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POEMETTI DRAMMATICI

parte II



LA DANNAZIONE
DI DON GIOVANNI

SCENA PRIMA.

Burrato infernale, tetro e precipitoso, poco lungi dal fiume Acheronte. Giungono di gran galoppo, su due cavalli neri e fumanti, Don Giovanni e un demonio; si fermano in cima a una ripa e smontano. Don Giovanni, vivo e sano, nel fior dell’età, è riccamente vestito da cavaliere, tocco piumato, giustacuore di velluto, cappa di seta, lunga spada al fianco.

DON GIOVANNI
In fede mia, signor demonio, è questa
La prima volta che un caval mi vince
In tal guisa la mano e mi trascina
Dove andar non vorrei.
(Dando un’occhiata in giro):
Tristo paese!
Dove siamo?

IL DEMONIO
All’inferno.

DON GIOVANNI
(distrattamente).
Il nome intesi: —
Mai non vi fui.

IL DEMONIO
Vel credo. Or ci starete
A vostr’agio, in eterno.

DON GIOVANNI
Anima e corpo

IL DEMONIO
Anima e corpo.

DON GIOVANNI
Bene. Il corpo mio
Molto, per certe mie ragioni, ho caro,
E non saprei farne di meno.

==>SEGUE


IL DEMONIO
Mai
Qua non invecchierete.

DON GIOVANNI
Anche di questo
Ho piacer. Quello stupido invecchiare
L’un giorno dopo l’altro; quel mutarsi
Dentro e di fuor; quel perdere le forze...
Brutto affar! — Solamente un po’ di noia
Dammi l’eternità. —
(Quasi fra sé):
Dev’esser lunga
L’eternità.

IL DEMONIO
Non vel so dire: intera
Esperïenza non ne feci.

DON GIOVANNI
(alquanto sopra pensiero).
Eppure
Nel tempo senza fin possono molti
Nuovi casi avvenir... Chi sa?...

IL DEMONIO
Qua morta
È la speranza.

DON GIOVANNI
(risentito).
La speranza muore
Dopo morto il desio. — Ma non parliamo
Di tali cose. — Mi rincresce solo
Di Camilla...

IL DEMONIO
Di lei?

DON GIOVANNI
(con fuoco).
La più leggiadra,
Dolce, gioconda, aggrazïata, ardente
Italïana cui vedesse mai
L’occhio del sol! Non potevate un poco
==>SEGUE


Pazïentar? Ell’era già sul punto
Di cedere.

IL DEMONIO
Lo so; ma che volete?
Gli ordini ricevuti eran precisi:
Bisognava obbedire.

DON GIOVANNI
E sia. Del resto
Io non posso di voi fuorché lodarmi.
Buon compagno mi foste in così nuova
Cavalcata e cortese è il vostro tratto.
Siete voi cavalier?

IL DEMONIO
Certo, e, di giunta,
In due corti allevato. Ora vi devo
Lasciar. Questa è la via che mena al passo
Dell’Acheronte. Andate pur diritto:
Non potete sbagliar.

DON GIOVANNI
Va bene: grazie,
Signor demonio.

IL DEMONIO
Servo.

DON GIOVANNI
(sbadatamente).
Ite con Dio.

SCENA SECONDA

In riva al fiume. Numerose anime s’accalcano aspettando Caronte, il quale con la barca s’è mosso dall’opposta riva e vien via remando lentamente.

DON GIOVANNI
(soffermandosi alquanto da lungi a guardare).
Quanto popolo!
(Traendosi innanzi):
Largo, buona gente!
==>SEGUE



Largo! Parlo con voi. Non v’intruppate
Come fanno le pecore. Stupite
Di vedere un uom vivo? O che? Non foste
Mai vive voi?
(Con certa sollazzevole ammirazione):
Come siete ridotte!
Io vedo l’una attraverso dell’altra.
Di che siete voi fatte, anime mie?
È possibile mo’ d’aver sì poca
Sostanza? Andiamo, largo!
(Ritraendosi un po’ in disparte e gridando verso
Caronte, che intanto è giunto a mezzo il fiume):
Olà, buon uomo!
A questa volta.
(Caronte drizza la barca verso Don Giovanni. Le anime, ciò
vedendo, accorrono tumultuosamente. Don Giovanni si volta ad
esse con atto brusco).
Che? Pensate forse
Ch’io voglia farmi traghettar col branco?
Un uom vivo ed intero in compagnia
D’esangui larve, di spremute e vote
Ombre, ludibrio d’ogni vento? Indietro!
Che arroganza è la vostra? Indietro, o ch’io
Agitando il mantel tutte vi sventolo
Come mosche nell’aria.
(Le anime si rimescolano, facendo udire un sordo e confuso
mormorio).
Avete torto,
Figliuole mie, di brontolar. Qual uopo
Di barca a voi? Sendo così leggiere,
O non potete camminar sull’acqua?
Siete pigre a tal segno? ovver temete,
Con questa sizza, di bagnarvi i piedi?
Comunque sia, fatevi in là. Bisogna
Ch’io passi solo, per il primo. Voi
In cento o in mille passerete dopo.

UN’OMBRA
(uscendo dalla calca).
Io fui re di corona.

==>SEGUE






Arturo Graf - POEMETTI DRAMMATICI - parte II
Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Le prolusioni torinesi di
Arturo Graf
_________

di Maria Panetta
__________________
Il 13 dicembre 1876 Arturo Graf, professore incaricato all’Università di Torino, lesse la sua prima prolusione al corso di Storia comparata delle letterature neolatine, insegnamento da poco istituito dal ministro Ruggero Bonghi.
Nell’Ateneo torinese si creò un clima di grande curiosità intorno al giovane professore dal cognome tedesco: il favore ottenuto da Graf superò ampiamente le aspettative e l’allievo Renier poté affermare che «parlò con lucidezza inarrivabile, con informazione sicura e precisa, con larghezza di vedute del metodo comparativo della storia letteraria».
Egli propose di applicare il criterio della comparazione anche alla «storia delle umane lettere», seguendo l’indirizzo proficuamente inaugurato dall’uso di quel metodo nella scienza del linguaggio: anche la fantasia, a suo giudizio, «ha le sue leggi, e la libertà umana è limitata anche nel dominio del capriccio. La […] menzogna della favola più stravagante è sempre condizionata assai da presso dalla verità della vita».
In ogni opera poetica, Graf rintraccia due matrici: una avventizia, fortuita, sarei per dir fenomenica, nella quale si rivela l’indole particolare, il particolare temperamento, la fisonomia propria di colui che l’ha prodotta; l’altra costante, necessaria, essenziale, in cui si riflette la coscienza e il costume del popolo in mezzo al quale l’opera fu prodotta, e in cui vive come si suol dire, lo spirito de’ tempi.

Tra le letterature dei diversi popoli si possono riscontrare notevoli affinità e si devono rintracciare «nel vario e nel mutevole il conforme e il costante»; i criteri e i procedimenti della storia delle lettere devono restare storici, ma ci si può servire del prezioso ausilio della psicologia, a suo giudizio allora finalmente degna del nome di scienza. Egli si rallegrava, inoltre, della nascita di una «estetica nuova», fondata «non sopra il gusto passeggiero di un tempo, ma sulle naturali qualità e proprietà delle cose» e utile, dunque, a intendere le forme d’arte «più prossime» come quelle più remote, sempre che gli studiosi si lascino guidare dalla «ragione» e diffidino dei facili indizi, attenendosi ai «fatti più stabiliti». Nel processo di «cognazione delle letterature», infatti, non si assiste mai ad una semplice imitazione, ma «le forme prese a prestito sono assoggettate a varii processi di elaborazione e di svolgimento, i quali possono a volte andar così oltre da mutar loro l’aspetto e da occultarne la origine».

Riguardo a quest’intervento, Ajello parla di «rivoluzione metodologica del gesto del comparare», operata da Graf proponendo di oggettivizzare il dato fenomenico, di precisare una prassi scientifica che porti allo studio dell’opera d’arte in relazione all’ambiente che la produce e a quello che la consuma; il giovane professore sistematizzando proprio una razionalizzazione, ancora di là da venire, dei meccanismi della «fantasia» portava mediante la comparazione, la psicologia proprio dentro l’estetica, e per questa via ancora e definitivamente la storia.

Rimasta vacante la cattedra di Letteratura italiana del Coppino, alla fine del 1876 ne fu affidato l’incarico allo stesso Graf, che inaugurò il corso, il 22 gennaio 1877, con una seconda prolusione, Dello spirito poetico de’ tempi nostri, in cui fece aperta professione d’italianità (e dopo la quale ottenne la cittadinanza italiana), nonostante fosse nato ad Atene e il padre fosse norimberghese: Partendo dal principio che il gusto poetico cambi naturaliter col mutare delle epoche storiche, Graf affermava essere inutile chiedersi se la poesia moderna sia superiore all’antica, avendo essa perso in «amplitudine» per guadagnare in «acuità». Egli sosteneva che la scienza e il realismo nuocciono alla poesia, che si nutre di mistero, oscurità e «dubbiezza», ed ha bisogno del mito; rispetto ai loro predecessori, i moderni, a suo giudizio, sono più concentrati su se stessi e sul proprio travaglio interiore, e la psicologia ha pervaso anche il romanzo e il dramma: al personaggio emblematico di Achille, tutto azione esteriore, si è sostituito quello di Amleto. Si prova «uggia della vita», nonostante l’incivilimento dei costumi e il progresso scientifico: la conoscenza del vero, anzi, ha condotto alla disillusione riguardo alla cruda e inesorabile necessità delle cose, cosicché «da questo contrasto del tendere a maggior libertà e del sentire più intera la schiavitù si genera negli animi nostri una vena inesauribile di amarezza. Ma una vena ancora di profonda e di sentita poesia». La percezione del dolore è entrata nel dominio della riflessione e ne ha acquisito la «tendenza all’infinito e al trascendente »: da ciò la moderna propensione all’intellettualismo in poesia.

Lo spirito poetico dei moderni è essenzialmente «subiettivo» e ciò spiegherebbe la prevalenza del genere lirico su quello epico: a giudizio di Graf, però, bisogna parlare di «mutazione» e non di «decadenza» del gusto. La tragedia, invece, la considera morta, essendosi perso il senso del tragico nell’esistenza. La forma poco curata, infine, lo stile «sciamannato dei giorni nostri» non sono solo frutto di negligenza, perché un «pensier tormentato ed instabile non può più trovar luogo negli incorniciati e scompartiti schemi del vecchio stile rettorico».

«La poesia non muore nel mondo […] – conclude Graf – muta forma, e tempra e carattere, ma non muore». Contemporanee a questa prolusione sono le tre lezioni accademiche apparse sulla «Rivista di filologia ed istruzione classica» nell’aprile 1877, per le quali Graf dichiarava di aver «lasciato allo scritto la forma libera e sciolta della esposizione orale».
Egli esordiva affermando che l’oggetto della storia letteraria è «la poesia in quanto espressione artistica del pensiero mediante la parola», e non le «forme sceverate dal loro contenuto». La letteratura scientifica, invece, appartiene alla storia generale della cultura, o a quella dello spirito umano, mentre la poesia didascalica rientra nella storia della letteratura solo se ha interesse estetico, poiché «la poesia non si propone e non si ha da proporre nessunissimo scopo»: la storia letteraria, dunque, si occupa dei grandi scrittori e dei minori che segnino momenti importanti nell’evoluzione del pensiero poetico. Riguardo ai metodi di studio, quello «biografico-cronologico», sebbene sia «il più disadatto», può aiutare a capire le reciproche influenze tra imitatori e scrittori originali; quello «estetico», più scientifico, rischia di spezzare l’unità poetica dello scrittore riconducendone le opere a generi diversi; quello «storico» finisce per non spiegare le «ragioni interiori »: perciò, «nello insegnamento si ha da usare di tutti e tre i metodi».

Graf ritiene che la letteratura a lui contemporanea abbia «pochissima intimità, e scarsissimo carattere nazionale» perché imita troppo tedeschi e inglesi, in poesia, e i francesi nel romanzo e nel dramma: del resto l’Italia si è dovuta adeguare troppo in fretta ai progressi filosofici e scientifici di altre nazioni. «L’indole non suole variare se non con estrema lentezza» – osserva – anche riguardo alla lingua, ma, al contrario di ciò che pensano i puristi «piagnoni», questi processi vanno assecondati e «il supremo legislator delle lingue ha da essere l’uso». L’esame delle origini delle letterature risulta di grande importanza, assieme a quello delle «derivazioni» da popolo a popolo: infatti, «l’imitazione servile dei capolavori torna sempre in grave danno della poesia, ma non così lo studio avveduto e giudizioso». In ogni caso, egli giudica più proficuo imitare i moderni rispetto agli antichi, perché ritiene che con essi abbiamo in comune almeno il pensiero. Tra i sussidi cui la storia letteraria può far ricorso, Graf ritiene importanti la paleografia (indispensabile allo storico della lingua), la bibliografia, la critica storica e filologica (soprattutto per le edizioni di testi), la critica estetica (da esercitare con cautela e moderazione) e la comparazione. Denuncia, invece, un abuso di «critica psicologica».

All’età di 28 anni, dunque, «cominciava il professorato: era finita la giovinezza » – annotava tristemente egli stesso. Eppure l’insegnamento fu per lui un’esperienza vissuta sempre con passione e partecipazione, ed egli considerò un’organica educazione dei suoi cittadini uno dei principali obiettivi che ogni stato dovesse prefiggersi. Tra le tante, una bella testimonianza sulle lezioni diede l’allievo Gallico; Renier ricorda che il maestro «componeva e riteneva nella memoria, non tenace per lungo tempo, ma impressionabile sì da conservargli alla lettera per tre o quattro giorni ciò che aveva pensato, pagine e pagine di prosa, lezioni intere». E Gallico racconta, infatti, che prima di cominciare ogni lezione Graf dava un’occhiata rapida ad un foglietto d’appunti che aveva in tasca, come promemoria, e poi iniziava a parlare: dunque, ci troveremmo di fronte a discorsi fatti a braccio, e successivamente scritti e pubblicati. Vittorio Cian ammonisce, però, a non pensare che quelle lezioni fossero frutto della più spontanea e felice improvvisazione, perché il maestro le meditava e preparava a lungo, e pare che anzi le stendesse sulla carta: la memoria agile e la sua innata arte oratoria da conferenziere provetto potevano trarre in inganno. In genere si rifaceva alla lezione precedente per istituire un legame col già detto, così come, alla fine dell’ora, «che non era l’ora “accademica” cara agli scansafatiche, […] raccoglieva le fila del suo discorso e preparava il campo alla lezione seguente, di cui enunciava il tema». Egli «costruiva abbattendo. Moveva spesso da qualche affermazione di critico insigne – molto spesso il De Sanctis – che sottoponeva a metodica, minuta, sottile analisi», ma mai con animosità o orgoglio: Cian ricorda, in particolare, una felice lezione sul Decameron, durante la quale il maestro discusse e confutò il noto giudizio desanctisiano secondo cui il capolavoro di Boccaccio sia da leggere come la negazione del Medioevo63. «Sentiva il bisogno di volgere l’idea da tutti i lati, […] o accostarla ad altre, istituendo impensati, originalissimi confronti». Non si appagava mai delle mete raggiunte, e dunque «scomponeva e ricomponeva per tentare sistemi che, subito dopo, intaccava fino a frantumarli». Aborriva dalle definizioni, e amava ripetere agli allievi: «Amoreggiate con le idee fin che vi piace; ma, quanto a sposarle, andate adagio». Egli derivò, forse, dal positivismo quell’esitazione nel giudicare e quello scetticismo riscontrabili negli innumerevoli interrogativi presenti nelle sue lezioni. Le prolusioni sono costellate di nomi, non esclusivamente di poeti o prosatori, e denotano una cultura di base onnivora, profondamente meditata e padroneggiata con grande sicurezza. Croce riconduceva ad una certa «ansietà» di carattere e, riguardo ai versi grafiani, parlò di un avvicinamento progressivo alla «poesia parenetica e parabolica», sulla quale gravava sempre una certa «prosaicità»: Graf attribuì tali giudizi negativi ad animosità personale, per l’aspra stroncatura che egli fece della crociana Leggenda di Niccolò Pesce, nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1885.
Secondo Gallico, le lezioni più suggestive erano quelle «dovute alle introspezioni psicologiche, alle rivelazioni che il Graf poeta faceva di un poeta»: l’allievo ricorda «veri squarci lirici» tra cui il confronto tra sole e luna, suggerito appunto dalla lettura della leopardiana Alla luna. E anche Cian osserva: «in questi casi si rivelava nel lettore impareggiabile il maestro e il poeta, insieme alleati». Del resto, proprio introducendo Leopardi, il professore ammonì un giorno: Il brivido delle tenebre percorse numerose lezioni di Graf, che al «sentimento della morte» intonò anche parecchi versi; basti ricordare le cupe raccolte Medusa (1880, 1881, 1890) e Dopo il tramonto (1893), liriche della negazione disperata; le Danaidi (1897, 1905), che simboleggiano la vana impresa della vita umana; Morgana (1905) o l’illusione ingannevole: tutte dominate da lande desolate, tramonti sanguigni, naufragi, paesaggi deserti nei quali aleggia quasi un sentimento di «orrore della vita».
Numerosi dei suoi volumi di critica, come già detto, derivarono dagli studi condotti per i corsi universitari (dal 1876 al 1910): tra gli altri, gli Studi drammatici, nati dalle prime lezioni sul teatro e la sacra rappresentazione; Attraverso il Cinquecento; Foscolo, Manzoni, Leopardi , che si serve dei materiali raccolti nel triennio 1894-1897, e che, a giudizio di Renier, può essere considerato un esempio di «critica introspettiva, psicologica ed estetica». Tenne corsi sulla drammatica medievale e sulla storia della superstizione nel medioevo, temi che si ritrovano, ad es., nel volume sul Diavolo e in Miti e leggende, e facilmente riconducibili alla sua passione per gli studi eruditi sulle leggende medievali. Sebbene fosse un intellettuale piuttosto riservato, Graf assunse posizioni ferme e coraggiose, talora eversive (seppur da interno al sistema), schierandosi contro il valore formativo delle lingue e delle letterature classiche (se non «in certi rami di cultura specializzata») e auspicando l’abolizione dell’insegnamento classico nelle scuole medie superiori; convinto della necessità di sprovincializzare i nostri studi, guardava soprattutto alla lezione della scuola tedesca. Combattè anche in favore della soppressione «di quelli orti chiusi che sono le Facoltà», perché fosse favorita la libera circolazione delle idee, e soprattutto di quelle «generali», di tipo filosofico, che «danno un senso e un indirizzo alla vita» e preservano lo spirito umano dal «gusto di soffermarsi e anneghittirsi negli angiporti» dei minimi problemi: infatti, come sottolinea Barbarisi, «fin dalle prime prolusioni aveva espresso l’esigenza di conciliare le istanze di ricerca e di rigore del metodo storico con l’ansia di scoprire le somme leggi che governano il pensiero fantastico». Nel 1901 si schierò contro l’erudizione eccessiva nelle scuole, in se stessa «meritevole e necessaria», ma quasi dannosa se assunta in forma totalizzante, perché conduce alla «stagnazione» dello spirito. Non bastano, insomma, solo dottrina o erudizione, ma la cultura dev’essere anche «educazione dell’intelletto, educazione del gusto, educazione della volontà». Davvero attuale, inoltre, il discorso del 27 ottobre 1906 su L’Università futura, letto nel V centenario della nascita dell’Ateneo torinese: partendo dal presupposto che buona cultura sia solamente quella che «armonizza in unione feconda il pensiero e l’azione, l’amore del bello e il proponimento del buono, la libertà e l’euritmia, la gentilezza e la forza», Graf dichiara auspicabile un’Università da cui escano uomini e non fantocci, e che «non ignori lo spirito e i bisogni dei tempi»; essa è «organo della scienza» e dunque deve aver fede nella verità e aiutare l’uomo a conoscere la realtà esterna e se stesso. Attualissima la sua denuncia delle sperequazioni esistenti tra le risorse impiegate per promuovere le diverse discipline; alle varie scienze sono, sì, richiesti spirito analitico e sintetico, ma «la vision comprensiva di un tutto concreto è sempre, in un qualche modo, visione artistica, visione poetica». Il suo sforzo […] di conciliare ecletticamente la concezione desanctisiana dell’arte con le nuove istanze scientiste, la critica estetica con la critica storica (quasi stabilendo un prima e un poi fra ricerca positiva e giudizio critico, e cogliendo nella psicologia lo strumento con cui superare la soggettività del «gusto») lo sottraeva all’uno e all’altro schieramento, senza conferirgli quell’autorevolezza che gli sarebbe poi derivata (se pur senza grandi clamori) dalle sue maggiori opere critiche ed erudite, ben più originali e consistenti di quelle iniziali riflessioni teoriche.
DON GIOVANNI
Intendo; ma
Tu sei morto, io son vivo: ai vivi spetta
La precedenza.

UN’ALTR’OMBRA
(uscendo similmente dalla calca).
Successor di Piero,
Io nelle mani ebbi le somme chiavi.

DON GIOVANNI
Bravo! Quella del ciel dove lasciasti?
E perché scendi a tali basse invece
Di volar colassù? Questa la barca
Del pescator non è.
(Senza più curarsi dell’ombre, si volge a Caronte, il
quale intanto è approdato).
Dunque hai capito:
Solo devo passar.
(Mette un piè nella barca, ma sùbito lo ritrae).
Cioè... Per Giove!
Fradicio parmi cotesto tuo burchio.
Si sfascerà tosto che senta il novo
Peso. Adagio. In quest’acqua limacciosa
Affogar non vorrei.

CARONTE
Non dubitate.
Insino al giorno del giudizio deve
questa barca durar: né ’l primo corpo
Siete voi ch’essa meni. Entrate pure
Sicuramente.
(Alle ombre, che non si sono più mosse):
Voi tra poco.

DON GIOVANNI
Or sia
In buon’ora. Tu voga: io qua mi siedo
Al timon. —
(Caronte dà dei remi nell’acqua e si scosta dalla riva Don Giovanni
guarda nell’acqua).
Sono pesci in questo fiume?

CARONTE
(remando con un po’ di fatica).
Pochi e cattivi.
==>SEGUE


DON GIOVANNI
E tu ne pigli?

CARONTE
Che!
Non ho tempo.

DON GIOVANNI
Fai tu questo mestiere
Di continuo?

CARONTE
Tutto il santo giorno,
E mi levo col sol.

DON GIOVANNI
Guadagnerai
Quattrini a carrettate. Ho udito dire
Che nessun passa se non paga.

CARONTE
Vero.

DON GIOVANNI
Molto ricco sarai.
CARONTE
(soffiando).
Povero in canna.
Tutto quaggiù costa assai caro: il resto
Se lo inghiotton le tasse.

DON GIOVANNI
Anche qua tasse?
Tutto il mondo è paese.

CARONTE
A non dir nulla
Dei tagliaborse.

DON GIOVANNI
Sento che tu soffii
Per la fatica. Lascia che ti dia
Una mano.
(Toglie a Caronte uno dei remi e si mette a vogare)
Così. Non t’affannare.
Giungerem sempre in tempo. — E di’, laggiù,.
Troverò buona compagnia?

==>SEGUE


CARONTE
Lo credo!

DON GIOVANNI
Principi?

CARONTE
Tanti.

DON GIOVANNI
Chierici?

CARONTE
Un subisso.

DON GIOVANNI
E belle donne!

CARONTE
Sì, molte che furono
Belle donne!

DON GIOVANNI
Che furono! M’incresce
Quel passato remoto... Ma qualcuna
Pur ne sarà vestita ancor di polpe,
Come me...

CARONTE
No. Proserpina è gelosa,
E non vuol.

DON GIOVANNI
Pazïenza!

CARONTE
Eccoci giunti.
(La barca approda).

DON GIOVANNI
(saltando lestamente a terra e porgendo a Caronte una moneta).
Tieni, pel tuo disturbo.

CARONTE
(sgranando gli occhi).
Oro, signore?
L’ombre un soldo, due soldi i corpi vivi:
È la tariffa.

==>SEGUE

DON GIOVANNI
Non do mai di meno,
E non maneggio moneta di rame.
Buon pro ti faccia.

CARONTE
Gran mercè, padrone!
Fossero tutti come voi!

DON GIOVANNI
La strada?

CARONTE
Questa.

DON GIOVANNI
Non occor altro.

CARONTE
Permettete
Che per rimeritarvi in qualche modo,
V’avverta d’una cosa.

DON GIOVANNI
Ed è?

CARONTE
La strada
Costeggia il fiume sino a quel dirupo.

DON GIOVANNI
Vedo.

CARONTE
Poi volge a manca.

DON GIOVANNI
Ho inteso.

CARONTE
Dietro
A quel dirupo Cerbero s’appiatta.

DON GIOVANNI
Cerbero?

CARONTE
Al varco i vïandanti aspetta,
Coi latrati gli assorda, e non ne lascia
Uno solo passar che non lo azzanni
E non ne porti via qualche lacerto.
==>SEGUE


DON GIOVANNI
Diavolo!

CARONTE
All’ombre non può far gran danno;
Ma a un uom di carne come voi...

DON GIOVANNI
Capisco.
Ebben?

CARONTE
Chi vuol che quella bestia taccia,
E nol morda, una qualche offa passando
Deve gittar nelle bramose canne.

DON GIOVANNI
Proprio?

CARONTE
Così.

DON GIOVANNI
(quasi tra sé).
Tutto il mondo è paese.
(Forte).
Offa non ho.

CARONTE
(traendosi un pane di seno).
Signor, se vi degnate,
Eccovi un pane.

DON GIOVANNI
Come bigio!

CARONTE
Il pane
Della mia cena.

DON GIOVANNI
Amico, in santa pace
Mangia il tuo pan. M’ajuterò. Paura
Non ebbi mai di mostri.

CARONTE
Allor v’assista,
Padron mio, la fortuna.
==>SEGUE




DON GIOVANNI
E te del pari.

SCENA TERZA

Il dirupo indicato da Caronte. All’appressarsi di Don Giovanni, Cerbero sbuca dal suo covo e comincia a latrare furiosamente.

DON GIOVANNI
(fermo in mezzo alla via).
È questo il guardïan de’ regni bui?
Che sozza e sconcia bestia!
A sé più che ad altrui
Con quei tre ceffi deve dar molestia.
Come uscir può di mano alla natura
Una così ridicola figura?
Eh, non tanto scalpor, che non conviene!
Sino l’ombre più sciocche
Vedono che, sebbene
Tre teste abbiate ed altrettante bocche,
Ed urliate con tutte a squarciagola,
Altro non siete che una bestia sola.
Al mio paese i botoli si fanno
Chetar con le pedate.
Se vi venga il malanno,
Finite d’abbajar: non v’appressate
Troppo alla mia persona, o bestia goffa,
Ché ho poca pazïenza e nessun’offa.
(Cerbero, con le bocche spalancate,
si scaglia contro Don Giovanni).
Non odi tu?
Ben: piglia su!
(Avutolo a tiro, Don Giovanni,
con un potentissimo calcio, scaraventa Cerbero nel fiume).
Caro mostro, or sarai persuaso
Che Don Giovanni,
S’anche il ciel lo abbandoni e lo danni,
È sempre in caso
Di levarsi le mosche dal naso.

==>SEGUE

SCENA QUARTA

Tribunale infernale. Sopra un alto seggio Minosse, con prosopopea di giudice. Dietro a lui una fitta schiera d’ombre velate. Appiè del seggio uno stuolo di demonii. Don Giovanni, con la sinistra mano sull’elsa della spada e la destra sull’anca, si fa innanzi lentamente e si ferma davanti a Minosse. Al suo apparire le ombre velate trasaliscono.

MINOSSE
(con voce cavernosa verso le ombre).
Nessun parli o si mova.
(Verso Don Giovanni):
Alfin sei giunto,
Ribaldo.

DON GIOVANNI
(pacatamente).
Voi mentite per la gola
In darmi nome di ribaldo. — Io sono
Don Giovanni Tenorio, cavaliere,
Conte di Sandoval, grande di Spagna:
Uomo senza paura e senza macchia.

MINOSSE
Tu senza macchia? Svergognato! I tuoi
Misfatti devo recitar? — Vivesti
Sol per la carne.

DON GIOVANNI
Per quella bellezza
Che nella carne si rivela e splende.
Dono del cielo è la bellezza.

MINOSSE
Altrui
Femine adulterasti!

DON GIOVANNI
Amai.

MINOSSE
Fanciulle
Contaminasti.
==>SEGUE
DON GIOVANNI
Amai.

MINOSSE
L’una per l’altra
Abbandonar fu tuo costume.

DON GIOVANNI
Amai
Quanto è degno d’amor. Troppo capace
Madre natura il cor mi fe’. Nessuna
Volli infelice.

MINOSSE
Le vittime tue
Osi mirar?
(A un cenno di Minosse le ombre che sono dietro a lui
improvvisamente si disvelano).

DON GIOVANNI
(dopo una breve pausa, con leggiera meraviglia,
con accento semitragico).
Tutte all’inferno? — Tutte
Eran degne del ciel.
(Fremito delle ombre).

MINOSSE
Tu sei cagione
Dell’eterno lor pianto.

DON GIOVANNI
(con enfasi misurata).
Eppur beate
Furon tra le mie braccia.
(Violenta commozione delle ombre: sospiri e gemiti repressi).

MINOSSE
Ora il dovuto
Guiderdone n’avrai.
(I demonii, udendo tali parole,
fanno lazzi e atti di scherno verso Don Giovanni).

==>SEGUE


DON GIOVANNI
(tranquillamente, fissando sopra di essi lo sguardo)
Stupidi mostri,
Vi beffate di me? Più laide bestie
Chi vide mai? Ah, ah! non diguazzate
Quelle logore code; alla mia volta
Non appuntate come buoi le corna;
Non arrotate, grugnendo, le zanne.
Sbellicar dalle risa mi fareste,
Se non fosse lo schifo.
(I demonii fanno per dargli addosso. Egli trae con rapida mossa la spada, e rotatala elegantemente per l’aria, si pone in guardia).
Animo, avanti.
Luridi aborti, e assaggerete il filo
Della mia lama. Ancor non v’abbatteste
In cavalieri di Castiglia?

UNA VOCE DI CONTRALTO
Oh, come
Bello e gagliardo!

UNA VOCE DI SOPRANO
Oh, come ardito e bello!

MINOSSE
(con solennità, verso i demonii).
Cheti!
(Verso l’ombre):
Silenzio!
(Verso Don Giovanni).
E tu, malvagio, ascolta
La tua condanna.
(Don Giovanni ringuaina placidamente la spada).
Io ti abbandono a quelle
Che per te son dannate. Esse ministre
Sian dell’ira divina; esse in eterno
Faccian strazio di te come il talento,
L’odio, la rabbia le consiglia. — È questa
L’irrevocabil mia sentenza. — Ridi,
Stolto?

DON GIOVANNI
Messer, temo che l’ombre ai corpi
Diano poco travaglio. O non potreste
Per miracolo far che quelle ignude


==>SEGUE
Anime riavessero le membra,
Le belle membra onde fûr liete al mondo?
(Fremito dell’ombre).

MINOSSE
Non più celie! La mia sentenza udisti.
Chiuso è il giudizio.

DON GIOVANNI
Non ancor, messere.
(Con voce sonora e patetica insieme, abbracciando col gesto e
con lo sguardo tutta la schiera delle anime):
Dolci, tenere amiche!

UN’OMBRA
Ah, quella voce!

UN’ALTRA
Ah, quello sguardo!

UN’ALTRA
Ah! quel gesto che abbraccia!

DON GIOVANNI
Del caldo e forte ed inesausto amore,
Ch’io vi portai, qual pena or mi darete?
Quale di voi vorrà punir la colpa
Ch’ebbi di tutte amarvi?

UN’OMBRA
Ahi, lassa!

UN’ALTRA
Ahi, lassa!

UN’ALTRA
Ahi, lassa, come mi vacilla il core!

DON GIOVANNI
Tu, superba Eleonora? Tu, vezzosa
E blanda Irene? Tu, gioconda Elisa?
Tu, sensitiva Inès ? Tu, gracil Ebe?
Tu, pensierosa Olimpia?... Ah, se dovessi
Tutte nomarvi, e, ricordando i cari
Nomi soavi, ricordar quei giorni
Fuggitivi, quell’ore... ai vostri piedi
Per soverchia dolcezza io qui morrei.

==>SEGUE
UNA VOCE FLEBILE
Ingannatore!

UNA VOCE ARDENTE
Taci!

UNA VOCE IRACONDA
Traditore!

UNA VOCE SOAVE
Taci!

DON GIOVANNI
Fate di me quel che v’aggrada.
Gioja un tempo mi deste; ora mi date
Qual più vi piace aspro tormento. Io tutto
Accetterò dalle man vostre, solo
Che mi lasciate coprirle di baci.
(Le ombre prorompono in un sommesso e tenero pianto).
Non piangete così, ché mi si strugge
Di tenerezza il core. — O non saria
Miglior consiglio nella vostra grazia
Ricever chi v’adora?... esser clementi
Signore a me?... esser tra voi sorelle...
Tutte congiunte in uno stesse amore? —
Si rinnovi il passato e si trasmuti
Senza fine in presente ed in futuro.
Tutte m’amate poi che tutte io v’amo,
E la sorte comun sarà men rea
Ch’altri non crede. Ingrato, al certo, il loco;
Ma pur l’umana fantasia dipinge
Di sé le cose e le abbellisce amore.
Quaggiù fiori non sono onde alle chiome
Vostre io possa intrecciar vaghe corone.
Non la rosa quaggiù, non la viola
Alligna e il mirto e il sempreverde alloro.
Ma in ogni loco, in ogni tempo io posso
Cantar, far versi, e con le dolci note
Melodïose e con l’accorte rime
Celebrar le bellezze e i nomi vostri.
(A poco a poco le ombre si sono raccolte intorno
a Don Giovanni e pendono mute dal suo labbro).
E chi sa? Vi sovvien, donne mie care,
D’Euridice e d’Orfeo? Morto per anche
Don Giovanni non è, né morte aspetta...
E del trace amatore esser potria


==>SEGUE
Più venturato Don Giovanni, e trarvi
Fuor di quest’ombre a riveder la cara
Luce del sol, fratello vostro... Basta!...
Solo una grazia ora vi chiedo: usciamo
Di quest’infame e tedïosa chiostra.
Sempre i rissosi tribunali e l’irte
Procedure aborrii. Volgiamo i passi
Verso qual parte più vi piace; in quale
Più vi piace sostiam. Dove voi siete,
Ne attesto il ciel, non può essere inferno.
(Si allontana a bell’agio, attorniato e seguito da tutte le ombre.
Giunto in cima a una rupe, si volge con manieroso atto di saluto a
Minosse).
O dei giudici tutti il più sagace,
L’irrevocabil tua sentenza accetto.
(Ai demonii):
Addio, vezzosi e teneri donzelli!
(Séguita ad allontanarsi in compagnia delle ombre, con le quali
amorosamente conversa. Minosse e i demonii guardano loro
dietro intontiti. Di lì a poco s’ode la ben intonata, gagliarda e fluida
voce di Don Giovanni che canta).
Qual è tra i fiori il più leggiadro fiore?
O donna, tu!
Qual è nel mondo la maggior virtù?
Madiè! l’amore!

IL RIPOSO DEI DANNATI9

Giogaje altissime di monti, donde si scopre vasta distesa di terra e di mare. I dannati, cui è conceduto di riposare dalla sera del sabato all’alba del lunedì, sono sparsi, innumerevoli, sui nevai, sulle rupi, lungo l’orlo dei precipizii. Alcuni angeli stanno a custodia sopra di essi. È la sera d’una domenica, del mese di luglio; il giorno manca a poco a poco: sopravviene e s’innoltra la notte.

IL DUCE DEGLI ANGELI
Anime travagliate,
Al declinante giorno
Poca luce rimane:
Prima che sia dimane,
Dovrete far ritorno
Alle torture usate.
A quei che in foco e in gelo
Penano eternamente
Questa pace consente
Giusto e pietoso il cielo.
Anime travagliate,
Fugge e dilegua l’ora:
Prima che albeggi, ancora
Un poco riposate.

CAINO
Che mi giova, essenza pia,
Esser fuori del carcere cieco?
Sempre, ovunque io vada o stia,
L’inferno ho meco.

UN DANNATO NOVELLO
Scema il giorno e la pace benedetta
Col giorno scema:
Ah! pensando al supplizio che m’aspetta.
Il cor mi trema.
______________

9 Argomento e inspirazione di questo poemetto sono tratti da una credenza che fu viva e diffusa nel medio evo.
==>SEGUE
UN DANNATO ANTICO
Se tu fossi men novo a questo gioco,
L’avresti a scherno:
L’uom s’avvezza alla lunga, a poco a poco,
Anche all’inferno.

IL CONTE UGOLINO
Chi mi ripon nella ghiacciata buca?
Troppo quest’ozio m’annoja e sgagliarda:
Arcivescovo mio, quanto mi tarda
Di novamente azzannarti la nuca!

UN POETA
Pria di rotar nel cerulo
Gorgo la cuprea mole,
Squarcia gli avversi nugoli
Vittorïoso il sole,
E folgorando imporpora
L’acque, le terre, il ciel.
Solo per poco il fervido
Raggio vital s’asconde;
Col novo dì, più fulgido
Saetterà dall’onde,
E, soggiogato l’etere,
Fugherà l’ombre e il gel.
Rorida terra, immemore
Figlia de’ cieli, esulta!
All’igneo sposo, al principe
Che ti dilesse inculta,
Che t’abbellì di gloria,
Offri bramosa il sen.
Nelle tue buje viscere
La sua virtude ei piove,
Anima i germi, suscita
Le tracotanze nove,
Segna al tuo corso il tramite,
Regge alla vita il fren.

UNA SCOLTA ANGELICA
(dall’alto di una rupe).
Al giorno che si muore
La luce omai vien meno:
Silenzïose l’ore
Volan pel ciel sereno.

==>SEGUE


Abbracciate e come insieme confuse, passano lentamente a volo, nella luce del crepuscolo, le anime di Francesca e di Paolo.

FRANCESCA
Paolo, t’amo!

PAOLO
Francesca adorata!

FRANCESCA
Ricordi quel giorno, ricordi quell’ora?

PAOLO
O Francesca, mia dolce signora!

PAOLO E FRANCESCA
Per sempre, per sempre tal gioja n’è data!

UN CURIOSO
Vedete come leggiere, abbracciate,
Vanno quell’ombre sospese nel vento!
Sann’elle forse di esser dannate?
Sentono forse dolore o sgomento?

ALCUNE DONNE
Congiunte insiem come il fiore e lo stelo !

ALCUNI UOMINI
Congiunte insieme, si credono in cielo!

UN SIBARITA
Inferno è dove manca ogni diletto.

UN MISTICO
Inferno è sol dove manca ogni affetto.

IL CURIOSO
Ponete mente a quell’angelo santo,
Come con gli occhi al lor volo tien dietro:
Credete voi ch’e’ farebbe altrettanto
Se capitasse passare San Pietro?

UN INNAMORATO
Ahi! mi s’empie d’invidia a quella vista il core!
Nessun dolore agguaglia, compagni, il mio dolore.
==>SEGUE

Anch’io fui già legato di così dolce nodo;
Anch’io dilessi amato, a quello stesso modo.
Oh, certo ella non era di costei meno bella!
Tutta tenera e fresca come rosa novella!
E sì benigna e gaja, e sì di grazia piena!
Niun di noi più felice nella vita serena.
Morimmo entrambi a un’ora. Per quell’amore io fui
Senza fine dannato. Non ella. I regni bui
Ho cerchi invan gran tempo. Ella non v’è. Chi sciolse
Il caro nodo? o amica dolce, chi mi ti tolse?
Sei tu beata in cielo senza di me? Non brami
Di ritornare in braccio a quel che amasti? — M’ami?...
Anche giù nell’abisso, dov’è morta ogni speme,
Noi saremmo felici, sol che fossimo insieme.

SAFFO
Ah, questo suo lamento, come mi passa il core!
Venturata la donna ch’ebbe tale amatore!

LA SCOLTA ANGELICA
Il giorno è tutto spento,
Ma sbianca il ciel la luna:
L’ore nel ciel d’argento
Passano ad una ad una.

IL POETA
Pallido lume che dentro al sereno
Sopra le cose ti riversi e spandi,
Come i tuoi raggi son vezzosi e blandi,
Come soave tu mi scendi in seno!
Io mi ricordo ch’essendo fanciullo
Dal paterno giardin ti vagheggiavo:
Or ti vagheggio, astro lucente e flavo,
Da questo colle rovinoso e brullo.

UN PUBBLICANO
Che diavolo ha mai questo poeta
Che non un dì, non un’ora si cheta?
Avventa all’aria muggiti e parole,
Tresca e donnea colla luna e col sole.

==>SEGUE
UN BELLO SPIRITO
E tu lascialo far: che te ne importa?
Ei placa il duol col verso e si conforta.

UN DILETTANTE
Gli è vero. Io, che laggiù gli son vicino,
Lo sto sovente ad ascoltar. Divino
Spirto si tien. Declama, s’accalora,
Fulmina, ride: qualche volta ancora
Lagrima dolcemente. Oh, di che vaghe
Parvenze ei sa le maledette plaghe
E l’ombre eterne rallegrar! Vezzose
Donne, che avvinto il crin di gigli e rose,
Danzan sull’erbe rinnovate e i fiori;
O sotto l’ombra d’odorati allori,
Ove dal sen di rugginosa cote
Sgorghi lucido un rio, d’amor devote,
Ragionano d’amor: campioni armati,
Curvi sui gran cavalli ingualdrappati,
Correndo giostre: venturieri strani,
Pellegrinanti per monti e per piani,
Sperduti in cupe ed antiche foreste:
Solitarii, che in valli erme ed infeste
Nutrono il cor di speranze soavi
E contemplano il ciel: profughe navi,
Che sfidando gli scogli e le procelle,
Van nel lampo del sol, van delle stelle
Al fioco lume trasvolando i mari:
Templi e palazzi e mausolei di rari
Metalli oprati e di marmorei cubi,
Lucide moli che sino alle nubi
Ergonsi in forme prestigiose e nove:
Città deserte e dirupate, dove
Regna il silenzio e fra i sassi e gli sterpi
Erra la volpe, s’annidan le serpi:
Numi ed eroi... Che più? Quanto le dive
Muse mai celebrâr; quant’opra e vive
Sulla terra e nel ciel; quant’occhio mira,
Intelletto comprende e cor sospira,
Tutt’ei sogna e ritrae, tutto di santo
Lume riveste e di bellezza: e intanto
L’orror non vede che lo stringe intorno,
Il proprio mal non sente.

==>SEGUE



UN ALTRO DILETTANTE
Infatti. Un giorno
L’udii sclamar: Non è tanto infelice
La vita di quaggiù quanto si dice.

LA SCOLTA
Intorno al lucid’asse
Pigra si volge l’Orsa:
Anime afflitte e lasse,
Un’altr’ora è trascorsa.

UN MODERNO
(a un antico).
Vedi tu quel bagliore onde lo scuro
Pian rosseggia là ’n fondo? ivi l’immensa,
Mostruosa città si stipa e bolle
Dov’io nacqui e morii.

L’ANTICO
Tanto alla cara
Patrïa se’ vicino? E, dimmi, quale
Ricordanza ne serbi?

IL MODERNO
Orrenda.

L’ANTICO
Orrenda!
Che dici?

IL MODERNO
Ah, tu non sai quanta malizia,
Quanto dolor fra quelle mura alberghi!
Come odïando vi si pianga e in opre
Sordide o bieche e per isconcia usanza
L’uom v’intristisca ed ogni nata cosa
Si snaturi e corrompa! Ond’io da quella
Sozza cloaca all’esecrabil fossa
Ove in eterno traboccati siamo
Faccio poco divario. In più sereno
Tempo vissuto e fra men vili cure,
Male tu forse ciò ch’io dico intendi.
Greco non fosti?

L’ANTICO
Greco.

==>SEGUE


IL MODERNO
Atenïese?

L’ANTICO
Nato appiè dell’Acropoli. La patria
Che alla luce mi diè cert’io non odio,
Come tu fai; ma non però gioconda
Fu la mia vita. Sulle scene pria
Con turpi lingue i comici poeti
Fecer scempio di me; poscia l’infido
Popol superbo in guiderdon de’ molti
Miei benefizii mi largì l’esilio;
E in esilio finii miseramente.
Felice forse più di noi fu questi.
Che visse, credo nell’età dell’oro.

UN ANTIDILUVIANO
Finzïon di poeti era a’ miei tempi
Già l’età che tu dici, e troppo a lungo
Tedïar vi dovrei se in tutto o in parte
Narrar volessi di mia vita i mali.

UN INCONTENTABILE
Prima un travaglio breve, poscia un tormento eterno:
Sulla terra un inferno, sotterra un altro inferno.
Mi par troppo.

UN RASSEGNATO
Che serve? Insolubile groppo
La ragion delle cose.

L’INCONTENTABILE
Sarà; ma mi par troppo.

LA SCOLTA
Fuori dell’onde scinte
Algol dubbioso guata:
Anime offese e vinte,
Un’altr’ora è passata.

ORIGENE
(in mezzo a un cerchio d’anime).
Io da vivo insegnai che quanti sono,
O mai saranno in avvenir sepolti
Nella Geenna: i pargoli innocenti,
==>SEGUE
ORIGENE
Quanto
Dissi, ripeto; ciò che bramo, affermo.

LA SCOLTA
Nel culmine celeste
Ecco il Delfin dimora:
Anime orbate e meste,
È fuggita un’altr’ora.

LA FANCIULLA
Come! un’altr’ora già?

UN VECCHIO
Fugge il tempo, figliuola.

IL PESSIMISTA
Tutto s’affretta e vola:
A che poi non si sa.

L’UOMO SODO
Gran bella novità
Da insegnare in iscuola!

L’UOMO DI MONDO
Notaste voi come da molto tempo
I guardïani eletti
A vigilar questi nostri riposi
Ne si lascian veder tristi e pensosi?
Non si direbbe che ne’ santi petti,
Cui non dovria turbar doglia o paura,
Chiudan, tacendo, una secreta cura?

LA FANCIULLA
È vero.

IL GIOVINETTO
È vero.

IL DELUSO
Spesso
Insiem raccorsi e ragionar sommesso
Li vedi a mo’ di gente
Che sbigottitamente
Un tormentoso dubbio agiti e scruti.
Allor se, come suole,
Talun di noi si fa loro da presso,
==>SEGUE


Troncan di punto in bianco le parole
E rimangono muti.

LA MADRE
Saran essi in pensiero
Per se stessi o per noi?

L’UOMO SODO
Io temo che li annoi
L’officio tra l’amabile e il severo.

L’OTTIMISTA
Può darsi; ma comunque esso lor pesi,
Molto ne son benevoli e cortesi.

L’UOMO DI MONDO
Ecco, alla nostra volta
Uno ne vien con lenti passi. È questo
Fra tutti il più gentile ed il più mesto.
Lasciate ch’io gli parli.

UNO SGUAJATO
In verso o in prosa?

L’UOMO DI MONDO
Forse da lui sapremo qualche cosa. —
A te salute, spirito lucente!

L’ANGELO
A voi tutti la pace,
Mentre il ciel la consente.

L’UOMO DI MONDO
Il ciel!... Laggiù, nella gran valle morta,
Ove ogni luce manca,
Ogni speranza tace,
Noi lo sogniam talora,
Come l’uom fa di cosa che l’accora. —
Il ciel!... N’hai tu novelle?

L’ANGELO
A te che importa
Saperne, se giammai
La sacra soglia non ne varcherai?
Se devi nell’inferno
Rimanere in eterno?

==>SEGUE
L’UOMO DI MONDO
C’è chi dice il contrario. Ad ogni modo
Piace di terre incognite e nascose
Apprender alcunché. Di molte cose,
Che aver non posso, immaginando io godo.

L’UOMO SODO
Così far non dovrebbe un uomo sodo.

L’ANGELO
(all’uomo di mondo).
Per te n’ho gran piacer.

L’UOMO DI MONDO
Benigno molto
E caro sei. Ma dimmi,
Perché sì mesto a noi dolenti appari?

L’ANGELO
Io?

L’UOMO DI MONDO
Tu, sì... e gli altri angeli del pari.

L’ANGELO
Mesto non son.

L’UOMO DI MONDO
Ma lieto?...
Taci?

L’ANGELO
Che devo dir?

L’UOMO DI MONDO
Di’ ciò che sai.

L’ANGELO
Nol dimandar.

L’UOMO DI MONDO
Dunque è un brutto segreto.
Ne si minaccian forse nuovi guai?

L’ANGELO
Questo non già.



==>SEGUE
L’UOMO DI MONDO
Che altro?
Parla. Noi tutti assai
T’amiamo.

L’ANGELO
Ed io pur v’amo;
Ma non devo parlar.

L’UOMO D MONDO
Col tuo silenzio
Doglia ne accresci.

L’ANGELO
È troppo amara cosa.

L’UOMO DI MONDO
Assuefatti siamo.
Chi legge il testo può legger la chiosa.

L’ANGELO
Orben...

MOLTE ANIME
Sospese t’ascoltiamo.

L’ANGELO
Udite.

LA SCOLTA
Aldebaran tra bianche
Nubi focoso spunta:
Anime oppresse e stanche,
Un’altr’ora è consunta.

L’ANGELO
Noto v’è come per un lieve errore
In che malcauti trascorremmo allora
Che contra ’l suo fattore alzò le ciglia
Il superbo Lucifero, noi fummo
Dal ciel banditi, e siam, finché non giunga
La pienezza de’ tempi e il dì supremo.
Quindi in esilio sulla terra vostra
Sempre vivemmo, sospirando il giorno
Che ne riapra le stellate porte
E ne torni alla gloria. Innumerati

==>SEGUE
Secoli son che il nostro esilio dura;
E come lungo ne sia parso, e come
Scuro e crudel, uopo non è ch’io dica;
Ma di salda speranza il consolava
La promessa divina, e pace e gioja
Ne venia dal sentir che non in tutto
Sceverati eravam dalla celeste
Patrïa nostra; imperocché sovente
Il creator di sé ne facea parte,
O con mandarne alcun messaggio, ovvero
Con accender ne’ cieli agli occhi nostri
Qualche insolito segno. Ma...

MOLTE ANIME
Prosegui.

L’ANGELO
Ma da gran tempo non udiam più nulla.
Più nulla non vediam...

LO SGUAJATO
Che gl’immortali
Sian tutti morti?

L’UOMO DI MONDO
(allo sguajato):
Vuoi tacer?
(all’angelo):
Più nulla?

L’ANGELO
Più nulla mai.

ALCUNE ANIME
Che narri?

ALTRE ANIME
Non un segno?

L’ANGELO
Non il più piccol segno. Abbandonato
Il mondo appare.

LE ANIME
Abbandonato?

==>SEGUE
L’ANGELO
Il vasto
Mondo materïal con quante sono
Vive e spiranti creature in esso.

LE ANIME
Le creature ancor?

L’ANGELO
Dato in balia
Di cieche forze il tutto, avvinto e stretto
Da ferree leggi, inesorate, oscure,
Contro le quali ogni virtù si spunta;
Che neghittosa la ragion, che vile
Fanno e stracco il voler, solo lasciando
Libero campo alle mordenti brame.
Al corruccio, al dolor. Saper voleste
Ciò che ignorar più giova: — ora il sapete.
L’angelo si allontana lentamente. Le anime rimangono immobili,
guardandosi l’una l’altra nel viso. Segue un lungo silenzio.

IL PESSIMISTA
Or che direte? Sognatore infermo
Quei che spera non è?

LA FANCIULLA
Sento uno schianto
Nel cor.

L’UOMO SODO
Bisogna rassegnarsi.

ORIGENE
Quanto
Dissi, ripeto; ciò che bramo, affermo.
(Repentinamente fende l’aria un altissimo grido).

LA SCOLTA
(con voce squillante, dalla sommità di un vertice).
Un segno, un segno! Accorrete! Accorrete!
(Si leva tutt’intorno un grande tumulto).

MOLTE ANIME
Che cosa gridi?

==>SEGUE
MOLTE ALTRE
Ove ci chiami e guidi?

MOLTE ALTRE
Perché disturbi la nostra quiete?

LA SCOLTA
Accorrete, accorrete, accorrete!
Un segno risplendente
È apparso in orïente.
(Gli angeli e le anime tutte accorrono da ogni banda, levando
un confuso clamore).
Un segno! - Dove? - In cielo! - Anime travagliate!
Fa’ ch’io lo vegga! - In alto! - Mirate! Mirate! Mirate!


IL LABERINTO

Vastissimo laberinto, formato di colli, valli, selve, ipogei, edifizii smisurati di più maniere. Innumerevoli andirivieni e meandri serpeggiano e s’intricano per ogni verso, tra mura, tra rupi, nel folto delle selve, in fondo alle valli, su per i colli, sotterra.

SCENA PRIMA

Luogo abbastanza spazioso, cerchiato da rupi ignude tra le quali s’aprono più vie. Turba di popolo mescolata, aizzata, tumultuosa.
VOCI CONFUSE
Vogliamo uscir di questo intrico.
VOCI IMPETUOSE
Fuori
Di questo immenso ed ingannoso carcere!
VOCI CONFUSE
Fuori! Vogliamo uscir!
VOCI IROSE
Da troppo tempo
Miseramente ci aggiriam per esso.
VOCI ASTIOSE
Ci consumiamo in esso.
VOCI VIOLENTE
Fuori, fuori!
VOCI DOLENTI
Senz’avvederci siam tornati al loco
Dove prima eravam.
VOCI ESITANTI
Molte fïate
Qua fummo:... a che tornarvi?
VOCI VIOLENTE
Fuori, fuori!
VOCI STANCHE
Sempre lo stesso error, sempre la stessa
Delusïone.
VOCI SCONSOLATE
Inutile fatica!
VOCI LONTANE
Che dite voi?
VOCI VICINE
Non v’intendiamo.
UN GRIDO FORTE
Avanti!
VOCI TIMIDE
Non pigiate così.
VOCI RISOLUTE
Non vi fermate.
==>SEGUE
VOCI IMPERIOSE
Sgomberate le vie!
VOCI IROSE
Chi chiude i passi?
VOCI ASTIOSE
Chi contende l’uscita?
VOCI VIOLENTE
Fuori, fuori!
CLAMORE ALTO E CONFUSO
Sotto il libero cielo, ove non sia
Frode né impaccio, ove non sia confine...
Rimescolamento, tumulto,
impeti disordinati in varie direzioni.

SCENA SECONDA.

Luogo campestre, appartato ed ameno. Prati fioriti, alberi fronzuti, grotte, fontane, laghetti, ecc. Uomini e donne, giovani e vecchi, formano qua e colà crocchi e brigatelle. Alcuni suonano e cantano, altri danzano, altri amoreggiano, altri stansi a discorrer insieme, seduti o sdrajati sull’erba, bevendo, giocando a varii giuochi, intrecciando corone, ecc.

CORO
Danzate sui fiori.
Sdrajatevi al rezzo:
Respirate il dolce olezzo,
Coronate i novi amori.
Lasciate ogni cura
D’incerto dimane:
Non gittate in opre vane
Ciò ch’è dono di natura.
Di fervido vino
Spumeggi il bicchiere:
Se v’è dato di godere
Non cercate altro destino
UN UOMO PINGUE
(rovescio sotto un albero,
dove più altre persone stannosi al rezzo).
Danzi chi vuol danzar, chi vuol cantare
Canti: — giacer sull’erba molle, all’ombra
Di verdi frasche, è a me piacer più grato.
UN SONNACCHIOSO
Ognuno elegge quel piacer che meglio
L’appaga...
(Sbadiglia e si addormenta).
UN BRIOSO
E a tutti è confacente il loco.
UNO SVENEVOLE
Amabil loco e di letizia pieno!
==>SEGUE
UN GIOVANE PENSIEROSO
Ma circoscritto in breve spazio...
PRIMO SAGGIO
E tanto
Più giocondo per questo e più sicuro.
SECONDO SAGGIO
Qui rimaniam, poiché la sorte amica
Vi ci pose.
IL GIOVANE PENSIEROSO
La sorte?...
PRIMO SAGGIO
E lasciam ch’altri
Senza pace s’aggiri e senza frutto
Per quei meandri disperati.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Eppure...
UN DISTRATTO
Che mai?
IL GIOVANE PENSIEROSO
Non so... Poter veder qualcosa
Fuor di questo recinto!...
UN VECCHIO ARZILLO
Io mai non ebbi
Sì fatta voglia.
SECONDO SAGGIO
Insana voglia!
IL GIOVANE PENSIEROSO
Un dubbio
Mi va serpendo nella mente...
PRIMO SAGGIO
Io mai
Dubbii non ebbi.
SECONDO SAGGIO
Io d’ogni mio pensiero
Sempre fui certo.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Che ho da fare?
PRIMO SAGGIO
Guarda
Ciò che intorno ti sta.
IL GIOVANE PENSIEROSO
M’annojo.
UNA FANCIULLA
Balla.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Sono stanco.
IL VECCHIO ARZILLO
Ripòsati.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Non posso.
==>SEGUE
UN BRILLO
Allora, bevi.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Non ho sete.
PARECCHIE VOCI
Bella
Ragione!
IL BRILLO
Sete!... Io sempre ho sete...
(Beve).
LO SVENEVOLE
Canta.
(Si mette a cantarellare).
IL GIOVANE PENSIEROSO
Sempre le stesse canzonette!
UNA BELLEZZA MATURA
Fai
All’amore.
IL GIOVANE PENSIEROSO
E con chi?
LA BELLEZZA MATURA
(Bufolo!).
LA FANCIULLA
(Togli!
Ci ho gusto).
IL BRIOSO
Il caso è molto grave. Vuol
Un buon consiglio! Impiccati.
(Tutti si mettono a ridere).
LA BELLEZZA MATURA
Ma, dico,
Non qui.
IL VECCHIO ARZILLO
Lontano.
L’UOMO PINGUE
Ove nessun ti veda.
UNO CHE SI SVEGLIA
(sbadigliando).
Che ora è?
IL BRIOSO
Ti svegli alfine?
IL RISVEGLIATO
Ho forse
Dormito molto?
IL BRIOSO
Almen sei ore.
IL RISVEGLIATO
(sbadigliando).
Tanto?
Mah!... ho anche sognato... E voi che cosa
==>SEGUE
Avete fatto?... Dio, Che sonno!...
IL BRIOSO
Nulla.
LA FANCIULLA
E tu? racconta: che facevi in sogno?
IL RISVEGLIATO
Aspetta...
(Sbadiglia).
Seguitavo a far dormendo
Ciò che faccio vegliando.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Ah!
IL RISVEGLIATO
Sì; dal sogno
Alla veglia non era altro divario.
SECONDO SAGGIO
Così va bene.
PRIMO SAGGIO
È questo un sognar sano.
SECONDO SAGGIO
Ragionevole.
PRIMO SAGGIO
Sì; ma non bisogna
Sognar troppo.
L’UOMO PINGUE
Io, per me, non sogno mai.
(S’addormenta).
LA FANCIULLA
Io qualche volta...; ma mi serve poco.
IL DISTRATTO
(guardando un moscone che ronza).
Dev’esser tardi.
IL BRIOSO
E adesso che facciamo?
IL DISTRATTO
Davvero, non saprei.
PRIMO SAGGIO
Che c’è bisogno
Di far sempre qualcosa? Riposiamo.
Tutti quelli che non si sono già addormentati, sbadigliano.
CORO
Lasciate ogni cura
D’incerto dimane:
Non gittate in opre vane
Ciò ch’è dono di natura.
Sia gioco l’amore,
Sia gioco la vita:
Quella è arte più squisita
Che più vale a ingannar l’ore.
Né falso né vero;
==>SEGUE
I rei minori, i rei maggiori, e Giuda,
E il medesimo Satana, per grazia
E sofferenza del Divino Amore,
Un dì, quando che sia, purgati e scevri
D’ogni peccato, saliranno al cielo.
Forse alcuno arguì che, sia per questa,
Sia per qualc’altra eretical dottrina
Che tra gli uomini sparsi, io son dannato:
Giudichi ognun come, gli piace: quanto
Dissi, ripeto; ciò che bramo, affermo.

UNA FANCIULLA
Se fosse vero!

UN GIOVINETTO
Se la nostra pena
Ne fosse dato consolar di tanta
Speranza!

UNA MADRE
(che ha un fanciullo tra le braccia).
Non per me; solo per questa
Creatura!

UN DELUSO
Oh leggiadro e inutil sogno

UN OTTIMISTA
Chi sa?

UN PESSIMISTA
Miseri noi! troppo somiglia
Al passato il presente, e l’avvenire
Dall’uno e l’altro non sarà diverso.

L’OTTIMISTA
questo né tu né altri lo può dire.

UN UOMO SODO
Ragionar di tai cose è tempo perso.

IL PESSIMISTA
Vani sogni al dolor son vano schermo.

UN UOMO DI MONDO
Vano non è ciò che rasciuga il pianto,
O almen ne tempra l’amarezza.
==>SEGUE
Né buono né reo:
O baldoria o piagnisteo:
Tutto il resto è menzognero.

Voci e altri rumori indistinti che a poco a poco sembrano smorzarsi nell’aria. Scendono e si diffondono le ombre della sera.

SCENA TERZA

Valle angusta tra dirupi e macchie. Mattino.

CELIO
(facendosi affannosamente incontro a una brigata
che sopraggiunge).
Compagni, amici, ah, vi ritrovo alfine!
PRIMO COMPAGNO
Chi è costì?
SECONDO COMPAGNO
Se’ tu, fratello?
CELIO
Io sono.
TERZO COMPAGNO
Dove fosti?
QUARTO COMPAGNO
Onde vieni?
PRIMO COMPAGNO
A lungo invano
T’abbiam cerco.
SECONDO COMPAGNO
Perduto ti credemmo.
TERZO COMPAGNO
Tutto lacero sei!
QUARTO COMPAGNO
Tutto graffiato
Le mani e il volto!
PRIMO COMPAGNO
Che t’accadde?
I QUATTRO ASSIEME
Parla.
CELIO
(dopo breve silenzio).
Io non so ben ridir come da voi
Fossi diviso; ma, sul primo albore,
Quando d’errar per luoghi aspri e selvaggi
Ero già stanco, appiè d’un colle io giunsi,
Che vestito di fiori e di verzura,
Fuor d’un bosco s’ergea. Non so che novo
Pensier mi prese, o che vaghezza, e crebbe
Lena alle membra. Era sereno il cielo,
Era mite il pendio. Salgo alcun poco,
==>SEGUE
Deliberato di tornar poi tosto
Su’ miei passi; ma come più m’innalzo,
Più vago e lieto il loco appar, più cresce
L’etereo lume e smisuratamente
S’apre intorno la vista e si dilata.
Salgo ancora, col sol, sempre più in alto,
Tanto che pur sulla scoverta cima
Fermo il piede e rifiato. Oh, quale allora
Sfolgorante spettacolo s’offerse
Ai bramosi occhi miei! Floridi, vasti
Campi, fronzute selve, e lontananti
Ceruli colli, e il mare immenso, il terso,
Glauco, lucido mar, che di bavose,
Candide spume interminabilmente
Cingea gli scogli e le lunate piagge,
E all’orizzonte si mescea col cielo.
Un’ebbrezza mi vince, un alto grido
Mi prorompe dal petto e più non sento
Né titubanza né fatica. Molle
E tutta sgombra verso il mar scendea
L’altra costa del monte, e sol tra il mare
E me sorgeva e verdeggiava un bosco,
Non selvaggio, non cupo, anzi d’amena
Veduta e tal che non parea dovesse
Contender molto al vïatore il passo.
Libero e salvo già mi credo. Scendo
Con agil piè, con baldo cor, voglioso
Di toccar quelle rive e di tuffarmi
In quell’onde e d’errar senza ritegno
Per l’aperta campagna. Entro in quel bosco,
Vado senza restar, cammino a lungo...:
Invan. Raddoppio, studio i passi...: invano.
Più nulla appar di quanto in alto io vidi.
Piego a sinistra, piego a destra: nulla!
Salgo, riscendo, salgo ancora; nulla!
Selva il bosco divien: spinosi arbusti
M’attraversan la via; scabro, ferrigno,
Precipitoso il suolo fassi. Intanto
Declina il giorno e già s’oscura il cielo.
Stella non spunta, tenebrose nubi
Corron nell’aria, rugge il vento, scoppia
Sovra il mio capo il tuono. Trafelato,
Brancolando, m’arranco. Intoppo in irte
Selci, in riversi tronchi e fra pungenti
Rovi i panni mi lacero e le carni.
Stilla freddo il sudor dalla mia fronte.
Erro così l’intera notte, esausto,
Cieco, senza saper dov’io mi sia,
Né dove vada... Alfin da un’erta balza
Quaggiù dirupo, in questa valle, ahi quanto
==>SEGUE
A noi già nota! e qua vi trovo.
PRIMO COAIPAGNO
Assai
Di te c’incresce; ma...
CELIO
Non più. Mi sento
Mancar... Non mi lasciate... Sorreggetemi...
Fate che alquanto sulle zolle io segga.

I compagni lo traggono a un ciglione erboso e lo fanno adagiare.

SCENA QUARTA.

Spaziosa caverna che si spalanca nel fianco del monte. In alto alcuni cipressi coronano la rupe. Nel fondo, a sinistra, s’apre nella roccia una bocca più piccola. A qualche distanza da questa, verso destra, Rolfo giace a terra, svenuto. Gli è intorno una brigata di erranti. Meriggio.

PRIMO ERRANTE
(dopo alcun tempo).
Riapre gli occhi.
SECONDO ERRANTE
In sé ritorna.
ROLFO
(guardandosi intorno smarrito).
Dove
Sono?
TERZO ERRANTE
Nella Caverna dei Cipressi.
ROLFO
Come son qui?
QUARTO ERRANTE
Vicino a quella bocca
Ti trovammo svenuto.
ROLFO
(fissando la bocca e rabbrividendo).
Ah, sì!...
PRIMO ERRANTE
Che dici?
ROLFO
Or mi sovvien...
SECONDO ERRANTE
Che dunque?
ROLFO
Orribil cosa!
TERZO ERRANTE
A noi rispondi.
ROLFO
Oh, tropp’orribil cosa!
==>SEGUE
QUARTO ERRANTE
Ei vaneggia.
PRIMO ERRANTE
Di’ su
ROLFO
Deh, ch’io non vegga
Quel bujo!
(Accenna alla bocca ch’è nel fondo. Alcuni degli erranti
si dispongono in maniera da riparargliene la vista).
SECONDO ERRANTE
Di’ sicuramente.
ROLFO
(dopo un angoscioso silenzio).
Udite. —
Era gran tempo che d’uscir di questo
Carcere maledetto io mi struggea.
TERZO ERRANTE
Come noi tutti.
ROLFO
Avevo già tentate,
Sempre invan, molte vie.
QUARTO ERRANTE
Come noi tutti.
ROLFO
Alla fin m’avvisai, dopo le alte
E le palesi, di tentar le occulte
E le profonde...
GLI ERRANTI
Ah!
ROLFO
Per quella cupa
Bocca mi misi.
GLI ERRANTI
Quella?...
ROLFO
Sì, la stessa
Dove poi giacqui.
PRIMO ERRANTE
E così solo osasti?...
ROLFO
Mi spronava il desio, mi sostentava
Un’ardente, indomabile speranza.
SECONDO ERRANTE
Temerario ardimento!
TERZO ERRANTE
Inutil rischio!
ROLFO
Nell’una mano un bastoncel, nell’altra
Una lampada avevo. Entrai. L’anfratto
Che pria m’accolse si spartiva in molti
==>SEGUE
Divergenti cunicoli, nel duro
Scoglio del monte concavati; e d’essi,
Quale salia, quale scendeva, e quale
A destra, e quale si torceva a manca.
Dopo breve, incertezza uno n’elessi
Che scendea nel profondo e con più cauto
Piede per quello m’innoltrai. La poca
Fiamma della mia lampada spandeva
Un incerto chiaror, che sola guida
Era a’ miei passi e scernere in confuso
Sol mi lasciava i men lontani aspetti.
Che vi dirò? Come potrei la storia
Tutta narrarvi del mio lungo errore?
I dubbii, l’ansie, le paure, e l’acri
Speranze sempre rinascenti e sempre
Deluse?
PRIMO ERRANTE
Fatti cor.
SECONDO ERRANTE
Séguita.
TERZO ERRANTE
Parla.
ROLFO
Senza fin quel cunicolo scendeva,
Serpeggiava, schiudeasi in nuove ambagi,
Si dilargava in rovinose ed ampie
Caverne, o divenia depresso e stretto
Tanto, che più fiate mi convenne
Andar carponi, e mi costrinse il petto
L’incrollabil macigno ed il respiro
Mi mozzò nelle fauci. — Erro lungh’ore.
Quante? Nol so. Giungo a uno speco, dove
M’appar di tratto un simulacro immane,
Un marmoreo colosso, che col teso
Braccio la via sembra che additi. Il capo,
Troppo sublime, si smarria nel bujo;
Biancheggiava il gran corpo. In un m’incuora
E mi sgomenta quella vista. Giungo
A un altro speco, nel cui mezzo sorge
Un ingente sarcofago di bronzo.
Mi corre un gelo per le vene. Passo
Un viluppo dedaleo d’anguste,
Curve latebre, sulle cui pareti
Stanno infinite lapidi segnate
D’arcane cifre e d’intricati emblemi.
E vado innanzi e torno addietro e giro,
Senza prender riposo, alla ventura.
Ecco una gradinata che in un vasto
Pozzo s’immerge. Esito; fremo; scendo.
Sinistramente sulla ferrea selce,
==>SEGUE
Tra quell’ombre, in quell’orrido silenzio,
Suona il mio passo. E scendo, scendo, scendo,
Tanto che omai sento mancarmi il fiato.
Ed ecco il fondo; ed ecco a fronte un’altra
Gradinata che sal. Risalgo quanto
Ero disceso; giungo in alto; in terra
Anelante e stremato m’abbandono...
Ah!...
GLI ERRANTI
Che?
ROLFO
Solo in pensarvi...
GLI ERRANTI
Or che?
ROLFO
La poca
Fiamma della mia lampada vacilla,
Crepita, muor. — Tenebre cieche!...
GLI ERRANTI
Orrore!
ROLFO
Orrore! orrore!
PRIMO ERRANTE
Che facesti?
ROLFO
Stetti
Come insassato lunga pezza...
SECONDO ERRANTE
E dopo?
ROLFO
Dopo...
(con uno scatto violento)
Non vo’ morire...
TERZO ERRANTE
Allor che fai?
ROLFO
(quasi smaniando).
Sorgo, cammino brancolando, cado,
Mi rialzo, ricado, mi trascino
Sulle ginocchia, striscio come un verme...
Eternità!... Da lunge odo rimbombo
D’acque travolte nell’abisso. Un vento
Impetuoso da non so che foce
Straboccando m’assal. Sotto i miei passi
Qualche cosa si sgretola crocchiando...
Mi chino... tocco... ossa spolpate...
GLI ERRANTI
Orrore!
==>SEGUE
ROLFO
Orrore, errore ! — Finalmente un fioco
Raggio, un punto di luce a gran distanza
Appar, dispare, riappar... M’avvento,
Corro, ruzzolo ed eccomi...
GLI ERRANTI
sei salvo.
ROLFO
(vaneggiando).
Salvo!... salvo!... Via!... via!... Deh, mi traete
Lungi di qua... Fate ch’io vegga il sole!...
(Sviene di nuovo).

SCENA QUINTA

Vasta spianata, cinta di rupi, di macchioni, di bizzarri e moltiformi edifizii, quali saldi ed interi, quali cadenti in rovina. S’aprono tutt’all’intorno, in gran numero, gole, spelonche, vie, callaje, angiporti, androni, fughe di colonne ed archi. Entrano da varie bande, s’incrociano, si mescolano, passano e ripassano, stuoli più e men numerosi d’uomini e di donne, di varie condizioni ed età, guidati, arringati, ammoniti, sobillati, da faccendieri, mestatori, parabolani, abbajoni, pedanti, scervellati, allucinati, i quali tutti si fanno chiamare maestri. Voci alte e fioche, clamori discordanti, acclamazioni e sibili, confusione e tumulto. Vespero.

PRIMO MAESTRO
Bisogna, per uscir di questo intrico,
Pigliar le alture, scavalcare il monte.
SECONDO MAESTRO
Ed io vi dico che bisogna invece
Andare al fondo, camminar sotterra.
TERZO MAESTRO
Orsù, non vi fermate : avanti, avanti!
Nessun si volti per guardarsi a tergo.
QUARTO MAESTRO
No! fermi tutti! s’è sbagliato strada.
Chi vuol salvarsi ha da tornare addietro.
TERZO MAESTRO
Avanti!
QUARTO MAESTRO
Indietro!
QUINTO MAESTRO
A manca!
SESTO MAESTRO
A destra!
SETTIMO MAESTRO
Prima
A manca e poscia a destra.
==>SEGUE
OTTAVO MAESTRO
Prima a destra
E poscia a manca.
NONO MAESTRO
Non gli date retta.
Via con me!
DECIMO MAESTRO
No, con me!
UNDECIMO MAESTRO
Signori, un poco
Di pazïenza. Per trovar l’uscita
Di questo laberinto è necessario
Prima di tutto di conoscer bene,
Sin dal principio, la sua storia, e dopo
Di proceder con metodo. Su questo
Tema interessantissimo, o Signori,
Io composi un volume di duemila
Centocinquanta pagine, con molte
Note, con molti documenti inediti,
Dedica a un grande neonato principe,
Tavola degli autori, prolegomeni,
Ed in fine tre indici alfabetici.
Il libro fu da dodici Accademie
Già premïato, e il nostro eccellentissimo
Ministro per l’Istruzïone Pubblica,
Uomo d’un intelletto strabocchevole.
E d’un naso che mai non v’ebbe il simile,
Riformatore degli studii classici,
Tecnici, filosofici, giuridici,
Il quale mi fu largo d’un sussidio,
E mi fece anche far commendatore,
Medita d’introdurlo nelle scuole,
E caldamente assai lo raccomanda.
Tutto questo vi prova che il mio libro
È libro della massima importanza,
Che mette i fatti a posto, i sogni dissipa,
Chiarisce i dubbii e colma una lacuna.
Eccolo qua. Compratelo, leggetelo,
Meditatelo...
(Una sassata gli fa schizzare il libro di mano).
DUODECIMO MAESTRO
Cheti. È tutto inutile.
Non v’affannate; non vi scalmanate.
Traetevi in disparte. Rassegnatevi.
Le cose son così. Non c’è rimedio.
Da questo laberinto immemorabile,
Credete a me, non uscirete mai.
GRANDE FRASTUONO DI VOCI CONTRADDITTORIE.
... Un buon governo... Nïente governo.. La scïenza...
La fede... La ragione... Inno a Satana... Il cuore di Maria...
==>SEGUE
L’amore universale... L’odio di classe... L’evoluzïone...
L’emancipazïone della donna... L’amor libero...
Il libero pensiero... Il diritto... La forza... L’azione... L’idea...
Ordine... Libertà!... Tutti eguali... La bestia... Il
superuomo... Si!... No!... Silenzio!... Abbasso!...
Evviva!... Abbasso!...
(Comincia a volar qualche sasso).
UN FURIOSO
(irrompendo nel mezzo, seguito da altri furiosi).
Qua, qua! leve e picconi! scuri e stizzi!
Sotto! Sfondate quelle porte! Sotto!
Buttate giù quelle colonne! Dàgli!
Fate saltar quei muri! A terra, a terra!
Tronchi, rupi, ogni cosa! Ferro e fuoco!
Demolite, spianate, incendïate!
A viva forza apritevi la strada!
(Massima e general confusione).

SCENA SESTA

Luogo appartato e selvaggio. Fra due pareti di roccia scabra ed erta s’apre una forra assai angusta, il cui ingresso è quasi otturato da sassi e da cespugli.

IL GIOVANE PENSIEROSO
(uscendo a passi precipitosi e fermandosi a un tratto).
Ah, solo alfin!... Fuor della calca, lungi
Da quell’osceno turbinar di voci,
Da quel vano, insensato, obbrobrïoso
Tumulto!... Dove son?
(Si guarda intorno).
Propizio il loco
Parmi... Non v’è nessun... Non orma in terra
D’umano piè... Di qui la prima mossa...
Fa per entrar nella forra. Improvvisamente, sulla rupe, a destra,
appare una fanciulla con un ramoscello in mano. I due si
guardano alcun tempo in silenzio, meravigliati.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Chi sei?
LA FANCIULLA
Una smarrita. — E tu chi sei?
IL GIOVANE PENSIEROSO
Un che cerca la via.
LA FANCIULLA
(dopo breve esitazione).
Prendimi teco.
Non mi lasciar così sola... Ho paura.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Fa ch’io ti vegga.
==>SEGUE
(La fanciulla scende timidamente. Egli le si fa incontro).
È pallido il tuo volto.
LA FANCIULLA
(con voce tremante).
Son molto stanca.
IL GIOVANE PENSIEROSO
È limpido il tuo sguardo.
LA FANCIULLA
(supplichevole).
Deh, non lasciarmi!
IL GIOVANE PENSIEROSO
Faticoso e lungo
Il cammino sarà.
LA FANCIULLA
(con voce rinfrancata).
Non son più stanca.
IL GIOVANE PENSIEROSO
(con premura).
Ti reggerò. — Dammi la mano.
LA FANCIULLA
(porgendogliela).
Prendi.
S’accostano alla forra. Egli, con la mano che ha libera, smuove
i sassi e i cespugli ed apre un varco.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Di qui non deve mai passar nessuno...
Vuoi che tentiamo?
LA FANCIULLA
Ah, sì!
IL GIOVANE PENSIEROSO
(con tenerezza).
Vieni.
LA FANCIULLA
Son pronta.
IL GIOVANE PENSIEROSO
Con fede.
LA FANCIULLA
Con speranza.
TUTT’E DUE INSIEME
Con amore.
Penetrano nella forra e spariscono.
I NAVIGANTI
SOGNO IN VIGILIA

Sterminata solitudine di mare tranquillo, sotto cielo sereno. In mezzo ad essa una gran nave antica, che a vele spiegate procede stracca verso il ponente. A poppa, una bandiera fosca, fluttuante intorno all’asta; a prua, una polena di lucido rame, col braccio e l’indice teso. Sul cassero, seduti in crocchio, uomini e donne, giovani e vecchi. È l’ora del tramonto, a cui poi sussegue la notte, e a questa il mattino.

CANTO DEL GABBIERE
(che sta in vedetta sulla coffa dell’albero di trinchetto)
Vasto e deserto il mare,
Vasto e deserto il cielo:
Solo di nubi un velo
Là da libeccio appare.
L’acqua dormente e cupa
Senza confin si spande:
Fatto più roggio e grande,
Nell’acqua il sol dirupa.
UNA FANCIULLA
Ah, quest’antica e lamentosa nenia,
Sempre ch’io l’oda risonar, di nova
E più scura tristezza il cor m’ingombra!
UNA DONNA CANUTA
Antica nenia!
UN’ALTRA
Lamentosa nenia!
UN GIOVANE
Rutila pende sull’azzurro gorgo
L’ignea rota del sol.
SECONDA FANCIULLA
Come distesa!
TERZA FANCIULLA
Come trascolorata!
UN UOMO DI MEZZA ETÀ
Oh, quanto volte
Già la vedemmo traboccar nell’onde
In cotal guisa!
UNA DONNA ANCOR GIOVANE
Un altro dì vien meno.
UN VECCHIO
Consunto è un altro dì.
UN FANCIULLO
Perché si leva
Ogni mattina, perché poi la sera
Tramonta il sol?
==>SEGUE
SECONDO VECCHIO
Per tramontar si leva.
PRIMO GIOVANE
Ecco, già rade il flutto.
SECONDO GIOVANE
Ecco, s’affonda.
TERZO GIOVANE
Tutto è sommerso.
PRIMA FANCIULLA
È così breve il giorno.
L’UOMO DI MEZZA ETÀ
È così lungo il tempo!
TERZO VECCHIO
Il tempo mai
Non finisce.
QUARTO VECCHIO
Lo spazio al par del tempo
Mai non finisce.
PIÙ VOCI INSIEME
Immensità!
PIÙ ALTRE VOCI INSIEME
Silenzio!
PRIMO VECCHIO
Silenzïosa immensità!
PRIMO GIOVANE
Non altro
Agli occhi appare se non acqua e cielo.
IL GABBIERE
Sotto le stelle chiare,
Sotto i cocenti soli,
Fragile prua, tu voli
Per l’inesausto mare.
E il vento t’affatica,
E ti conquassa l’onda,
O stanca vagabonda,
O vagabonda antica.
PRIMA PANCIULLA
Acqua e ciel, cielo ed acqua!
L’UOMO DI MEZZA ETÀ
Sempre.
PRIMO GIOVANE
Lassi!
Dove n’andiamo?
SECONDO GIOVANE
Lassi! onde veniamo?
PRIMO VECCHIO
Sempre lo stesse andar; sempre le stesse
Domande vane.
TERZO GIOVANE
A che questo vïaggio?
==>SEGUE
PRIMO VECCHIO
Chi lo sa.
SECONDO VECCHIO
Chi lo sa.
PRIMO GIOVANE
Quando avrà fine?
TERZO VECCHIO
Chi lo sa.
QUARTO VECCHIO
Chi lo sa.
L’UOMO DI MEZZA ETÀ
Certo da lungo,
Lungo tempo esso dura.
PRIMO VECCHIO
Oh, sì, da lungo,
Lungo tempo.
SECONDO VECCHIO
Nessun ricorda quando
Sia cominciato.
TERZO VECCHIO
No; di noi nessuno.
PRIMA FANCIULLA
(accennando la bandiera a poppa).
Ah, quello scuro e luttuoso drappo,
Come s’affalda e si contorce al vento!
QUARTO VECCHIO
Tutti su questo guscio, in mezzo al mare,
Nascemmo; e quei che v’eran nati prima,
E quei che prima vi morir canuti,
Non sepper più di noi.
PRIMO VECCHIO
Quanti vedemmo
Sparir nel vasto e muto grembo!
SECONDO VECCHIO
Quanti!
L’UOMO DI MEZZA ETÀ
Né tutti eran canuti.
UNA DONNA MATURA
Oh, no!
UN’ALTRA
No!
L’UOMO DI MEZZA ETÀ
Molti
Che ancor gagliardo aveano il braccio, e biondo
O nero il crine.
TERZA FANCIULLA
Giovani!
TERZO GIOVANE
Fanciulle!
==>SEGUE
UNA DONNA CANUTA
Bimbi!
UNA MADRE
(piangendo).
Il mio bimbo!
PRIMA FANCIULLA
(piangendo).
Il mio tenero amore!
PRIMO GIOVANE
La mia candida sposa!
SECONDO GIOVANE
Il caro amico.
QUARTO VECCHIO
Tutti dobbiam finire in fondo al mare.
(Si addormenta).
PRIMO VECCHIO
L’un dopo l’altro.
IL FANCIULLO
Io pure?
SECONDO VECCHIO
Tutti.
IL FANCIULLO
(spaurito).
Oh, mamma!
LA MADRE DEL FANCIULLO
(abbracciandolo).
Con la tua mamma, figliuol mio.
PRIMO GIOVANE
Guardate
Il nostro capitan! Dio, com’è vecchio!
L’UOMO DI MEZZA ETÀ
Più di noi tutti.
PRIMO VECCHIO
Era già tale al tempo
Della mia fanciullezza.
TERZA FANCIULLA
Immoto e curvo
A mezzo il ponte, com’è suo costume!
PRIMO GIOVANE
Chi sa che cosa nella mente ei volga?
SECONDO GIOVANE
Un occulto pensier.
TERZO GIOVANE
Parola mai
Non dice.
PRIMO GIOVANE
Interrogato, non risponde.
SECONDO GIOVANE
Parla solo per cenni.
==>SEGUE
TERZO GIOVANE
Anche il piloto
È vecchissimo.
PRIMO GIOVANE
E muto.
PRIMA FANCIULLA
Ah, quel piloto!
M’agghiaccia co’ suoi grandi occhi di vetro
Eternamente fitti all’orizzonte.
SECONDO GIOVANE
Anche il piloto e il capitano un giorno
Morranno.
L’UOMO DI MEZZA ETÀ
I vecchi marinai morranno.
QUARTO VECCHIO
(destandosi improvviso).
Tutti dobbiam finire in fondo al mare.
(Lungo silenzio).
IL GABBIERE
Quante fiammelle accese
Alla penombra in seno!
Che lucido sereno,
Che infinità palese!
Oh, delle notti illune
Placido incantamento!
Solo, alïando, il vento
Freme tra fune e fune.
PRIMO GIOVANE
(ai vecchi).
Certo più cose non apparse agli occhi
Di noi giovani mai, certo più cose
Voi doveste veder, padri, nel corso
Di sì lungo vïaggio.
PRIMO VECCHIO
Oh, sì, più cose...
I GIOVANI E LE FANCIULLE INSIEME
Deh, narrate, narrate.
SECONDO VECCHIO
Oh, gli è gran tempo.
TERZO VECCHIO
Siam così vecchi!...
QUARTO VECCHIO
Ci trema la lingua...
QUINTO VECCHIO
Ci si confonde la memoria...
SESTO VECCHIO
È bujo...
Non possiam più...
I GIOVANI E LE FANCIULLE INSIEME
Deh, narrate, narrate.
==>SEGUE
PRIMO VECCHIO
(dopo alcuna sospensione).
Io mi ricordo (ero fanciul di forse
Nove o dieci anni) che un mattin ne apparve
All’improvviso una città d’eccelse
Moli superba e sfolgorante al sole.
Ardui colli avea da tergo, scuri
Di frondosa foresta, e sulle rive
E le calate s’agitava un denso
Popolo a moltiforme opera inteso.
Stupor ne vinse e desiderio a un tempo.
Stanchi eravam del lungo errare: un porto
Alfin dinanzi ne s’apria. Tentammo
D’entrarvi, d’approdar... Vana fatica!
Impetuoso un vento ne respinse
In alto mare e la città disparve.
SECONDO VECCHIO
Una volta, è gran tempo (oh, non saprei
Dir quanto tempo!) fu da noi veduta
Una città sommersa in fondo al mare.
Lenta la nave trascorrea sopr’essa.
Nel vitreo gorgo si vedean le torri
Salir diritte, accavallarsi i tetti,
Star simulacri ed archi e lunghe file
Di marmoree colonne, aprirsi i Fôri
E diramarsi le intricate vie.
Pareva un sogno in fondo al mar. Passammo.
Deserto d’acque. Nessun mai di quella
Città sommersa udì la storia o il nome.
TERZO VECCHIO
Non so quando; non so se nel presente
O nel passato secolo, una notte
Dall’onde alzarsi e sovrastar vedemmo
Un terribile monte. Inorridisco
Pure in pensarvi. Dalla tronca cima
Vomitava ne’ cieli una procella
Di negro fumo e di purpureo foco,
Giù per i fianchi dirupati e l’alte
Ruine serpeggiavano torrenti
D’accesa lava, che attingendo l’acque
Furïosi stridean, vortici alzando
Di bollente vapor. Lucide folgori
Entro il nembo guizzavano ed empiea
L’aer confuso e percotea nell’onde
Un cupo, immenso, irrefrenabil tuono.
Via fuggimmo volando e in poco d’ora
Dentro le cave tenebre si spense
Quell’orribile vista e fu silenzio.

==>SEGUE
QUARTO VECCHIO
Una notte... Splendea tonda nell’alto
Sopra le affascinate acque la luna,
E di candido immenso, etereo lume
E d’arcana quïete empiea lo spazio.
Altra in cielo e sul mar luce di sogno
Simile a quella luce io mai non vidi.
Ed ecco, a un tratto, il cerulo fantasma,
Poco da lungi, d’un vascel ne apparve,
Molto maggior di questo nostro e molto
Più antico all’aspetto. A un vagabondo
Alito boreal tutte spiegava
Come dismisurate ali le vele,
E vaporoso, tacito, leggiero,
Larva parea dal fluido ciel discesa
Sulla stupita vastità del mare.
Chiamammo a lungo; invan. Per ben tre volte
Nel gran silenzio folgorò la voce
Del cannone di prua. Nessun rispose.
Misterïosamente in cotal guisa
Innanzi a noi, quanto durò la notte,
Parve errare e fuggir; poi, come prima
In orïente rosseggiò l’aurora,
Si sciolse in fumo e dileguò per l’aria.
QUINTO VECCHIO
(che a stento può parlare).
Io... ma forse fu sogno!... in un lontano,
Lontano giorno dell’età mia verde...
Calando il sol là da ponente... vidi
Sull’acque terse una gioconda piaggia,
Tutta di fior vestita e cinta in giro
Di frondifera selva... Umana forma
Non v’apparia, né segno alcun d’umane
Opere... ma venia da quella selva
Per l’aere un suon di canti, oh, così dolci,
Così soavi e teneri!... se pure
Sogno non fu!... Molt’altre cose io vidi
Nel caro tempo dell’età mia verde...
E sull’onde e nell’onde e in cielo ancora...
E ancora in ciel!... se pur non furon sogni.
SECONDA FANCIULLA
Oh, vaghissimi sogni!
SESTO VECCHIO
(con voce di trasecolato).
Io quella vidi
Che tanto amai, che più non è. — Talvolta
Parmi ancor di vederla... in alto... Il bujo
Si riempie di luce...
(Silenzio).
==>SEGUE
L’UOMO DI MEZZA ETÀ
Io nulla vidi,
Sia nel ciel, sia nell’onde, o sopra l’onde,
Pari alle cose da costor vedute,
O immaginate. Pure un dì m’accadde
(Molt’anni sono da quel dì trascorsi)
Che allo spuntar dei primi albori, quando
Già s’abbaglian le stelle, io mi trovai,
Né so perché, seduto qua, com’ora,
Ma senza compagnia. Solo al suo posto
Vegliava il timonier: sotto coperta
Ogni altr’uomo dormiva. Eran del resto
Tutte le vele ammainate, senza
Moto la nave, queta l’aria, chiaro
Il ciel, deserto il mare... All’improvviso.
Come saetta che dall’arco scocchi,
Volò per l’aria un grido... oh, quale, certo
Mai non percosse umane orecchie! un alto,
Lungo, squillante, strazïante grido,
Che lamento e comando e sfida a un tempo
E minaccia parea. Come saetta
Volò per l’aria e dileguò lontano.
Chi l’avventava? onde venia? Mistero!
Nessun mai lo dirà. Ma dileguato
Non s’era ancor, che repentinamente
Tumultuando dalle boccaporte
Il capitano e i marinari tutti
Irruppero sul ponte; e molti a prua
Corsero a mo’ di gregge agglomerandosi
Fin sul bompresso; altri abbrancando i tesi
Canapi sui pennoni e sulle antenne
S’arrampicâr. Nessun fiatava. Tutti
Le smunte facce e le incavate occhiaje
Tenean converse all’occidente, dove
Si spegne il sol. Passò brev’ora. Il sole
Sfolgorò da levante, irradïando
Il cielo e il mare. Inutile vigilia!
Vana speranza! All’avide pupille
Non apparia se non il cielo e il mare.
(Silenzio).
IL GABBIERE
Una quiete stanca
Piove sull’acque in giro:
Il fremebondo spiro
Ch’empiea le vele, manca.
Laggiù, dall’occidente
Lungo la balza estrema,
Silenzïoso trema
Un balenio lucente.
(Lungo silenzio).
==>SEGUE
PRIMA FANCIULLA
Come animato spiro ecco di novo
Alita il vento.
PRIMO GIOVANE
Fugge via.
SECONDA FANCIULLA
Ritorna.
SECONDO GIOVANE
Le vele intumidiscono.
TERZA FANCIULLA
Di novo
Fende l’acque la prua.
TERZO GIOVANE
Già della notte
Molta parte è trascorsa.
PRIMO GIOVANE
È già rotato
Per molta parte il ciel.
PRIMA FANCIULLA
Placida notte!
TERZA FANCIULLA
Lucida notte!
TERZO GIOVANE
Quante stelle!
PRIMO GIOVANE
Quella
Che di tutte maggior splendea nell’alto,
Vedete là com’è discesa e trema
A fior dell’onde.
PRIMA FANCIULLA
Che silenzio immenso!
PRIMO VECCHIO
Tiepida è l’aria.
TERZO GIOVANE
Maliosa è l’ombra.
SECONDO GIOVANE
(alla seconda fanciulla).
Tu che fai così muta?
SECONDA FANCIULLA
Ascolto il vento
Che freme e canta nei cordami. Un lieve
E dolce canto spirital... gorgheggio
D’anime... così dolce e così lieve!...
Odi?
SECONDO GIOVANE
Sì, odo.
SECONDA FANCIULLA
E tu che fai?

==>SEGUE
SECONDO GIOVANE
Dell’onde
Che il faticoso tagliamar divide
Ascolto il molle e querulo gorgoglio...
E spio nell’ombra la tua bianca faccia.
SECONDA FANCIULLA
Arcane voci!
SECONDO GIOVANE
La tua voce!...
SECONDA FANCIULLA
Arcana
Dolcezza!
SECONDO GIOVANE
Oh, la tua voce!...
SECONDA FANCIULLA
Il cor mi trema...
SECONDO GIOVANE
A che pensi?
SECONDA FANCIULLA
Ben sai.
SECONDO GIOVANE
Dimmelo ancora.
PRIMO VECCHIO
(quasi tra sé).
Labile sogno! eterno sogno!
SESTO VECCHIO
(quasi vaneggiando).
Quella
Parmi veder che più non è...
QUINTO VECCHIO
(con voce semispenta).
Sia pace...
UNA VOCE CUPA E FORTE
Ammainar tutte le vele! Ammaina!
(Silenzio).
SECONDO GIOVANE
(alla seconda fanciulla).
Deh, parla.
SECONDA FANCIULLA
Omai più non ti scerno... Il sonno
Le palpebre m’aggrava... Eppur m’incresce
Dormir: la notte è così bella!...
SECONDO GIOVANE
Dormi.
Dammi la man, sulla mia spalla inclina
Il capo e dormi. Anch’io... sovra il tuo capo...
(S’inclinano l’un sull’altro e s’addormentano. Silenzio).
PRIMO VECCHIO
Ognun tace.
==>SEGUE
SECONDO VECCHIO
I più giovani si sono
Addormentati.
TERZO VECCHIO
I più maturi anch’essi.
QUARTO VECCHIO
Soli noi vigiliam.
PRIMO VECCHIO
Fugge dagli occhi
Del vecchio il sonno.
SETTIMO VECCHIO
(il quale è cieco e non ha mai parlato).
Fugge il lume.
SECONDO VECCHIO
Il vecchio
Torna fanciul, ma del fanciullo il sonno
Più non racquista.
PRIMO VECCHIO
Eppur siam stracchi.
TERZO VECCHIO
Tanto,
Tanto stracchi!
QUARTO VECCHIO
Dormiam, se ne vien fatto.
QUINTO VECCHIO
Non posso più... Vorrei dormir per sempre...
SECONDO VECCHIO
Sì, cullato dal mar, sotto le stelle.
PRIMO VECCHIO
Dormir, forse sognare...
SETTIMO VECCHIO
Io nulla vedo...
Nemmeno in sogno...
TERZO VECCHIO
Ahimè!
SESTO VECCHIO
Sognar di quella
Che tanto amai... ultimo sogno!...
QUINTO VECCHIO
In pace!...

Anche i vecchi si addormentano. Lungo silenzio. Il cielo comincia a sbiancare in oriente. Calma profonda. La nave, con tutte le vele ammainate, è ferma in mezzo all’acque.

IL GABBIERE
Sperde una luce scialba
L’oscurità ribelle:
Impallidir le stelle
Vedo nei cieli: è l’alba...

==>SEGUE
D’improvviso uno squillante, impetuoso grido lacera l’aria. I dormienti si destano di strabalzo. I vecchi si levano barcollando. Il cieco si arranca sulle ginocchia. Dalle boccaporte irrompono tumultuando sul ponte il capitano e tutti i marinai. Molti corrono, accalcandosi, a prua; altri salgono sull’alberatura. Tutti tengon le facce volte all’occidente: nessuno fiata. Passa alcun tempo. Il sole si leva folgorando dall’onde.

IL GABBIERE
Di fiamme il ciel s’accende;
Comincia un novo giorno:
Senza confine intorno
Il vitreo mar si stende.

LA STATUA VELATA

Intimo recesso di un tempio sontuoso. Luce come di crepuscolo. Sopra un altare, a cui si accede per una gradinata marmorea, la statua velata, entro un nimbo di luce più chiara. Sul primo gradino, il temerario, in atto di salire; sull’ultimo, il sacerdote, in atto di opporglisi.

IL SACERDOTE
Empio, che ardire è il tuo? Fu sacrilegio
Ad un profano penetrare in questo
Invïolabil santuario.
IL TEMERARIO
Sia.
IL SACERDOTE
Va’, dilèguati!
IL TEMERARIO
No.
IL SACERDOTE
Ch’altro presumi?
IL TEMERARIO
Di quel velato simulacro io voglio
Le fattezze mirar.
IL SACERDOTE
Tu della Dea?...
Tracotante, non più! Ciò ch’io non oso
Fingermi nella mente; io sacerdote
Ai gran misteri inizïato; io sommo
D’irrivelabil religion ministro,
Scevro di colpa e di scïenza pieno;
Tu con pupille invereconde; tu
Con voglia impura e con protervo core,
Tu, sciagurato, contemplar vorresti?
==>SEGUE
IL TEMERARIO
Che tu non osi, bene sta. Fra queste
Mura stranier più ch’io non sia tu sei.
Io molto bramo, nulla temo, tutto
Oso.
IL SACERDOTE
Stolto esser dèi più che malvagio.
Or cessa: riedi onde venisti.
IL TEMERARIO
Sappi
Ch’io receder non so; che mai per cosa
Che mi sorgesse a fronte io non ritorsi
Fuggitivo i miei passi.
IL SACERDOTE
Il nume oltraggi!
Temi l’ira del nume.
IL TEMERARIO
A te s’addice
Più che a me di temerla: a te che in freddo
Carcere lo sequestri: a te che larvi
Di vane pompe e di bugiardi veli
Il vivifico aspetto, e agl’imploranti
Adoratori lo contendi.
IL SACERDOTE
Insano!
Fulminato cader su questi marmi
La sua parvenza ti faria.
IL TEMERARIO
Te, forse;
Me non già. Ma quand’anche... Orben, più giova
Incenerito qui cader che solo
Un’altr’ora languir di cotal brama.
(Salendo):
Scòstati!
IL SACERDOTE
(protendendo le mani).
Ferma! Indietro!
IL TEMERARIO
A tuo dispetto!

Con l’una mano spinge il sacerdote da banda; con l’altra strappa il velo. Subitamente il simulacro della Dea appare nella candida e meravigliosa sua nudità. Il sacerdote, esterrefatto, cade con la fronte al suolo, si copre con le mani il volto. Il temerario rimane in piedi, col viso levato, con le braccia tese, in atteggiamento d’estatica ammirazione.

==>SEGUE
IL TEMERARIO
(dopo alcun tempo, con voce sonora, melodiosa e profonda).
Viva sembianza, pura
Incorruttibil forma,
Ch’esempio alla natura,
Che alla beltà sei norma,
Qual luce inestinguibile,
Qual luce sovrumana,
Dissipando le tenebre,
Dalla tua gloria emana?
Oh, Dea, com’è sereno
E placido il tuo viso!
Come di grazia pieno
E di clemenza il riso!
Perché gli abietti e i perfidi,
Nati al remo, alla gogna,
Perché gli stolti narrano
Di te sì gran menzogna?
Una letizia nova
Nel petto mio discende;
Con l’intelletto a prova
Il cor s’estolle e accende:
Manca ogni duol; le torbide
Voglie son vinte e mute;
Dentro di me risorgono
La forza e la salute.
Oh, cara Dea! tu fammi
Della tua grazia degno,
Sì che mi scaldi e infiammi
La carne, il cor, l’ingegno:
Or che la sacra imagine
Senza velami io scerno,
Ora, beato e supplice,
Al tuo piè mi prosterno.

S’inginocchia dinanzi all’altare e si raccoglie in tacita adorazione.