de’ suoi compagni, in quello
Stesso modo, inquïeti, e di rovello
Tacito pieni, errar lungo le sponde
Cui sempre sferza il vento e batton l’onde!
E l’un l’altro squadrava e negli strutti
Volti un solo pensier leggeasi a tutti.

Volse così lunga stagion, per sino
A un dì che l’immutabile destino
A novi casi, a novo error non vile
Prefisso avea. Già l’amoroso aprile
Discingeva alle rose il sen vermiglio,
Quando un mattino di Laerte il figlio,
Levato innanzi al sol, fece da un messo
I soci suoi richiedere a consesso
In cima a un colle che l’aperto grembo
Scopre del mar, sino all’estremo lembo
Dell’orïente. Ivi di lucid’oro
Cinta la fronte augusta, in mezzo a loro
Egli apparì, tale nel maschio volto,
Tal nel nobile incesso, e nel raccolto
Vigor marmoreo delle membra, quale
Apparir già solea nel marzïale
Cimento, là sui verdi campi dove
Fu Troja un dì. Ivi, com’uom di nuove
Speranze lieto e di giocondi auspici,
Ridente apparve e salutò gli amici:

==>SEGUE
Fatto poi dispensar nelle forbite
Patere il sangue dell’ambrosia vite,
A ber seco invitolli, ed egli primo
Bevve, adorando il sol, che fuor dell’imo
Gorgo spuntava a sfolgorare il mondo.
Alfin, simile a un nume, e tra profondo
Silenzio, a favellar prese in tal forma.
«Compagni, amici! o voi cui sola norma
Fu sempre e fu solo desio la gloria;
Avventurosi eroi, la cui memoria
Non perirà, se fra l’umana gente
Ogni nobile orgoglio, ogni fervente
Spirto, ogni pregio di valor non pera;
Le mie parole udite. Ad uom di vera
Virtù precinto e per gran fatti egregio
È pena l’ozio, onta la pace, sfregio
La securtà. Qual è di voi che questa
Vita all’antica, e le passate gesta
Col presente torpor paragonando,
Dite, qual è di voi sì miserando,
Che da vergogna e da rimorso il core
Addentar non si senta? Oh, tristo errore!
O, gran viltà! Noi che di Troja l’are
Vertemmo al suol; noi che per tanto mare
Gimmo raminghi, d’inauditi mali,
D’intentate fatiche e di mortali
Perigli esperti, ora noi gli anni in pigra
Quiete logoriam, che ne denigra
Agli stessi occhi nostri e ne fa vili.
Che più? se in tutto non si fêr servili
Gli animi vostri; se oblïato in tutto
Il nome vostro non avete, e il frutto
Di vostr’opere antiche, or m’ascoltate.
Già stringe il tempo, già ne son contate
L’ore. Deh, non lasciam che in tanto oblio
Pur di noi stessi, in così basso e rio
Stato ne colga l’aborrita morte.
Anzi l’ultimo sol, di noi, del forte
Nostro lignaggio rifacciamci degni.
Rompiam gl’indugi; i frivoli ritegni
Rimoviamo oramai. Tentar ne giovi
Anche una volta il dubbio caso, e novi
Mari solcar, premere ignote arene,
Cercar genti remote; al male e al bene
Parati a un modo; alla comun salute
Devoti sempre; e di non più vedute

==>SEGUE
Meraviglie i beati occhi pascendo.
Non io per vano imaginar m’accendo.
Di là dai segni ond’ha il confin prescritto
Agli umani ardimenti Ercole invitto,
Di là da Calpe si distende un mare
Ignoto, il quale altro confin non pare
Aver che il cielo; il cupo mar di Crono,
Che ribollendo e sibilando il prono
E focoso tranghiotte orbe del sole.
Chi potria rinarrar con le parole
Tutti i prodigi onde quel mare è pieno?
Molte quivi sbocciar dal vitreo seno,
Il qual fondo non ha, si veggon, pari
A canestre di fior nitidi e rari,
O a lucenti smeraldi, isole ascose
Dove sedi beate, e avventurose
Genti; incognito il mal, dell’aspro inverno
Sconosciuti i rigori, e sempiterno
Della feconda primavera il riso.
Potrieno queste al decantato Eliso
Togliere il vanto. Altre ne son cui d’ombra
Un perpetuo vel fascia ed ingombra;
Né mai potria le favolose rive
Prora alcuna toccar; né se di vive
Genti o di larve sieno stanza è dato
Sapere ad uom che di mortal sia nato;
Salvo che spesso su per l’onde i venti
Ne portan grida e lugubri lamenti.
Altre di saldo e cristallino gelo
Irte e rigide sempre; altre che al cielo
Da’ cavernosi baratri muggendo
Sbuffano acherontee vampe d’orrendo
Foco e procelle di nigrante fumo.
Soci, non io tutto ridir presumo
Ciò che in Egitto da vetusti savi
Narrare un tempo udii, cui son degli avi
Note le storie tenebrose, e noti
Quali più strani lidi e più remoti
L’orbe in grembo raccoglie, e di natura
Ogni occulta possanza, ogni fattura.
Ma questo ancor vo’ che sappiate, e sia
Pegno del ver l’asseveranza mia.
Nave che, posto ogni timore in bando,
Per quel mar lunghi dì gisse volando
Dietro al corso del sol, vedria dal fondo
Sorger dell’acque alfine un altro mondo,

==>SEGUE
Assai maggior di questo nostro, e dove
Sono incogniti regni e genti nuove,
E d’inaudite cose e peregrine
Indicibil dovizia. Or ecco al fine
Giunto son io di mie parole. Amici;
Per quell’ignoto mare alle felici
Plaghe io voglio migrar. Se alcun di voi,
Che del nome superbi ite d’eroi,
Voglia meco tentar l’impresa audace,
Caro l’avrò; ma se desio di pace
Abbarbicati come piante al suolo
Vi tenga, sia col vostro danno: io solo
Novo cammino tenterò di gloria:
Mia l’audacia sarà, mia la vittoria».

Ei tacque a tanto, e dagli ansanti petti
Dei compagni, che insiem raccolti e stretti
Ascoltato l’aveano, alto un clamore
Proruppe allor, che il monte e le sonore
Sponde empié di rimbombo e sui veloci
Flutti corse a dilungo: ed eran voci
Di baldanza e d’applauso, eran frementi
Grida di gioja e fervorosi accenti
D’amor devoto e d’incrollabil fede.
«Padre! Duce! Maestro! Il sol non vede
Uomo che in senno ed in valor t’agguagli.
Tu ne guida e ne reggi. A repentagli
Nuovi le vite de’ tuoi fidi esponi.
Tutti, tutti con te. Da questi proni
Ozii oblïosi e da sì vile stato
Tu ne redimi alfin. Comunque il fato
Sia per volgersi, o ’l ciel, sino all’estremo
Nostro dì sarem tuoi, teco saremo.»
E stringeansi le destre, e in caldi abbracci
Si stringevano i petti, e in nuovi lacci
Di fraterna amistà l’anime invitte.

II.
Né dubbiezze, né indugi. Alle prescritte
Opre vola ciascun. Spandesi il grido;
Dell’alta impresa, e sul lunato lido
Ferve e suona il lavor. Ecco di bruni
E di candidi lini, ecco di funi
Intricata congerie: antenne e travi,
Assi e panconi alla rinfusa. Gravi
L’ancore adunche affondan nella molle

==>SEGUE
Sabbia. All’intorno splendon fochi. Bolle
La negra pece nei caldari: e intanto
Alto e festoso va per l’aria il canto
Augurïoso de’ compagni. Ed ecco
Traggon co’ cigolanti argani in secco
Le antiche prue che alle fatali sponde
Approdâr della Troade, e corser l’onde
D’ignoti mari. Quanto il giorno dura
Van ristoppando con industre cura
I fianchi cui la salda onda corrose,
E gli spalman di pece. A generose
Gare incita l’un l’altro, e i giorni in queste
Opre consuman lieti. Invan le meste
Donne traendo i pargoli per mano,
Empiono l’aria di querele; in vano
Percotendosi il sen, sciolti i capelli,
Implorano pietà. Non odon quelli;
Non interrompon lor fatiche; e in coro
Van noverando i giorni e affrettan l’ore.

Alfin, quanto chiedeasi al gran vïaggio
Tutto fu pronto. Declinava il maggio.
Il dì ch’estremo al rimaner prescrisse,
Alla piangente sua consorte Ulisse
In tal forma parlò: «Sposa, sorella,
Cessa dal pianto desolato, e quella
Sii che fosti mai sempre, e or più conviensi,
D’alto cor donna e di virili sensi.
Me chiama il fato a nuove audacie. Ancora
Piena del nome mio tu la sonora
Tromba udrai della Fama: ancor superba
Sarai tu d’esser mia. Tale ti serba
Qual fosti. Addio! Teco rimane il caro
Nostro figliuolo. Or dunque addio! Se amaro
Spunta nel ciel della partita il giorno,
Dolce più spunterà quel del ritorno.»
Poscia, tratto Telemaco in disparte,
Che per girne col padre aveva ogni arte
Usata invan, parlò pensoso: «O figlio,
In cui pari al valor splende il consiglio,
Tu venirne con me né puoi né devi.
A ciascun propria sorte, e ai giorni brevi
Del viver nostro fatal legge è scritta.
Tu qui rimani e della madre afflitta
Gli stanchi passi e l’animo sorreggi.
Tu qui rimani, e delle antiche leggi

==>SEGUE

Fido custode, finché duri il mio
Pellegrinaggio, con accorto e pio
Rigor fa’ sì che il popol t’ami e tema.
Ecco lo scettro e l’aureo diadema.
S’io torno, entrambe queste sacre insegne
Mi renderai. S’io più non torno, degne
Di me le serba, e con giustizia e pace
Regna molt’anni, se ai celesti piace.»

L’alba spuntò del novo dì. Sereno
Il cielo apparve ed il ceruleo seno
Del mar tutto ridea. Fresca una bava
Di vento le lucenti onde increspava,
E mormorar nel gracile contrasto
De’ canapi s’udiva. E già sul vasto
Lido, e del monte in sui petrosi sporti,
Dei partenti la turba e dei consorti
Fremeva e il popol tutto. Ultimo giunse
Con Telemaco Ulisse, il qual consunse
Vigilando la notte, e in dar gli estremi
Moniti al figlio, dei reali emblemi
Fatto e del regno già custode. Emerse
Il sol frattanto e sfolgorò le terse
Onde rotanti e di corrusca luce
Irradïò lo spazio. Allora il duce
Da patera libò di lucid’oro
Purpureo vino, e d’un mugghiante toro
Fece olocausto a Poseidone, e tutti;
Dell’alto cielo e dei profondi flutti
I santi numi orò. Poscia iterati
Gli abbracciamenti, i moniti, i commiati,
Alle trombe accennò, che di squillanti
Note empierono l’aria, e ai naviganti,
Cui già troppo incresceva ogni ritegno,
Dettero alfin della partenza il segno.
Eran essi dugento, ed eran sette
Le negre navi al gran cimento elette.
Vi saliron gli eroi. Furono a stento
Levate le pesanti ancore; il vento
Gonfiò le vele, e il temerario stuolo
Pronto spiegò verso occidente il volo.



==>SEGUE
III.
Or sen vanno i compagni alla ventura,
Nel chiaro giorno, nella notte oscura,
Combattendo coi venti e coi marosi.
Passan fuggendo innanzi ai rovinosi
Dirupi ove i ciclopi hanno lor nido,
E fra gli scogli, di lontan, sul lido,
Veggono fiammeggiar l’arse fucine.
Sempre quivi la spiaggia e le vicine
Balze del monte, avviluppate sono
Di tetro fumo, e sempre mugghia il tuono
Delle sonore incudini percosse
Dai grevi magli, e stridono le rosse
Tempre del ferro in gelid’onda immerse.
Ei passan via, tutte al fuggir converso
Le prue, che il vento van tagliando a sghembo.
E dopo alquanti dì veggon dal grembo
Dell’oceano fiorir le sovrumane
Di Calipso e di Circe isole arcane,
Pari sull’acque a due natanti cigni,
Dense di tenebrose arbori, insigni
D’aurei tetti, in lucida quïete
Divinamente tacite e secrete.
Trascorron oltre, e van radendo il passo
Ove, acquattate nel ferrigno sasso,
Latran Scilla e Cariddi. All’orizzonte
Fra le nuvole appar lo scabro monte
Che folgorando e rintonando il cielo
Empie di pigro fumo e al sol fa velo,
E nel notturno tenebror d’orrende
Funeree vampe alto rosseggia e splende.
Piegano verso mezzogiorno il corso,
Come il vento li caccia; e volto il dorso
Al periglioso mar delle sirene,
Corrono lungo le infeconde arene
Dell’arsa Libia; indi, scampati agl’irti
Scogli di Sidra e alle malvage Sirti,
Solcan felicemente a tutto spiano
Il numidico mare e il mauritano,
E alfin son giunti alla famosa stretta
Di Gade, ove il pugnace Ercole in vetta
A due colli drizzò contro l’insonne,
Sterminato oceàn l’erte colonne.

==>SEGUE
Quivi posâr l’intero giorno, orando
Propizii i numi al gran cimento, e quando
Fu nuovo dì, tutte in un punto solo
Sciolser le vele all’inaudito volo.

Vider poc’oltre, a manca man, fra morti
Macigni e nude, orride sabbie, gli orti
Delle gelose Esperidi, beati
D’ogni delizia, a ciascun uom vietati;
E l’arbore fatal cui l’auree poma
Gravan di sacra e prezïosa soma,
E in mezzo ai fiori onde il terreno è vago
Veglia, strisciando, il tortuoso drago.
Quello l’estremo suol fu che gli eroi
A tergo si lasciâr: da indi in poi,
Sfidando i venti incerti e l’onde amare,
Non vider più se non il cielo e il mare.

Lunghi giorni passâr. Vedeano il sole,
Rutila, immane, mostruosa mole
Di foco, fra le nuvole errabonde,
Sorger dall’onde, traboccar nell’onde.
Spiatrice vedean di lor fortuna,
Ne’ vasti cieli sfavillar la luna,
Crescere, sminuir, poi la fatica
Ricominciar di sua vicenda antica.
Vedean da un lato declinar le stelle
Che fan corona al polo, e di novelle
Candide luci, a tutte genti ignote,
Ingemmarsi del ciel l’ultime rote.
Veleggiando n’andavano le sette
Navi così pel mar profondo, e rette
Dal volere d’Ulisse e dai consigli
Correan fidenti a incogniti perigli.

Uccello più non si vedea le immense
Plaghe varcar, ma lievi solo o dense
Nubi fuggir per l’alto, ovver l’estreme
Onde lambir, sciorsi, raccorsi insieme,
Come de’ venti le traea lo spiro.
E sempre il mar si dilatava in giro
Sino al ciel: solitudine infinita,
Misterïosa, eterna, onde ogni vita
Parea rimossa, se non che, tra’ scissi

==>SEGUE
Flutti; talor, da’ paventosi abissi
Ignoto mostro scaturia repente,
Balenava, spariva. E già la mente
Di tutti e il core una inquïeta cura
Giva occupando, una secreta e scura
Apprensïone di quel mondo ascoso,
Di quel tacito andar senza riposo
E senza fine. Dalle aguzze prore
Fissi gli occhi tenean lunghe e lungh’ore
Nell’arcano ponente: e oh quante volte
In un ammasso d’avvallate e folte.
Nubi lor parve di scoprir la nova
Terra agognata, e giubilando, a prova
Alte grida levâr! poi, conosciuto
L’error, d’un tratto ciaschedun fu muto,
E alla patria lontana e al caro tetto
Pensando, sospirò dall’imo petto.

Avvenne allor che d’improvviso un giorno
Tutti tacquero i venti, e intorno intorno,
Quanto l’occhio scorrea, tutto dell’acque
Si ripianò lo specchio e immobil giacque.
Lo scialbo ciel parea piovesse foco
E impallidiva il sol. Nell’aer fioco
Lente pendean le inerti vele, e avanti
Alle pendule prue, nelle stagnanti
Acque, non bolla si vedea, non lieve
Gorgo che moto rivelasse. Greve,
Sonnolenta, mortal calma affogava
Il cielo e il mare. E dopo un dì passava
Un altro dì, né che l’orribil mora
Cessar dovesse apparia segno. Allora
Una torbida angoscia, una crudele
Ansia gli animi strinse, e le querele
Alto sonâr. Dall’una all’altra nave
Sen giva Ulisse, e col parlar soave
Raccendea le speranze, e di coraggio
Era esempio a ciascuno, e del vïaggio
Prossimo e certo prometteva il fine.
E passato alcun dì, sulle supine
Onde un mattino agile corse un fiato
Di vento, e imbaldanzì, finché con grato
Impeto tutte empié le vele. I neri

==>SEGUE
Scafi ondulâr, balzarono, e leggieri,
Solcando l’acque di spumosa scia,
Corser di nuovo la deserta via.

Nasceva il sol, moriva il sol; scemava,
Ricresceva la luna; e per la cava
Etra fuggian le nubi; e la procella
Succedeva alla calma, e questa a quella:
E sempre, sempre le stess’onde amare,
Quel voto, cupo, sterminato mare,
E già tre navi dal corroso fianco
Facevan acqua; e già venivan manco
Le vettovaglie, e ogni opra ed ogn’ingegno
Alla fame cedea; quando alcun segno
Apparve a un tratto di vicino suolo.
E fu dapprima un numeroso stuolo
D’augei che, forse di lor patria in bando,
Per l’altissimo ciel givan volando.
E fu, poco più tardi, in mezzo all’onde,
Un ramo, tutto di sue verdi fronde
Anco vestito, e che d’ignoto aroma
Fresche traeva e delicate poma.
Tutte nel cor dei naviganti allora
Rifiorîr le speranze; e volto ancora
Un altro dì, come, serena e scialba,
Si diffondea per l’oriente l’alba,
Essi, fra mare e ciel, vidersi a fronte
Sorgere un fosco e dirupato monte
Che tra le nubi nascondea la cima.
Oh vista! oh gioja non sognata in prima!
Oh come allora alto sonò d’Ulisse
L’applaudito nome, e benedisse
L’ora ciascun che nelle sue parole
S’era fidato! Scintillante il sole
Dall’onde si levò: prospero il vento
Facea volar le pinte prore, e lento
Parea l’andare a paragon del voto.

Ma d’improvviso, ecco si stanca il moto,
Fluttua, manca. Attonita quïete
Incombe intorno, e viscide, concrete,
S’adeguan l’onde. Ed ecco, dall’estremo
Orlo dell’occidente, ove lo scemo
Arco s’indugia della luna, spunta

==>SEGUE


Una torbida nube, e la consunta
Luce divora, e già da tutte bande
Tumida, enorme, si solleva e spande.
Allividisce il sol nello squallente
Cupreo cielo, e repentinamente
Sull’onde morte rovinoso balza
Di venti un groppo. Il sol si spegne. Incalza
Infurïando il turbine. Squarciato
Insorge il mar rugghiando, e d’ogni lato,
Bianchi di bava, a mostruosi agoni
Corron confusamente i cavalloni.
Rota e si torce tenebrosa in cielo
La nube, e scissa da focoso telo,
Stride, rintrona, e il mar bevendo, mesce
A quei del mare i proprii gorghi. Cresce
Il tumulto, il fragore e la ruina.
Invan le navi alla mortal rapina
Tentan fuggir. Manca ogn’ingegno, è franta
Ogni virtù. Strappa le vele, schianta
Gli alberi il turbo, e con orrendo spiro
Trae le carene in vorticoso giro.
Ed ecco, sotto a lor, nell’onde crude
Una immensa voragine si schiude,
E roteando e spumeggiando inghiotte
Carene e vite nella eterna notte.


A
MIA MOGLIE

Cara Sofia,
I versi che qui ti offro raccolti nacquero, per molta parte, all’ombra di quelle piante che tu prediligi, in mezzo a quel fiori che tu con tanta sollecitudine educhi, su quel terrazzo che tu ideasti, e d’onde tante volte contemplammo insieme la ubertosa pianura che gli si stende di sotto al sole cadente dietro gli alti gioghi dell’Alpi. Io te li dono e consacro; con quale animo tu lo sai. Né penso che il dono t’abbia a parere, qual è veramente, troppo manchevole e tenue, perché là dove io dovrei temere per esso la consueta acutezza del tuo giudizio, quivi appunto mi rassicura la costante generosità del tuo affetto.
Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».
Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza», Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.