CULTURA
COLLABORA
GRANDI POETI
NEWS













































Arturo Graf


LE RIME
DELLA SELVA

2



MITOLOGIA

Poi che il buon tempo è fuggito,
Un pover uomo diviene
(Se di più viver sostiene)
A se medesimo un mito.

E ricordando il passato,
Dubita e chiede sovente:
Fu tutto ciò veramente,
O l’ho soltanto sognato?

Stanco si ferma per via,
E tutto ciò che rimembra,
E per cui visse, gli sembra
Antica mitologia.

A UN CORVO

Vedo. Tu sei tra i pennuti
Quello che chiamano un corvo.
Perché mi squadri e mi scruti
Così tra il lepido e il torvo?

Perché m’osservi? Che vuoi?
Un uomo io sono, de iure.
Un pover uomo? sia pure:
Povero e malato: — e poi?

Non io per ciò mi confondo.
Eh, un di più, un di meno...
Il mondo n’è tutto pieno,
Il nostro amabile mondo.

Ho detto nostro? Benone!
Gua’, non saprei di noi due,
O vuoi del rospo o del bue,
Chi v’abbia maggior ragione.

Io, quanto a me, ve lo dono,
Gratis. O che dovrei farne?
Sì: mondo, demonio, carne,
Ogni cosa v’abbandono.

==>SEGUE


Anche la carne. Buon Dio!
Quanti fastidii m’ha dato!
E sempre il dolce peccato
Fu suo piacer più che mio. —

Ho udito dir che i tuoi pari
Campano cento e più anni:
Per centomila malanni!
Io non v’invidio, miei cari.

Io non v’invidio, davvero.
Quel brutto numero cento
Mi fa tremar di spavento:
Avrei più caro un bel zero.

Cento son troppi, compare,
Comunque l’uom la rattoppi:
Cento son troppi, son troppi,
E la metà può bastare.

E può bastare anche il quarto,
Oppure il terzo. A che scopo,
Di’, rimanersene dopo
Come una merce di scarto?

Meglio (a me sembra così)
Vivere poco ma bene...
Se non che, povere schiene,
Il difficile sta qui. —

Come sei nero a vedere!
Per altro nel mondo io vidi,
Non mi sovviene in che lidi,
Cose forse anche più nere.

Sei nero, sì; ma non tutto
Ciò che appar bianco è poi bello;
E infine tu, per uccello,
Non si può dir che sii brutto.

Hai uno splendido becco,
E di bonissimo sesto:
Con becchi come cotesto
Non c’è da restare in secco.

==>SEGUE


E la voce? di soprano.
Forse un po’ ruvida e fessa;
Ma (questo è quel che interessa)
Ti fai sentire lontano. —

Via dunque, perché mi guardi
Con sì enimmatica cera?
Già s’avvicina la sera:
Lo sai, figliolo, ch’è tardi?

Vieni a darmi il ben venuto?
Ricordi, per avventura,
D’avermi su quest’altura
Un’altra volta veduto?

Ricordi?... Allora, figliolo.
(Dio, quanto tempo è passato
Da quell’allora beato!)
Allora non ero solo.

Adesso sì. Non importa.
M’ajuto con far dei versi...
E poi, non giova dolersi
Troppo: la vita è sì corta!

Sì corta e sì fuggitiva,
Che quasi, starei per dire,
Non s’ha tempo di capire
Se la sia buona o cattiva.

No, ti dico, non bisogna
Lagnarsi più del dovere:
In fondo, come il piacere,
Anche il dolore è menzogna.

Tutto finisce alla fine.
Coraggio, poveri cuori!
Passano, passano i fiori;
Ma passan anche le spine. —

Adesso tagliamo corto.
Che cosa aspetti? Non senti
Come fa freddo? Accidenti!
Vuoi aspettar ch’io sia morto?

==>SEGUE
Bada: tu vedi: son magro,
E in vita mia non fui grasso;
Colpa l’andar molto a spasso,
Mangiar poco, bever agro.

Mah! fa tu. Solo t’avverto
Che se lasci passar questa
Occasïone, addio festa!
Non mi vedrai più di certo.



LUNA SORGENTE

Simile a una defunta,
Bianca, silenzïosa,
La luna scema spunta
Dietro l’erta selvosa;

E illumina le vette,
E rasserena il lago,
Che vitreo riflette
La spiritale imago.

Scura e selvosa l’erta:
Nitido e chiaro il cielo:
Sulla piaggia deserta
Non tremola uno stelo;

Non tremola una fronda
Nella boscaglia densa:
Tranquillità profonda,
Solitudine immensa!

O scolorata luce,
Tu le fumane lievi
Che il vallone produce
Silenzïosa bevi.

O luce sfigurata,
Tu con lenta malia,
Per l’aria assiderata
Bevi l’anima mia.






Pagina a cura di Nino Fiorillo == e-mail:nfiorillo@email.it ==
 
Arturo Graf
(1848-1913) e
Giacomo Leopardi (1798-1837)
_________

di Ayleen Boon
__________________
Leopardi e Graf

In questo capitolo cerchero di spiegare quali sono le differenze tra Leopardi e Graf nelle loro correnti e nei pensieri filosofici, e nelle differenze e le analogie nell.uso de luoghi poetici da parte di Graf e da parte di Leopardi.

Differenze e analogie:
Le idee e il modo
di usare i topoi

Per capire le differenze e analogie nel modo di usare il topos, dobbiamo analizzare le idee e la filosofia di Graf. La concezione pessimistica del poeta ha una duplice origine; si e sviluppata da un.innata deviazione della mente (cioe proprio una malattia psicologica) e dall.influenza dei poeti Leopardi e Baudelaire; quest.ultimo poeta infatti e predominante e la maggior parte dei suoi lavori tristi sono stati composti mentre stava camminando metaforicamente nel suo giardino avvelenato e artificiale. In Leopardi prevale una perfezione classica, sfumata pero con un pathos romantico. Le poesie di Graf lasciano il disgusto nel cuore, e non con quel senso di un.enorme bellezza che, come in Leopardi, s.erge sopra la sua desolazione disperata. La differenza tra Graf e Leopardi si trova nella raffinatezza dei pensieri e nella melodia dell.anima della poesia. In Graf sta crescendo il pensiero malvagio nelle tenebre, silenzioso; lentamente riempie tutta l.anima smarrita. Ho visto che il poeta ha un gusto malato per la bruttezza e per il bizzarro e il macabro. A parte questo, alcune delle sue poesie sono poco realistiche e piene di fantasie. La sua mente e uno specchio, offuscato dalla nebbia del dubbio, dai pensieri scuri, dalle idee incongruenti, in base alla filosofia di Schopenhauer. Come esuli volontari, questi filosofi si ritirano dal mondo degli uomini, e mantengono fino all.ultimo sospiro la loro attitudine nemica contro la vita. Graf riconosce in se un fiero spirito ribelle, duro per se stesso, nato per essere la sua rovina e per causare disagio agli altri. E terrorizzato dal potere di forze inspiegabili, dall.immensita dello spazio dove ogni cosa vede la nascita e la morte di innumerevoli mondi, i quali vengono buttati nei .golfi inesplorati. delle .fontane inesauribili e ardenti. dell.abisso. Parla dell.orrore dell.oceano infinito e senza fondo nel quale, per sempre, le ore passano e spariscono e nel quale l.eta muore. Egli parla anche del cielo nero e profondo, in cui la vanita del mondo, clamorosa e variopinta, svanisce come la nebbia.
Nella sua concezione, l.universo diventa per lui un enigma odioso; nei suoi incubi lui si perde nei boschi, dove la morte lo aspetta; il poeta vaga sulle pianure desolate, lungo le paludi grigie; egli si eleva nello spazio senza limiti, dove le stelle si sono diffuse come la polvere dei fiori. Ed egli si paragona a una meteora ardente, che vola attraverso il buio pauroso della notte infinita. La poesia diventa per lui un tormento, un immenso dolore. Leopardi invece non ha una testa cosi ribelle e despotica come quella di Graf. Egli e in grado di vagheggiare le sue illusioni piacevoli, le segue e le ama ed e triste quando viene riportato alla realta che distrugge i suoi sogni perche in lui domina il sentimento. Leopardi sa distinguere la fantasia dalla ragione, ma quando vive la vita dove predomina la ragione, il suo cuore cerca di contraddirlo e lo conduce ai mondi diversi, nei suoi sogni. Il cuore o il sentimento di Graf non ardisce di contraddire la ragione. Ha soltanto il sentimento .della tristezza invincibile di chi sa di vivere senza utilita e senza scopo..78 Leopardi riesce a pensare che finche l.immaginazione e il sentimento sono vivi, nascono nel pensiero care illusioni che spingono alla vita, come nei popoli e negli uomini giovani. E quando c.e la forza di immaginare, di sentire o di amare, il male della scienza si puo signoreggiare ed egli puo scappare dal mondo intellettuale. E chiaro che per loro due rispettivamente la luna e il mare ricoprono un ruolo importante e li trovano il loro conforto per la mente triste. I due poeti fanno entrambi un viaggio mentale nel passato, si lasciano tutti e due portare in un altro mondo per cercare il .perche. della vita. Essi pensano che la vita terrena sia senza scopo, sia inutile e questo li fa sentire tristi. Per Graf questa tristezza e invincibile, non trova una soluzione per superarla. Ma, come accennato prima e chiaro nella poesia di Leopardi, egli si perde nel sentimento e nei suoi sogni: Anche se il poeta sa bene distinguere la fantasia dalla verita, in quel momento i sogni sembrano la verita ed egli vive dei momenti di felicita, pensando al passato. Il viaggio grafiano invece e una .simbolizzazione della morte, un.allegoria tragica della vita sospinta da una tenace e delusa speranza a schiantarsi contro il nulla finale..79 Questo l.abbiamo visto anche con l.uso del termine .naufragare nel mare. in Medusa e ne .L.Infinito.: mentre Leopardi gode il momento dei suoi pensieri infiniti che lo portano via, Graf conclude che la vita sulla terra e solo lo schantarsi contro il nulla. Non puo godere totalmente quel momento di ricordare momenti dal passato.
Se analizziamo la descrizione del mare .come abbiamo visto nel secondo capitolo- il mare di Graf non e un mare bellissimo, tranquillo e colorato. Esso viene sempre descritto in modo tragico e terribile; presenta sempre un viaggio pauroso e misterioso, che finisce con lo schiantarsi contro la morte. Dopo aver paragonato le differenze tra l.uso e la descrizione della luna di Leopardi (calma dolce e amorosa) e il mare di Graf (sinistro,oscuro e misterioso), potremmo dire con Anna Dolfi che il mare di Graf e .una luna sanguinolenta.80, invece della luna dolce di Leopardi.

Conclusione

In questa tesi ho provato a trovare una risposta alla domanda seguente:
Il ruolo del mare in Medusa di Graf ha la stessa funzione della luna ne I canti di Leopardi? Entrambi sono luoghi di conforto? Ci sono anche delle differenze tra i due poeti nel modo di esprimere questo concetto di conforto?
Per rispondere a questa domanda bisognava approfondire le differenze tra i due poeti, cresciuti in diverse fasi del periodo del Romanticismo in cui l.uomo riscopre quello che esiste fuori dalla capacita della gente: l.infinito. I filosofi hanno cercato di confrontarsi con quel fenomeno, sperando di trovare un significato alla realta. Come ho detto nell.introduzione e proprio di un romantico soffrire per l.esistenza umana vuota e senza senso e vedere la vita piena di infelicita e imperfezione, e per questi motivi andare a cercare altrove la propria felicita: nei sogni e ideali, nel passato e nella natura.
Il Romanticismo ha influenzato entrambi i poeti. Nel mondo stanno cercando la risposta alla questione: .qual e lo scopo della vita sulla terra?. Dal momento che nessuno e in grado di dar loro una risposta, vanno a cercarla altrove: come abbiamo visto Leopardi nella luna e Graf nel mare. Questi sono i loro topoi naturali, dai quali sperano di trovare una risposta. In realta questo e un viaggio mentale, che entrambi i poeti compiono. Visto che ne la luna ne il mare sono in grado di parlare con loro, il viaggio e un viaggio interiore: Graf e Leopardi ci riflettono e pensano in modo filosofico alla vita che vivono. Ma abbiamo anche visto che entrambi i poeti prendono gia un po.di distanza dal Romanticismo: cominciano a scollegare l.unita tra l.uomo e la natura. Non vedono piu la natura come un testimone per l.essere del poeta, ma una presenza indifferente. Graf e piu sperimentale di Leopardi. Leopardi osa distaccarsi un po. dal romanticismo, Graf prende elementi da altre correnti come il Simbolismo e La Scapigliatura.
Abbiamo visto nel primo capitolo che Leopardi e in grado di lasciar perdere i suoi pensieri razionali ed egli e in grado di vagheggiare le sue illusioni piacevoli, le segue e le ama ed e triste quando viene rigettato nella realta che distrugge i suoi sogni perche in lui predomina il sentimento. Condivide i suoi sogni con la sua amica luna, che ammira e ama con tutto il suo cuore, perche e la stessa luna con cui parlava anche quando era giovane; e stato l.astro che c.era gia nel passato con cui ha condiviso tutti i suoi segreti. Proprio questo sentirsi giovane e per Leopardi molto piacevole: il fatto che la luna riesce a portare i pensieri del poeta al passato, lo fa sognare di ritornare a quando era piu giovane, pieno di felicita e allegria. Si puo dire, come abbiamo visto, che la luna e un posto fuori dal mondo umano che e in grado di dare conforto a Leopardi e ai suoi lettori. Anche Graf ha la sua fonte d.ispirazione: il mare. Il riflesso nell'acqua del mare e riflesso dell'anima. Graf usa il mare per fare un tuffo nell.acqua infinita e fare un viaggio mentale, sperando di trovarci la verita della vita; riflettendosi nelle sue acque, pensando alla vita dell.uomo. Graf cerca di godere il momento di riflettere e tornare al passato, ma non ci riesce sempre; arriva sempre alla conclusione pessimista che la vita sulla terra e senza scopo ma e solamente un viaggio verso la morte.
Come abbiamo visto nel secondo capitolo, non si puo dire che il mare e come la luna di Leopardi. Nell.introduzione ho scritto che i poeti che sono nati dopo il disastro del Vesuvio nel 1826, non descrivono piu la natura come una fonte di bellezza ma questa diventa un tema lugubre e triste. Come ho descritto prima, entrambi i poeti mettono l.uomo opposto alla natura, ma Leopardi ci riesce ancora a valorizzare qualche elemento naturale. Pensiamo alla poesia .La Ginestra.(1836)81 nella quale dichiara che l.uomo e da sola; in generale non significa niente in paragone con la natura. Pero, in questa tristezza, Leopardi ci riesce a ammirare una pianta, la ginestra, che cresce sulla colle del Vesuvio: questa pianta riesce bene di mantenersi in vita. A parte questo, Graf aveva una grande affinita con gli scrittori del Decadentismo (come Baudelaire), i quali usavano un tono tetro. Come sappiamo dal capitolo 2, Graf si e fatto ispirare dal profondo pessimismo di Leopardi che appartiene al Romanticismo; egli canto gli aspetti piu tragici e angosciosi della vita con una predilezione per il tema del dolore desolato, della morte e della natura. Ma possiamo dire che Leopardi e proprio un pessimista, se conosciamo anche il modo di scrivere di Graf? E quali sono le differenze nel loro pessimismo? Dopo aver analizzato le loro poesie, direi che le poesie di Graf sembrano piu apocallitiche e cupe in confronto con il pessimismo di Leopardi: dato che per Leopardi esistono momenti di gioia, di felicita, di piacere quando si abbondona alle illusioni, ai sogni e vola nei pensieri al passato, il che gli da un forte sentimento di conforto. Abbiamo osservato che Graf descrive il suo mare come un posto orribile; e scuro, ci sono gli abissi, c.e sempre una tempesta. Quindi per Graf l.intelletto domina sui sentimenti, non e in grado di trascinarsi nei sogni o nella fantasia. Questa differenza viene anche rinforzata dal fatto che Graf e stato influenzato dal Simbolismo. Come ho detto prima, i simbolisti avevano l.idea fondamentale che sotto la realta si nasconde una realta piu profonda e misteriosa quindi nella poesia usano oggetti simbolici che hanno tutto un significato magico, le descrizioni dei paesaggi sono piu scure, vaghe e indefinite. E spesso la natura viene descritta come una natura .matrigna. Come simbolo, Graf compara la vita dell.uomo con un battello sul mare, che alla fine ha un solo scopo: incontrare la morte.
Si potrebbe concludere dunque che il ruolo dei diversi topoi e paragonabile, che l.uso dei topoi avviene sia in Graf che in Leopardi con lo scopo di cercare un rifugio, un luogo che li metta al riparo dai loro tormenti e nei quali possano partorire riflessioni, ma e chiaro che lo esprimono in modo diverso appartenendo a correnti diverse.
LUNA CADENTE

Com’è bianca la luna,
Mentre declina stanca!
Come la luna è bianca,
Là, sulla selva bruna!

Una quïete immensa
Regna ne’ cieli e piove
Giù nelle valli, dove
L’ombra vie più s’addensa.

Come la luna è cerea,
Nel sogno antico assorta!
Come la luna è smorta
Sulla selva funerea!

Un alito fugace
Di vento antelucano
Erra tra il monte e il piano
Nell’oblïosa pace.

Sovra il mio capo un eschio
Freme sommessamente...
Luna, luna cadente,
Come somigli a un teschio!



A UN’OMBRA

Fosca, nel dì che muore,
La selva taciturna:
Io vado ed il mio core
(Povero core!) è un’urna;

Un’urna (oh, sogno frale!
Oh, rimembranze tenere!),
Un’urna sepolcrale
Piena di morta cenere.

Silenzio! il ciel s’affolta...
Che è questo sgomento?
Perché la selva ascolta
Mentre non fiata il vento?

Muta fra pruno e pruno
Corre l’acqua alla china.
Silenzio!... eppur qualcuno
Al fianco mio cammina.

Qualcuno!... Tu?... Nel basso
Mondo che i tristi serba?
Tu?... Non si piega l’erba
Sotto il tuo picciol passo.

Oh, eri tanto lieve
Anche quando eri viva!
Oh, così lieve e schiva
Come il tuo sogno breve! —

Dimmi, perché ritorni?
Ancor senti l’affanno
Del triste disinganno
E dei perduti giorni?

Anima dolce e cara,
Perché mi torni accanto?
Sai com’io viva, e quanto
Sia la mia vita amara?

Troppo la rea giornata
Fu di vicende piena
E d’errore e di pena;
Ma non t’ho mai scordata.

==>SEGUE

E sempre, ancor che stretto
Dalla malvagia cura,
Ebbi, soave e pura,
L’imagin tua nel petto.

Così foss’io pur morto
Quel dì che tu moristi!
Lunge da vili e tristi,
O pia, m’avresti scorto.

E non avrei sofferto
Ciò che soffrir non giova,
D’una miseria nova
Fatto ogni volta esperto.

Come la selva è muta,
Folta d’abeti e d’orni!
Perché, perché ritorni,
Mia povera perduta?

Di te vuoi farmi dono?
Tu sei un’ombra, ed io,
Moribondo restio,
Io quasi un’ombra sono.

Forse un periglio arcano
Nel bujo si prepara,
E tu ritorni, o cara,
A porgermi la mano?

Sì, la tua man... la sento ...
Oh, non è fredda!... Al core
Me ne viene un tepore
Come di foco spento.

Sì, la tua man, sicura
Guida a’ miei passi erranti,
Lungi da falsi incanti,
Fuor della vita impura.

Non mi lasciar. — Morgana
Trasse il morente Artù
Nell’isola lontana...
Oh, non lasciarmi più!

Come fedeli amanti
Vaghiam nell’aer fosco;
Tutto cerchiamo il bosco
Prima che il gallo canti.

==>SEGUE

Andiam lenti e furtivi
Nel silenzio divino;
Facciam nostro cammino
Come se fossim vivi.

Tu mi dirai dappresso
Le tenere parole
Che il core agogna e vuole;
Io piangerò sommesso.

E poi (qual altra speme
Più ne avanza?) se in cielo
Spunti l’alba di gelo,
Dilegueremo insieme.

CUPIO DISSOLVI

Cupio dissolvi. Focoso
Apostolo delle genti,
Quant’agonia di riposo
Ne’ tuoi terribili accenti!

Cupio dissolvi. Che tedio
Di questa carne malata,
A cui per tutto rimedio
La buona morte fu data!

Cupio dissolvi. L’amara
Ironia tu conoscesti
Di quel piacer che prepara
I pentimenti funesti!

Cupio dissolvi. Tu certo
Sentisti l’orror profondo
Di questo cieco deserto
Che si denomina mondo!

Cupio dissolvi. Suprema
Voglia ch’emancipa e sana
Novissimo epifonema
Della sapïenza umana!

IL TRONCO

Buon pro, buon pro vi faccia!
Del re della foresta
Ecco quello che resta:
Un tronco senza braccia.

Un miserabil tronco,
Spoglio di sua corteccia,
Disteso nella breccia,
Arido, brullo, monco;

Di cui, prima che passi
Un altro dì, la frega
D’una stridula sega
Farà panconi ed assi.

Povero antico re
Mutato in casse e scranne! —
Stridula sega, fanne
Quattr’assi anche per me.




DOPO UNA FESTA

La festa fu bella e quale
Soddisfa un uom di cervello;
Ma sopratutto fu bello
Quel gran fuoco artificiale.

Ah, bello, bello davvero!
Che sgominio di splendori,
Che sfolgorio di colori,
Sotto il cielo nero nero!

Gazzarre di soli, e piogge
Che venian giù lemme lemme,
D’oro colato e di gemme,
Verdi, azzurre, gialle, rogge.

E ancora fiori di foco,
Simili a candidi gigli,
A garofani vermigli
Ed alle spighe del croco;

I quali a gara, dal colle,
Ergean su lucidi steli
Nella grand’ombra de’ cieli
Le scintillanti corolle.

Ah, bello, bello da senno!
Troppo più bello di quanto
Possa mostrare il mio canto,
O, per dir meglio, il mio cenno.

La gente stava a guardare
Come intontita, e più d’uno
Scordava d’esser digiuno
Dall’ora del desinare;

Cioè (se a qualche dottore
Parrà fandonia o bugia,
Ovver calunnia, tal sia),
Cioè da quasi due ore.

Da ultimo le colline
S’accesero in una gala
Di bei fuochi del Bengala,
E fu, pur troppo, la fine.

==>SEGUE

E di così bella e varia
Festa or non altro rimane
Che un bujo muto ed inane
E un tristo odore nell’aria.

TROPPO!

Se si potesse morire
Da senno e farla finita,
Sarebbe un picciol martire,
Picciolo e breve, la vita.

Ma che c’inganni e deluda
Dopo la vita la morte,
Questa è sorte troppo cruda,
Questa è troppo orribil sorte.

SOLE MORTO

— Dietro le nuvole è il sole
Che rutila in sempiterno. —
Un sol che rutila? Fole!
Dietro le nuvole? Scherno!

C’era, nol nego. (Oh, nel muto
Core rigurgito vano!)
C’era... e in quel tempo lontano
Io debbo averlo veduto.

Ché nell’attonita mente,
E nel deserto del core,
Me n’è rimasto un bagliore
Come di giorno morente;

Come d’un labile giorno,
Immensamente remoto,
Che dileguò nell’ignoto
E non farà più ritorno.

Il sole c’era una volta;
Ma poi, non vedi? s’è spento
Come una fiaccola al vento,
E la sua faccia è sepolta.

==>SEGUE
L’ombre sommersero i cieli,
Il gelo avvinse gli amori,
L’anime dolci dei fiori
Languirono sugli steli.

Non te ne sei dunque accorto?
Madre Natura è fallita,
E il sol che dava la vita,
Il povero sole è morto.

AL NOVO GIORNO

O novo giorno che schiari
Là ’n fondo il ciel, ti saluto;
Ma non ti do il benvenuto
Che s’usa dare a’ tuoi pari,

E che gli uccelli del bosco
Ti danno in loro linguaggio,
Quando col primo tuo raggio
Fai tremolar l’aer fosco.

Il benvenuto non posso,
Non posso dartelo, come
Fanno, per dir qualche nome,
Lo sgricciolo e il pettirosso.

Ti darò, più volentieri,
Il benandato, a quel modo
Che, dopo il solito approdo,
Lo detti al giorno di ieri;

E lo darò, se Dio vuole,
Al giorno ancor di domani,
Poi che ne’ cieli lontani
Sarà dileguato il sole.

Gran cosa strana, chi bene
Ci abbia su meditato!
Appena un giorno è passato,
Ecco che un altro ne viene;

E poi un altro ed un altro
Ancora, in processïone...
Se alcun ne sa la ragione,
Quel tale è di me più scaltro.

==>SEGUE


O luce crepuscolare,
O novo e pallido giorno,
Che vieni a fare qua ’ntorno,
Se non c’è nulla da fare?

Nulla da fare, m’intendo,
Che meriti d’esser fatto,
E che mi valga, al baratto,
Quel tanto almen ch’io vi spendo.

O novo giorno che spunti
Con un bagliore d’orpello;
O novo giorno, fratello
Di tanti giorni defunti;

Non fare troppo apparecchio
In isgusciare dall’ovo,
Perché, se ora sei novo,
Stasera poi sarai vecchio.

Vecchio e finito. — Dio buono!
Chi è che sa dirmi al vero
Ov’abbian lor cimitero
I giorni che più non sono?

MI CONTRADDICO?

Mi contraddico? Sicuro.
Perché te ne meravigli?
Non siamo noi forse i figli
Del dubbio e dello spergiuro?

Non siamo i figli noi forse
Della imbelle tracotanza,
E della matta speranza
Che giace là dove sorse?

I figli del vano, alterno
Irrefrenabile moto?
I figli d’un noto ignoto
E d’un mutabile eterno?

Non sai (mistero giocondo!)
Che la contraddizione
È l’anima, la ragione,
Tutta la vita del mondo?

==>SEGUE
Il quale mondo è il migliore
Che si potesse impastare,
E se talvolta non pare,
La colpa è del nostro umore.

Del nostro umore incostante,
Del nostro egoismo cupido,
Che pende un po’ nello stupido
E molto più nel furfante.

Ahi Dio, come sono belli
I mari, le selve, i monti,
L’albe, i meriggi, i tramonti,
Le ortiche, i fiori novelli!

E quelle care bestiole,
La cui maggiore faccenda
È di mangiarsi a vicenda
Sotto il grand’occhio del sole!

E l’uomo che, parli o taccia,
È un elettissimo vaso;
Ah, l’uomo con gli occhi, il naso
E la bocca nella faccia!

L’uomo, di così benigna,
Di così santa natura,
Che il diavolo n’ha paura,
E, quando può, se la svigna!

Son così belli, che io
Mi metto a piangere quando
Li guardo, e rido pensando
Il loro destino e mio. —

Essere uno e diverso
E coerente e sconnesso,
Vuol dir rifare in se stesso
Il glorïoso universo.

Meglio esser molti che uno:
E l’uno, l’uno ove molti
Sieno con arte raccolti,
Non morrà mai di digiuno.

Ricevi, se ti par buono,
Questo succinto entimema,
E fa che il succo ne sprema:
Mi contraddico, ergo sono.
A UN ABETE

Tragico abete, vivi?
E ancor dall’erma rupe
Signoreggi le cupe
Forre e i cadenti clivi?

Vivi, stancando il nerbo
De’ venti, irsuto e frusto,
Tutto una piaga il fusto,
Ma diritto e superbo?

Se le folgori accese
Che ti morsero il tronco
T’han di più rami cionco,
Nessuna al suol ti stese.

Quale ti vidi un giorno,
Tale allo sguardo mio
Riappari. Non io
Quale allor fui qui torno.

Ero a quel tempo, o abete,
Degli anni miei nel fiore,
E mi teneva amore,
Cara e ingegnosa rete.

Ero a quel tempo, o abete,
Pien di baldanza in fronte:
Bevevo ad ogni fonte
E bruciavo di sete.

E come t’ebbi scorto,
Dissi ridendo: Al certo
S’io torno, quel diserto
Albero sarà morto.

Ed ecco, o viva trave,
Te sopra questi balzi
Erta e salda t’innalzi
Com’albero di nave.

E vedi me, già chino
Verso la madre antica
Ritentare a fatica
Il memore cammino.
AL MUSCOLO INCONTENTABILE

E sempre picchi? che vuoi?
Fai un gran brutto mestiere!
Perché t’ostini a volere
Quello che avere non puoi?

E che cos’è che vorresti?
Forse tu stesso nol sai;
Ma ti dovrebbe oramai
Bastare il molto che avesti.

Un core onesto ed accorto
Si cheta alfine, se lice.
E a chi lo stuzzica, dice:
Non mi seccate: son morto.

Un core ch’abbia raggiunto
I limiti di servizio,
Se ha un pochin di giudizio,
Dichiara d’esser defunto.

Via, hai picchiato abbastanza,
Né ti mancò la mercede...
Hai conosciuto la fede,
La carità, la speranza...

Hai conosciute di vista,
O, per lo meno, hai sognate,
Molt’altre cose beate,
Da buono e bravo ottimista.

Che se qualcuna fallì
Da ultimo alle promesse,
Rifletti che d’ogni messe
Avviene sempre così.

E adesso chètati. L’ora
Declina, l’ombra sovrasta;
Invece di dire: Ancora!
Di’ garbatamente: Basta!

LA VELA

Coi miei pensieri più tristi
Ho contessuto una tela,
E poi n’ho fatto una vela
Pei mari che non ho visti.

La vela è lugubre e nera,
Ma ha la forma d’un’ala,
E dietro al sole che cala
Trae la mia barca leggiera.

Leggiera e fragile barca,
Che per sì piccolo peso
Qual è un poeta disteso,
Non si può dir che sia carca.

Vien da recondita plaga
Un lieve soffio di vento,
E sopra l’acque d’argento,
Diffuso spirito, vaga.

Il sole che indarno nacque,
Il sole che indarno muore,
Versa un cruento fulgore
Sopra il silenzio dell’acque.

Che mare è questo? Si stende
Senza confini, deserto,
Come l’incognito, incerto
Mare d’antiche leggende.

Che cielo è questo? Di lume
V’arde una lenta agonia,
Come d’un cielo ove stia
Morendo l’ultimo nume.

Via per l’intermine piano
La negra vela mi tragge,
Lontan da porti e da piagge,
Ancora, ancor più lontano,

Verso l’occulto soggiorno
Da cui nessuno risponde:
L’Elisio o l’Erebo, donde
Nessuno mai fa ritorno.
ALLE RIME

Già sui colli, sui prati
La nebbia si raccoglie;
Già piovono le foglie
Dai rami assiderati.

Sol tu, nella boscaglia,
Tu sola immota duri,
O squallida gramaglia
Degli alti abeti oscuri.

Una tristezza muta
Fascia la stanca zolla!...
Più nel cor non rampolla,
No, la fede perduta!

O mie rime smarrite,
O mie povere rime,
L’angoscia non sentite
Che ogni altra cosa opprime?

Perché, lievi e canore,
Sgorgate tuttavia
Con dolce melodia
Dall’affannato core?

Per chi cantate? Il vento
Spazza la gleba smunta:
L’ora del pentimento
E del silenzio è giunta.

MOMENTO MELANCONICO

Forme leggiere e vaghe,
Ombre pensose e mute,
Da che remote plaghe,
Da che terre perdute

Di là, di là dal mare,
Sotto un velato nimbo
Di ciel crepuscolare;
Da che sognato limbo

D’anime erranti, allora
Che impallidisce il giorno
==>SEGUE


E non è notte ancora,
Venite a me d’intorno?

Com’errabondo gregge
Che in un desio consente,
Nell’aria che vi regge
Molli fluite e lente;

E del lume sommerso
I riverberi arcani
Rosseggiano attraverso
Ai simulacri vani.

Perché dagli alti e chiusi
Ipogei del passato,
Cari sogni delusi,
Mi ritornate allato?

Perché delle memorie
Suscitate il bagliore
Sulle già fredde scorie
Di questo vecchio core?

Nel regno suo profondo
Non regna più la morte?
O vive cosa al mondo
Che sia di lei più forte?

Ecco, l’estrema luce
Manca e s’estingue in cielo;
Spande la notte e cuce
Sopra l’estinta un velo.

Tutto s’addorme in pace.
Nel vasto smarrimento
Ogni parola tace,
Ogni ricordo è spento.

Forme leggiere e vaghe,
Ombre pensose e vane,
Tornate all’erme plaghe,
All’isole lontane,

Alle secrete stanze,
Dove, tra fior consunti,
Dormono le speranze
E gli amori defunti.
SULL’ORLO

Un passo ancora, un solo
Deliberato passo, —
E finirebbe il chiasso,
E finirebbe il duolo.

E il presente e il passato,
E il mio core e il mio nome,
Tutto sarebbe come
Se non fosse mai stato.

Che mi rattiene? Un molle
Cespo al mio piè verdeggia;
Dalla ferrigna scheggia
Umilmente s’estolle,

Ed un unico fiore,
Sul tremebondo stelo,
S’apre, invocando il cielo
Come un picciolo cuore.

Oh, Natura, Natura!
Insazïabilmente
Ogni cosa vivente,
Ogni tua creatura,

Brama e chiede la vita;
E sia pur poca e frale,
E sia pur d’ogni male
Inutilmente ordita.

Onde sul duro ciglio
Della fosca ruina,
Dalla pungente spina
Pullula un fior vermiglio. —

Anima stanca, in alto,
Sotto il fardel che pesa!
Non cedere all’offesa
Del rinnovato assalto.

Della virtù che vuole
Fatti schermo e preghiera;
E aspettando la sera,
Mira ed invoca il sole.
PARTE SECONDA
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SALENDO

Avanti! poc’altri passi
E poi sarem sulla vetta:
Avanti pur, senza fretta,
Per mezzo agli sterpi, ai sassi.

La vetta è là, tutta sgombra.
Tutta serena nel sole,
Lungi da quanto si duole.
Fuor delle nebbie e dell’ombra.

Anima inquïeta e stanca
Non ti rivolgere indietro:
In basso il vapore tetro;
In alto è la luce bianca.

Voi cui travaglia ed opprime
Un cruccio greve e nascoso,
Ponete mente: riposo
Non è se non sulle cime.

QUELLA SERA...

La sua piccola mano,
Così bianca e leggiera,
Correa sulla tastiera
Dell’affiochito piano.

E un canto sovrumano
Tremava nella sera,
Simile a una preghiera
Udita di lontano.

In un angolo oscuro,
Acquattato io sedevo,
Stretto fra l’uscio e il muro.

E così per trastullo,
Piangevo, oh, Dio, piangevo
Come un vecchio fanciullo.




CASTA DIVA

La luna splende nei cieli,
Il bosco tace sul colle,
Al mite albor, per le zolle,
Sognano i fior sugli steli.

La luna nitida e bianca
Splende nel terso zaffiro;
Passa, fugace sospiro,
Un’aura tiepida e stanca.

Chi mai di là dalla riva,
Cui specchia lucida l’onda,
Chi nella pace profonda
Gorgheggia la Casta Diva?

La voce estatica sale,
Anima lieve ed alata,
Sale nell’aria incantata
E nel candor siderale.

Oh, nella pace suprema,
Puro, dolcissimo canto!
Mi sgorga dagli occhi il pianto,
Il cor nel petto mi trema.

CANONE D’ARTE

Essere semplice e schietto,
E far che in ogni sua parte
Risponda al pensato il detto,
È questo il sommo dell’arte;

È qui la pura bellezza,
Negata all’amasio vile,
Che sol vagheggia e carezza
Se stesso nel proprio stile.

LAGRIME

Sì, veramente, dansi
Di strani casi al mondo:
Questa mattina in fondo
A un valloncello io piansi.

Ah, fu proprio uno schianto!
Piansi come un bambino!
Eran degli anni, opino,
Che non avevo pianto.

Piansi. Perché? Davvero
Nol saprei dir. Qualcosa
M’affogava. Che cosa?
Nol saprei dir: mistero!

Piansi proprio con gusto,
E senz’essere alticcio.
Credete per capriccio?
Io per capriccio? Giusto!

Piansi naturalmente,
Guardando il bosco e il monte;
Piansi, come una fonte
Versa l’acqua lucente.

Non era doglia acerba;
Non cruccio alfin disciolto:
Piovevan dal mio volto
Le lagrime sull’erba.

Sull’erba molle e rada,
Che tremava alla brezza;
Sull’erba non avvezza
A sì fatta rugiada.

Piansi forse due ore,
In silenzio, soletto:
Dolcemente nel petto
Mi si struggeva il core.

E dal cor che per vana
Speme s’accese e amò,
Fiorivami non so
Che musica lontana;

==>SEGUE
L’ORIUOLO A CUCULO

Cuccù, cuccù, cuccù! —
Ma se l’ho già capita!
Un’altr’ora è fuggita
E non ritorna più.

Ogn’ora passa un’ora;
E il tempo, benché vecchio,
Trotta e corre parecchio,
E non fa mai dimora.

Credi che me ne doglia?
Non me ne importa un fico;
È un pezzo, caro amico,
Che ho mangiata la foglia. —

Cuccù! — Ma se lo so!
Perché da mane a sera
Con tanta sicumera
Cantarmelo ogni po’?

E ancor la notte, quando
Un pover uom sonnecchia,
Soffiargli nell’orecchia
Ciò che stava scordando?

Eh, non aver paura!
Questa giaculatoria
L’ho imparata a memoria:
Nulla tien fede e dura.

Quello che fu, se fu,
Non è, né più sarà...
Che ei vuoi far? si sa. —
Cuccù, cuccù, cuccù!
UN ELISIRE

Sfortunato alchimista,
Che quanto più s’adopra
Nella difficil opra
E tanto meno acquista;

Io pongo in una storta
Di martellato rame
Le stecchite mie brame
E la mia fede morta;

Le speranze deluse,
Gli amori assassinati,
I sogni conservati
In anfore ben chiuse;

E i ricordi soavi,
E di diverso tipo,
Tratti da un vecchio stipo
Serrato con tre chiavi.

V’aggiungo il due per cento
D’entusïasmo strutto,
E fo bollire il tutto,
La notte, a foco lento,

Al barlume novello
D’un’antica lucerna,
Trovata nell’Eterna
Città, dentro un avello.

E dall’acre miscea,
Con gioja e con terrore,
Stillo un dolce licore
Che m’avvelena e bea.

IL DUBBIO

Talora in un malsano
Dubbio m’impiglio e invesco
Buon Dio! son io tedesco,
O sono italïano?

Mia madre fu latina:
Fu teutone mio padre:
Vince il padre o la madre?
Bravo chi l’indovina!

Non è salubre cosa
Aver più patrie, no: —
Meglio (se far si può)
Aver più d’una sposa.

Firmate protocolli,
Rabberciate alleanze;
Di candide speranze
Fingetevi satolli;

Tirate il nodo stretto
Quanto vi pare e piace...
Non vogliono far pace
Le razze nel mio petto.

Le due razze avversarie,
Ligie a diversi numi,
Di gusti, di costumi
E di pensier contrarie.

Quella che già fu doma
Oggi vuole il dominio:
Roma ricorda Arminio;
Arminio ha in mente Roma.

La guerra secolare
Nel petto mio prosegue,
Né sono paci o tregue
Alle offese, alle gare.

Il papa da una parte,
E dall’altra Lutero;
Arte che insidia il vero,
Vero che aduggia l’arte.

==>SEGUE
Aggiugni che in Atene
Ebbi i natali, e poi
Giudica tu, se puoi,
L’imbroglio che ne viene.

Ond’è che a’ casi miei
E al mio destin pensando,
Io, proprio, a quando a quando,
Al diavol mi darei.
A UN INSETTO

E ancor mi ronzi sul volto?
E ancor mi vieni a stizzire? —
Ecco; alla fine t’ho colto:
Apparecchiati a morire.

Non sai, minuscolo insetto,
Ch’io sono un tuo superiore
In questo mondo inferiore.
E che mi devi rispetto?

Non sai ch’io sono un poeta?
Anzi un poeta ortodosso,
Come dire un pezzo grosso
Tra il filosofo e il profeta?

E non sai che a’ miei comandi
Ho, sto per dir, l’universo,
Mentre in un piccolo verso
Chiudo sogni grandi grandi?

Ah, così grandi e profondi,
E di sì varie maniere,
Che stupirebbero i mondi,
Se li potesser vedere!

Invece tu, che sei? Nulla
Un embrione abortivo,
Un minuzzolo che frulla,
Un briciolo appena vivo;

Che non capisci nïente,
Che vedi lume a fatica,
E distingui malamente
Un uomo da una formica. —

Ah, non bisogna, mio caro,
Troppo scherzar con la sorte!
Ora non v’è più riparo,
E morrai di mala morte.

Morrai!... Ma, perché tu muoja,
Bisogna ch’io ti assassini...
Oibò! non vo’ fare il boja
Neanche dei moscerini.

==>SEGUE
Via, non temere; si giuoca.
Perché dovrian le mie dita
Scipare quella tua poca,
Quella tua povera vita?

Ahimè, la vita è una cosa
Troppo terribile e santa!
Tristo chi svellere osa
Senza ragione una pianta!

Bene il sa chi il libro aperse:
La pianta, l’insetto, l’uomo,
Sono pagine diverse
D’un solo ed unico tomo.

Tu, s’anche io t’ammazzassi,
Riappariresti al mio fianco,
Seguiresti i miei passi,
Come lo spettro di Banco...

No, non avere paura:
Non son né tristo né scemo;
Lasciamo far la natura...
Entrambi un giorno morremo.

Morremo naturalmente: —
E ancor può darsi ch’io
Prima di te, chetamente,
Dica al dolce mondo addio.

Intanto (io sono in vacanza)
Tu va’ alle faccende tue:
Il mondo è grande abbastanza;
Ci possiam star tutt’e due.

SE SI POTESSE...

Se si potesse in un tino
Spremer con agili dita
La poesia dalla vita
Come dai grappoli il vino!...

E innebrïarsi di quella
Come d’un vino giocondo,
Ricreando il vecchio mondo
In una ebrezza novella!

==>SEGUE
Spremer la dolce follia
Da tutti i grappoli!... Bere
In un pulito bicchiere!
E i graspi buttarli via!...

Bere, guardando allo insù!...
Poi, dopo avere bevuto,
Dire: Bicchier, ti saluto!
Non voglio bevere più.

SÌ... MA...

Amar le nobili cose
Che non han sùbito fine;
Coglier le morbide rose
Senza ferirsi alle spine:

Gittar la soma che pesa
E fa men libero il passo;
Salire un’erta scoscesa
Senza rivolgersi in basso;

Non istimar un fuscello
Il ben che troppi convita...
Sì, questo è molto, ed è bello;
Ma non è tutta la vita.



ALLA FIAMMA

Fiamma lucente e pura,
Fiamma di poesia,
Sempre, con dolce cura,
Dentro l’anima mia

Io ti mantenni viva;
Sempre; anche quando in essa
Più d’una cosa oppressa
In silenzio moriva.

Ora fiamma serena,
Son mutate le sorti,
Ora, ch’io stesso appena
Mi discerno dai morti.

E, mentre fuggitivo
Mi rinselvo, tu sola,
Fiamma della parola,
Fai ch’io rimanga vivo.



SAGGIO

Saggio? Sì certo! Son fatto
Alla fin fine un uom saggio:
Ma troppo a lungo fui matto,
E tardi avvenne il passaggio.

Son fatto saggio, comare;
Molto saggio e diffidente...
Dacché non c’è più nïente,
Sien grazie a Dio! da salvare.
LE ROSE SONO SFIORITE

Piove; fa freddo. Le rose
(Oh dolci, oh tenere vite!)
Lungo le piagge melmose
Le rose sono sfiorite.

Or che m’importa se altrove
Abbondi il frutto alla vite?
Se rida il cielo? Qua piove:
Le rose sono sfiorite.

L’amaro colchico nasce
Sulle squallenti marcite,
Dove più greggia non pasce:
Le rose sono sfiorite.

Come più addentro ora sente
Il cor le antiche ferite!
Povero core fidente!...
Le rose sono sfiorite.

Perché ricordare invano
Il tempo sereno e mite?
Quel caro tempo è lontano...
Le rose sono sfiorite.

Hanno comune la sorte
Tutte le cose finite:
Appena nate son morte!...
Le rose sono sfiorite.

O anime dolorose,
O anime sbigottite,
Che giova il pianto? Le rose,
Le rose sono sfiorite.

UCCELLETTO

In cima a un’antica pianta,
Nel roseo ciel del mattino,
Un uccelletto piccino
(Oh, come piccino!) canta.

Canta? non canta; cinguetta.
Povera, piccola gola,
Ha in tutto una nota sola,
E quella ancora imperfetta.

Perché cinguetta? che cosa
Lo fa parer sì giulivo?
S’allegra d’essere vivo
In quella luce di rosa.

Anima mia, nella santa
Luce ecco ride ogni vista:
Perché se’ tu così trista?
Tu che sai cantare, canta.

ALLA FONTE

Acqua serena e tersa
Che sotto i faggi e gli elci
Scaturisci riversa
Dalle squarciate selci;

E indugi e t’inzaffiri
Nella conca profonda,
Traendo in lenti giri
Alcuna morta fronda;

Oh, quante volte, ansante,
A dissetarmi io venni,
Fra queste vecchie piante,
Ai gorghi tuoi perenni;

E a te da presso, quando
Il meriggio più cuoce,
Muto giacqui, ascoltando
La tua limpida voce!

==>SEGUE
Allor, tra l’ombre e i cavi
Sassi celata e chiusa,
Oh, allora tu cantavi
Come un’agreste musa:

Cantavi dolcemente
Una canzon giuliva
Che di sogni la mente;
Innamorata empiva.

Passò quel tempo, ed ora,
Mentre disperdi e frangi
L’anima tua sonora,
Non canti più, ma piangi.

Piangi; — forse rampogni,
Sotto quest’ombre miti...
E i sogni, i dolci sogni,
Son per sempre fuggiti.

LO GNOMO

Eh, son moltissimi i casi:
Ma — incontrare uno gnomo. —
È più difficile, quasi,
Che incontrare un galantuomo.

Pure, ier sera, d’un tratto,
Ne scorsi uno nel bosco:
Giubberello corto e fosco
E capperuccio scarlatto.

Accoccolato si stava
Presso un ciglion, sulle zanche,
E stropicciandosi l’anche,
Piagnucolava e soffiava:

— Il nostro tempo è finito;
La nostra vita è sepolta:
Noi diventiam questa volta
Davvero e per sempre un mito.

Io me gli accosto, saluto,
E dico: — Voi, perché v’odo
Rammaricare in tal modo?
Che cosa v’è succeduto?

==>SEGUE

Dice: — Non vedi in che stato
Sono ridotto? Un’ignobile,
Un’indecente automobile
M’ha poco men che stroncato.

A UNA STATUA
DI SAN GIOVANNI NEPOMUCENO

Santo patrono e massajo,
Sempre al medesimo posto?
Sia che ne agghiacci il gennaio
Sia che ne avvampi l’agosto?

Sempre tra l’erta e la china?
Sempre di costa alla strada,
Ove più d’uno cammina
Senza saper dove vada?

In rivederti mi sento
Allargar l’anima. — Tu
Ah, tu non pieghi a ogni vento,
Giusta l’usanza dei più.

Né muti volto secondo
Chi ti si para davanti
(Per un brav’uomo un po’ tondo,
Almeno dieci furfanti);

Ma sovra un piccolo sasso,
Come un estatico ammodo,
Senza mai andare a spasso
Te ne stai diritto e sodo.

Te ne stai lì con un’aria
Di povertà soddisfatta,
Di santità catafratta,
E d’indulgenza plenaria.

Quanto t’ammiro e t’invidio,
O caro santo dabbene,
Mentre m’affoga il fastidio,
E chi lo ha se lo tiene!

==>SEGUE
Come un puro e solenne
Canto d’angioli santi
Che per cieli raggianti
Battessero le penne.

Lagrime senza inganno,
Lagrime oneste e care,
Son molti che le rare
Vostre virtù non sanno.

Voi, mentre discendete
Silenzïose e lente,
Ogni cruccio rodente
Dall’anima stergete,

Ed ogni voglia impura,
Ed ogni reo pensiero,
Onde s’offusca il vero
E il cor si disnatura.

Lagrime dolci e schiette,
Che dall’imo sgorgate,
Lagrime consolate,
Lagrime benedette;

Come per mite piova
L’illanguidita pianta,
Così per voi l’affranta
Anima si rinnova.
Quanto t’invidio e t’ammiro,
Mentre il destin m’apparecchia
Forse un novissimo tiro,
Forse una trappola vecchia!

Tra le amorevoli braccia
Tu ti stringi il crocifisso,
E puoi ben ridere in faccia
Ai diavoli dell’abisso;

Ma noi, mal seme d’Adamo,
Se un diavolo ci molesta,
Noi ormai non sappiamo
Come più tenergli testa.

E ciò perché con la fede
È morta la carità;
E chi non ama non crede;
Ecco la gran verità.

Ah, perché non fui un santo.
Un bravo santo ancor io?
O che ci vuole poi tanto
Ad esser umile e pio?

A voler bene al fratello,
A far con gioja il dovere.
A non cercar nel bordello
Il così detto piacere?

Non ci vuol quasi nïente.
Solo un po’ di pazïenza,
E saper dire al serpente;
«Non mi bisogna; fo senza.

Non mi bisogna il tuo pomo,
Raggirator maledetto;
Vogli’essere un galantomo,
Un sant’omo, a tuo dispetto...

Ed anche di più d’un’Eva,
Là, nei giardini d’Ausonia...
Ah, credi forse ch’io beva
Ogni lor dolce fandonia?

Ah, credi forse che basti
Una gentil paroletta

==>SEGUE
Contro i propositi casti
D’un’anima benedetta?

Io del tuo pomo fo senza,
Perché ne conosco il germe,
La radice, la semenza,
E so che dentro c’è il verme.

Lucido e sano di fuori
Putrido e scuro di dentro!...
Il mondo che tu rinfiori
Ha un grosso verme nel centro.»

Far senza! Aver bene in testa
Che tutto va alla rovina!
È questa, bindoli, è questa
La sola buona dottrina;

La verità sempre nuova
Che dalle cose si spreme;
La sapïenza che giova
Al corpo e all’anima insieme.

Ogni altro salmo e vangelo
È cantafavola amara,
Che promettendovi il cielo,
L’inferno sol vi prepara.

Se fossi un santo, a quest’ora
Forse l’imagine mia
Sarebbe venuta fuora
In cromolitografia.

Avrei di mistico lume
Suffusa la fronte e il ciglio.
Nell’una mano un volume,
Nell’altra mano un bel giglio;

E rassomiglierei molto,
Nella serafica e vaga
Espressïone del volto,
A San Luigi Gonzaga.

La tenera penitente,
Con amoroso rispetto,
Per ben avermi presente
M’appenderebbe sul letto;

==>SEGUE
E in gonnellino, la sera
Ah direbbe sospirando:
«O caro santo, che fiera
Lotta! a voi mi raccomando!»

Ed io lascerei dall’alto
Cader sovressa un’occhiata
Così benigna e beata
Da intenerire uno smalto.

Mah!... Ora è tardi. La cima
Non si conquista d’un tratto.
Dovevo pensarci prima,
Ora quel ch’è fatto è fatto.

E quel ch’è fatto è tal groppo
Che nemmen Dio può disfarlo,
Mentre il ricordo è, pur troppo,
L’indistruttibile tarlo;

Il tarlo che sempre rode,
Il tarlo che non dà pace,
Sin tanto che fra due prode
Un pover uomo non giace.

Posso pentirmi, se voglio;
Ma quanto a diventar santo,
Sarebbe peccar d’orgoglio
Il mai presumere tanto.

Del resto... Non sono, è vero,
Un santo; ma, soprattutto,
Non sono adesso, e non ero
Nemmen prima, un farabutto.

Le mie le ho fatte, sicuro;
E non le ho punto scordate;
Ma se le ho fatte, vi giuro
Che le ho anche pagate.

E pagate a caro prezzo,
Con poche e piccole more;
Pagate pezzo per pezzo,
E troppo più del valore.

Sicché di dir non mi pèrito
Che tale qual pajo e sono,

==>SEGUE
Al chiuder dei conti merito,
Se non iscusa, perdono.

O caro santo, mi strascia
Questo rancor chiuso e muto:
O non potresti, di grazia,
Venirmi un poco in ajuto?

Son così stanco ed affranto,
E pur da me mi divoro!
O non potresti, buon santo,
Darmi un pochin di ristoro?

Tu sei di pietra, lo so;
Ma forse intendi ed ascolti
Chi più del giusto pagò,
Chi a te pregando si volti.

Forse è più molle e clemente
La pietra che non il core
Dell’animale che mente
L’imagine del Signore.

Ah, lasciam ire quel forse:
So che tu fai tante grazie!...
Per poco che sian soccorse,
Le voglie mie saran sazie.

Io non ti chiedo già nulla
Di quanto appare e dispare;
Oro, incenso... erba trastulla!
Che ne dovrei dunque fare?

Io non ti chiedo le glorie,
Né le delizie del mondo;
Per le vesciche e le scorie
Nutro un disprezzo profondo.

Io, se nel dir non eccedo,
Se d’ascoltarmi ti piace,
Io solamente ti chiedo
Di farmi finire in pace.

In pace! È questa la cosa
Migliore! poi, senza chiasso,
Scombiccherare in un sasso:
Tizio alla fine riposa.






               ALL’OMBRE

               AI SILENZI

               ALL’ANIMA OCCULTA

               DELLA SELVA NERA.